"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

martedì 31 dicembre 2013

Le abitudini delle volpi, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

 Erlendur vive a Reykjavík, fa il poliziotto nella capitale, ha un matrimonio fallito alle spalle e due figli coi quali cerca di riconciliarsi dopo essere sparito dalle loro vite per diversi anni, dopo la separazione. La figlia è uscita da un lungo periodo in cui è stata una tossica di strada e il figlio è chiuso in sè stesso e rimane un mistero insondabile agli occhi del padre. Ha una compagna, Valgerdur, che forse lo ama e lo capisce o forse lo ama malgrado lo capisca.
  Erlendur è un uomo solitario, di poche parole e questa volta è lontano da Reykjavík, da solo, nei luoghi dove è stato bambino, dove la sua vita, in un certo senso, molto tempo fa, si è fermata. Quelli sono i luoghi in cui, durante una tormenta di neve, hanno rischiato di morire assiderati lui e suo padre, nella stessa tormenta che ha inghiottito il suo fratellino, Bergur, scomparso senza lasciar traccia di sè se non un'eredità di dolore muto, carico di silenzi e di sensi di colpa, che ha eroso la sua famiglia, portandola a cercare sollievo (e distanza, distanza dal dolore) a Sud, nella capitale, Reykjavík, la grande città che in quegli anni fungeva da calamita per tutti coloro che cercavano un lavoro o fuggivano da qualcosa.
Ha preso l'abitudine di tornarci, di tanto in tanto, e di trascorrere le gelide notti del nord dell'Islanda, da solo, nei ruderi della casa della sua infanzia. Seguendo un abitante del luogo, tale Boas, alla caccia alla volpe, s'imbatte in una delle sue ossessioni, un caso di scomparsa. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve negli stessi luoghi dove è sparito il suo fratellino Beggi, in una di quelle tormente nelle quali l'esitenza di Elrendur si è smarrita, o è rimasta congelata in qualche crepaccio, sepolta sotto metri di neve e di sensi di colpa. Nel 1942, in Gennaio, nel medesimo giorno e nel medesimo luogo in cui una colonna di militari inglesi si era fatta sorprendere dal mal tempo, scompare una donna che, a piedi, senza apparente motivo, voleva oltrepassare il passo nella brughiera e scollinare dall'altro versante per raggiungere la madre. I militari inglesi, soccorsi dagli abitanti del luogo, erano stati ritrovati tutti, i vivi e i morti, ma della donna, Matthildur, non si era trovata traccia, neppure negli anni successivi. La sua storia era divenuta una sorta di leggenda locale che la voleva tornata sotto sembianze di spettro a tormentare l'esistenza di Jakob, il marito, che avrebbe trovato la morte qualche anno dopo, durante una tempesta in mare. Erlendur, spinto dalla curiosità e dal parallelismo con la vicenda del fratellino, si incaponirà per giungere alla verità celata dietro gli anni trascorsi, i silenzi e dietro i pudori che hanno fino a quel momento coperto i reali termini della vicenda. Scoperchierà bare ed esistenze, risveglierà dolori e fantasmi, ma non arriverà a far pace con sè stesso nè a placare quel muto demone che lo divora giorno dopo a giorno, brandello dopo brandello. Anche se ogni libro della serie fa storia a sè, il ciclo di Elrendur va letto tutto, perchè solo l'insieme compone i reali parametri esistenziali entro cui si muove la vita del protagonista e la poetica (si, poetica, anche se parliamo di gialli) dell'autore. Solo avendo già letto gli altri si può aprezzare appieno quest'ultimo episodio che, pur nel presente, torna alle radici della vita del protagonista e lo mette faccia a faccia con la tragedia che lo ha segnato nell'infanzia, modifcandone il carattere e il suo approccio alla vita, e così facendo, come in una reazione a catena, siamo portati a credere che il fallimento del suo matrimonio, i suoi silenzi, il difficile rapporto coi figli, e quindi la vita stessa dei figli, il suo approccio al dolore e agli altri esseri umani, dipendano tutti, almeno in parte - in larga parte - da quell'episodio perso nella tormenta, nel passato, assieme a Beggi. Leggendo Indridason, si ha l'impressione confortevole di non essere soli davanti (o dentro) un libro, un libro giallo, ma di trovarci di fronte agli avvenimenti di un essere umano in carne ed ossa che non ha a che vedere con complotti millenari o con serial killer mefistofelici, che non ingolla alcool dalla mattina alla sera per lenire un dolore un po' troppo stereotipato per essere vero (spesso neppure verosimile), ma che affronta come può, spesso sbagliando (forse), il dolore di tutti i giorni, la difficoltà dei rapporti umani e dei sentimenti, l'assurdo e caparbio trascorrere del tempo che tutto travolge, lentamente, e ad ogni cosa rende una prospettiva infima, insignificante. Erlendur vive in un mondo dolente, grigio, dal quale si lascia trasportare perchè è egli stesso parte di quel dolore silenzioso e invisibile: oppone la resistenza che gli è consentita dal proprio codice morale e dal proprio ruolo di poliziotto, ma è una lotta persa in partenza dove bene e male si confondono spesso, dove chi commette il reato, a volte, è dalla parte della ragione ma non della legge, dove a volte i sentimenti che eruttano in un attimo nell'esistenza di una persona cambiano i destini di una e più vite. Questo episodio, in particolar modo, pur essendo un giallo nel più puro stile Indridason, quindi un giallo solido, scritto bene, è al contempo un romanzo sul tempo, sul suo incedere cieco, sul suo togliere significato e speranza, e sulla pochezza della vita umana, che si conta a consuntivo sulle date incise su una lapide, dove d'un tratto balza agli occhi come una vita lunga, novanta e più anni, sia alla fine una parentesi che si chiude in un cimitero, sotto qualche metro di terra, a marcire, come il ricordo si sbiadisce nella testa della gente. Ho parlato di poetica perchè i romanzi di Indridason, pur senza essere pretenziosi nello stile e nelle strutture (ma comunque lineari, chiari, accessibili e, nella loro semplicità, eleganti) sono indubbiamenti poetici: sono struggenti come solo sanno esserlo le esistenze comuni se solo ci si prende la briga di fermarsi ad osservarle, come fa Indridason, con distacco e partecipazione allo stesso momento.


Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde

domenica 24 novembre 2013

La piramide, di Juan Villoro, Gran Vìa edizioni



  Finalmente, viene da dire. Nel senso che, finalmente, pare che l'editoria italiana si stia rendendo conto dell'esistenza (e della caratura) di Juan Villoro, ottimo scrittore messicano e premio Herralde nel 2004. Dopo I colpevoli (Cuec, 2009), Il libro selvaggio (Salani, 2010) e il recentissimo quanto breve Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie, 2013), Gran Vìa dà alle stampe questo "thriller tropical distopico", pubblicato lo scorso anno per Anagrama, che è stato finalista al Ròmulo Gallegos di quest'anno. In realtà non so se si possa definire thriller nè tantomeno distopico, ma tropicale sì, e forse, alla fine dei conti, è pure un thriller distopico, anche se in verità non dovrebbe fregare niente a nessuno di come catalogare un bel libro. La costa Messicana è ormai un susseguirsi di hotel vuoti ed in rovina, strutture orbate dalla furia delle tempeste tropicali e abitate da animali - e insettume vario - alquanto sgradevoli, altri continuano a rimanere aperti pur rimanendo vuoti, solo uno, a Kukulcan, fa soldi a palate, La piramide (ovvio riferimento, anche architettonico, alla piramide - o tempio - di Quetzalcóatl, il cui nome maya è, appunto, Kukulcan). Il visionario Mario Muller lo gestisce seguendo le sue intuizioni estreme e postmoderne, offrendo alla propria clientela un soggiorno a base di paura fittizia. Gran parte degli abitanti della cittadina lavora per la Piramide, se non come personale interno, come attori pagati per fingersi di volta in volta terroristi o narcotrafficanti. La paura diviene merce, la banalizzazione della paura, data in pasto a turisti affamati di emozioni (e forse un tantino imbecilli, o svitati: ma in fondo chi non lo è?) diviene mezzo di riscatto dalla povertà per gli indigeni, diretti discendenti dei Maya più visceralmente di quanto loro stessi non siano pronti a sospettare. Poi, l'inevitabile accade, tra tanti pericoli creati ad arte la vita vera s'insinua e con essa la morte, violenta, di un sub, Ginger Oldenville, che lavorava per l'hotel, trafitto alle spalle da una fiocina. Da qui parte la detection. La storia viene raccontata dal punto di vista di Antonio Gòngora, amico intimo di Mario Muller, col quale ha condiviso un passato da quasi rock star nella band heavy metal degli Extraditables, seguendo passo passo la solita storia di chi è arrivato quasi a poter toccare con mano la fama per poi piombare nell'oblio e nel disfacimento a base di droghe, eccessi e scelte sbagliate ed autodistruttive. Antonio Gòngora ha un dito in meno ad una mano, scoppiato via insieme ad un petardo, e si trascina dietro una gamba che è stata lesionata da ragazzino (ci sono diverse menomazioni nei personaggi di questo libro, fisiche e non solo, come se ognuno di loro, vivendo, avesse perso qua e là qualche pezzo) e la memoria che gira a vuoto almeno per un cinquanta per cento del suo passato (la percentuale, calcolata a spanne, è sua). Ora, la detection è sempre, negli autori di un certo livello, una scusa, di solito per affondare il bisturi nella società, o in certe parti di essa, per sezionare il nostro mondo e criticarlo senza dare troppo l'impressione di farlo, per trascinare l'interesse del lettore che, altrimenti, non durerebbe a lungo se gli si proponesse un saggio di critica sulle storture della società moderna. In questo caso, però, non è così, la Piramide è un mondo a sè stante, lontano dalla realtà e autoreferenziale anche se, scopriremo poco alla volta, non impermeabile ad essa, ma fino ad un certo punto è una piramide (l'architettura voluta da Muller è appunto quella di un piramide maya) chiusa in una bolla, che si bea di spaventi controllati ad arte da professionisti del settore. La morte del sub (e poi - anzi prima - di un altro sub suo amico, e forse amante) fa nascere delle incrinature lungo la superficie della bolla: da qui, la realtà prende a filtrare: interessi finanziari, centri decisionali e direttivi europei, narcotraffico, vendette cercate e vendette portate a termine, deliri, buona sorte di cui non ci si riesce a liberare, tumori all'ultimo stadio, boss sgozzati, cravatte colombiane, dipendenti messi a tacere e, dietro o, per meglio dire, "sopra" tutto questo, ad aleggiare come una nebbia malsana, le leggende e la storia maya che colorano ogni pagina di soffici deliri di morte e di sangue che pare scorrere in abbondanza più attorno alla Piramide che all'interno di essa. Ho impiegato un po' di tempo a capire quale fosse l'elemento di questo romanzo che lo rende diverso da ogni altro libro del genere (comunità chiusa, delitto, realtà che tracima e squassa la comunità all'inizio apparentemente perfetta: esempio cinematografico, il primo che mi viene in mente, uno tra i tanti: The village), perchè in realtà molti aspetti della narrazione sono piuttosto classici (la storia della band, le droghe e tutta la peridizione che si portano dietro - che ricorda molto da vicino Un bravo ragazzo, di Javier Gutierrez -, l'hotel, il tropico bollente, pieno di zanzare e seducente, una certa tensione sessuale lasciata ad aleggiare quasi fosse una minaccia, i gringos, il Messico come luogo per ricominciare, come un'eutanasia per occidentali, ecc.). Dando per scontato lo stile, sicuramente alto, non tipicamente latinoamericano, ma neppure un'imitazione sgraziata dello stile da hardboiled nordamericano, c'è un altro aspetto che in qualche misura sovverte lo scenario per certi versi quasi stereotipato: qui il Messico è il rifugio non tanto di yankees in fuga da sè stessi (lo è, anche, ma non solo), ma di messicani in rotta col proprio passato e, soprattutto, il punto di vista è quello di Antonio Gòngora, un messicano, non già un gringo come nei romanzi di Kent Harrington (uno tra i tanti, giusto per fare un esempio), qui il passato del luogo non tanto aleggia sulle teste di protagonisti che lo subiscono, venendo da una cultura altra, ma scorre a livello del terreno, sotto la pelle della gente, che sono cuochi, elettricisti, camerieri, ma paiono sovrani maya. Il punto di vista narrativo insomma, viene totalmente sovvertito (ma con grazia, ce ne si rende conto a fatica, e dopo un po' di tempo: ad esempio bisogna far attenzione, tendere l'orecchio, per comprendere quanto suoni strana la parabola di una statunitense senza permesso di soggiorno che vive nel terrore di essere ricacciata nel proprio paese), ma non solo. Gli investigatori sono elementi di contorno, un po' corrotti, non tanto ma giusto un poco, come tutti, un po' stampalati, senza mai diventare caricature vere e proprie. Le indagini in qualche maniera sembra vadano avanti da sè, come se facessero parte di un meccanismo che, una volta innestato, diviene ieneludibile nelle sue conseguenze e, poco alla volta, travolge tutto e tutti. E i protagonisti. Sembrano portatori ognuno di un tassello diverso di un unico incomprensibile ed assurdo passato che, ricomposto, non prefigura nulla di buono - la Piramide, il presente, è appunto solo una bolla che finirà per scoppiare lanciando il suo contenuto in mille direzioni diverse -, e l'unico personaggio che suo malgrado si scoprirà con un futuro di fronte sarà proprio il narratore, Gòngora, che se lo ritroverà come ultimo cervellotico, e per certi versi disperato, regalo del proprio amico Mario Muller. Un mondo di finzione che, quando va in pezzi (e va in pezzi nell'assurdo tentativo di presevare sè stesso, tentativo che, paradossalmente, ne decreterà la fine), si scopre ad avere tutti i propri abitanti che vanno in pezzi a loro volta, forse essendolo stati da sempre. Tutto questo equilibrio precario viene tenuto insieme da uno stile asciutto, ironico, distaccato, per certi versi molto poco sudamericano, ma che mai scimmiotta i maestri statunitensi del genere: l'ironia per quanto amara è sempre lieve, i pensieri di Gòngora che fanno da contrappunto non sbilanciano mai i toni della narrazione, e il fraseggiare paradossale quello sì è un marchio di fabbrica tipicamente latino. Il risultato è davvero notevole, un gioco di equilibri sempre a rischio di cadere in qualche luogo comune o in caratterizzazioni banali, ma che mai scade in un risultato meno che apprezzabile. Forse non è un thriller distopico, ci sta, non chiedetemi cosa sia se non un ottimo libro.




