"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 30 novembre 2018

Mostri che ridono, di Denis Johnson, Einaudi editore, trad. Silvia Pareschi

Il libro si apre a Freetown, in Sierra Leone, dove Roland Nair e Michael Adriko si ritrovano, su invito, peraltro piuttosto misterioso, di quest'ultimo. Da questo momento in poi comincia una corsa folle, selvaggia e un tantino demente nel cuore nero dell'Africa e dell'uomo. Il narratore è Roland Nair, capitano di un'agenzia d'intelligence della Nato, danese ma di passaporto statunitense, bianco. Con l'avanzare delle pagine capiamo che ha una missione, probabilmente legata a Michael Adriko, soldato, avventuriero, nero, suo amico e compagno di ventura in Afghanistan e in altre guerre sparse per il globo. Trama qualcosa Nair, incontra personaggi sinistri, si guarda le spalle da personaggi altrettanto sinistri, beve, paga prostitute e lascia che la follia africana torni a fluirgli nelle vene, come ai vecchi tempi: un afflusso di follia che gli mancava, che gli dona ossigeno. Vecchie conoscenze lo mettono in guardia e in diversi gli sussurrano che Michael è tornato, e che Michael ha disertato. Si muove in hotel "di guerra", sgangherati, portatori di una presunta opulenza forse mai appartenuta nemmeno ad un passato lontano, privi per gran parte del tempo non solo del wifi ma anche della corrente elettrica, abitati da personaggi obliqui, figure bidimensionali che, anche qualora non lo fossero, appaiono essere pedine di un gioco più grande di loro, spie, giornalisti, affaristi, avventurieri, truffatori, tutti vaganti tra le hall, le piscine e le stanze di alberghi che ricordano cattedrali nel deserto perennemente a rischio di crollare su sé stesse. Ogni personaggio, che è impossibile sapere se sia un'agente al soldo di qualche potenza straniera o un semplice fallito in cerca di una fine misericordiosa e in fuga da sé stesso, e che probabilmente è entrambe le cose al contempo, è un'ombra ritagliata dalla realtà che lo circonda; sono esseri slegati, slogati dalla società - da qualsiasi società - lontani da qualsiasi legame famigliare o amicale, sono anime in preda ad una costante rotazione che li costringe all'immobilità, nella perenne attesa dell'attimo in cui scatenare l'inferno, nel quale cambiare direzione alla propria vita e fottere il destino, un istante che pare rimanere un punto lontano sull'orizzonte ottico impossibile da raggiungere. Nair, dicevamo, ha una missione, e sta tramando qualcosa. Si muove circospetto, come una spia, entra in negozi/bazar da quattro soldi e attraversa porte che non dovrebbero esserci per trovarsi in piccoli centri informatici dove poter inviare e ricevere messaggi non intercettabili. Scrive ad una donna, Tina, che si trova da qualche parte nel mondo civilizzato, che in qualche maniera gli sostiene il gioco, ancora non sappiamo quale. Nella narrazione si avanza per allusioni, le carte si scoprono poco alla volta, l'andamento è circospetto, la realtà una costante minaccia che, però, non si manifesta mai. Poi, sulla scena irrompe Michael Adriko, e d'un tratto il ritmo cambia (si innalzano ritmi ossessivi, tamburi tribali, la realtà diviene presto allucinata ed allucinante), e così anche il narratore, in prospettiva, si svela, almeno in parte. La missione, innanzitutto, di Nair: deve recuperare notizie su Adriko, su dove si trovi e su cosa abbia in testa, perché in effetti è come gli era stato suggerito da quando è giunto a Freetown: Adriko ha disertato. Ma se Nair è ancora per molti versi indecifrabile, ma guardingo, Adriko è l'incarnazione stessa della disperata follia africana, un turbine perenne, instabile, veloce, spavaldo, incapace di intercettare in sé stesso e nel mondo un qualche centro di gravità (fosse anche temporaneo e approssimato). Michael non è solo. Lo accompagna una donna bellissima, quantomeno agli occhi di Nair: Davidia, la fidanzata numero 5, la sua futura sposa. E' per questo che Michael ha chiamato a sé l'amico, perché vuole tornare al suo villaggio natale, dalla sua gente, a presentare la sua sposa, avere la loro benedizione e sposarla. Vuole fermarsi a cinque, dopo Davidia stop, nessun altra donna. Ma c'è dell'altro. Cosa sia questo "altro" Adriko non è però disposto a rivelarlo, non subito ("seguiranno altre rivleazioni"). Da qui comincia un altro viaggio, verso il villaggio della famiglia di Michael Adriko, verso il centro della sua pazzia (apparente o reale che sia, fa poca differenza), verso lo svelamento del suo piano demenziale e pericoloso, verso il centro nevralgico della loro amicizia (ma è realmente amicizia? o è altro? o, semplicemente, non è?), verso il cuore nero del Continente Nero, un cuore cieco e violento per il quale la vita conta come uno sbuffo di sabbia sollevato dal vento secco e feroce. Mostri che ridono, è un libro oscuro e disperato che però, a tratti, come le lame di luce della jeep impazzita nella notte guidata da Adriko, è illuminata da un'ironia che pare arrivare direttamente dalla fine del mondo, o dalla fine dei tempi o, per essere più precisi, da quell'attimo prima che la fine si manifesti, quell'attimo che ha già perso ogni speranza di salvezza e vanta come unica risorsa quella di dilatarsi, a ritardare la fine. La violenza, l'infanzia tragica di Adriko, la sete di denaro, l'uranio, il Mossad, la mancanza di scrupoli, le truffe, i commerci illegali, la morte, la natura cangiante, vivace e oscura, la fame e la ricchezza divise a volte solo da un fendente tra le costole o da una bugia ben riuscita, ogni aspetto di questo libro si contorce nella parte oscura dell'essere umano. Nulla è sacro, non esistono valori, e quelli che vengono intesi come tali sono solamente brandelli di follia gettati in pasto all'ignoranza della gente. L'Africa narrata da Johnson (da leggere anche La guerra civile all'inferno, in Cronanche anarchiche, sempre di Johnson, per Alet ed.) è una terra dove l'illuminismo non è mai arrivato, dove il pensiero razionale occidentale non solo non ha alcun valore ma rappresenta oltretutto un impaccio di cui è bene liberarsi in tutta fretta. Nemmeno i valori cristiani vi hanno attecchito e, apparentemente, almeno agli occhi di un occidentale, non esiste alcun sistema di valori decifrabile: è il caos, l'anarchia primordiale, terra devastata da guerre senza senso e senza quartiere, corpo da depredare prima che si secchi definitivamente, e Adriko è esattamente la raffigurazione sotto sembianze umane della sua terra. E' una figura difficile da inquadrare e altrettanto impossibile da dimenticare: anche fisicamente, una forza della natura, una macchina per uccidere, un corpo enorme e muscolato che ciondola da un posto all'altro, che scatta all'improvviso, che uccide e viene ucciso (simbolicamente più volte, anzi, continuamente: forse viene ucciso ogni giorno fin dall'infanzia), è così eccessivo da rasentare il divino, ma un divino folle, capriccioso, infantile, coraggioso e stupido, capace di credere all'oscuro mondo spiritico africano e ingenuo al punto da mettere in piedi un piano al limite del demenziale, impossibilitato dalla sua stessa natura ad immaginare (e tantomeno a pianificare) un futuro (infatti quando ci prova scatena una sorta di apocalisse). Johnson, scrittore morto nel 2017, di talento cristallino, riesce con uno stile essenziale e diretto (il suo maestro è Raymond Carver) a mettere in mostra un continente (e quindi un mondo e quindi un universo narrativo) in preda ad un'anarchia primordiale, allucinata, nel quale l'unica legge possibile è la pura e semplice forza vitale, amorale, immorale, dannata, quella spinta che porta comunque a rialzarsi, a correre, ad uccidere, a soffrire per poter immagazzinare un ultimo respiro, a tradire e a sopportare il tradimento, ad amare, o ad illudersi di farlo, solo per assaporarne l'impossibilità, a scopare chiunque, a viaggiare, a scappare, a bere, a fottere e, soprattutto, a fottersi. Il resto, la realtà, quella che conosciamo, il mondo civilizzato, almeno all'apparenza, qui, in questo libro, non esiste, è chiuso fuori, è un'eco lontana che racconta di qualcosa di luminoso e pulito e sferico, qualcosa che, per gli abitanti di questa narrazione, non può che apparire come una fantasia. Johnson, che attualizza Cuore di tenebra, di Conrad, con questo libro punta al centro dell'anima malata del mondo e, ancora più a fondo, all'assurdità del reale, alla mancanza dimensionale dell'esistenza, è una cavalcata violenta, di due antireoi che si scagliano attraverso la notte più scura senza nemmeno avere la speranza di uscirne a vedere l'alba, tra la paura e l'arroganza, il ghigno di fronte all'abisso, l'unico desiderio che si possono permettere è quello di continuare a correre nella notte. Cadere, rialzarsi e ricominciare a correre. Perché fuori da lì, da quella bolla di buio, in realtà non c'è niente. O rischia di non esserci nulla, come Tina, che rimane un nome scritto sulle intestazioni delle mail e delle lettere. Il buio, poche lame di luce, lame assassine di morti senza colpe, e la corsa, i muscoli che servono per la corsa, i polmoni che si chiudono a libro in cerca di ossigeno per correre, fino alla fine, fino all'ultimo. Seguiranno altre rivelazioni.

Denis Johnson è nato nel 1949 a Monaco di Baviera e cresciuto tra le Filippine, il Giappone e Washington, al seguito del padre, un impiegato del Dipartimento di Stato che teneva i rapporti tra la diplomazia e la Cia. Ha studiato scrittura all'Università dell'Iowa, seguendo le lezioni di Raymond Carver. Molti anni dopo anche Johnson vi insegnerà. Pubblica il suo primo libro di poesie a diciannove anni, ma Angels, il suo primo romanzo, uscirà solo quattordici anni più tardi: la sua giovinezza è segnata dall'abuso di di droghe e alcol. Solo dopo essere tornato a casa dai suoi e essersi disintossicato riprende il suo percorso di scrittura che raggiunge la sua piena maturazione con la raccolta Jesus' sondel 1992 (nel 2006 la New York Times Book Review la indica tra le opere più importanti degli ultimi 25 anni). Con Albero di fumo (2007) vince il National Book Award ed è finalista al Pulitzer, così come con la novella Train Dreams. E' unanimemente considerato uno dei grandi della letteratura americana.
  In italiano sono tradotti:
Angeli (Feltrinelli, 1987), Fiskadoro, (Feltrinelli, 1988), Albero di fumo (Mondadori, 2009), Nessuno si muova (Mondadori, 2010), Train dreams (Mondadori, 2013), Mostri che ridono (Einaudi 2016), Jesus' son (Einaudi, 2000 e 2018), e la raccolta di reportage Cronache anarchiche: dall'America e dal mondo (Alet, 2004)

domenica 28 ottobre 2018

Ufo: Operazione cavallo di Troia, John A. Keel, Meb Edizioni, Trad. Franco Ossola (1975)

