"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

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domenica 12 luglio 2020

Terra Alta, di Javier Cercas, Guanda editore in Parma, trad. Bruno Arpaia

Javier Cercas abbandona la sua comfort zone (spero temporaneamente), lascia la strada che aveva tracciato e che correva sul limitare tra fiction/non-fiction e autofiction e si dedica a fare due passi ristoratori nel giallo tradizionale.

  Nella Terra Alta, regione sud della Catalunya, vengono scoperti nella propria casa i cadaveri di un'anziana coppia e della loro domestica. I due anziani, al piano di sotto, (al contrario della domestica rumena, freddata con un colpo di pistola) sono stati torturati a lungo e in modi atroci, la volontà, chiara, è stata quella di farli soffrire. L'uomo è il proprietario delle Graficas Adell, l'azienda più florida della zona, ormai divenuta multinazionale con sedi in diverse parti del mondo e che dà lavoro a buona parte dei residenti nella Terra Alta. In realtà Le Graficas Adell o, per meglio dire, il suo proprietario e fondatore, sono proprietarie di quasi tutta la Terra Alta. Ad indagare sul crimine che sconvolge l'intera regione, c'è, tra gli altri, Melchor Marìn, un poliziotto giovane, ossessionato dal libro I miserabili, dal passato travagliato diviso tra luci ed ombre (più ombre che luci, a ben vedere). E' stato inviato in Terra Alta per allontanarlo dai pericoli della vendetta da parte del terrorismo islamico dopo che, durante gli attacchi del 2017 a Barcellona, ha freddato, da solo, quattro terroristi. Figlio di una prostituta il cui omicidio è rimasto irrisolto e di padre ignoto, in seguito ad una gioventù scapestrata è stato in carcere, ed è qui dove, leggendo il capolavoro di Hugo e identificandosi nel personaggio di Javert, decide di entrare in polizia. Nella Terra Alta ha trovato il proprio equilibrio, un comunità che lo ha accolto, e una compagna con la quale ha creato la propria famiglia: la sua vita ora scorre su binari tranquilli, ma il brutale omicidio dell'anziana coppia  (e della domestica) lo porta a contatto con una realtà che, ancora una volta, lo fa precipitare nell'ossessione. Ossessione per la giustizia assoluta, per la ricerca della verità e del trionfo del bene. Ma cos'è davvero il bene? L'indagine, che gli toglierà ogni certezza, materiale e non, pare arenarsi di fronte alla mancanza di prove che portino ad imboccare una linea investigativa, l'impressione è che i colpevoli e le motivazioni del delitto debbano a tutti i costi rimanere occulti, che interessi troppo grandi e persone troppo in vista vogliano che il caso rimanga irrisolto. Ma perchè sono stati uccisi i due anziani? Chi li odiava o, per meglio dire, chi odiava il vecchio Adell, proprietario e fondatore di un impero? Tutti lo amano o lo odiano tutti? Si è trattato di una rapina, o di una vendetta? A compiere il delitto sono stati dei professionisti o dei ladri drogati? I colpevoli (forse, a questo punto, si può parlare anche di mandanti) sono da cercarsi all'interno dell'organigramma aziendale, o all'interno della famiglia?
La detection si intreccia ai flashback sulla storia personale di Melchor, e funziona come un meccanismo perfetto. La tensione è sempre alta e le svolte narrative sono preparate e dosate con sapienza. Melchor è un personaggio memorabile, complesso e tormentato ma non irredimibile, capace di trovare una sua via alla felicità e di tenersela stretta ma, anche, di metterla in gioco pur di arrivare fino in fondo alla verità. Fino a questo punto parliamo di un ottimo thriller, godibilissimo, capace di tenere avvinto il lettore già dalla prima pagina. Però qui l'autore è un signore che nella sua carriera ha scritto capolavori come Soldati di Salamina, Anatomia di un istante e L'impostore (e cito qui anche il pregevole saggio Il punto cieco), e dunque non si accontenta di seguire le regole del genere, di scrivere bene e di dosare al punto giusto tutti gli ingredienti di un buon thriller: se l'ossessione di Melchor sono i personaggi de I miserabili (l'unica concessione alla "metaletteratura" e allo specchiarsi tra narrativa e vita), quella di Cercas è il passato, e anche in questo caso la soluzione del caso giungerà da un passato che nessuno poteva sospettare. Il passato dunque è, come in tutti i libri di Cercas, il vero protagonista: la sua natura fallace, scivolosa, bifronte, e l'incapacità dell'essere umano di rapportarvisi in maniera sensata. E' il passato che nasconde la verità, ma col passare del tempo, la verità perde i suoi contorni, si arricchisce di nuove prospettive, la storia la illumina secondo modalità nuove e ciò che ad un dato momento sembrava essere una figura bidimensionale, priva di chiaroscuri, col tempo diviene un caleidoscopio di ipotesi. Fare i conti col passato vuol dire fare i conti con sè stessi o, piuttosto, scegliere scientemente di rinunciare al proprio io costruito negli anni, alla propria identità sociale e privata, in favore di un nuovo equilibrio sbilenco? Il passato, sembra dirci l'autore, è foriero di cambi di prospettiva bruschi, spesso violenti, mette in discussione ogni certezza, le sgretola, distrugge un mondo e non garantisce di porre le basi per un mondo nuovo. Eppure è dal passato che veniamo, siamo quello che siamo perchè abbiamo vissuto quello che abbiamo vissuto. Ma quello che abbiamo vissuto, rivisitato da una prospettiva futura, è ancora ciò che abbiamo vissuto, e solo quello?
  Terra alta ha diversi livelli di lettura, può essere un ottimo giallo, e può essere letto come una riflessione sul valore del passato, della vendetta e sul senso del tempo. I capolavori di Cercas sono altri, chiaro, ma gialli solidi, maturi, profondi e disturbanti come Terra Alta non sono molti in circolazione.