Juan Villoro nasce a Città del Messico nel 1956. Scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore, Villoro è per la sua traiettoria letteraria uno dei più conosciuti e apprezzati esponenti della cultura ispanica. Tra i testi pubblicati in Italia si ricordano: I colpevoli (Cuec 2009), Il libro selvaggio (Salani 2010), Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie 2013), mentre presso gran vía nel 2008 è apparso un suo racconto nella raccolta En la frontera. Con La Piramide, Juan Villoro è stato finalista al prestigioso Premio Rómulo Gallegos 2013.

mercoledì 20 novembre 2013

L'eroe discreto, di Mario Vargas Llosa, Einaudi editore

  Se siete tra coloro che ritengono indispensabile che un libro porti in sè una morale, non è difficile in questo caso individuarne una. Una anche rassicurante ed esplicita seppur un po' banale: siate onesti, retti, prestate fede alla parola data e sarete ricompensati (già in vita, tra l'altro, e non solo e non tanto moralmente, quanto piuttosto materialmente) . Un po' pochino, si dirà, per un premio Nobel (2010). Rigoberto, esponente della Lima bene, dirigente di un'agenzia assicurativa vicino alla pensione, padre di famiglia amorevole ed assennato, marito fedele e passionale, dagli interessi culturali elevati, decide - consapevole delle possibili conseguenze - di accettare di far da testimone al matrimonio tra il suo anziano superiore (nonchè amico e proprietario dell'agenzia assicurativa in cui lavora) e la di lui (ben più giovane) domestica Armida, matrimonio che estrometterà i due figli (scavezzacollo, semideficienti e praticamente delinquenti) dello sposo dalla linea ereditaria. Felìcito, piccolo imprenditore di Piura che ha fatto fortuna mettendo in piedi un'impresa di trasporti partendo dal nulla, con la sola eredità dell'esempio paterno e di una sua frase ("non farti mai mettere i piedi in testa da nessuno"), si trova ad affrontare le richieste di pizzo di una presunta mafia locale e, suo malgrado, a divenire un eroe, popolare per il suo coraggio, celebrato dai giornali e riconosciuto per strada. Senza scendere negli snodi della trama per non sottrarre nulla al piacere della lettura, le due vicende si sciolgono in un finale che è il più classico dei lieto fine, dopo essersi inaspettatamente intrecciate l'una all'altra. Però, ancora nulla che giustifichi un premio Nobel. Tra le altre facezie nelle quali si incappa leggendo il libro, troviamo: visioni religiose (o pseudo tali), incesto, prostituzione minorile gestita dalla madre della giovane prostituta, inganno, figli illegittimi fatti passare per figli naturali, ricatti, mantenute, molestie sessuali di stampo pedofilo, cocaina e droghe varie, eredità da sogno, minacce, povertà e ricchezza, riscatto, arti orientali, sensitive, persone che muoiono (di morte presumibilmente naturale, c'è da dirlo) e persone che scompaiono, e chi più ne ha più ne metta. Messa così, vi aspettereste un romanzo pulp, da cui Tarantino potrebbe tirar fuori uno dei suoi film, oppure, appunto, una telenovela infinita: niente di più distante dalla realtà. Il perchè questo è un libro a suo modo importante (e scritto con la solita ferma maestria di Vargas Llosa) lo si comprende leggendo un passaggio a pag. 278, in cui l'autore esplicita al lettore quello che è il suo gioco:
  " Dio mio, che razza di storie riservava la vita quotidiana; non erano capolavori, più vicine alle telenovele brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes e a Tolstoj, senza dubbio. Ma non così lontane da Alexandre Dumas, Emile Zola, Dickens o Benito Pérez Galdòs. "
L'autore pesca a piene mani dal serbatoio di "cultura" popolare tipico della cronaca nera e rosa, del racconto orale, del pettegolezzo e, come sottolinea nel brano qui sopra riportato, delle telenovelas (che a loro volta pescano dalla cronaca, dal racconto orale e dal pettegolezzo) e, con uno stile leggero, misurato e sopraffino, mette in piedi una struttura narrativa perfetta che innalza il materiale utilizzato (grezzo, basso, a tratti volgare) a vera e popria letteratura. Alta letteratura. La storia, ambientata ai giorni nostri lascia emergere un Perù ancora affascinante per la sua arretratezza, per le sue caratteristiche che permangono invariate col trascorrere degli anni e dei decenni, per le sue vertiginose differenze sociali, e per le sue dinamiche che, per molti versi, paiono uscire da una sorta di infinito ed ininterrotto medioevo latinoamericano. In questo senso i richiami ai cibi, ai balli, alla musica, ai modi di dire (ora piurani ora limeni), alle storie popolari (molte delle quali già soggetti di altri libri di Vargas Llosa) sono, per il lettore europeo, un richiamo irresistibile e terribilmente affascinante (inutile spiegare perchè lo sono in maniera assolutamente diversa quando non totalmente opposta dalle tematiche di Marquez: qui, nonostante tutto si parla di realtà, non si trasfigura nulla, o quasi). Il libro fa parte di quello che chiamo "il ciclo piuriano" di Vargas Llosa ("Chi ha ucciso Palomino Molero?", "La casa verde", "Il caporale Lituma sulle Ande", "La Chunga") da cui eredita il personaggio del sergente Lituma (e i richiami alla Chunga) e lo mescola con un'altro filone narrativo da cui prende a prestito uno dei due protagonisti, Rigoberto ("Elogio della matrigna"). Lo stile, e le tecniche narrative (il marchio di fabbrica del passaggio improvviso tra situazioni, luoghi, tempi e personaggi diversi che si intercalano a vicenda, straniando il lettore, ma ottenendo un effetto di contemporaneità che può essere paragonato alle sequenze filmiche proiettate contemporaneamente sullo schermo del cinema) sono quelle proprie del premio Nobel peruviano, maneggiate con una sicurezza che pochi autori al mondo hanno e che garantiscono alla narrazione una scorrevolezza invidiabile e una scioltezza che permettono alla trama di scorrere quasi come se l'autore non ci avesse posto mano. In realtà è l'esatto opposto: Vargas Llosa prende topoi della cultura bassa (per certi versi così bassa che più bassa non si può) latinoamericana, li immerge in un presente che tocca solo marginalmente un tempo tutto peruviano che pare non scorrere mai realmente ma rimanere impantanato in un perenne passato, e costruisce un'architettura narrativa tanto solida quanto lieve per portarli alla dignità letteraria, il tutto senza apparente sforzo, facendo sì che il lettore quasi non si accorga di quanto l'autore sia impegnato in un gioco di prestigio di altissimo livello. E qui torniamo all'autosvelamento di pagina 278: certo, partendo dalla materia prima delle telenovelas (e quindi della cultura, del sentito popolare) non si giunge ai livelli di Cervantes o Tolstoj, Llosa non lo pretende, si pone un gradino più in basso ma, sottolinea, neppure ci si deve fermare per forza alle telenovelas: fino a Dumas, Hugo, Dickens o Pérez Galdòs ci arriva anche lui.
  Forse si tratta solo di un gioco di prestigio, di un saggio di bravura dello scrittore peruviano, ma certamente è riuscito alla perfezione, senza neppure lasciar sospettare di voler essere pretenzioso, e questo sì, è da premio Nobel.