John Alva Keel (New York, 25/3/1930 - New York 3/7/2009) è stato un giornalista appassionato di mistero, influenzato dal genere fortiano (vedi Charles Fort) si è dedicato dapprima a vari fenomeni inspiegabili (Jadoo, 1957) e in seguito si è dedicato all'ufologia. Dapprima sostenitore dell'ipotesi extraterrestre, in seguito alle sue indagini coniò (in maniera più o meno contemporanea ad altri autori tra i quali è imprescindibile citare lo scienziato Jacques Vallée) quella che oggi è conosciuta come "ipotesi parafisica". Cosa sia questa ipotesi lo spiega già questo suo primo libro di ufologia (chiamiamolo così per comodità anche se lui non amava definirsi "ufologo", bensì "ricercatore di fenomeni paranormali" o "demonologo"). L'autore, interessatosi al fenomeno ufologico in seguito ai cosiddetti "flap" (ondata di avvistamenti) che periodicamente attraversavano gli Usa, per quattro anni studia approfonditamente il fenomeno, verifica dati, elabora schemi, confronta orari e coordinate geografiche, disegna vettori (l'ipotesi che gli ufo si muovessero lungo linee definite fu anche dello studioso Aimé Michel, ma venne in seguito smentita da nuovi dati) e, soprattutto, verifica quanti più casi possibili intervistando personalmente i testimoni. Seguendo questa ricerca e attenendosi rigidamente alle regole deontologiche che si era autoimposto, Keel si trova di fronte un quadro di eventi assai diverso e molto più complesso di quello che normalmente viene esposto e studiato dagli ufologi della cosiddetta corrente "extraterrestre". Si rende conto che molti dati che non collimano con tale ipotesi, dati ed eventi che sono apparentemente assurdi e non di rado comici, vengono abitualmente scartati dagli ufologi tradizionali. In poche parole tutto ciò che non si riesce ad inserire nell'ipotesi di visitatori che giungono dallo spazio, viene sovranamente ignorato dall'ufologia classica in voga fino a quel momento. Keel, al contrario, annota tutto, e lo valuta. Nascono così i Men in black. Vale a dire che Keel si rende conto che nei resoconti di molti testimoni compaiono personaggi sinistri, dalla pelle grigiastra, dai tratti orientaleggianti, spesso vestiti in completo nero (alla Blues Brothers, per intenderci) che parlano un inglese robotico, pongono domande banali e apparentemente prive di senso, che si presentano nelle case dei testimoni come appartenenti a qualche misteriosa agenzia governativa, muovendosi in maniera a volte meccanica, comunque goffa, ponendo domande a tal punto bislacche da, più o meno involontariamente, incutere timore ai testimoni. Questi personaggi ci sono sempre stati, ma il loro comportamento assurdo non permetteva di renderli credibili, pertanto venivano epurati dalle testimonianze. Keel dà loro lo spazio che meritano e li battezza in maniera imperitura (i film della serie Men in black ne sono un omaggio): soprattutto li inserisce come un tassello in un disegno più grande e complesso. Ugualmente recupera ed analizza, con metodo e passione tipicamente fortiana, episodi da giornali e da cronache del tempo passato, e in essi, sia episodi antichi che a lui contemporanei, riscontra spesso un alone assurdo non differente da quello che avvolge le apparizioni dei MIB. Alieni fermi ai lati della strada a riparare aeronavi apparentemente in panne, omini grigi perduti nella brughiera o nei boschi che, venuti a contatto con umani, pongono domande banali: chiedono l'ora, cercano spiegazioni su cosa sia il tempo, promettono informazioni essenziali per il mondo e il suo futuro per poi immancabilmente non farsi più vedere, richiamano l'umanità ad un atteggiamento più attento, soprattutto rispetto ai rischi ecologici, per poi svanire nel nulla, o su mezzi di trasporto dalle forme più improbabili. Un altro aspetto sul quale si concentra è quello degli addotti e dei testimoni e delle conseguenze fisiche e psicologiche che questi vengono a patire in seguito ai loro contatti col mondo dei misteriosi ufo. Per inciso, Keel non li chiama extraterrestri, bensì "ultraterrestri" in quanto li ritiene manifestazioni di una o più dimensioni parallele alla nostra, dimensioni nelle quali la variabile temporale non esiste (o comunque, se esiste, esiste in maniera differente dalla nostra). Ultraterrestri, esseri normalmente privi di un corpo materiale come il nostro, ma composti di energia e microonde, capaci di assumere per qualche tempo le sembianze da loro desiderate (per questo sono anche detti "mutaforma") e di adattare le loro apparizioni all'ambito culturale nelle quali decidono di intervenire. Secondo Keel infatti le incursioni nel nostro mondo da parte di questi esseri sarebbero sempre avvenute, solo che in altri periodi storici si manifestavano secondo crismi differenti, che venivano interpretati di volta in volta come apparizioni di angeli, di demoni, di folletti, di draghi, di dei, di fantasmi, di anime dei defunti e via discorrendo. Anche le cosiddette apparizioni mariane, se studiate con occhi neutri, hanno molti punti in comune con le apparizioni ufologiche, al punto da far ritenere Keel che in realtà si tratti dello stesso identico fenomeno che si manifesta sotto spoglie religiose. Quindi, il nostro sarebbe un pianeta (o, per meglio dire, una dimensione) che da sempre è stata visitata da entità ultraterrestri, capaci di influenzare la storia dell'uomo e il suo comportamento, probabilmente secondo le stesse modalità che usiamo noi umani quando monitoriamo (con microchip e telecamere) i branchi di animali selvatici. E' questo che fanno queste entità? Ci monitorano? Cercano di indirizzarci verso un futuro piuttosto che verso un altro? E perché? Quale disegno seguono? Quello che emerge dalla lettura di questo libro ormai introvabile (dall'alone mitico, così come il suo autore) è che l'essere umano, qualsiasi cosa sia, è ben lontano dall'essere il centro della creazione, forse, anche gli esseri che ci visitano sono a loro volta semplici parti poco importanti di un disegno assai più complesso ed infinitamente più vasto (e, non so perché, ma l'idea della mia - in quanto essere umano - irrilevanza assoluta nella storia del mondo e dell'universo, mi tranquillizza terribilmente). Quindi: gli dei, gli angeli, i demoni, i folletti, gli elementali sono una maschera dietro la quale si nascondono gli ufo, o gli ufo sono una maschera dietro cui si celano le varie divinità che hanno deciso la storia dell'umanità, o dietro tutto ci sono le creature del folklore, o i mostri cari alla criptozoologia? O dietro c'è altro ancora? Nei libri successivi Keel giungerà a modellare un'ipotesi sempre più chiara che prevede una forma di superspettro energetico creatore di tutte le forme che hanno in qualche maniera invaso la nostra dimensione, un superspettro in grado di connettersi ai campi energetici dei quali facciamo parte e che contengono tutte le informazioni che riguardano ogni singolo individuo (L'ottava torre, Venexia, 2017). Un'ipotesi a ben vedere non così lontana dall'idea, a noi famigliare, di un Dio onnisciente.
  Questo libro, ormai assai raro, pubblicato nel 1975 dalla torinese Meb e mai più ristampato, è un classico del mistero e dell'ufologia. Il suo autore, morto nel 2009 a quel che si dice in povertà, e conosciuto dal grande pubblico in seguito al film The Mothman prophecies, del 2002, (con contemporanea edizione in Italia del libro edito da Sonzogno) è anch'egli una figura mitica nel panorama misteriologico internazionale, anche grazie ad uno stile spiccatamente narrativo e non privo di una certa ironia che rendono i suoi libri piacevoli alla lettura ed estremamente affascinanti. Pur trattandosi di saggistica (anche se particolare), l'impressione che se ne ricava è quella della lettura di un romanzo o, per meglio dire, di infiniti romanzi e racconti del mistero. Il miracolo di Keel è che questi innumerevoli racconti di suspence (ognuno dei quali merita un libro dedicato, come in certi casi è avvenuto realmentee , come ad esempio per il caso di Khatie Davies cui è dedicato il libro Intrusi, di Budd Hopkins) si vadano a saldare in un disegno più ampio e ragionato, capace di esprimersi in una teoria chiara che pretende di spiegare "la vita, l'universo e tutto quanto".

  P.s.: Non è raro che nei suoi libri Keel racconti episodi inquietanti e misteriosi capitati direttamente a lui, anche questo particolare renderebbe la stesura di una sua biografia un evento da non perdere, per gli appassionati del genere, ma non solo. C'è, nei libri di Keel, e più in generale in certi libri di ufologia, una riserva di capacità narrativa incredibile che soltanto un pregiudizio generalizzato nei confronti dell'argomento trattato impedisce di venire a galla in tutto il proprio potenziale.
  Nel caso di Keel, come mi è capitato di fare per altri autori, mi nasce una preghiera: traducete il resto dei suoi libri: JadooOur haunted planet, The flying saucer subculture, The cosmic question, Disneyland of the gods,  

Keel (New York, 1930-2009) ha manifestato precocemente la sua inclinazione verso la scrittura ed ha pubblicato il suo primo racconto all'età di 12 anni. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente, pubblicando articoli su vari quotidiani, e come soggettista per stazioni radio locali.
Durante la guerra di Corea ha prestato servizio militare nell'U.S. Army entrando a far parte dell'American Forces Network a Francoforte. Dopo la guerra ha lavorato come corrispondente radio a Parigi, Berlino, Roma e in Egitto.
Nel 1957 ha pubblicato il libro Jadoo, in cui descrive le sue investigazioni effettuate in Egitto e in India su trucchi magici e fenomeni strani, come il trucco della corda indiana e il leggendario yeti. Nel 1966 scrisse il suo secondo libro, The Fickle Finger of Fate, una storia di spie e supereroi.
Influenzato dagli scritti di Charles Fort, cominciò a interessarsi di ufologia e fenomeni paranormali; prese parte a varie investigazioni su tali fenomeni e cominciò a scrivere articoli sulla rivista Flying Saucer Review.
Nel 1967, Keel coniò il termine Men in black in un articolo scritto per la rivista Saga Magazine e intitolato "UFO Agents of Terror" (UFO agenti del terrore).
Nel 1970 scrisse il suo terzo libro, il primo di argomento ufologico, intitolato UFOs: Operation Trojan Horse. Nello stesso anno pubblicò anche il volume Strange Creatures From Time e Space, mentre nel 1971 scrisse il libro Our Haunted Planet.
Nel 1975 pubblicò il libro The Mothman Profecies, basato sulla sua investigazione relativa ai presunti avvistamenti di una strana creatura chiamata uomo falena. Dal libro venne tratto un film con lo stesso titolo, uscito nel 2002.
  In Italia sono stati editi:
- Ufo: operazione cavallo di Troia, Meb, 1975
- Creature dall'ignoto, Fanucci, 1978
- The mothman prophecies (Il caso mothman), Sonzogno, 2002
- L'ottava torre, Venexia, 2017

lunedì 9 luglio 2018

Lascia fare a me, di Mario Levrero, La Nuova Frontiera, trad. di Elisa Tramontin

  Ci sono autori che vorresti immortali, e sempre al lavoro: Mario Levrero, uruguayano, eccentrico, classe 1940, per quel che mi riguarda, è uno di questi. Il perché non è ben chiaro neppure a me. Perché, con gli scrittori come Levrero non sai che pesci pigliare o, per meglio dire, rischi di rimanere a mani vuote perché ci sono troppi pesci che ti saltano attorno scivolando fuori dall'acqua, ma sono entità scivolose, veloci, guizzanti, a volte hai il dubbio che siano invisibili: vorresti agguantarli tutti ma rischi di non acciuffarne nemmeno uno. Perché Levrero è semplice ed evidente e al contempo complesso e sfaccettato; perché riesce a catturarti l'anima ma non capisci come diavolo abbia fatto, perché racconta storie minimali, quando non minime, eppure ti rendi conto che lo fa descrivendo un mondo che, diamine, sembra davvero il tuo. Quando parlo di "mondo descritto" intendo "mondo interiore". Eppure non ha l'aria di voler essere introspettivo, non è pesante, al contrario, sa essere parecchio divertente ma, questa sua apparente svagatezza, nasconde dei contrappesi nascosti che è complesso identificare: la sua scrittura va a toccare certe corde che pochi riescono anche solo a sfiorare e a costo di mettere in piedi complicate strutture narrative, miriadi di personaggi, psicologismi cadenzati ed eventi tragici. Levrero no, Levrero passeggia. Passeggia e descrive, passeggia e descrive senza porre distinzione tra il paesaggio esterno e quello interiore. Non ha pudore a mettere in piazza paure, debolezze e villanie.
  Provo a citarlo. Qui parla un vecchio incontrato per strada dal protagonista, herr Jrrsch, un tipo strampalato che fotografa le ragnatele e parla più o meno come Vujadin Boskov:

Vede? Gente dice: ragno tesse tela. Io dico: tela tesse ragno. Gente crede tessere vita, ma vita tesse gente. Tutto collegato. Lei scrive racconto, ma racconto scrive lei; cerchiamo causa in tempo passato, ma molte volte causa in tempo futuro. Confondono causa effetto.

  C'è una produzione di Levrero che è strettamente legata alla fantasia, al debordare da qualsiasi forma di cliché, e che in Italia, per ora, ha visto come unica traduzione quella del volume Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (per Calabuig), mentre Il romanzo luminoso (sempre per Calabuig) e questo Lascia fare a me (titolo originale: Dejen todo en mis manos) si possono iscrivere in un filone più personale e, se mi è concesso, ombelicale. 
  Quello che racconta questo libro è presto detto: uno scrittore (l'autore o un suo alter ego) viene incaricato, dalla casa editrice che gli ha appena rifiutato la pubblicazione del suo ultimo romanzo, di scoprire l'identità di uno scrittore sconosciuto che deve essere pubblicato ma che, ammantato dal mistero, non si riesce a trovare. Si chiama Juan Pérez, o dice di chiamarsi Juan Perez, e si sa che il suo manoscritto è stato spedito da un paesino della provincia, l'immaginario Penuria, ma manca l'indirizzo ed eventualmente, se Juan Perez fosse un nome de plume, il nome reale. L'alter ego dell'autore, considerate le ristrettezze economiche nelle quali si trova, accetta il lavoro, sale sul primo autobus per Penuria e comincia la sua indagine. Immagina si tratterà di un lavoro facile. Penuria è un piccolo centro abitato, basterà chiedere in giro, fare qualche domanda nei bar, affacciarsi nella redazione del giornale locale, girare un po' qui un po' là; i soldi promessi per la missione, considera, sono soldi facili. Ma il protagonista si lascia presto distrarre da un mondo che non conosce, piccolo, sconclusionato, marginale, a volte sinistro, provinciale, dove pare essere l'unico ospite dell'unico hotel del paese. La scuola, la posta, i bar, il giornale, il protagonista si muove, si perde (ama perdersi), perde tempo (ama perdere tempo) e, in men che non si dica, finisce tra le braccia della prostituta locale, Juana, le cui arti amatorie nascondono misteriosi poteri taumaturgici. Si sente meglio, si sente rinascere, scopre la pochezza della psicoanalisi di fronte alla potenza consolatoria e salvifica del sesso (quantomeno del sesso con Juana). Rilegge il manoscritto di Juan Perez, si addormenta, si sveglia in ritardo, corre per vie che non conosce per rimediare ai ritardi accumulati col sonno, parla con persone che potrebbero essere il misterioso Perez, ma che non lo sono e, puntualmente, torna da Juana (fino a che non è Juana ad andare da lui). Nel breve volgere di pochi giorni (se non addirittura di un pugno di ore) l'indagine passa in secondo piano, svapora, perde consistenza in favore delle carni lubriche della bella Juana. Si troverà, il protagonista, ad innamorarsi, o a crederlo, a volersene andare il prima possibile da Penuria e a voler restare, a tornare ad impegnarsi nella ricerca dello scrittore misterioso e a dimenticarlo quasi completamente, ed è questo ondeggiare continuo tra stati d'animo opposti (ma mai descritti come estremi) che poco alla volta diviene il ritmo stesso della narrazione, ed è un ritmo che riconosciamo incredibilmente vicino al ritmo stesso dell'esistenza (in questo senso, magistrale e misterioso è Il romanzo luminoso, che consiglio vivamente), quel ritmo che ci carezza quando ancora siamo nelle viscere di nostra madre e che invariabilmente cercheremo per il resto della vita come un anfratto consolatorio nel quale rifugiarci. Levrero è tutto questo (ma è anche cultura pop, ironia sorniona, cartoni animati, gusto per il paradosso, gialli da edicola) ed è anche, in fondo, la malinconia del tempo che passa, delle pagine che scorrono e si avvicinano pericolosamente alla fine. La magia della scrittura del grande uruguayano è nascosta da qualche parte, invisibile ai più, ma si fa sentire, ipnotica, gentile, morbida, eppure sfrontata e priva di infingimenti. E', la scrittura di Levrero, quel pulsare cardiaco che inquieta e rassicura, che calma ma che già porta in sé l'angoscia della sua fine, quell'attimo in cui smette d'un tratto di battere il suo percorso, quell'ultima pagina oltre la quale il suo vagabondare finisce, termina il suo ozioso ragionare ragionamenti oziosi, e d'un tratto ti senti solo. Senza più Mario Levrero accanto.

<< Che orrore! >>, urlò quando mi vide, e schizzò  dentro casa, mentre io aspettavo, sgocciolando sulle piastrelle di un minuscolo ingresso. Ho avuto accoglienze peggiori, ma non me le ricordo.

  Non mi vergogno a dirlo: ho pregato che questo libro, peraltro piuttosto breve, non terminasse mai, ho prolungato il piacere della lettura centellinandolo e intervallandolo con innumerevoli e dolorose interruzioni. Mi capita di rado ormai. L'ultima volta mi successe con Il romanzo luminoso, sempre di Levrero, che ho recensito Qui.

  Segnalo, in chiusura, l'interessante introduzione di Luciano Funetta, uno che di eccentrici latinamoericani se ne intende.


 Mario Levrero (Montevideo 1940 – 2004) ha pubblicato una decina di romanzi che lo hanno reso uno scrittore di culto, un punto di riferimento per molti autori latinoamericani. Appassionato di ipnosi, fenomeni telepatici, computer e libri gialli, ha esercitato molti mestieri, tra i quali il fotografo, il libraio, il direttore di riviste di enigmistica e l’autore di videogiochi. La rivista “Granta” lo ha recentemente proposto all’attenzione dei lettori europei nella rubrica Best Untranslated Writers. Il romanzo luminoso è il suo primo libro tradotto in italiano.

  QUI potete trovare un articolo dal blog di EdizioniSur di Raul Schenardi e una traduzione di Loris Tassi per farvi un'idea di chi sia stato Mario Levrero.

domenica 10 giugno 2018

La troga, di Giampaolo Rugarli, Adelphi edizioni

  Cosa sia la Troga nessuno lo sa, almeno fino ad un certo punto. Tra la domanda che in pratica apre il libro e la risposta, un fiume di morti ammazzati, tradimenti, doppi e tripli giochi, macchinazioni e colpi di scena. Giampaolo Rugarli, napoletano, classe 1932, scrittore prolifico in tarda età e gemma particolarissima (e, temo, troppo poco conosciuta) della letteratura italiana, intesse una storia che sarebbe un perfetto pulp alla Tarantino, comprensivo di decollamento, suore mascoline, ratti invasori e quant'altro, ma al contempo potrebbe essere un perfetto thriller del complotto: entità sconosciute che si muovono dietro scenari istituzionali, giochi di potere, figli illegittimi, segreti inconfessabili. In realtà, è altro ancora. E' tutto questo ma è soprattutto altro: è la storia dell'Italia recente o, per meglio dire, una parodia della storia d'Italia. E' anche e soprattutto un ritratto dell'Italia e degli italiani, un ritratto amaro e senza veli, che non fornisce consolazione a chi si rimira allo specchio: c'è, nell'immagine che ne riceviamo, tutta la stanchezza e lo sconforto di chi l'innocenza l'ha persa irrimediabilmente, da un pezzo e, ormai, non riesce più a richiamarne alla memoria neppure i tratti essenziali, un'immagine oscena e stanca (e satanica, abitata da quei demoni immaginati da Flaiano, coi quali ci si può sempre mettere d'accordo) deformata dalla fatica di stare al mondo e di scendere a compromessi, è l'immagine della capitale nella quale si concretano tutti i vizi nazionali, tutto il marciume che comporta portare avanti una nazione. Roma è una malattia che ammorba tutto e tutti, la febbre Lassa, ha cieli gonfi come ascessi, grondanti pioggia fredda e incolore, cieli solcati da misteriosi passaggi di dirigibili neri che sembrano voler significare qualcosa, qualcosa di incombente e minaccioso, il cui significato però sfugge. Ne La troga, il mistero non è  elemento vibrante che spinge ad avanzare la narrazione e a scuotere l'albero della curiosità, al contrario è un pantano di melma dal quale si vorrebbe evadere, invano.  Il commissario Carlo Pantieri, vedovo disamorato della defunta moglie, spossato dall'esistenza e dalle sue convenzioni, in quell'età nella quale la sensazione di essersi lasciati sfuggire tra le mani l'essenza della vita diviene lancinante, ascolta i deliri (apparenti?) di una vecchina, la quale nel suo sproloquio confusionario, probabilmente attivato dall'alzehimer fa riferimento alla "troga". Tutti sono invischiati con la troga, tutti, non si può fermarla, ma va fermata. Pantieri l'ascolta sconsolato,  fino a quando la vecchia non chiama in causa la defunta consorte di Pantieri, anch'essa implicata nella troga. Nella troga, sua moglie, quella specie di mummia incolore, priva di slanci, sessuali in particolar modo? Si, prossima addirittura a diventarne una sacerdotessa.