 

Mario Vargas Llosa è nato nel 1936 ad Arequipa, in Perú, e attualmente vive a Londra. Nel 2010 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Einaudi ha in corso di pubblicazione l'intera opera. Tra i titoli già pubblicati: La Casa Verde, La zia Julia e lo scribacchino, La guerra della fine del mondo, I quaderni di don Rigoberto, La città e i cani, Lettera a un aspirante romanziere, Conversazione nella «Catedral», Elogio della matrigna, La festa del Caprone, Pantaleón e le visitatrici, Storia di Mayta, Il Paradiso è altrove, I cuccioli. I capi, Chi ha ucciso Palomino Molero?, Avventure della ragazza cattiva, Appuntamento a Londra, Il caporale Lituma sulle Ande, Il narratore ambulante, Elogio della lettura e della finzione, La Chunga e Il sogno del celta. Nel 2012, sempre per Einaudi, è uscito Alfonsino e la Luna (ET Pop); nel 2013, nella nuova collana digitale dei Quanti, Mondo, romanzo (con Claudio Magris), La civiltà dello spettacolo (Passaggi) e L'eroe discreto (Supercoralli).

lunedì 11 novembre 2013

Hay algo que no es como me dicen (el caso de Nevenka Fernandez contra la realidad), di Juan Josè Millas, editorial Seix Barral

  Questo libro è la dimostrazione pratica del perchè non andrebbero mai comprati (e prima ancora pubblicati, e ancor prima scritti) i cosiddetti instant book: lasciando trascorrere una decina d'anni dallo svolgersi degli accadimenti e affindando il materiale a uno scrittore di enorme talento quale è Juan Josè Millas, si rischia di ritrovarsi per le mani un ottimo libro. Ed è ciò che ha messo insieme l'autore partendo da un fatto di cronaca avvenuto a Ponferrada, un comune di quasi settantamila abitanti della provincia di Leòn, Spagna (ovviamente). Una giovane assessore del comune, Nevenka Fernandez, dopo essersi eclissata per diverso tempo dal suo lavoro in giunta, e aver così lasciato il campo libero a voci di qualsiasi genere ("è drogata"; "si sta dissintossicando in una clinica a Madrid"; "è entrata in una setta religiosa"; "è uscita di testa"), indìce una conferenza stampa nella quale annuncia le sue dimissioni e ne denuncia ai media la causa: le molestie sessuali subite da parte del sindaco, Ismael Alvarez, esponente locale di spicco del PP (Partido Popular). Il caso esplode a livello nazionale, viene trattato in televisione e sui giornali, tutti ne parlano e Millas, leggendo le cronache giornalistiche, comincia a porsi alcune domande: che razza di nome è Nevenka, per una spagnola purosangue? Da dove arriva, qual'è la storia di quel nome? E perché la Fernadez non rilascia mai un'intervista, non appare mai in televisione, rifiutando ricche offerte in denaro (proprio in un momento in cui di denaro aveva bisogno, e lavoro, causa il risalto del suo caso giudiziario, non le veniva offerto)? Cosa si nasconde dietro i pochi dati che emergono dalle cronache dei giornali? In quel momento la Spagna si divide tra chi sostiene che il sindaco sia colpevole e chi non può far a meno di malignare che se certe cose sono avvenute allora lei (giovane, carina) qualcosa deve pur aver fatto. C'è chi addirittura si autoconvince di aver visto immagini della Fernadez in minigonna alla conferenza stampa (come se fosse un sigillo di colpevolezza!), particolare che si rivela falso ma che, come sottolinea più volte Millas, altro non è che la manifestazione di una necessità della persona che ricorda quella minigonna: ho bisogno di pensare che sia lei quella sbagliata, quella che ha sbagliato, che si è comportata male, la poco di buono, perchè altrimenti dovrei pensare che tutto il sistema è marcio, e questo equivale a veder crollare d'un solo botto tutto un mondo che da quel sistema è sotteso. Di solito la gente ha bisogno di credere in qualcosa, e poi ha la necessità assoluta di non veder crollare le proprie convinzioni. Piaccia o meno è così che funziona. Il libro ripercorre i fatti, ma si spinge più in là, analizza la famiglia della Fernandez, le sue reazioni (preferiranno crederla pazza, o drogata, piuttosto che ammettere la colpa di un intero sistema di valori che la giunta e il partito di appartenenza della giunta rappresentava), e le origini di quella famiglia così sinistramente (non che si tratti di una famiglia sinistra, tutt'altro, ma è proprio quella normalità priva di sfumature ad essere inquietante, come può esserlo un cubetto di porfido o un blocco di marmo) "normale". Ne esce un ritratto in movimento di una giovane donna che in tenera età scopre (da qui il titolo: hay algo que no es como me dicen: c'è qualcosa che non è come mi raccontano) di essere nata fuori dal matrimonio (fatto gravissimo in quel tipo di società che andava fiera di vedere in un capellone un sicuro drogato sociopatico) che trascorre la sua vita impegnandosi a farsi accettare dai suoi stessi genitori, dal padre in particolar modo, tanto da arrivare ad essere sempre, tra i fratelli, quella con la testa sulle spalle, che primeggia in tutto, responsabile, quella che cerca in ogni modo l'approvazione del padre (dirà: "piacevo a tutti gli uomini, tranne a mio padre") al punto da lasciarsi immergere in una realtà e in un sistema di valori che accetta passivamente, senza mai domandarsi se possa davvero essere il suo, quello in cui si rispecchia a fondo. E quando incappa in un uomo, Ismael Alvarez, il sindaco, della stessa età del padre, che incarna, almeno politicamente, gli ideali del padre, non sa rendersi conto che questi è un predatore sessuale che la involve in una rete di ammiccammenti, di doppi sensi, di ricatti, di premi e di punizioni che la fanno scivolare nel ruolo della vittima perfetta, incapace di reazione alcuna di fronte alle pressanti ed esplicite richieste dell'uomo. Quando l'ansia predatoria si incarna in una situazione di vero e proprio mobbing da manuale oltre che di molestie sessuali, la Fernandez ha ormai i nervi a pezzi, è totalmente nelle mani del suo predatore e non può far altro che fuggire. Fin qui, viene da dire, purtroppo, nulla di nuovo nè di particolarmente stimolante, al più ci ritroviamo disgustati, ma la parte realmente interessante (e che chiaramente ha interessato e affascinato Millas) del libro comincia con la presa di coscienza che il mondo solidarizza con il carnefice e non con la vittima, in primis la famiglia stessa della Fernandez. La risposta al perchè di tale reazione apparentemente illogica sta già nella risposta che Millas fornisce per spiegare come qualcuno abbia potuto vedere una minigonna dove una minigonna non c'era: è più facile (e meno pericoloso, meno doloroso) immaginare una colpa nella vittima che riconoscerla in un intero sistema valoriale, senza contare le ovvie ripercussioni che in casi del genere hanno gli aspetti più marcatamente (e storicamente) machisti di una cultura che perpetua sè stessa continuando a identificare la donna come semplice oggetto sessuale. Da qui parte una terza parte del libro nella quale la protagonista (protagonista suo malgrado, viene da dire) affonda, tocca il fondo e infine rinasce: i vari passaggi che la portano a decidere di denunciare il sindaco e, prima ancora, a comprendere di non essere pazza, di essere lei medesima un caso esposto nei manuali che si occupano di molestie sessuali (tanto che, leggendone uno per la prima volta, le pare che sia stato scritto ispiradosi alla sua storia personale), a capire come le sensazioni, spesso terrificanti, cui non riusciva a dare un nome, un nome in realtà l'avevano, erano già state codificate da qualcuno perchè erano già state innumerevoli volte vissute da qualcun altro, e questa possibilità che le si para di fronte, di ridare un nome alle cose, come se si trovasse all'inizio della creazione, la spinge verso orizzonti che la vita che si era ritagliata per compiacere suo padre neppure prevedevano. Scopre che, nell'ambito politico, l'unica persona che si interessa a lei, che si comporta correttamente e che la aiuta è proprio la leader locale del PSOE, vale a dire il partito d'opposizione in comune e il principale avversario a livello nazionale, che mai proverà a trarre vantaggio (politico appunto) dallo scandalo scoppiato nel partito avverso e che, anzi, come detto, cercherà di aiutarla, verrebbe da dire "da essere umano ad essere umano" prima ancora che " da donna a donna ". Scoprirà che fumarsi un porro, una canna, non è l'anticamera della tossicodipendenza, e anche tra i fumatori di marjuana amici del suo fidanzato Lucas, incontrerà solidarietà e aiuto. Si troverà costretta a lavorare come operaia sfruttata, come non avrebbe mai pensato di dover fare (certo la sua famiglia non aveva previsto che entrasse a far parte delle sue esperienze formative). Rimarrà legata al fidanzato Lucas, che la sosterrà sempre, in un modo tutto suo, silenzioso ma fermo, risoluto e al contempo dolcemente virile. Infine oltrepasserà i confini della Spagna e se ne andrà a vivere in un paese non meglio specificato del Nord Europa, col suo Lucas, a ricrearsi una vita, a dare il nome alle cose un'altra volta, in un'altra lingua. Rimane, alla fine del libro (tra parentesi, il processo vedrà il sindaco condannato), lo sconcerto dell'autore nel dover prendere atto che nella moderna Spagna di oggigiorno la normalità è vedere la vittima dover emigrare mentre il colpevole se ne resta a curare i suoi affari nella città in cui ha compiuto i suoi misfatti circondato dall'affetto e dalla benevolenza dei suoi concittadini.
  Il libro, scritto con lo stile e l'acume di cui è capace Millas, è uno scoperchiare la pentola, guardarci dentro, studiare il contenuto, e poi richiuderla chiedendosi come sia possibile che i commensali avvelenati ne vogliano ancora. Acutezza, perplessità, sconcerto. Non tanto verso la società spagnola quanto verso la natura umana.
  Purtroppo per chi non conosce lo spagnolo, il libro non è tradotto in italiano, ed essendo uscito nel 2004 in Spagna, temo che ormai continuerà a rimanere tale.