  << Lei cosa vuole da me? Vuole presentare una denuncia? Una querela? Un esposto? >>
<< E come potrei? >>, rispose la vecchia signora. << I fatti sono troppo numerosi: piraterie, sequestri di persona, rapine, grassazioni, plagi, oscenità, stupri, eresie, sacrilegi, corruzioni... Ma questi sono i sintomi del male. Il vero male è più profondo. Io temo si voglia provocare una mutazione del genere umano. >>

  Poco dopo la vecchia signora viene trovata morta. E così anche il figlio della donna, un rinomato medico. Ma poco alla volta che i morti si affastellano, che gli scenari cambiano, sempre la stessa parola compare, spesso come lapsus, come illusione/allusione: la troga. Pantieri indaga, ma, come aveva avuto a predirgli la vecchina:  
<< Commissario, lei sarà distrutto dalla troga. >>

  E l'intrigo che si andrà componendo da questo meraviglioso incipit in avanti sarà un budello maleolente avvinghiato su sè stesso, a tratti talmente inverosimile da ricalcare una somiglianza inquietante con la storia recente d'Italia: la Dc, il rapimento Moro, la P2, il ruolo obliquo della Chiesa, le BR, delitti insoluti, violenza insensata, massoneria, sette oscure, terrorismo, servizi segreti perennemente deviati, morti ammazzati, banche, giudici, processi senza fine (in quanto non finiti, non terminati, senza colpevoli a scriverne una conclusione), ministri con segreti inconfessabili. Praticamente ogni aspetto romanzato potrebbe trovare un suo omologo punto di riferimento nella storia reale, tanto da far sospettare il lettore che Rugarli, nel 1988, anno di pubblicazione del libro, avesse svelato in forma narrativa verità che si sarebbero fatte più esplicite solo in seguito e che, all'epoca, potevano essere sospetti sussurrati nelle segrete stanze. Ma la grandezza del romanzo non sta nell'essere una copia più o meno fedele della Storia, bensì nel divenirne un ritratto a tal punto grottesco da ricalcarne i caratteri più veri, utilizzando una lingua tanto ricca e strabordante da piegare la realtà a suo piacimento, trasformandola, frastornandola, modificandone i connotati per poterne reperire la natura più intima e vera. La Roma capitale di Rugarli, microcosmo dantesco entro i confini del quale si svolge in sostanza tutta la vicenda, è inquietantemente simile a quella odierna, pur calata nei colori, nei caffè, nelle cravatte, nei completi, nei riti di quella anni 70/80: in questo senso, una Roma eterna, sempre uguale a sé stessa, portatrice di una mostruosità onnivora e autocannibalica, una Roma che più se magna da sé, più rinasce uguale a sé stessa. 

 la Roma dei cesari e dei papi era più che un'astrazione, una favola ad uso dei turisti ignari; una grigia macchia di case spariva nel cielo che si velava di turchino in lontananza, foglie gialle turbinavano giù dai rari alberi e, in margine alla via, si ammucchiavano le consuete immondizie. Più lontano, nei prati già pronti per nuove lottizzazioni, brucavano le pecore; era tutto ciò che sopravviveva dell'epoca in cui la campagna non conosceva le ruspe.

Una Roma malarica, zozza, malata di ratti, di febbri misteriose, una capitale sempre in procinto di partorire qualche nuova mostruosità con la leggerezza di chi ha visto e provato tutto, di chi sa che un omicidio è solo un omicidio, un'ammazzattina, e in fondo abbastanza saggia da sapere che tutto serve, l'ammazzattina, l'orgietta, il colpevole da trovare, ma quello giusto però, quello che faccia tornare tutti i pezzi al loro posto, perché anche trovare i colpevoli è un'arte, anche sistemare la giustizia è un'arte, e sopraffina per giunta, non la puoi lasciare al caso. Non basta essere colpevoli per essere colpevoli, ci sono tutta una serie infinita di conseguenze da tenere in considerazione per far si che l'ingranaggio non s'inceppi, tanto che, alla fine della fiera, il colpevole è meglio fabbricarselo su misura, alla bisogna. In casa. Anche l'ansia di rivoluzione nel romanzo di Rugarli è sottratta al fanatismo ideologico per divenire una posa, una ricerca di novità artefatta che, almeno, riesca a vincere la noia, giusto per qualche tempo. 

Non si può vivere in un mondo senza idee, ma tutte le idee sono sbagliate. Dobbiamo accontentarci di idee sbagliate?

 Questa è la Roma di Rugarli. E la lingua che la descrive è l'altro vero miracolo narrativo che compone un libro sopraffino e popolare al contempo: la sua è una lingua manganelliana, duttile, colta e popolana, ricca di diallettismi, di dialetti, scavata in maniera ossessiva e sovrabbondante, una lingua scavata che a sua volta scava la realtà in cerca di quelle zone d'ombra che non possono essere descritte ma solo accennate. 
  Leggetelo, sarete distrutti dalla troga.

... Non capirono. se ne andarono placati, mangiando pane e salame, sognando boschi faide e coltellate.




 Giampaolo Rugarli nasce a Napoli il 5 dicembre 1932 da padre emiliano e madre della Basilicata, trasferendosi con la famiglia allo scoppio della Seconda guerra mondiale a Milano. Laureato in giurisprudenza, lavora in una grande banca del nord dal 1955, venendo trasferito a Roma per la sua attività nel 1967, e divenendo poi Direttore della Sede romana dell'Istituto Cariplo nel 1972.
Rientrato a Milano (dopo un breve periodo a Brescia e uno più lungo a Londra), viene messo a capo della Esattoria Civica. L'esperienza si conclude quando ravvisa gravi irregolarità che segnala alla Autorità competente. Dopo un periodo di punizione in una specie di reclusorio della banca (queste vicende sono state raccontate da R. nella Introduzione del libro Diario di un Uomo a Disagio), viene nominato capo dell'Ufficio Studi. In questa veste fonda con l'Editore Laterza, e dirige, la Rivista Milanese di Economia, che accoglie contributi di Claudio Magris, Pietro Citati, Claudio Cesa, Mario Monti e altri importanti intellettuali ed economisti.
Alla fine del 1985, raggiunti 31 anni di servizio, e anche "perché si moltiplicano episodi di censura e di intolleranza da parte dell'amministrazione" lascia la banca. Da quell'anno si dedica unicamente alla attività di scrittore (che aveva condotto privatamente nei lustri precedenti), pubblicando oltre 20 opere, tradotte in più lingue.
Racconti e interventi di Rugarli sono stati letti alla radio. Ha scritto i versi di un'opera lirica, musicata da Riccardo Malipiero: alcuni brani, con i versi di Rugarli, sono stati cantati in concerto alla Scala e al Conservatorio G. Verdi di Milano.



   

domenica 6 maggio 2018

Diablo, di F.C. Haghenbeck, Newton&Compton editore, Andrea Russo

  Elvis Infante è un diablero: cattura creature soprannaturali (angeli o demoni, come vedrete, non fa poi tanta differenza) e le rivende al mercato nero, dove vengono usate per incontri di "lotta" ovviamente clandestini. Qui sta il primo punto essenziale: li cattura, non li caccia come si limiterebbe a fare un semplice esorcista. Praticamente li inscatola. Una volta che il demone (o angelo) è stato conservato in un adeguato contenitore scatena l'interesse di chi, a conoscenza della sua esistenza, per i più segreta, ha una disponibilità di denaro sufficientemente elevata per potersi permettere di comprarlo.

A ogni strofa l'oscurità avanzava sempre di più. Ogni verso faceva alzare la temperatura. Curlys gemette, rivoltandosi eccitata. Elvis rimaneva all'interno del cerchio. Ad appena pochi passi da lui, Tecate aspettava con la Bibbia, come un pompiere che tiene d'occhio i fuochi d'artificio. Quando arrivarono furono spettacolari. Meglio che a Disneyland. Il letto si agitò. Le lampadine dell'abat jour scoppiarono. Le lenzuola cominciarono a spargere sangue, e i gemiti di Curleys  si trasformarono in voci in aramaico. Cupe e distanti.  

  Il diablero evoca il demone e, quando si presenta per occupare il corpo di un'ospite (nel caso di cui sopra, che apre il lbro, l'ospite è Curleys), gli tende un agguato e lo intrappola. A quel punto è bell'e pronto per essere venduto. Detto questo, non so cosa sia esattamente questo libro: qualcosa di estremamente veloce, e divertente. Lo si potrebbe definire come il punto in cui Fight Club incontra L'esorcista, e non ci si andrebbe poi lontani, ma stiamo parlando di un prodotto diverso da entrambi, di un'altra generazione: letteratura da consumare in fretta, calata in un immaginario pop già creato e testato non solo da altri autori ma anche con altri media: fumetti e cinema appunto. Violenza a piene mani e ironia come se piovesse. Funziona sempre. L'intreccio c'è e non c'è o, meglio, c'è ma è come se non ci fosse. In realtà non serve a niente una storia, perchè la storia sta da un'altra parte e non nella trama. Anzi, per certi versi la trama tende a confondere le cose: si apre sul presente, torna al passato, diversi piani di passato, e infine torna al presente. Si parte in una periferia degradata di Los Angeles e facciamo subito conoscenza con Infante e con Nice Suit (che, si capirà più in là, è un prete, padre Benjamìn) che ritroveremo nei capitoli successivi, in diversi passati, ma la velocità di lettura che il testo impone e dei collegamenti non proprio rodati tra i vari capitoli e i diversi piani temporali (secondo un editing che avrebbe meritato maggiore cura) non aiutano a ricostruire il puzzle con la dovuta attenzione. Ma, come ho già detto, poco importa: non sta lì il centro del libro (forse è un romanzo, ma non ne sono sicuro, e in fondo chi se ne frega?). Sembrerebbe, e in fondo lo è, un sottoprodotto, letteratura da consumare rapidamente e da gettare via, il risultato di sottoprodotti culturali mixati insieme e vomitati su carta, già belli e pronti per essere trasposti a loro volta sul grande schermo (grande, piccolo, medio): e infatti è prevista l'uscita di una serie per Netflix in questo 2018.
  Il passato di Infante, la morte del fratello posseduto da un demone, non basta certo per conferire tridimensionalità al personaggio, e altrettanto dicasi per padre Benjamìn, prete dannato dal suo aspetto sexy e da una fame quasi chimica che lo divora per il corpo femminile (una sorta di padre Ralph aggiornato ai tempi attuali). L'aspetto interessante, e più schiettamente narrativo, è la costruzione del mondo che Haghenbeck offre in questo libro. La velocità aiuta, il fare riferimento a immaginari già ben radicati nel pubblico è essenziale, l'ironia nella scrittura, i personaggi bidimensionali, la violenza, il sesso, tutto quanto serve a rendere appetibile Diablo, ma il suo valore aggiunto sta nell'universo che muove tutti gli altri aspetti. Un universo tutto sommato credibile seppur assolutamente fantastico: se credi ad un paradiso e ad un inferno il passo che porta a credere anche ad Haghenbeck non è poi così lungo. Gli angeli di Haghenbeck sono assai diversi dall'idea che ne abbiamo, e non così diversi dai demoni, e comunque, per l'uomo, ugualmente pericolosi. I demoni sono come dei bambini piccoli e dementi, sono orribili, devastanti, quasi estinti (ma non del tutto) ma sostanzialmente stupidi, e soprattutto esistono (anche) in carne ed ossa. Sono gli ultimi rappresentanti di una razza che una volta popolava la Terra (un po' come i dinosauri), li puoi trovare nelle grotte dell'Afghanistan così come nascosti nel corpo di una ricca signora di Bel Air (o del marito di quest'ultima).
  Il terreno di battaglia, letterario in questo caso, è così qualcosa di nuovo ed intrigante: il demone non risveglia paure ancestrali, sensazioni mistiche, non è un mistero esso stesso, privo di corpo, un'entità sì malefica ma in fondo spirituale, è piuttosto un mostro, orribile, che suscita ribrezzo e la paura che si deve ad una creatura che ti può ammazzare con una zampata, ma niente di più. Addirittura, capovolgendo i rapporti di forza, può essere catturato e venduto dagli esseri umani, esattamente come qualsiasi altro animale, e utilizzato per incontri di lotta, per soddisfare la sete di violenza e di sangue insita nell'uomo. Qui, e non altrove, sta il nucleo centrale e realmente narrativo di questo libro (forse non è un romanzo ma un libro sicuramente lo è), nel condurci in un mondo che conosciamo per la prima volta, dove lo stesso essere umano si trova su una scala differente rispetto a quella che eravamo convinti di conoscere. Il nostro posto nel creato non è quello che abbiamo sempre ritenuto competerci, le mosche non stanno solo sugli escrementi ma escono a frotte dagli orifizi di demoni e indemoniati, e la guerra in Afghanistan non è stata solo una guerra convenzionale ma anche una caccia a demoni vecchi come il mondo, o forse più vecchi ancora.
  Quindi, non so dirvi di cosa si tratti, nè di che valore abbia: è qualcosa di veloce, molto veloce, divertente, che sembra cinema ma non lo è, che sembra fumetto ma non lo è, che dovrebbe essere narrativa e forse non è nemmeno quella. Quello che sì posso dire, è che, una volta chiuso, il libro lascia la singolare impressione che il mondo nel quale siamo abituati a muoverci non sia esattamente quello che immaginavamo, e che forse siamo noi umani gli esseri che fanno più paura di tutto il creato.