Juan José Millás è nato a Valencia nel 1946. Dopo aver studiato lettere e filosofia all'Università Complutense, si è poi interamente dedicato al giornalismo e alla scrittura. Tra i suoi numerosi volumi di romanzi e di racconti, in Italia sono usciti Il disordine del tuo nome (Cronopio), L'ordine alfabetico, Non guardare sotto il letto (Il Saggiatore) Il mondo, Carta straccia (Passigli editore). Einaudi ha pubblicato Racconti di adulteri disorientati («L'Arcipelago Einaudi», 2004), La solitudine di Elena («L'Arcipelago Einaudi», 2006) e Laura e Julio («L'Arcipelago Einaudi», 2007).

lunedì 21 ottobre 2013

Bolano, La prossima battaglia, Interviste con Roberto Bolano, Medusa editore, autori vari

  Sette interviste che vanno dal 2000 a pochi mesi prima della morte, nel 2003, per riviste o giornali di Santiago del Cile, Barcellona e Madrid, sette botta e risposta con Roberto Bolano, nel più puro stile Bolanano, vale a dire con quella ricercata sapienza nel dosare paradossi e stroncature, polemiche e benedizioni in cui l'autore cileno era maestro, lasciando cadere le sue frasi con la gentile noncuranza di qualcuno che sa che l'intervista è, in fondo, un genere letterario vero e proprio. Ritroviamo in queste interviste più o meno tutti i temi cari a Bolano, e il suo gusto per la contraddizione e l'autocontraddizione (apparente o effettiva), a volte addirittura praticata all'interno dello stesso periodo. Parla dell'infanzia in Cile, dei suoi genitori, delle loro liti e delle loro separazioni, fino a quella definitiva, del Messico, della scoperta della poesia, della bohème messicana (come suona strana, qui da noi, quest'espressione), il ritorno in Cile e il risveglio, un mattino, nel bel mezzo del colpo di stato, la volontà di unirsi, subito, immediatamente, alla resistenza, la tenera idiozia ed impreparazione di chi credeva di poter mettere in piedi qualcosa, qualsiasi cosa che si opponesse alla prevaricazione golpista. E poi l'arresto, scambiato per un pericoloso terrorista straniero, otto giorni di prigionia fino a quando non viene liberato grazie a due dei suoi carcerieri che si rivelano essere suoi ex compagni di liceo. La morte del poeta Roque Dalton, il suo assassinio vigliacco con un colpo (una bala, o un balazo a la cabeza) alla nuca, nel sonno, per mano di quegli stessi compagni che cercava di convincere a non infilarsi nella lotta armata, e che poco tempo dopo sarebbero scesi a patti con quello stesso potere che avevano combattuto. E da qui agli scrittori, a quelli cileni poco amati, Neruda, Isabel Allende, Luis Sepulveda, ai mostri sacri, Borges, il maestro, il canone della letteratura in lingua ispana, e poi Cortàzar, che incontra da ragazzo, per caso, mentre cammina con Carlos Fuentes (l'odiato Carlos Fuentes), e poi Parra, Nicanor Parra, l'antipoeta. E la generazione di giovani latinoamericani sacrificata, teneramente e stupidamente, nelle varie guerre civili del cono sur (le guerre fiorite). L'amico Mario Santiago, alcolizzato, che muore investito da un auto pirata il giorno dopo aver terminato di leggere le bozze de I detective selvaggi, Arturo Belano e Ulises Lima. I suoi libri, i suoi personaggi, la geografia della sua opera, la sua fidanzata in Cile, una ragazza con un carattere stupendo, che non smette di amare per tutta la vita perchè quando si è amato qualcuno non si smette mai di amarlo. E poi i suoi figli, specie Lautaro, le sue preoccupazioni di padre; e poi la salute, la malattia, il suo rapporto con la morte, col suo fegato malato, col tempo che scarseggia (l'intervista intitolata Non avrei mai pensato di diventare così vecchio, di Rodrigo Pinto, per El Mercurio, di Santiago del Cile, verte praticamente tutta attorno alla sua malattia, alla morte che incombe e a come Bolano viva questa condizione di vita "a scadenza", devo dire tutto quanto - quasi tutto, nell'intervista - di pessimo gusto). E poi il male, il male nei suoi libri, in letteratura, e il male come tema principale dell'esistenza. Qui mi piace riportare una citazione tratta dall'intervista Mai confidare nella memoria collettiva, a pag30, di Dunia Gras Miravet, per la rivista Cuadernos Hispanoamericanos:
  "... La capacità che ha il male assoluto di sovvertire un ordine dato, è enorme. Io, in alcune occasioni sono stato vicino a qualcosa che, vagamente, potremmo chiamare male assoluto, che non lo era, e l'influsso del male, la deformità del male, emanano una sensazione strana, come appiccicosa, ma non esattamente. "
  Ecco, in questa pensiero, c'è tutto Bolano: il richiamo all'elemento autobiografico che, però, riporta al tema generale anzi, universale, in questo caso quello del male assoluto, e la sua eleganza espositiva articolata in apparenti contraddittori interni o, per essere più precisi, in quel suo sezionare le sensazioni fino al punto estremo (così tipico del suo stile: un marchio di fabbrica) di proporre un'affermazione per poi subito dopo modificarla, o moderarla (quei suoi "ma" così densi), come quando indica qualcosa che potremmo chiamare male assoluto, ma non lo era, o al termine della risposta quando descrive la sensazione che si avverte in presenza del male, una sensazione strana, come appiccicosa, ma non esattamente.
  Per tutti gli appassionati di Bolano, assieme al volume della Sur, L'ultima conversazione, è un libro imperdibile, per il semplice gusto di, leggendolo, riassaporare la voce dell'autore di 2666, anche se poi la sua voce magari non tutti la conoscono e ognuno se la immagina come più gli garba. Per tutti gli altri che non hanno ancora avuto la fortuna di conoscere Bolano, questo è un libro interessante per introdursi furtivamente nel suo mondo. Per poi non uscirne più.

Un'avvertenza: il libro è di dimensioni davvero ridotte (è pure complicato trovarlo, in libreria, negli scaffali), ed è scritto in caratteri piuttosto piccoli, consta di 16 pagine di introduzione (a cura di Gabriele Morelli), soprattutto per i neofiti del culto Bolanano, e di 73 pagine in tutto. Costa 9 euro.
  Comunque ne vale la pena.

Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare ArchvioBolano. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.
  Di Bolano in questo blog sono stati finora recensiti: I dispiaceri del vero poliziottoIl terzo reich, La pista di ghiaccio, e Monsieur Pain

giovedì 17 ottobre 2013

I barbari, saggio sulla mutazione, di Alessandro Baricco, Feltrinelli editore

  Se c'è una cosa che a Baricco riesce davvero bene, in questo libro la trovate. Come specificato dal sottotitolo, si tratta di un saggio, sulla mutazione. Cos'è dunque la mutazione e, di conseguenza, di cosa parla questo libro? Diciamo che non posso spingermi troppo in là perchè altrimenti dovrei raccontarvi tutto e, così facendo, vi rovinerei il piacere della lettura, ma qualcosa posso azzardarmi a (cercare di) spiegarla, con parole mie ovviamente, per quel che mi è possibile, dal momento che non è impresa facile, se Baricco ha dedicato tutto questo volume a rendere chiaro qualcosa che chiaro non è per nulla, a nessuno, anche se tutti ci viviamo dentro. La calata dei barbari è l'espressione con cui l'autore identifica una sensazione che tutti ci accomuna e che ci rende prigionieri di un tempo che volge al termine, proprio come un antico e mastodontico impero, impreparato all'invasione di nuovi Unni che già hanno occupato i nostri territori, attaccato i nostri villaggi e preso possesso delle nostre anime. Per quanto possa suonare strano, non stiamo parlando di immigrazione, nè di storia, nè di strategia militare ma, passatemi il termine, di "scarti di senso" e, tornando alla frase iniziale di questo post, se c'è una cosa che a Baricco riesce davvero bene, è descrivere (spiegare, illustrare) e rendere evidenti a tutti, anche ai caproni come me, o voi, cosa intende per "scarto di senso" (a questo proposito consiglio vivamente la visione dei dvd La Feltrinelli di Palladium Lectures). Perchè non esiste più il calcio di una volta, maglie da 1 a 11, ad ognuno il suo ruolo, il difensore che spara la palla in tribuna e non si azzarda ad oltrepassare la metacampo? E perchè Baggio sta in panchina a fissare 11 atleti muscolati per squadra che non sanno combinare nulla in maniera sublime, ma corrono come matti e sono in grado, all'occorenza, di difendere, di attaccare, di spingere sulla fascia, di toccar palla in maniera decente e via discorrendo? Rinunciare a Baggio, all'apice estetico e tecnico del gioco del calcio, al genio assoluto ed alla sua qualità, in favore di una mediocrità estremamente mobile e dinamica ha senso o è semplicemente segno inequivocabile di barbarie e decadenza? Il vino hollywodiano, non eccelso, ma abbastanza mediocre da piacere ad un pubblico vastissimo, è barbaro o è una semplice modificazione del gusto (oltrechè un boom commerciale basato sull'allargamento esponenziale del target di vendita)? E perchè oggi in libreria i libri più venduti sono quelli scritti da comici, da personaggi televisivi, romanzi tratti da o che hanno ispirato pellicole al cinema? Dov'è andata smarrendosi "l'aura" che da sempre (o così crediamo noi) aleggia attorno ai "grandi romanzi" e ai "grandi scrittori?" E perchè si vendono più libri in edicola che non in libreria? L'anima, chi l'ha inventata, e quando, e perchè mai sembra essere divenuta per i barbari un inutile orpello di cui liberarsi quanto prima? E, infine, sono davvero barbari o più semplicemente si tratta di mutanti che hanno una percezione della realtà diversa dalla nostra, più superficiale ma più veloce, più dinamica, più collegata ad altri nuclei di senso? Cosa rimarrà del nostro mondo quando i barbari/mutanti avranno colonizzato e riconvertito secondo la loro sensibilità tutto ciò che era possibile colonizzare e riconvertire? Ecco, come vedete, si tratta di "scarti di senso", di "scivolamenti" da un modo di pensare e percepire la realtà ad un altro modo di pensare e percepire, e noi, tutti noi, ci troviamo nel bel mezzo di questo smottamento culturale. E noi, tutti noi, leggendo questo libro possiamo trovare parti di noi stessi, sia che di volta in volta ci sentiamo più barbari o più invasi, comunque tutti quanti siamo parte integrante di quello smottamento, ne siamo partecipi e vittime, e lo siamo in modo più o meno consapevole. Questo libro ci rende più consci del sommovimento in atto e della nostra posizione rispetto a questo stravolgimento che ci sta togliendo la terra da sotto i piedi. Vi troverete a riflettere che, effettivamente, a quel dato ragionamento portato avanti e sezionato a vostro beneficio dall'autore, c'eravate arrivati anche voi, l'avevate "sentito" in qualche modo, ma certamente non eravate riusciti a "sentire" tutto quanto il quadro d'insieme, il (possibile, probabile, comunque proposto da Baricco) senso del cambiamento in atto. In questo, Baricco è magnifico, che lo vediate in dvd o dal vivo o ne leggiate le pagine scritte, poco cambia; la sua capacità affabulatoria e il mestiere del maestro che ti prende bonariamente per mano e ti accompagna in zone dalle quali, da solo, saresti stato ben lontano, mostrandoti a destra e a sinistra del cammino, e spiegandoti, raccontandoti aneddoti ai quali puoi attingere con facilità, stregandoti con uno stile elegantemente (e felicemente finto) colloquiale, per poi d'un tratto indicarti in alto e lasciarti sbigottito (ma non spaventato) da un cambio di prospettiva repentino: tutto questo Baricco ce l'ha nel sangue, e il suo stesso stile che nei libri tende a scivolare nell'autocompiacimento da primo della classe che sa di esserlo ma non vuole darlo a vedere, nei saggi, diviene un'arma stupefacente che, paradossalmente, semplifica la comprensione di ragionamenti anche piuttosto complessi fino a renderli digeribili ad un pubblico vasto, spesso non profondamente acculturato, ancora più spesso distratto e supericiale (quindi, allora, i barbari siamo noi? Lo siamo già? Lui, Baricco, è un barbaro?). In fondo, questo I barbari, così come le lezioni di Palladium lectures, si ha l'impressione che sia una grande parentesi che l'autore si prende per spiegare (o, forse, addirittura, giustificare) sè stesso, la sua opera, la sua scuola, il suo successo, il suo stesso pubblico e le critiche che si porta sulle spalle.
  Ovviamente il libro non parla di questo, sono io che leggo cose che forse non ci sono (coscientemente forse non ci sono, è vero, ma ad un livello più profondo ed incosncio sì, quasi fossero dei lapsus): il libro è una stupenda riflessione, leggera, profonda ma accessibile, sul tempo all'interno del quale siamo invischiati, e sugli scarti di senso che, coscienti o no, viviamo tutti quanti, giorno dopo giorno, divenendo essi stessi la nostra vita e, al contempo, il modo con cui i nostri occhi vedono la nostra vita e i nostri cervelli pensano e giudicano la nostra vita.