F.C. Haghenbeck è nato nel 1965 in Messico. È autore di romanzi, graphic novel e libri per ragazzi. Le sue opere hanno ricevuto importanti premi in Messico e in Spagna e sono state tradotte in 14 lingue. Diablo si è aggiudicato il prestigioso Premio letterario Bram Stoker e i diritti sono stati acquistati da Netflix che ha prodotto una serie ambientata in Messico, in uscita nel 2018 in tutto il mondo.
Alla fine del libro, è l'autore che cita i suoi debiti verso il mondo del fumetto (operaciòn Bolivar, di Edgar Clement), del cinema (Robert Rodriguez) e di altri autori letterari di genere (Clive Baker su tutti), e spiega come l'idea sia nata in una sola notte, a Monterrey, un po' come era accaduto per i Byron, Shelley e Polidori per la creazione di Frankenstein.

giovedì 5 aprile 2018

I soldi di Dio, di Andreu Martìn, e/o edizioni, trad. di Maria Nicola


  Il pavido Ramirez "Sibuana" e il suo sottoposto Lallana, investigatori presso la squadra omicidi di Barcellona, vengono inviati ad indagare su un suicidio avvenuto nella notte. Il suicida è un dirigente della banca Marquès, ma non si è suicidato, o forse si. Nel caso comunque in modo strano, dopo aver ricevuto una telefonata nel bel mezzo della notte ed aver incontrato qualcuno in casa sua pochi minuti dopo. E poi non è il solo, altri dipendenti della banca si sono suicidati quella stessa notte, e altri sono fuggiti all'estero. La casa del direttore Delavall è stata data alle fiamme.
E' la notte in cui gli dei impazziscono.
  Le alte sfere vogliono il massimo riserbo sulle indagini, la faccenda, come si dice in gergo, scotta e Ramirez Sibuana non vede l'ora di liberarsene. Lallana, al contrario, vuole capire qualcosa di più prima di passare il caso ai Mossos: il centro del tutto, chiaramente è la banca. E la banca Marquès, viene a scoprire, ha un problema: è stata scalata dal suo interno da una setta religiosa di pazzi squinternati, la Comunità degli scopritori di Dio in sé o Setta Ego. Questo noir del barcellonese Andreu Martin è innanzitutto un'indagine sulla follia umana, su una parte specifica di quell'immensità che è la follia umana, su quella zona oscura che porta l'essere umano a cedere la propria razionalità (oltrechè la propria libertà, la propria esistenza in toto ed anche i propri beni) ad un singolo individuo esaltato ricevendone in cambio soprusi, umiliazioni, regole militari e verità assolute ed assurde (e in quanto verità comunque indimostrabili). E' la folla il centro dell'attenzione di Andreu, quell'insieme di anime che si amalgama in un'unica entità cieca ed idiota, capace all'improvviso di qualsiasi violenza e perversione.

 ... e si convinse che, in quel momento e in quel luogo, tutto era possibile. Un'aggressione di massa, un'esplosione, un portento.

C'è la lotta di un uomo contro tutti all'interno della banca, Delavall, di un uomo contro la setta di pazzi, Briz (il braccio armato di Delavall), e di un uomo contro la follia che pervade ogni aderente alla setta, ma che infetta anche Delavall e Briz, e ogni altro personaggio del libro, Lallana.
  Lallana è l'anima razionale del romanzo, dubbiosa, quasi disillusa se non proprio cinica, che decide di infilarsi nell'abisso di follia allo stato puro che è l'indagine sulla banca Marquès e sulla setta Ego, e sarà l'unico a non svilire sè stesso nella spirale di violenza che possiede tutti i protagonisti, anche quelli che, a rigor di logica, dovrebbero essere dalla parte giusta della barricata (ma sarà presto chiaro che i confini tra bene e male, come in ogni noir che si rispetti, sono estremamente labili, e nessuno può dirsi innocente). L'amibizione professionale di Delavall, l'ambizione folle del guru Otto Moller, la perdizione nella quale si inabissa Mata, la violenza che trova un sua guerra santa e la sua autogiustificazione di Briz, e la cecità idiota della moltitudine di fedeli, i ricatti incrociati, e la violenza che pervade ogni aspetto dell'indagine, ma anche della setta e infine della banca. L'autore intesse un noir sincopato, che non concede nulla allo stile della scrittura, scorrevole e piegata in tutto e per tutto alle logiche della trama, e racconta una storia dove al di sopra di tutto si eleva la folla, che vediamo soltanto nell'ultima scena, un'entità magmatica che non pensa, non ha morale, che vive di slogan e di istinti, che uccide, o delega altri ad uccidere ed a violentare e truffare, in cambio di una verità tanto assurda da risultare demenziale, e quindi, come tale, credibile.

  Quasi tutti i presenti erano giovani, molto giovani, ragazzi perduti nel mondo della droga e salvati per maggior gloria di un dio folle, povera gente bisognosa di direttive, di ordini, di disciplina, per dare un senso alla propria vita...

Chi comanda quella folla senza volto ha il potere, perchè il potere è la folla stessa, che cede sè stessa a chi sa blandirla con le promesse giuste. La lotta, quindi, non è in questo caso tanto tra bene e male, quanto tra ragione e follia. Il libro incatena il lettore in maniera esemplare, fiondandolo nel mezzo della storia nello spazio di poche righe e obbligandolo ad assitere ad un olocausto di follia. La banca quale veicolo ideale utilizzato dal virus-setta Ego per infettare la società è l'idea cardine della trama, ed è geniale: la banca necessità di corsi motivazionali per il personale, la banca ha soldi in abbondanza, agganci con l'economia e con la società reali, ha interconnessioni internazionali, la banca è composta di individui che, come tali, sono soggetti a venir infettati da virus. E Otto Moller, il guru della setta, è il virus perfetto. Dio esiste, e ogni uomo è Dio, e Otto Moller è il Dio degli dei.
  Un viaggio adrenalinico nel lato oscuro della società e della mente umana perfettamente narrato da un noirista di saldo mestiere quale è Andreu Martin.


Andreu Martìn è nato a Barcellona nel 1949. Laureato in psicologia, sceneggiatore di fumetti in gioventù, scrive romanzi polizieschi dal 1979. Con la sua estesa opera di narratore ha contribuito a creare il genere del poliziesco alla spagnola. Diversi sui romanzi sono stati adattati per il cinema e tradotti in molte lingue. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui il premio internazionale iberoamericano Dashiell Hammett e il Deutche Krimi Preis.

sabato 3 marzo 2018

Dama cinese, di Mario Bellatin, Bookever (Editori Riuniti) editore, trad. di Maria Nicola

Mario Bellatin è un autore di difficile catalogazione, e pertanto l'appellativo di sperimentale può essergli applicato con una certa soddisfazione ed un sospiro di sollievo. In Italia è stato fino ad ora poco tradotto, oltre questo libro se ne può reperire soltanto un altro: Salone di bellezza (LaNuovaFrontiera, 2011).
  Innanzitutto la voce narrante: un ginecologo. E' il suo punto di vista che giustifica lo sguardo algido su tutta la vicenda e, in un certo senso, ritengo sia il vero protagonista del romanzo (romanzo breve, va detto, 86 pagine appena). Non il ginecologo, ma il suo particolare modo di vedere il mondo o, per meglio dire di stare al mondo, di inserirsi in esso. Il ginecologo, racconta, si divide tra la meticolosità con la quale svolge la sua professione e l'altrettanta meticolosità con la quale si dedica a ripetute e metodiche visite a postriboli e bordelli per consumare sesso a pagamento. La sua esistenza è quindi divisa tra la vita famigliare e la vita lavorativa che, a sua volta, viene costellata dalle visite alle varie prostitute. La moglie è un essere distante, non più perfettibile, vittima di qualcosa che tra loro è sfiorito, o è in via di esserlo, impegnata, con zelo e piglio militare, in attività sociali e nella cura ossessiva della casa e dell'apparenza; poi ci sono i figli, di cui uno è morto, quello maschio, che è quello che realmente interessa la storia. L'altra è una femmina che, nella sua sostanziale normalità, diviene rilevante per la sua passiva rassegnazione di fronte ad matrimonio anch'esso normale e, forse, rispetto alla vita stessa. Nella vita lavorativa del ginecologo un evento incredibile si inserisce nella regolare routine, interrotta solo dalle visite ai bordelli: una sua paziente guarisce miracolosamente da un tumore. Il tumore non regredisce, scompare. La donna si presenta presso lo studio del ginecologo sempre in compagnia del figlio, un bambino dalla testa strana che, in occasione di una di queste visite, sappiamo quasi da subito, racconta al dottore una storia particolare, molto strana. Quando la conosceremo, nella seconda parte del libro, potremo convenire sulla stranezza, e spingerci a definirla assurda. Tant'è. Il figlio del ginecologo intanto precipita in una vita extrafamigliare disastrosa, possiamo intuire che sia finito in brutti giri, forse di droga, ma non possiamo escludere che sia affetto da qualche disturbo della personalità, o forse semplicemente è vittima di una famiglia solo apparentemente normale ma nella realtà disfunzionale e anafettiva. Non lo sappiamo, non possiamo evincerlo da nulla di ciò che viene raccontato dal ginecologo: la domanda è se ci venga volontariamente taciuto qualcosa o se, semplicemente, il racconto del padre sia completo, freddo ed esauriente e quel poco che veniamo a sapere noi sia in realtà tutto ciò che sa il padre. La seconda chiave di lettura, per quanto sia la più disturbante, diviene la più probabile se si considera il resto della narrazione, in particolar modo il racconto del bambino dalla testa strana. Il ginecologo, nella seconda parte del libro, racconta con la solita raggelante imperturbabilità quanto gli era stato confidato dal bambino tempo prima mentre, in sala d'attesa, aspettava che la madre terminasse i trattamenti ai quali si sottoponeva nella sua lotta contro il tumore. E la storia è un insieme di fatti illogici tenuti insieme da una missione apparentemente irrilevante che il bambino dalla testa strana porta avanti contro tutto e contro tutti, in primis contro uno zio che sembra la controfigura del ginecologo (lo zio è il fratello del padre) e poi contro una misteriosa agenzia inespugnabile che vive di logiche burocratiche e kafkiane che di logico non hanno nulla. In questa seconda parte, nettamente più sconnessa e delirante della prima, come se il bambino fosse il ginecologo da piccolo, ricompare il tema della paternità/maternità, anche se questa volta non vissuta, incarnata da una donna ricca e stramba che incontra il bambino in coda all'agenzia e che, a sua volta, gli racconta parte delle sue esperienze e gli confida come, con dolore, non abbia potuto avere figli. Ed è questa maternità mancata che diviene così silenziosamente dirompente da scivolare nel delirio e nel rapimento.

Forse, se andiamo a rimettere in fila i vari fatti (e il dubbio di averli ricondotti nel loro ordine corretto rimane) il centro della narrazione è la morte del figlio (nella quale ha una responsabilità il padre) l'evento che ammorba il resto della vita di tutti quanti e, in particolare, del ginecologo e che infine toglie il senso delle cose ad ogni aspetto dell'esistenza (e quindi della storia). In questo senso le visite ossessivo-compulsive ai vari bordelli diventano una sorta di sordina che permette al narratore di proseguire a vivere un'esistenza ormai senza senso (e in questo senso va sottolineato come ogni evento raccontato sia privo di qualsiasi connotazione sentimentale: l'intero testo è depurato da qualsivoglia parvenza di sentimento). O, forse, la morte del figlio è semplicemente una conseguenza di una vita che già prima, forse da sempre, era vissuta in maniera algida, priva di reali sentimenti e profondi riferimenti, e che, già da prima e forse da sempre, non aveva in sé un qualsivoglia significato.
  Bellatin compone una storia narrata in punta di penna e di delirio (e che attinge a piene mani nell'universo psiconalatico), nella quale i fatti, che vengono lasciati a significare sé stessi, in realtà paiono non significare nulla, almeno apparentemente ma, anche volendo cercarvi, nella loro ricomposizione temporale, una chiave di lettura che ci porti al di là della superficie impenetrabile della narrazione, rimaniamo, noi lettori, nel dubbio di aver mosso la pedina giusta, di aver trovato l'incastro corretto e non aver, invece, frainteso il tutto. Bellatin ci sfida in un rompicapo che si rivela tale solo alla fine della lettura e che continua a mordere al collo il lettore per molto tempo dopo aver chiuso il libro: rimane la sensazione di un universo raggelante, estraneo seppur così intimo, raccontato con uno stile piano che, con richiami a Kafka e a Raymond Carver, pare mettere il fuoco dell'attenzione costantemente su particolari marginali rispetto a quanto viene narrato. Le storie si moltiplicano, come parentesi che si aprono, fino a lasciare il filo conduttore, sempre che ne esista realmente uno, in secondo piano, perso come un'eco in lontananza. Racconta il ginecologo: del lavoro, della guarigione miracolosa, delle prostitute che incontra, della moglie, del figlio, della morte del figlio, del bambino con la testa strana, poi racconta il racconto del bambino, il quale racconta dello zio, della vecchia, e racconta i racconti della vecchia signora. Tutti raccontano, e li immaginiamo con lo sguardo fisso perso nel vuoto, a raccontare, a nessuno, a quel nessuno che è un lettore lontano, nello spazio e nel tempo, e raccontano storie ipnotiche, piane, dove l'illogicità e la follia hanno la stessa dignità della realtà, raccontano particolari che non interessano, mentre saremmo curiosi di sapere altro, il nucleo misterioso del racconto. Questa è la sensazione che lascia il romanzo: abbiamo girato attorno ad un centro che non ci è stato mostrato, per poi venire colti da dubbio che quel perno centrale sia sempre stato invece in bella vista, ma che siamo stati noi, lettori, a non essere stati in grado di individuarlo. Il dubbio rimane.
  Un romanzo breve, ipnotico, irritante, apparentemente irrazionale, che va a smuovere le acque scure della parte torbida e sconosciuta dell'essere umano, forse psicanalitico, forse kafkiano. Sperimentale. Forse.

 Mario Alfredo Bellatin Cavigiolo (Città del Messico, 23 luglio 1960) è uno scrittore messicano. 
Figlio di peruviani, Bellatin nacque senza il braccio destro; all'età di quattro anni si trasferì con la famiglia in Perù, dove studiò Teologia per due anni nel seminario di Santo Toribio de Mogrovejo e, in seguito, Scienze della Comunicazione all'Università di Lima.
Fu lì, nel 1986, che pubblicò il suo primo libro -Mujeres de sal-, però scrisse la sua prima opera all'età di 10 anni, ispirandosi al suo affetto per i cani. L'anno seguente si recò a Cuba con una borsa di studio per studiare sceneggiatura cinematografica nella Escuela Internacional de Cine y Televisión di San Antonio de los Baños e al ritorno in Perù, due anni dopo, continuò a pubblicare fino al 1995, quando ritornò in Messico.
Bellatin è stato direttore del Dipartimento di Lettere Umanistiche dell'Università del Claustro de Sor Juana e membro del Sistema Nacional de Creadores de México dal 1999 al 2005.
Attualmente è il direttore della Escuela Dinámica de Escritores a Città del Messico, che, creata nel 2001 come "Associazione senza scopo di lucro" propone un metodo di preparazione letteraria alternativo rispetto agli spazi accademici e ai corsi tradizionali. Nel 2009 Bellatin ha annunciato il rinnovamento della Scuola, con programmi televisivi ed un editoriale a partire dal 2010.
In Italia sono stati pubblicati Dama cinese (BookEver, 2006) e Salone di bellezza (LaNuovaFrontiera, 2011)

martedì 27 febbraio 2018

Tre avvoltoi, di Henry Trujillo, Atmosphere Libri, trad. Raul Schenardi

Javier, uruguaiano, vuole andarsene in Spagna. Non sa esattamente perchè e, fino ad un certo punto, neppure se lo chiede: per lasciarsi alle spalle tutta questa merda, si risponde. Ma, appunto, per molto tempo non se lo domanderà neppure e, una volta postosi il problema, lo abbandonerà presto tra le domande lasciate inevase della popria, giovane, esistenza. Comunque vuole andare in Spagna, e comunque gli mancano un tot di soldi per poterlo fare. La soluzione, semplice all'apparenza, non priva di rischi ma, ad un primo acchito, tutti accettabili, è quella di portare un macchina rubata in Bolivia, e lì venderla. Per passare la frontiera ha un nome, un uomo che lo aiuterà, Raul. Raul gli darà un altro nome, Cobas, e Cobas un nuovo indirizzo. Intanto la frontiera l'ha attraversata, di notte, a fari spenti, riemergendo dal letto di un fiume in secca, nulla di troppo difficile anche se comunque rischioso. All'ultimo indirizzo incontra una ragazza, Paula, misteriosa come tante eroine letterarie latinoamericane e, come tante di loro, portatrice (non proprio sana) di segreti. Sarà lei a comprargli l'auto, e sarà lei a invischiarlo in una storia nera, ottusa, una sorta di narcocorrido a bassa intensità: in fondo siamo in Bolivia e le figure tragiche dei narcotrafficanti di fama mondiale sono lontane. E poi ci sono i tre avvoltoi che spolpano la carcassa di una pecora, che assurgono a simbolo della storia e, in un certo senso, della stessa natura umana. Avvoltoi, in numero sempre di tre, che di tanto in tanto ricompaiono nel cielo (o forse solo nell'immaginazione del protagonista) a lanciare significati sinistri allo sconclusionato Javier.

 Una pecora morta e sopra tre uccelli neri come i corvi, ma più grandi, che becchettavano la carne quasi marcia e strappavano via ciuffi di lana. Dovevano essere avvoltoi. Una pecora morta in una pianura verde e, dall'altro lato della strada, una fila confusa di montagne che sprofondavano nella nebbia con gli ultimi raggi di sole. E questo è tutto.

Paula vuole comprare il passaporto di Javier che, tra l'altro, a dirla tutta, è falso, dal momento che Javier non si era preoccupato di come avrebbe fatto ad uscire dalla Bolivia una volta venduta l'auto. Attorno a quel passaporto (e che sia originale o falso ad un certo punto non frega più niente a nessuno, tantomeno al lettore) si sviluppa (o, per meglio dire, si avviluppa) una trama classica di segreti, bugie e vendetta che Javier affronterà armato di una certa leggerezza e dabbenaggine più che di coraggio vero e proprio. Javier è un antieroe puro, slavato, privo di connotazioni particolari - nè tantomeno virili - che non siano una certa tendenza alla sottovalutazione delle conseguenze delle proprie azioni. La Spagna, intanto, è sempre più lontana. Il commercio di auto rubate, in loco, è in qualche maniera (che non svelo) connesso ad altri traffici, più redditizi e anche molto più pericolosi. Ci sono un fratello che non si indovina se sia mezzo scemo o ancora sconvolto dall'omicidio del padre. Ci sono due fratelli che, pur se descritti come semplici vettori narrativi, paiono usciti dalla penna di un certo William Shakespeare: uno uccide l'altro poi, non pago, si scopa la cognata (ad onor del vero ormai ex cognata) e, per non farsi mancare nulla, pure la figlia di lei, cioè la nipote. Una tragedia greca calata in sudamerica, ma a bassa intensità dicevo; un pulp depurato dai tratti salienti che lo rendono pulp. In questo groviglio che si dipana poco alla volta Javier è l'anima pura, e un tantino ebete, che scopre d'un tratto che il mondo non è popolato solo di persone per bene, ma che, anche nel momento in cui viene folgorato da tale primordiale verità, non è che ne rimanga poi particolarmente sconvolto, nè cambia di una virgola il suo approccio verso il mondo che lo circonda. Per essere una tragedia, di sangue ce n'è poco, e lo vediamo, come tutto, da lontano: non appartengono a Trujillo le descrizioni gore e i particolari raccapriccianti, ma nemmeno le atmosfere tese e oniriche alla David Lynch, la violenza c'è ma non è mostrata in tutta la sua mostruosità, è piuttosto un dato di fatto: non pensavi ci fosse, ma c'è, e quindi ne prendi atto. La tensione c'è, ma è digerita senza mai essere portata al parossismo. La  vendetta che, come sempre, è il motore immobile che muove tutto il resto, c'è, ma viene scoperta alla fine e, a quel punto, cosa vuoi farci? Non è neppure ben chiaro se dietro alla vendetta ci fosse solo il dolore per l'omicidio del padre o anche una questione di interessi. Semplicemente non lo si sa, e a Javier in fondo non frega nulla. Il racconto è intervellato da brevi capitoli in cui Javier, l'antieroe venuto dall'Uruguay, racconta la storia ad uno scrittore, che di quella storia vuole fare un libro. Ed è qui che sta la magia di questo Tre avvolti: in fondo lo scrittore del romanzo potrebbe essere lo stesso Trujillo che intuisce le potenzialità tragiche e narrative del racconto di Javier, ma che deve di volta in volta instradarlo, specificare quali particolari farsi raccontare, sottolineare certi passaggi: Javier vende la sua storia per raccimolare i soldi per andare in Spagna, ma in fondo, nonostante un certo scorrere di sangue nel finale, nonostante i rischi corsi, i sentimenti provati, l'avventura vissuta e via discorrendo, rimane emotivamente distante dal suo stesso racconto. L'unica cosa che, anche qui tiepidamente, gli rimane impresso, è il dubbio di non essere stato del tutto indifferente a Paula.