Alessandro Baricco nasce a Torino nel 1958, qui studia filosofia sotto la guida di Gianni Vattimo, si laurea con una tesi in Estetica e studia contemporaneamente al conservatorio dove si diploma in pianoforte. Esordisce come critico musicale nel 1988 con un testo su Rossini ("Il genio in fuga. Sul teatro musicale di Rossini"). Nel 1991 esce il primo romanzo, "Castelli di Rabbia", pubblicato da Bompiani che vince il Campiello e provoca, fra l'altro, alcune divisioni in critici e lettori, così in seguito tutta la sua opera e il suo personaggio suscitano amore o odio, mai indifferenza. Nel 1993 appare in Tv come conduttore di "L'amore è un dardo", trasmissione di Raitre dedicata alla lirica. In seguito conduce, affiancato dalla giornalista Giovanna Zucconi, "Pickwick, del leggere e dello scrivere" programma di cui è anche autore e ideatore, dedicato alla letteratura. Nello stesso anno esce il secondo romanzo, "Oceano mare", che riscuote un grande successo di pubblico e nel 1994 "Novecento", un monologo, da cui vengono poi tratti un lavoro teatrale (con Eugenio Allegri e la regia di Gabriele Vacis a partire dal 1994, e con Arnaldo Foà in un nuovo allestimento nel 2003) e un film ("La leggenda del pianista sull'oceano", di Giuseppe Tornatore del 1998). Sempre nel 1994 Baricco fonda a Torino la scuola di scrittura "Holden", dedicata alle tecniche narrative. Dalle rubriche curate su "La Stampa" e "La Repubblica" nascono i due volumi di "Barnum" (pubblicati nel 1995 e nel 1998 con il sottotitolo "Cronache dal Grande Show"). Nel 1998 esce "City", che quattro anni dopo l'autore trasforma nel progetto per il teatro "City Reading Project". Dello stesso anno è anche la trasmissione "Totem", nata dall'esperienza teatrale, in cui Baricco commenta e narra i passi più salienti di racconti e romanzi con accompagnamenti musicali di ogni genere. Nel 2002 esce "Senza sangue" un breve racconto-romanzo sulla guerra e nel 2004 "Omer, Iliade", una rilettura del poema omerico, al contempo romanzo e adattamento teatrale. Nel 2005 l'autore torna alla narrativa con il romanzo Questa storia che ripercorre il Novecento attraverso la figura un po' favolosa di Ultimo Parri, una sorta di bambino prodigio che cresce nella Storia.

sabato 12 ottobre 2013

Lionel Asbo (stato dell'Inghilterra), di Martin Amis, Einaudi editore

  Se c'è una cosa che mi entusiasma assai poco è recensire un libro che non mi è piaciuto e, peggio ancora, recensire un libro che non mi è piaciuto scritto da un autore che stimo. E questo è, Lionel Asbo (stato dell'Inghilterra), di martin Amis, un libro pieno di falle, di crepe, che ti parla con una voce che non è la sua e, mentre lo leggi, ti porta a domandarti: ma chi sta imitando? Perchè il problema, apparentemente, è questo: Martin Amis, uno scrittore di razza, che amo (e forse per questo la mia delusione è così cocente), un maestro dello stile, figlio a sua volta di un grande scrittore (Kingsley Amis), in questo caso pare essersi impegnato (poco a dir la verità) in un divertissement, prendendo un genere (tutto britannico tra l'altro) e impegnandosi ad elevarlo artificialmente tramite la sua maestria e tocchi di genio che, evidentemente, ha, in questo caso, un tantino sopravvalutato. O forse era un esperimento - o un abbozzo di esperimento - che aveva nel cassetto e che qualcuno, malauguratamente, ha convinto a dare alle stampe: chissà. Comunque siamo dalle parti della comedy ambientata nel sotto-sottoproletariato urbano, in quel mondo che non è più al di qua del confine col mondo del crimine, ma appena al di là. Lionel Asbo (molto somigliante a Wayne Rooney, e se la fisiognomica ha un filo di valore, è tutto detto) è il protagonista, suo nipote Des la voce narrante. Diston, il quartiere che fa da paesaggio e da coprotagonista del romanzo, è un luogo dove a dodici anni le ragazzine mettono al mondo il primo figlio, a trentanove anni si è nonne, dove a cinquant'anni si è vecchi decrepiti (se ci si arriva) e dove i sessant'anni non li raggiunge nessuno. Un bel posticino insomma. Lionel è uno dei tanti (sette) figli della giovanissima (madre a 12 anni e nonna a 39 anni appunto) Grace, che ha dato il nome dei componenti dei Beatles ai primi cinque nati. Lionel, zio Li, ha passato i suoi ventun'anni di esistenza dentro e fuori dai riformatori, prima (segnalato alle autorità a tre anni: un record! anche se destinato a cadere nel corso del libro), e dalle carceri poi, non brilla per comprendonio (la somiglianza con Rooney ne è chiaro sintomo), ama la violenza in ogni sua forma e sfumatura, sia quella atta a farsi valere e rispettare sia quella gratuita, per sfogarsi, da infliggere ad anime innocenti. Des, rimasto orfano, viene cresciuto da zio Li, che gli vuole bene a suo modo e gli dispensa i migliori consigli di cui è capace: ad esempio: esci ogni tanto e spacca due vetrine, porta sempre con te un coltello, e poi: dai da bere la birra ai cani per renderli aggressivi, e lascia perdere le donne (a favore dei siti porno: genere favorito di Zio Li: le milf: mother I like fuck, vale a dire video con donne mature). Per il massimo sconforto di Lionel Asbo, il nipote è il suo esatto contrario, posato, tranquillo, potenziale vittima dell'intero quartiere e, ai suoi occhi, del mondo intero, sa scrivere, sa parlare e in una maniera che rasenta l'ebetismo riesce a voler bene a quel delinquente che risponde al grado parentelare di zio. Des, nonostante la testa sulle spalle e la razionalità stolida che gli fa da guida nell'assurda brutalità della vita di quartiere, a quindici anni finisce col divenire l'amante della giovane nonna. Da qui parte un intreccio che dovrebbe dar vita ad una satira dei tempi moderni degna di Swift, Dickens, Burgess o Ballard (così recitano le deliranti note fornite dalla casa editrice): niente di più falso. I temi trattati e l'ambientazione sono quanto di più paraculo e commerciale ci si possa aspettare, lo stile è un gioco d'equilibrio tra quello sofisticato e cesellato proprio di Amis e qualche discesa negli inferi dell'analfabetismo del protagonista. La struttura: lievemente complessa, venata di qualche particolare che non si comprende se sia dovuto a sviste di editing e di traduzione o ad effetti speciali (svolazzi manieristici) inseriti a bella posta dall'autore per non rendere il plot troppo evidentemente commerciale (o banale, o lineare, vedete voi). Zio Li, vince alla lotteria, diventa uno degli uomini più ricchi d'Inghilterra e si trasforma presto in carne da tabloid, subito etichettato come ricco e cafone, re del cattivo gusto, miliardario pericoloso e dal pugno facile nonché dalla parlata ben più che rozza. Il finale ve lo risparmio, ma comunque è quanto di più simile ad un lieto fine l'intreccio potesse permettersi di partorire. Ora, tornando a quanto detto all'inizio di questo post, la sensazione di un esercizio di stile è talmente evidente da essere imbarazzante, e la spocchia con cui l'esercizio viene portato a termine, come se bastasse il nome dell'autore a rendere il libro un sicuro capolavoro, lo rende oltremodo irritante. Dopodichè, il libro si fa pure leggere, per via dei temi che attirano gli istinti bassi del lettore che, tra l'altro, si può salvare la coscienza grazie alla certificazione dell'editore che garantisce sulla natura doc di satira dura e pura, anzi, addirittura delle migliori (viene riportata una citazione dal Guardian che sostiene sia, "quest'ultima fatica di Amis, "il libro che ci meritiamo": mi sfugge se il senso sia da intendersi come ironico, e quindi come moto di sfiducia verso l'umanità intera e l'attuale società in particolare, ma se così fosse, questa sarebbe la parte di satira a mio avviso più pungente dell'intero libro) 
  Ma poi, tornando alla domanda iniziale, imitare (involontariamente o meno) chi, cosa? E' presto detto: Irvine Welsh. Ma Welsh, con una maestria artigianale eccezionale, ci racconta le sue storie di tossici dal loro interno, le rende grottesche e/o assurde e/o comiche e/o tragiche con uno sguardo che è in tutto e per tutto quello dei suoi protagonisti, la lingua con cui racconta le loro avventure disperate e senza senso, è la loro lingua, il loro gergo, Amis no. Lo sguardo di Amis è quello freddo e benevolo dello scienziato che scruta un mondo di microbi da dietro la sua lente d'ingrandimento e, se c'è ironia - se c'è satira -, è quella del professore che si diverte a giocare con l'inevitabile ignoranza dei propri allievi. I protagonisti di questo libro puzzano di artefatto lontano chilometri, sembrano figurine i cui contorni sono stati mal ritagliati, e non perchè compiano gesti inaccettabbili a credersi da parte del lettore (i protagonisti di Welsh ne combinano di peggio), ma perchè certi particolari non sono quelli giusti: nel modo di esprimersi, nelle psicologie, e forse addirittura in quello che è il loro mondo di riferimento.
  Onestamente mi è incomprensibile come uno scrittore della caratura di Amis (consiglio vivamente Koba il terribile e Il treno della notte, entrambe per Einaudi) abbia potuto scivolare su un'operazione del genere (e personalmente son portato a credere che non volesse imitare nessuno, e gli sia riuscito suo malgrado, soprattutto perchè uno scrittore del suo valore, semplicemente, non ne ha bisogno). Rimane un grande autore,"ça va sans dire", ma questo Lionel Asbo lo sconsiglio vivamente (anche per via di un editing imbarazzante da parte della casa editrice dello struzzo: refusi a piene mani come non ne trovavo da tempo). 
 