<<Mi sta dicendo che quella donna era l'amante di Milo Zavic? (...) E che allo stesso tempo era sua nipote? Interessante. Avidità, incesto. Non male>>
Javier Michel distoglie lo sguardo dalla finestra e guarda il volto rossastro dell'uomo con gli occhiali, che se li è appena tolti, e ora i suoi occhi hanno assunto l'aspetto bizzarro di quelli di un topo strabico.
<<Perche avidità?>>

Dicevo, a bassa intensità: tutta la narrazione ha questa caratteristica, perchè raccontata in prima persona da Javier, ed è così che la viviamo noi lettori, a bassa intensità. Però, perchè c'è un però: però è una bassa intensità che funziona, la distanza che Javier pone tra sè e il suo vissuto in fondo aiuta a far emergere il meccanismo diabolico che è alla base di ogni noir che si rispetti, e questo è, in fondo un noir (un noir che si fa rispettare), ma un noir suo malgrado, che non pigia mai sull'accelleratore, che pare distogliere lo sguardo da certi topoi del genere per concentrarlo su qualcos'altro che, però, non emerge mai. E' solo una storia, come ce ne sono tante in america latina e nel mondo, una storia che finisce male ma che comunque rimane una parentesi nella vita del protagonista, un ricordo che gli lascia un sapore dolce-amaro sul palato ma che vale la pena di essere raccontata solo perchè c'è qualcuno che lo paga per farlo.
  La bravura di Trujillo, scrittore da tenere d'occhio, sta proprio nel dare un tono sommesso ad una storia che altrimenti sarebbe divenuta un noir urlato e sguaiato, tiene bassi i giri della narrazione e permette al lettore di gustarsi la storia, non mette mai alcun personaggio sotto la lente d'ingrandimento, i personaggi vivono la superficie delle cose e, in fondo, è un bene perchè sotto la superficie c'è l'oscurità, la vendetta e, forse, la pazzia. Un noir latino, lontano da ambientazioni metropolitane, vissuto lungo le frontiere e i paesini (forse sarebbe più corretto definirli cumuli di case) della foresta,  invischiato su traffici illeciti ma periferici, lontani dal ghota della malavita, un noir distratto che, se Dio vuole, non vuole essere nient'altro che sè stesso. Il racconto è ridotto all'osso, spolpato come la carcassa della pecora da parte dei tre avvoltoi. Per intenditori.

Accesi la radio: trasmettevano soltanto chamamé. Nello specchietto retrovisore vidi che gli avvoltoi si erano alzati in volo. Il giorno dopo sarebbero sicuramente tornati a fare colazione.



Henry Trujillo è nato in Uruguay nel 1965. Ha una laurea in Sociologia, è docente di letteratura e, naturalmente, scrittore. Ha pubblicato quattro romanzi, Torquator, La persecución, El vigilante e l'eccellente Ojos de caballo, tutti con successo editoriale. Se tutta la letteratura riflette letture intelligenti, Trujillo ha raggiunto uno stile inconfondibile. Nel 2007 ha pubblicato Tres Buitres (Tre avvoltoi). Nel 2012 è stata pubblicata la versione francese Trois vautours.

domenica 18 febbraio 2018

Preghiere notturne, di Santiago Gamboa, E/O edizioni, trad. Raul Schenardi

  In occasione dell'uscita del suo nuovo libro Ritorno alla buia valle decido di rompere gli indugi e di leggere il mio primo libro del colombiano Santiago Gamboa. Preghiere notturne è la prima parte di una storia più ampia che, se ho ben capito, ha la sua continuazione proprio in Ritorno alla buia valle, quantomeno alcuni personaggi sono gli stessi, nello specifico il Console (che è anche il narratore, una sorta di alter ego di Gamboa) e Juana.  Detto questo, la storia: il Console, colombiano ovviamente, che svolge la sua attività diplomatica a Nuova Delhi, viene contattato dalla Thailandia per seguire il caso di un giovane colombiano, Manuel, arrestato per droga. In Thailandia la Colombia non ha un consolato, dunque il Console parte da Nuova Delhi e giunge a Bangkok. Ma chi è il ragazzo? Prima sorpresa, non è uno dei soliti sbandati, uno sfattone in giro per il mondo, né un narcotrafficante e, apparentemente, neppure un (semplice) corriere (nel gergo: un mulo). Si tratta di un emaciato laureato in filosofia che pare essere rimasto invischiato in un gioco più grande di lui. Quale sia il gioco non è dato saperlo, ma poco importa perchè in certi paesi c'è sempre un gioco più grande nel quale essere presi nel mezzo e finire a ricoprire il ruolo della vittima sacrificale. Il romanzo, polifonico, oltre la voce narrante del Console, che cuce insieme lo sviluppo del plot, ci permette di ascoltare, tra le altre, anche la viva voce di Manuel (le altre saranno quelle di un/a misterioso/a Inter-neta e di Juana) e sarà questa che traccerà una parabola esistenziale, la sua, deprimente oltre ogni possibile immaginazione. Manuel è un bambino ipersensibile, nato in una famiglia della piccola borghesia, con un padre dipendente pubblico e senza spina dorsale che vive di rancori repressi e giornalieri capi chinati, e una madre un tantino troppo acida e consapevole della grigia situazione nella quale è rimasta intrappolata la sua vita; ha una sorella più grande, Juana, ma né lei né i genitori sembrano provare la benché minima empatia (amore o affetto nemmeno per idea) per Manuel. La famiglia è anafettiva, livorosa, ansiosa di poter muovere qualche passo verso un minimo di ascesa sociale, ma immobilizzata dalla paura di perdere quel poco che ha messo insieme. Quando nella storia politica della Colombia si affaccia all'orizzonte la figura di Uribe, candidato alla presidenza, liberista, nazionalista e filostatunitense, la famiglia di Manuel si schiera silenziosamente (nel senso che le idee vengono sbandierate pervicacemente solo all'interno delle rassicuranti quattro mura di casa) al fianco di quello che diverrà il nuovo presidente. Juana, la sorella maggiore che pare non essersi neppure accorta di avere un fratello minore (o comunque finge di non saperlo), in seguito ad un periodo di malattia di Manuel lo guarda negli occhi e decide all'improvviso che la sua vita sarà da quel momento in poi vissuta solo ed esclusivamente in funzione del fratello. Parallelamente, sul piano del presente il console incontra Manuel, magrissimo, enigmatico e dolente, in carcere:

Questo non sarà un noir. Vuole stupirsi? Sarà un romanzo d'amore. Poi le spiegherò perché.
(Manuel al Console) 

  Sul piano del passato, condotti per mano dal racconto di Manuel, ripercorriamo l'incarognimento della sua famiglia, sempre più chiusa nel livore e nel risentimento verso tutto ciò che li spaventa e li costringe a vivere come topi in gabbia, e allo sbocciare in Manuel di una sensibilità artistica che lo porta a divenire uno street artist, o comunque a dipingere su muri pubblici. Juana s'iscrive in una università statale in odore di sinistrorsità e questo basta a farla divenire agli occhi dei genitori una sorta di terrorista fiancheggiatrice delle Farc. Poi, lo snodo di tutta la vicenda, il perno, il motore immobile attorno al quale tutto prende vita e e si sfalda in frantumi: Juana, l'ormai amatissima sorella, scompare. La sua vita, dal momento dell'iscrizione all'università, era stata (sempre più) vissuta fuori dalle mura di casa, e la famiglia aveva finito col rappresentare niente più di una semplice parentesi nella sua vita reale. Le continue liti in casa, soprattutto per motivi politici, avevano spinto Juana a vivere soprattutto fuori, in un mondo di cui, all'interno della sua famiglia, non giungeva che un'eco distorta (un'eco mediatica in un paese in cui i media erano la voce del potere), e forse neppure quella. Se il tratteggio della tipica famiglia piccolo borghese è onestamente un tantino troppo stilizzato, e la conversione sulla via di Damasco da parte di Juana nel suo rapporto verso il fratello risulta totalmente inverosimile, la costruzione del rapporto tra il mondo/tempo della storia e quello all'interno della famiglia di Juana e Manuel è sviluppato con molta attenzione. Ne risalta l'immagine di un luogo chiuso, oscuro, una cucina, un tavolo, un lampadario che scava le silouhette dei membri della famiglia strappandole ad un'oscurità che però non scivola mai via del tutto, un buio che rimane impigliato tra le dita, nelle ciocche dei capelli, un sentore di rancido che non sai associare a nulla e allora lo lasci a vibrare nel vuoto, legandolo all'esistenza stessa di quel nucleo sociale uguale a tanti altri. E, fuori, il rombo idiota della storia che si fa ora per ora, le parole/propagnada della storia che, al momento, è ancora cronaca. Gli slogan: se mi taglio le vene esce Colombia! La nazione che diviene urla e strepito nazionalista e, inevitabile, il ribaltamento della realtà: la violenza è indispensabile per portare la pace sociale, pertanto la violenza, se gestita dal potere, è cosa buona e giusta, la cultura è male, perché insegna il dubbio e non si può dubitare del valore salvifico della violenza, il male si sposta tutto nella stessa zona d'ombra, quella del terrorismo (cioè di chi usa la violenza senza esserne legittimato dal potere), ma da lì poi esonda, e ricopre tutto ciò che può essergli contiguo, o anche no, che non ha nulla a che vedere col terrorismo, ma che comunque in qualche maniera paradossale i media riescono ad accomunare ad esso. Lo sottolineo, perché in fondo questo è il vero argomento del libro: il Conflitto armato colombiano e i meccanismi che lo sostengono, il vivere durante il Conflitto armato colombiano, il respirare Conflitto armato colombiano. 
  Dunque: Juana scompare, Manuel decide di cercarla. E' questo il motivo per cui è a Bangkok. E qui il secondo nucleo misterioso che sostituisce il primo (vale a dire: chi è realmente Manuel) che intanto è stato abilmente svelato: chi è realmente Juana?

  La parte del libro che dà la voce direttamente a Juana, per lungo tempo tra l'altro, e che quindi svela chi sia davvero Juana, e cosa abbia fatto, è quella che dovrebbe più concentrare l'attenzione del lettore ma in fondo si rivela essere quella più debole. Mi spiego: Juana racconta e racconta, è un fiume in piena, inanella periodi, nomi, date, sviscera misteri, illumina zone buie, racconta la sua storia che poco alla volta chiarifica il perché sia scomparsa dalla Colombia e sia riapparsa in Giappone ma, soprattutto, nell'intento dell'autore, racconta il marciume del suo paese, e lo fa dall'interno. La guerra sporca del DAS, le fosse comuni, i civili scomparsi, l'uso sistematico della violenza brutale da parte dell'esercito, la violenza e la cocaina che la sostiene, che pervade l'intero paese come un vento silenzioso che porta con sé la follia generalizzata, e quindi il narcotraffico, l'ombra di Escobar, i collegamenti con la politica, i giochi sporchi, doppi, tripli. In questo senso, è questo il momento nel quale, mentre si legge, ci si rende conto (troppo) che la storia di Manuel è un semplice espediente per raccontare altro, e che anche la storia di Juana ha in sè soltanto il valore che le conferisce il marciume nel quale è sprofondata la Colombia. Ciò che non dovrebbe mai avvenire, se non alla fine, a libro chiuso, qui lo senti come uno schiaffo che ti arriva in faccia: pensavo fosse amore invece era un calesse. Per parlarmi della sua Colombia l'autore mi ha raccontato una storia più o meno inverosimile che non c'incastra nulla, che alla fine, non interessa più di tanto neppure a lui. Ti senti tradito, anche se questo è il tradimento proprio della letteratura, ma il problema è che l'autore se ne è fatto accorgere. Poi, però, succede qualcosa che non ti aspetti (o, almeno, io non mi aspettavo): il plot più strettamente narrativo riprende improvvisamente vigore, la figura di Juana (finalmente) esplode silenziosamente in una tridimensionalità che fino a quel momento le era mancata e misteriosamente assurge a personaggio vero e proprio e non a semplice stampella di una tesi da esporre. Dico misteriosamente non a caso, perché è la sensazione di mistero che aleggia attorno alla sua figura che finalmente prende forma, e che lascia il lettore nel dubbio di chi sia realmente Juana, di chi sia stata e soprattutto di quale sarà il suo futuro. D'un tratto, dopo troppe pagine dedicate al reportage sulla storia recente colombiana, l'intreccio della detection  riprende vigore prepotentemente e lascia il lettore stordito, con sul palato la voglia di assaggiarne ancora, di saperne di più, come se realmente fosse in quel momento, in chiusura di romanzo, che la storia prendesse realmente avvio. 
  Un romanzo a tema, dunque, assemblato come un mistery da best seller (citazioni e scrittura ne fanno eventualmente un best seller di livello comunque superiore alla media), il fascino dell'esotico, le descrizioni di Nuova Delhi e Bangkok che emergono su tutte, con punti deboli evidenti (snodi narrativi improbabili, personaggi un tantino troppo bidimensionali) e, al contrario, passaggi esemplari: si resta con la sensazione (che non so se sia piacevole o meno o, almeno, lo è, ma solo in parte) di un ondivago scivolare dal best seller al romanzo impegnato che, al momento, a mio parere, è un'arte che in Colombia riesce alla perfezione solo a Juan Gabriel Vasquez (citato tra i numerosi altri autori all'interno del libro). 
  Piacevole alla lettura, lascia in bocca sia il sapore amaro di un prodotto non perfettamente riuscito che la voglia di leggerne il seguito, e anche stilisticamente passa da immagini e scene stereotipate che non ti aspetteresti da un autore della fama di Gamboa, a descrizioni riuscitissime che, in poche frasi, fotografano non solo un luogo, ma anche l'aria che in quel luogo si respira e la storia che quell'aria sostiene.


 Santiago Gamboa è nato a Bogotá nel 1965. Tra i suoi romanzi ricordiamo Gli impostori, Ottobre a Pechino, Perdere è una questione di metodo e Vita felice del giovane Esteban. Dello stesso autore le Edizioni E/O hanno pubblicato Morte di un biografo, Preghiere notturne, Una casa a Bogotá e Ritorno alla buia valle.

mercoledì 10 gennaio 2018

Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires, di Roque Larraquy (disegni di Diego Ontivero), Gallucci editore, traduzioni di Ilide Carmignani e Edoardo Balletta

La fotografia ectoplasmatica (o ectografia animale) nasce per mano di un fotografo della buona società argentina che, nel 1911, "su richiesta di un senatore che vuole impressionare delle signorine", scatta delle foto ad una scimmia sedata appesa al soffitto di una sala operatoria abbandonata. Il fotografo si chiama Severo Solpe, e le sue foto ottengono un tale successo che replica la sua truffa "appendendo in aria conigli, cani, rane, capre e altre scimmie, in interni o in esterni". Curiosamente solo in un secondo momento e in maniera casuale e fortuita Solpe giunge a scattare la prima vera ectografia: un'oca o un'anatra al Parque Centenario (fatto strano dal momento che oche e anatre verranno poste nei laghetti del Parque soltanto nel 1915). Da quel momento Solpe fonda la Società Ectografica Argentina e farà della fotografia di ectoplasmi animali la sua personale ossessione che assorbirà totalmente la sua esistenza, a tal punto da renderlo sordo a quanto (rumorosamente) gli accade attorno. Sviluppato come un vero e proprio Rapporto (Informe) pseudo-scientifico, il libro si divide in quattro parti e si compone di 23 brevi capitoli caratterizzati da un titolo e da una data di riferimento. Le date non sono di secondaria importanza nella comprensione del libro, al contrario ne forniscono la chiave occulta di lettura che Larraquy impone ironicamente come la reale chiave di comprensione del testo. Tale chiave di lettura viene suggerita più chiaramente nell'ultima parte del libro, la quarta, nella quale vengono riunite le quattro lettere che Solpe spedirà al senatore Dubarry per richiamarne l'attenzione sulle condizioni nelle quali si trova l'Istituto (e così facendo dimostrando la propria sordità verso le condizioni nelle quali versa l'Argentina tutta). Il Settembre 1930 è il mese nel quale il generale José Felix Uriburu rovescia il governo costituzionale e inaugura il decennio ricordato come "La decada infame" (lascio al lettore il piacere di scovare gli altri riferimenti disseminati nel testo sulla recente storia patria argentina). L'intuizione che, così come per il corpo umano, anche quello animale dovrebbe lasciare dietro di sé una traccia eterea è tanto apparentemente bislacca quanto semplicemente la razionale conclusione di una premessa (per quanto pseudo-scientifica possa essere). Inoltre è un'idea letterariamente assai poco frequentata, e l'averla posta alla base di questo libro permette all'autore di sviluppare una fantasiosa parabola sulla storia recente del proprio paese: con uno stile freddo e uno humor nero tagliente e glaciale, Larraquy descrive un'argentina popolata di spettri animali che, silenziosamente, la abitano incapaci di reclamare attenzione per la propria morte, un esercito di animali deceduti per essere cucinati, per essere parti di un esperimento, per semplice sorte o idiozia dei propri proprietari, animali il cui corpo viene costretto e privato delle proprie caratteristiche in nome di una pseudo scienza da un manipolo di personaggi (Solpe e i giovani discepoli Heiss e Rubens) che, s'intuisce, riversano nel loro presente ossessivo i propri traumi infantili. Nel caso di Solpe il fatto viene esplicitato nel brano estrapolato dal diario che il padre gli aveva lasciato come utile guida per educare i nipoti:

Tra i tipi di punizioni raccomando quella che consiste nel mettere il bambino in un angolo della sala, con la faccia al muro. Col tempo e la pratica si impara a regolare la durata della punizione a seconda della marachella combinata dal bambino e dalla sua resistenza fisica.
Lo scopo è condurre il bambino a un'utile riflessione, per cui è importante non rivolgergli la parola per tutto il tempo della punizione. 
Prima o poi si dovrà torcergli un orecchio.
La distanza tra gli occhi del bambino e la parete dovrà essere minima, in modo da avere una perdita della messa a fuoco e conseguente riduzione delle funzioni cognitive. Il bambino si sentirà intorpidito, separato dal mondo.
Nello spazio vuoto del suo sguardo si conteranno le immagini della buona condotta.

Tale punizione riporta sinistre similitudini con le modalità con le quali Solpe ottiene gli spettri artificiali (data la richiesta crescente di immagini e l'alto costo del cesio indispensabile per ottenerle, la Società ad un certo punto decide di creare da sé le immagini eteree degli animali, non, come all'inizio attraverso una truffa, ma mettendo in piedi un metodo per fabbricare ectoplasmi molto simile alla logica che sottostà ad un campo di concentramento):
Per ottenerli (gli spettri artificiali), Senatore, manteniamo un numero ridotto di gatti, cani, rettili e uccelli in gabbie metalliche molto strette finché non muoiono per la sete o per effetto dell'immobilità. Essendo le abitudini e la sofferenza fisica le condizioni che originano l'inscrizione, i risultati sono di norma positivi.

Infatti:

Abitudine e dolore sono la punta del grammofono che incide nel disco la traccia del suono per la sua riproduzione
Lo squinternato e patetico Solpe (gli accenni alla moglie Leticia ed alla propria scarna vita famigliare nelle lettere al senatore Dubarry ne sono una evidente ed ironica esplitazione) replica nella sua Società Ectografica i traumi del suo passato e al contempo presagisce quelli del futuro prossimo del suo paese (non è difficile intuire un parallelismo abbastanza chiaro tra le condizioni degli animali e quelle dei desaparecidos, né comprendere come la visione di un'Argentina attraversata dai cupi fantasmi animali sia un'immagine estremamente vicina a quella dell'Argentina che sarà abitata dai terrificati fantasmi umani degli eliminati dalla dittatura). Se questa è la chiave di lettura più profonda ed illuminante del libro, non mancano però le scene disarmanti nella propria intrinseca assurdità, né quelle intimamente commoventi. Ne risulta un quadro composito che mette insieme una certa ossessione latinoamericana  per la letteratura incentrata sugli animali (vedi, ad esempio, tra i tanti i bestiari borgesiani e alcuni racconti cortazariani - e in certo qual modo anche i cronopias e famas sempre di Cortazar - e i racconti di Quiroga) e un'attenzione anche questa molto sudamericana per la morte, un quadro che sotto le mentite spoglie del Rapporto (e qui, pur essendo di natura molto diversa, non può non tornare in mente il Rapporto sui ciechi di Ernesto Sabato in Sopra Eroi e tombe) compone una fotografia (forse anch'essa ectoplasmatica) di un paese perennemente sull'orlo dell'assurdo quando non dell'abisso, incapace di ascoltare il proprio buon senso e, anzi, in grado di dimenticare addirittura di averlo, un buon senso, al punto da non saper più distinguere tra bene e male, tra assurdo e scientifico. Una sorta di danse macabre animale che percorre le strade di una Buenos Aires la cui muta freddezza viene ben illustrata dai disegni geometrici, astratti e desaturati di Diego Ontivero. In fondo, in questo libro splendido e perfetto di Larraquy, la storia patria non è altro che un'astrazione folle nella quale di selvaggio c'è solo l'idiozia umana.
  Un libro breve e magnifico, caustico e chirurgico, che lascia emergere una voce autoriale assolutamente eccentrica e perfettamente dosata. 

In ogni ectoplasma lasciamo un po' di noi stessi, paghiamo queste immagini con un possibile calo di pressione, con l'indebolimento delle gambe e la paralisi momentanea del nervo ottico, che ci fa vedere doppio.
 
 E ancora:

In vita si verificano esperienze assolutamente intime come il sogno o la paura. Sono intime perché nessuno le vede dentro di noi. Il fatto di sentirsi individuo nasce dalla tenace opacità del suo corpo. L'individuo si forma in segreto. 
Non avere segreti equivale ad essere morti.

Sarebbe, ora, da veder tradotto l'altro di libro di Larraquy, La comemadre


Roque Larraquy è nato nel 1975 a Buenos Aires. Sceneggiatore e docente universitario, ha esordito nella narrativa con La comemadre (2010) ed è oggi considerato uno degli scrittori più originali della scena letteraria argentina. Rapporto sugli ectoplasmi animali di Buenos Aires è attualmente il suo primo romanzo pubblicato in Italia (da Gallucci editore).




Diego Ontivero, graphic designer e illustratore, è nato nel 1979 a Buenos Aires. Nei suoi lavori predominano i colori desaturati, insieme con le figure geometriche o astratte che si ispirano al disegno vettoriale.