Martin Amis è nato a Oxford nel 1949. Di lui Einaudi ha pubblicato: Altra gente, Money, London Fields, La freccia del tempo, L'informazione, Il treno della notte, Cattive acque, Esperienza, Cane giallo, Koba il Terribile, La casa degli incontri, La vedova incinta, Lionel Asbo e la raccolta di saggi Il secondo aereo.

lunedì 23 settembre 2013

Un bravo ragazzo, di Javier Gutierrez, Neri Pozza editore

Rubén Polo, la voce narrante del romanzo, non è un bravo ragazzo. I suoi amici, Chico e Nacho, non sono dei bravi ragazzi, e certamente non lo sono i gemelli. Il titolo del libro è ironico o, forse, rimanda ad un momento lontano nel tempo in cui tutti eravamo ancora puri, bravi ragazzi, e non ci eravamo ancora sporcati le mani con i gangli inevitabili dell'esistenza, a quell'attimo prima che il meccanismo infernale entri in funzione e prenda, lentamente, a schiacciarci, modificandoci fattezze e morale, mandando in frantumi tutta quella costruzione traballante che era la nostra identità. Ma di quell'attimo, nel libro, sappiamo ben poco. La narrazione avviene tutta a posteriori, quando ormai Polo è tutto fuorchè un bravo ragazzo e si trova in qualche maniera a fare i conti con sè stesso e con le conseguenze delle azioni commesse in passato. Il fatto assurdo è che pensa, da qualche parte nella sua testa bacata, di poter giungere ad uno stato di pacificazione con sè stesso, con il mondo e finanche con le sue vittime. Torniamo al presente della narrazione: Polo lavora in banca, è un ragazzo serio, come tanti, è spagnolo ma è andato a studiare negli Usa, e al ritorno ha trovato lavoro nello stesso istituto bancario del padre. Ha una fidanzata stupenda, Gabi, che lo ama e che vive con lui a Madrid. La quintessenza del quadretto di felicità borghese, se non fosse che non riesce più ad avere rapporti intimi con Gabi, e quando ci provano piange. Qualcosa si sgretola dentro di lui e ciò che rimane lo riporta sempre al passato, agli anni novanta, quando era ancora un ragazzo e suonava in un band coi suoi amici, Chico, Nacho e Blanca, la sorella di Nacho. All'epoca erano forti, stavano per giungere alla cresta dell'onda, erano in procinto di incidere il loro primo cd quando ogni cosa è andata in pezzi: ad un tratto, ognuno per la sua strada, Polo negli States, e l'arrivo della polizia, le domande, gli interrogatori e i gemelli che finiscono dentro. Ma dove sta il discrimine, dove si nasconde il punto di non ritorno? Quand'è che le cose hanno cominciato a prendere la piega sbagliata? Con l'approssimarsi della fama, con la consapevolezza graduale dei propri mezzi artistici, con le droghe, con l'incontro coi gemelli? Il momento preciso in cui tutto ha preso a precipitare senza possibilità di porvi rimedio, ha un nome preciso: roipnol. La droga dello stupro. Se una ragazza non si accorge di nulla, allora è come se non fosse accaduto niente. Se non si ricorda nulla il giorno dopo, allora non le si è fatto del male. Il roipnol diventa una dipendenza: vedi una ragazza, ti piace, la inviti ad una festa, la fai addormentare e a quel punto é tua, o di tutti quelli che la vogliono. Giù di sotto giochi alla playstation mentre aspetti il tuo turno, mentre aspetti ti fai di coca, guardi telepredicatori alla tv, non parli, non fai neppure accenno a quello che avviene di sopra, aspetti il tuo turno. E il giorno dopo la voglia torna, aumentata, e la sensazione di potere anche, il senso di onnipotenza e di invulnerabilità ti ottunde la mente, quello e le droghe, e quando conosci una ragazza che ti piace, o che anche solo ti solletica, il roipnol fa la sua parte, e il giro di giostra ricomincia. Cos'è successo anni prima a Blanca: sono stati gemelli? E perchè quel rapporto così tormentato tra Polo e Gabi? Cos'è successo realmente anni prima? Tutto il romanzo è costruito sulla ricostruzione del passato, tassello dopo tassello, saltando tra passato e presente, tra dialoghi tra gli amici che si ritrovano, tra Polo e Gabi, tra Polo e il suo analista, stralci giustapposti di conversazioni e pensieri che si alternano nel corso dello stesso capoverso, spesso all'interno della stessa frase (tecnica in cui è maestro Vargas LLosa). E' una discesa in ben strani (ma realissimi) inferi, dove il male è casuale, leggero, quasi inconsapevole di sè stesso, ottuso dalle droghe, dove alla fine è il carnefice che va a cercare le vittime per ottenere da loro l'assoluzione senza portare però in cambio un vero e proprio pentimento ma solo qualche patetica giustificazione peraltro un filo lagnosa, mezza verità e mezza bugia (o mezza verità taciuta). Javier Gutierrez ci presenta un'analisi sicuramente accattivante ma molto approfondita del meccanismo del senso di colpa e del suo risveglio, ma soprattutto del male e del suo infido insinuarsi nella vita di tre bravi ragazzi, di come il male agisce, e delle conseguenze che apporta nelle esistenze di chi il male perpetra e di chi lo subisce. Un racconto molto ben intessuto, strurrato in modo tale da mascherare la linearità del plot. Una storia del genere avrebbe potuto raccontarla Stephen King, e ne avrebbe tirato fuori un thriller più o meno riuscito; per fortuna la storia l'ha messa su carta Gutierrez, e il risultato è immensamente superiore a qualsiasi best seller avrebbe potuto trarne un qualsiasi (pur bravo e navigato) autore di thriller da scaffale.

Javier Gutiérrez (Madrid 1974), laureato in Economia presso l'Universidad Complutense de Madrid, ha lavorato come economista e pubblicitario. Ora scrive a tempo pieno. È autore di Lección de vuelo (premio Ópera Prima de Nuevos Narradores 2004) e di Esto no es una pipa (premio Salvador García Aguilar 2009). È anche il vincitore del premio di narrativa breve José Saramago 2008 e finalista del premio Tiflos de relatos 2010, a cui ha partecipato con lo pseudonimo di Rubik, in omaggio al famoso creatore del cubo.

giovedì 12 settembre 2013

Le sparizioni, di Scott Heim, Neri Pozza editore

  Il Kansas come provincia estrema degli Stati Uniti, una di quelle province dove può accadere di tutto, in qualsiasi momento, e dove in effetti tutto accade, senza peraltro che nulla, apparentemente, cambi. Una cittadina, un luogo lontano, dove l'umanità è quella che può permettersi di essere, vale a dire, solitaria, gretta, in preda alle deviazioni che derivano dal grigiume e dalla mancanza di prospettive, dal sentirsi tagliati fuori non solo dal centro dell'impero, ma da tutto. O forse no, forse si tratta semplicemente di una qualsiasi periferia abitata da persone qualsiasi, e ciò che colora tutto di grigio e di noia è la vita stessa. La voce narrante, Scott, una sorta di pennivendolo che compone storie a buon mercato da stampare su libri per l'infanzia, torna in Kansas dalla madre, malata di tumore, anche se ancora non è consapevole della gravità dello stadio della malattia. Scott è un drogato, ha provato ad uscirne, ma ciclicamente ci ricasca. Sua madre è strana (oltre che malata) e ha la fissa dei minorenni scomparsi, l'ha sempre avuta fin da quando Scott e sua sorella hanno memoria e ha riempito casa di archivi interi e collezioni di foto in bella vista, come se si trattasse della redazione di Chi l'ha visto?. Quando Scott arriva alla stazione dei pullman non trova sua madre ad aspettarlo, ma una sua amica, tale Dolores, una signora all'incirca dell'età della madre e con problemi di alcolismo, che gli spiega quali siano le reali condizioni in cui versa la mamma. Cioè sta messa male, molto male, diciamo che è agli sgoccioli, e la sua testa comincia a delirare, racconta strane storie, una fra tutte relativa al fatto di essere stata rapita, quando era piccola, per una settimana, episodio dal quale deriverebbe la sua mania per i bambini scomparsi. Per Dolores trattasi di vaneggiamenti, sbarellamento di testa; Scott non ne è convinto, quello che sà è che prova una naturale avversione verso Dolores (effetto specchio: tossico che vede riflesso un alcolista, e lo denigra). Arriva a casa, la mamma è ridotta allo stremo, la malattia la sta erodendo. Seguono sensi di colpa da figlio deviato (drogato e omosessuale, e lontano da casa) e successivo tentativo di redimersi mettendosi a disposizione della follia, apparente, della mamma. L'accudisce, la coccola, vive tutto il suo tempo con lei, e l'accompagna nei suoi tour in cerca di giovani svaniti nel nulla. Niente ha senso, l'impressione è quella di galleggiare tra i vaneggiamenti di una donna sull'orlo del baratro, quello definitivo, dal quale non si torna indietro, a meno che non ti chiami Dante o Gesù Cristo. Ma i vaneggiamenti sono solo quelli della madre o sono anche quelli della voce narrante (non è un vero e proprio protagonista, quanto piuttosto un semplice punto di vista, anche se con una sua storia e una psicologia abbastanza ben delineata)? La forzata astinenza non sta minando la percezione della realtà di Scott, esattamente come d'altronde gli accade quando è fatto? Chi è che sta sbrindellando la realtà, o non sono forse tutti e due ad essere sull'orlo della follia? Un giorno Scott scende in cantina, e trova un ragazzo assicurato su un giaciglio con delle catene. Un ragazzo che, scoprirà, somiglia incredibilmente a sè stesso a quando aveva all'incirca quell'età, e che lui e sua madre hanno incontrato lungo una strada alcuni giorni prima caricandolo in macchina, in una scena apparentemente molto simile ad un rapimento. Perchè c'è quel ragazzino in cantina? Perchè le versione che la madre ha raccontato a lui, a sua sorella e a Dolores del rapimento subìto da bambina divergono su moltissimi punti, anche se ne mantengono alcuni inquietantemente fissi?
  Vediamo di spiegarci: c'è il mistero, quello stesso senso di enigma irrisolvibile e in qualche modo terribile che deriva da ogni scomparsa irrisolta e che compatta attorno allo schermo il vasto pubblico appassionato di trasmissioni come Chi l'ha visto?. Poi c'è la detection, la ricostruzione, passo per passo, degli eventi così come si svolsero a suo tempo, il mettere insieme un passato che dovrebbe giocoforza spiegare il presente, e svelare il mistero, ma si tratta di una detection complicata dagli stati alterati di coscenza di Scott e di sua madre, e dai loro rapporti e dai nodi che questi rapporti hanno creato negli anni. E qui, in questi diversi livelli magistralmente sovrapposti ed in particolar modo in quest'ultimo, quello relativo al gioco di specchi e di sentimenti irrisolti e fiocamente illuminati dalla costante sensazione della fine che si approssima inesorabilmente che sta la bravura dell'autore, il suo gioco di magia. Non fatevi ingannare dal titolo, nè dalla trama a grana grossa: non è un libro sugli scomparsi. Potremmo sostituire gli scomparsi con gli annegati, o con i fantasmi, o con i ricordi di un vecchio cimitero indiano o con l'ossessione per gli ufo, e otterremmo esattamente lo stesso risultato: un ottimo libro su un figlio che guarda la madre spegnersi e fare, a suo modo, i conti con la propria esistenza, e su una madre che sta per morire e che vuole, in un suo modo contorto ma carico di amore, salvare suo figlio dalla sua stessa esistenza (esistenza perduta, o in avanzato stato di perdizione). Per questo nella presente recensione compare spesso l'avverbio "apparentemente", perchè può sembrare spesso che si parli di qualcosa, di qualcosa di misterioso, o di terribile, o di tragico, o semplicemente di tedioso e mediocre, ma in realtà è di una madre e di suo figlio che si sta ragionando, e di come tutti e due si pongono davanti alla morte, affinchè la morte stessa doni un senso non solo a loro, ma soprattutto al loro rapporto genitore-figlio, a tutto quello che è stato e che, di lì a poco, non sarà mai più.

Scott Heim è nato ad Hutchinson, nel Kansas nel 1966. Crebbe in una piccola comunità di agricoltori, e in seguito frequentò l'Università del Kansas a Lawrence, dove si è laureato in inglese e storia dell'arte nel 1989, per poi conseguire un master in Letteratura inglese nel 1991. In seguito frequentò un corso di scrittura alla Columbia University, periodo durante il quale ha scritto il suo primo romanzo, Mysterious skin, pubblicato da Harper & Collins nel 1995 e seguito, due anni dopo, da una seconda opera di narrativa, In Awe.

Egli è anche autore di un libro di poesie del 1993, Saved From Drowing.

Da Mysterious Skin è stata tratto un dramma teatrale che ha esordito a San Francisco; successivamente, nel 2004, ne è stato ricavato un film dal regista Gregg Araki, prodotto dalla Antidote Films. La pellicola fu presentata alla Mostra del cinema di Venezia con grande successo di critica e pubblico. L'opera ha dovuto attendere dieci anni prima di ottenere una pubblicazione in Italia, pubblicato dall'editore indipendente Playground specializzato in letteratura gay, nella collana Liberi & Audaci

Tanto le opere di narrativa, quanto i saggi e le recensioni scritti da Heim trovano frequente collocamento nelle principali riviste di letteratura americane.

giovedì 29 agosto 2013

Modi di tornare a casa, di Alejandro Zambra, Mondadori editore

Alejandro Zambra scrive bene, è fuor di dubbio, ma si ha sempre l'impressione che si trovi a scrivere lungo una china rischiosa che separa il futile (ed il volatile, il poetico) dall'essenziale. Mi spiego, o almeno ci provo. Ha quella capacità metapoetica di rivoltare le frasi come calzini e reimpostarle ad effetto, come se, così facendo, avesse trovato la formula giusta per scoprire una qualche essenziale verità che se ne sta acquattata e nascosta dietro la realtà, alle spalle delle parole che la realtà compongono. Tutto questo con una scrittura elegante, moderna, fluida e accessibile. Non per niente è uno dei giovani scrittori più promettenti del Cile e dell'America latina (Granta dixit). Poi, però, se ci pensi a fondo, se levi dalla superficie l'effetto ipnotico lasciato dallo stile e dal ritmo, e ti domandi se davvero, dopo averlo letto, ne sai di più, se realmente ti ha portato per mano in territori di cui ignoravi l'esistenza, o che immaginavi fossero reali, da qualche parte, ma non avevi idea di come fare a raggiungerli, ecco, in quel momento ti viene il dubbio. Non è una certezza, beninteso, è una titubanza che ti frena un attimo prima di consacrarlo, anche solo con te stesso, nell'intimità della tua testa, come un grande. Per un attimo, un attimo lungo, lunghissimo al limite della non finitezza, ti resta l'impressione di essere stato preso elegantemente per il culo. O, per meglio dire, di essere stato il protagonista di un gioco di prestigio al quale non sapevi neppure di assistere. Il protagonista è presumibilmente l'autore, che ricorda la notte in cui si trovò con la propria famiglia e con tutte le famiglie del rione e di Santiago del Cile per strada, ad aspettare che la successiva scossa di terremoto spazzasse definitivamente via le loro case, le loro vite, la città e, con gli occhi di bambino, l'universo intero. La notte in cui conobbe Claudia, la nipote di Raùl, il vicino di casa single, presunto democristiano, silenzioso e, a suo modo, misterioso (misterioso nel suo non essere misterioso, ma solo riservato, apparentemente). Quello è il punto che Zambra sceglie per portare avanti una sua personale riflessione su sè stesso, sulla sua famiglia e sulla storia del suo paese. Qui però, al contrario del libro di Pron (Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia), che toccando diversi registri e dilungandosi in elenchi lunghissimi ed apparentemente superficiali rimane però ossessivamente legato ad un'indagine meticolosa e drastica, la storia va sfilacciandosi, rimanendo in superficie e solo di tanto in tanto affondando (o dando l'impressione di farlo) secondo quella tecnica del calzino rivoltato citata in precedenza. Il protagonista, bambino, viene incaricato da Claudia - che non è proprio amica in quanto più grande, non è per nulla fidanzatina nè altro - di seguire lo zio e di farle rapporto settimanalmente. Poi, saltiamo temporalmente e, senza aver scoperto nulla delle motivazioni e delle conclusioni di quell'indagine, ritroviamo il protagonista adulto, con un matrimonio alle spalle che cerca tanto disperatamente quanto passivamente di rimettere in piedi (se non il matrimonio vero e proprio, la relazione con la moglie). Conosciamo la famiglia di lui, persa in una strana immobilità che pare averla permeata da sempre, come se sotto la dittatura quell'immobilità, quell'atarassia che sfiorava (o sfociava ne) l'ignavia avesse consentito la sopravvivenza stessa della famiglia, senza scossoni apparenti, traumi, drammi nè morti. Se nel libro di Pron la mancanza di senso dell'esistenza del figlio viene sublimata dalla lotta e dalla sconfitta dei genitori (e quindi il suo raccontarla diventa atto a sua volta dovuto, e portatore di senso), qui l'assoluta mancanza di ideali e di posizioni del padre lascia il protagonista senza nulla da dire, senza nulla da scrivere nè da raccontare se non scampoli confusi della propria vita per lo più insignificanti. Claudia torna, ormai adulta, anzi ritorna dagli Stati Uniti e intrattiene una relazione per lo più anafettiva col protagonista, ma è lei la vera protagonista del romanzo, è lei che torna per spiegare e per raccontare la sua storia, la storia della sua famiglia al protagonista, perchè a sua volta la racconti, ma sà già che è così non avverrà, perchè non sarà la sua storia ad essere raccontata, ma quella dell'autore. In realtà, arriviamo a conoscere per sommi capi la storia di Claudia e ci chiariremo diversi punti interrogativi lasciati in sospeso all'epoca in cui lei e il protagonista erano bambini, ma questo, che dovrebbe essere il centro pulsante della narrazione, e il punto da cui tuffarsi ed immergersi in un mare più grande, più profondo e certamente più oscuro, rimane invece semplicemente una parte, una porzione, annegata nelle elucubrazioni un tantino troppo esistenzialiste (troppo manieristicamente esistenzialiste) del protagonista, che si barcamena tra rapporti da cui non riesce ad ottenere risposte definitive. Non le ottiene dalla (ex) moglie e non le ottiene dal padre, e neppure le ottiene dalla stessa Claudia. L'impressione che rimane è quella di una fotografia sfocata, ma non perchè i soggetti siano in movimento, quanto perchè il fotografo non ha avuto mano ferma, un quadro d'insieme fuori fuoco che ci rimanda una scena un po' cupa se non proprio triste. Eppurtuttavia una foto che ha un suo fascino, che ci cattura a studiarla, a domandarci fino a che punto i suoi difetti sono voluti e dove invece sono effetto della strategia compositiva del fotografo.

Alejandro Zambra è nato nel 1975 a Santiago del Cile, dove vive. Poeta, narratore e critico letterario, insegna letteratura all'università Diego Portales e scrive per il supplemento "Babelia" di "El País" e per la rivista messicana "Letras Libres". Il suo primo romanzo, Bonsai (Neri Pozza 2007), ha vinto il premio cileno della critica. Nel 2010, Zambra è stato segnalato dalla rivista "Granta" come uno dei migliori giovani narratori di lingua spagnola.

Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, di Patricio Pron, Guanda editore

  Ci sono paesi in cui i figli non sono altro che la rivincita dei genitori rispetto alle loro sconfitte, o forse lo sono dappertutto, in ogni parte del mondo, in ogni epoca. In Argentina più che in altri posti, i giovani uomini e le giovani donne di oggi sono questo, e o prima o dopo devono farci i conti. Sono i figli di una generazione che ha intrapreso una guerra, una generazione che ha perso una guerra, anche se alla fine i dittatori sono caduti e la democrazia è stata ripristinata. Una generazione di sconfitti, spaesati, abbattuti, sferzati dalla storia e dai suoi mostri, e chi ne è uscito vivo non ha potuto fare altro che perpetuare quell'esistenza che ha messo a rischio così sfacciatamente, seppur spesso nella clandestinità, forse in maniera meccanica, seguendo il richiamo dell'istinto e null'altro. Il protagonista del romanzo di Pron è uno di questi figli della dittatura. Vive in Germania, a furia di ingurgitare pastiglie ha praticamente rimosso buona parte della propria memoria e quando gli viene comunicato che suo padre, in Argentina, sta male ed è in pericolo di vita, decide di tornare in quel paese col quale otto anni prima aveva tagliato i ponti, lasciandoselo alle spalle come qualcosa di morto e maleodorante, o moribondo e maleodorante. Il padre, Chacho, è in ospedale seppellito sotto una forma di mutismo comatoso. La casa è divenuta un corpo estraneo per il protagonista, un corpo che si è conosciuto e poi si è voluto dimenticare e dal quale si è fuggiti, mettendo chilometri da esso. La madre e i fratelli sono fantasmi che emergono enigmatici da un passatto che è fatto di nebbie e di silenzi, di brandelli di ricordi e di enormi ellissi di oblio. Il padre, inchiodato nel letto d'ospedale e, più simbolicamente, in un non luogo dove nessuno ha possibilità di raggiungerlo, è il fulcro degli interrogativi muti che vorticano nella testa del protagonista. Giornalista, padre e marito, protagonista di brevi scene strappate all'oscurità della dimenticanza, e ora corpo immobile e inconcosciente incapace di percepire la presenza del figlio. Il protagonista, presumibilmente Pron stesso, s'imbatte nello studio del padre in una serie di cartelle stipate di stralci di articoli sulla scomparsa di un tale José Alberto Burdisso, detto Burdi, sessantenne semplice e innocuo , dipendente presso il club Trebolense, dedito a lavori umili e manuali. La scomparsa era presto divenuta un caso che aveva inquietato e appassionato la città, in maniera forse inspiegabile. Soprattutto Pron (Pron protagonista) non riesce a spiegarsi l'interesse del padre per la scomparsa di un uomo che non aveva nulla in comune con lui (se non aver frequentato alcune classi insieme, a scuola, da bambini), e niente di affascinante nella propria biografia. Tutta la parte centrale del libro è un'analisi accurata e pedante del contenuto delle cartelle del padre, fino a conclusione della storia della scomparsa di Burdisso e della sua terribile risoluzione. Un particolare emerge dall'indagine e ci trasporta nella terza ed ultima parte: la sorella di Burdisso, Alicia, era scomparsa durante la dittatura, desaparecida, presumibilmente uccisa. 
  Ma chi era Alicia, perchè era collegata a quel padre sospeso in uno stato di non vita in una stanza anonima di un ospedale, perchè tra tanti desaparecidos lei era importante, la scomparsa del fratello aveva qualcosa a che vedere con quella di Alicia, anni prima?
  Il protagonista si trova di fronte all'evidenza brutale e sottile che non potrà conoscere realmente il padre, e quindi non potrà capire sè stesso e il suo senso nel mondo, se non vincerà la sua amnesia e non indagherà nel passato, suo, della sua famiglia e di Alicia Burdisso.
  La soluzione della sua indagine sarà ciò che chiunque si potrebbe aspettare se solo ci pensasse, ma riflettere sul passato, su quel certo passato, è un atto che fa tremare i polsi, perchè il passato, per definizione, non esiste ma, pur non esistendo, proietta la sua ombra sul presente e con l'ombra pone le basi per dare un senso al presente. Qual'è quel senso, per il protagonista, e dunque qual'è la sooluzione della sua indagine?
  Nel quantità spropositata di romanzi argentini sul periodo della dittatura, il romanzo di Pron è una lama elegante che affonda nei recessi meno evidenti dell'abisso di dolore che quegli anni hanno provocato, nei rapporti famigliari di chi è sopravissuto, nella proiezione del senso ostinato di sconfitta che una generazione trasmette, suo malgrado, a quella dei figli, nel senso di spaesata inutilità di quei figli che si ritrovano annegare in un mare di silenzi, di accenni involontari, di indizi disseminati più o meno volontariamente perchè qualcuno un giorno li individui, e li metta insieme, e infine ne racconti la storia.
  Un romanzo lento, scritto con la perizia di un anatomista nel descrivere sentimenti che non possono essere esplicitati, che racconta le conseguenze del male e come queste conseguenze si propagano come onde di generazione in generazione, mutando forme ed intensità ma rimanendo sempre uguali a sè stesse nella domanda di fondo. Un romanzo, quello di Pron, che senza voler essere consolatorio, è a sua volta una risposta, seppur imperfetta e dolorosa, a quella domanda che il romanzo stesso pone, instaurando un gioco di specchi e di dolori che in essi si riflettono che si comprende appieno solo alla fine. Certi mali, e con essi certe sconfitte, acquistano un senso solo se qualcuno trova la forza, la pazienza ed il coraggio di narrarli. Chi assolverà questo compito dolente, non si salverà, nè cambiera la propria vita e tantomeno il corso della storia: ma darà un senso ad Alicia, e a Chacho, a chi è morto e a chi è rimasto vivo senza più nemmeno la forza di raccontare.


Patricio Pron ha conseguito un dottorato in filologia romanza all'università di Gottingen e attualmente vive a Madrid, dove lavora come traduttore e critico letterario. E' autore di racconti (Hombres infames; El vuelo magnifico de la noche; El mundo sin las personas que lo afean y lo arruinan; Trayendolo todo de regreso a casa e La vida interior de las plantas de interior) e romanzi (Formas de morir; Nadadores muertos; Una puta mierda; El comienzo de la primavera e appunto il libro qui recensito: El espiritu de mis padres sigue subiendo en la lluvia) che hanno ricevuto numerosi premi.

Un interessante articolo su Pron lo trovate qui, dal blog delle edizioni Sur.

Il blog di Patricio Pron lo trovate qui (blog sul quale abbiamo l'onore di essere ospitati con un link nella sezione resena , vale a dire recensioni, esattamente qui: un grazie di cuore all'autore, Patricio Pron)






domenica 18 agosto 2013

L'infermiera Wolf e il dottor Sacks, di Paul Theroux, Baldini Castoldi Dalai editore

  Il punto di forza di questo breve libro è, al contempo, il suo limite. Diciamo la brevità, ma non in quanto tale, ma perchè Theroux condensa in poche pagine un materiale che avrebbe meritato spazi ben più ampi e una trattazione approfondita che ne scandagliasse i vari gangli e le implicazioni che, evidentemente, saltano agli occhi del lettore. Ma questo, forse, è anche il bello del libro. Il lettore (io sono in questo caso il lettore perfetto, vergine, essendo la prima opera che leggo di Theroux) si trova infatti ad essere lasciato solo di fronte ad una serie di bivi che non vengono esplorati dall'autore, ma che vengono evidenziati in maniera esplicita, di modo che sia il lettore (io, o voi) a lanciare la propria immaginazione a briglia sciolta a continuare la strada lasciata a metà dalla narrazione. Per quanto semplice possa sembrare, lo considero un classico - e ben riuscito esempio - di meta-libro, che può essere l'inizio di un percorso che ne evidenzi la natura di semplice tessera di un puzzle o, appunto, per chi già fosse intimo dell'opera di Oliver Sacks, un'ennesima pedina nel panorama di una partita più ampia, che qui viene solo lasciata indovinare. Il libro è schematico nella struttura e affabulatorio nello stile. E' una chiacchierata tra amici seduti ad un tavolo di un caffè, Theroux parla e gli amici siamo noi, che lo ascoltiamo rapiti, a volte divertiti, a volte rabbuiati dal suo incedere nel racconto. Una chiacchierata tra amici intellettualmente stimolanti (questa è una delle caratteristiche del successo di Theroux, credo, il lasciare nel lettore l'impressione di essere intellettualmente al suo livello, mentre è lui che si abbassa al nostro). La prima parte è il resoconto dell'amicizia dell'autore con l'infermiera Wolf, una famosa (almeno nell'ambiente sadomaso di Manhattan) dominatrice, o padrona che dir si voglia. Una signora che viene pagata per soddisfare le fantasie più strambe e spesso sinistre dei propri clienti. L'infermiera Wolf spiega, dettagliatamente, il suo lavoro, non solo o non tanto nella descrizione visiva di ciò in cui consistono i suoi trattamenti, a seconda che siano persone che vogliono farsi riempire di botte, essere trattati come neonati, usati come wc, ecc, ecc, ecc, quanto nello spiegare cosa stia sotto tutto questo, e il rapporto vero e proprio che si crea tra lei, che regge i fili del gioco, e i clienti. Theroux è abile a non scadere nella pornografia, ma a seguire i ragionamenti e le implicazioni che la Wolf snocciola con una innocenza che lascia sbalorditi noi abitanti del mondo cosiddetto normale, con un candore che non scade mai nella stupidità o, peggio, nella caricatura della stupidità, l'idiozia. Non è una cavalcata selvaggia nel lato oscuro del desiderio umano, quanto un lento blues, una chiacchierata appunto, una graduale analisi informale di quel lato oscuro che ci ostiniamo a considerare altro da noi. In sottofondo, lasciate appunto alle nostre elucubrazioni personali, le domande sul perchè, sulle motivazioni o i traumi che possono portare a certe fantasie.
Poi cambia tutto, e troviamo Theroux che ci parla di e parla con Oliver Sacks,(che, a volte nei suoi lavori di divulgazione scentifica, si firma Oliver Wolf - Wolf appunto) l'autore di L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Un antropologo su Marte e altri titoli di divulgazione neurologico-scentifica che sfociano felicemente nella narrativa di qualità. L'ammirazione dell'autore per Sacks è più che evidente - è esplicita -, e risulterebbe quasi fastidiosa se il libro non continuasse a mantenere un tono confidenziale che lo esime da qualsiasi terzietà (pseudo)scientifica. Ascoltiamo le storie di Sacks e dei suoi pazienti, ne incontriamo alcuni. Lasciamo che nascano domande in noi sulle quali non avevamo mai riflettuto, o che avevamo da tempo messo da parte e dimenticato. Tra le tante microstorie che ci vengono offerte con garbo, come da un ospite premuroso, penso che sia doveroso riportare la più spaventosa di tutte. Quella di un medico, direttore di una clinica pischiatrica: l'uomo raggiunge l'età della pensione e si ritira, ma dopo pochi anni sbrocca di testa e viene ricoverato nella medesima clinica da lui precedentemente diretta. Un giorno prende un camice, lo indossa, e torna a credersi medico. Entra nel suo vecchio ufficio e si mette ad analizzare le cartelle dei pazienti. Ne trova una che valuta come particolarmente critica, "Questo è messo male", esclama, legge il nome sull'intestazione della cartella, ed è il suo.
  Vi verrà voglia di fiondarvi a leggere qualcosa di Sacks (come ho fatto io), e di Theroux, perchè questo piccolo pamphlet, è interessante, affascinante, affabulatorio, e ha di unico questo particolare, nella sua imperfezione: essere una parte di un tutto più grande, di rappresentare solo uno stralcio di quella più ampia conversazione tra intelletti elevati e stimolanti che è il magma di opere dei due autori, e di altri - di infiniti altri - che è la letteratura. Un rimando continuo e perenne a qualcosa che completa qualcos'altro e che da altro ancora deve essere completato.

Paul Edward Theroux è nato nel 1941 a Medford, Massachusetts. Figlio di un franco-canadese e di un’italiana, ha studiato scrittura creativa all’Università del Maine, si è specializzato a Syracuse e a Urbino e si è trasferito in Africa, dove ha insegnato e preso parte a missioni umanitarie. Ha scritto per numerosi settimanali e mensili, tra cui «Playboy», «Esquire» e «Atlantic Monthly». Ha pubblicato diversi romanzi e molti saggi sul tema del viaggio. Per Baldini Castoldi Dalai editore sono usciti: Ultimi giorni a Hong Kong, Il Gallo di Ferro, O-Zone, Hotel Honolulu, L’infermiera Wolf e il dottor Sacks, L’ultimo treno della Patagonia e Mosquito Coast.