Melchor Marìn è un protagonista (quasi) indimenticabile (chissà che non torni in qualche libro futuro, magari più anziano, alle prese con la figlia adolescente). Cercas è sempre Cercas, anche fuori dalla sua comfort zone, basta che abbia una penna in mano (o le mani su una tastiera).



Javier Cercas è nato nel 1962 a Ibahernando, Cáceres. La sua opera, tradotta in più di trenta lingue, è pubblicata in Italia da Guanda: Soldati di Salamina (Premio Grinzane Cavour 2003), Il movente, La velocità della luce, La donna del ritratto, Anatomia di un istante, Il nuovo inquilino, La verità di Agamennone, Le leggi della frontiera, L’avventura di scrivere romanzi (con Bruno Arpaia), L’impo­store, Il punto cieco e Il sovrano delle ombre. Anatomia di un istante ha vinto nel 2010 il Premio Nacional de Narrativa e nel 2011 il Premio Salone Internazionale del Libro di Torino e il Premio Letterario Internazionale Mondello. L’impostore è stato finalista al Man Booker International Prize 2018.

domenica 20 marzo 2016

Il punto cieco, di Javier Cercas, Guanda editore, trad. Bruno Arpaia

  Cos'è il romanzo (la forma-romanzo), e oggi è ancora vivo e vibrante o si è forse fermato, come sosteneva Alain Robbe-Grillet, all'800? E' stato salvato dal postmodernismo o è da esso stato condannato ad un'irrilevanza cinica e fine a sé stessa? Tutto nasce (e finisce) col Chisciotte cervantino o, nonostante tutto, il romanzo continua a vivere e a combattere con (o contro) di noi? E' un capolavoro La città e i capi, di Vargas Llosa? E Anatomia di un istante, dello stesso Cercas, è un romanzo, un saggio, un romanzo storico, è non fiction novel, o piuttosto un saggio romanzato o, ancora, un saggio scritto con le tecniche narrative proprie del romanzo, come predicato dal new journalism? Tutti questi interrogativi (e altri) trovano spazio nei quattro capitoli (più prologo ed epilogo) che compongono questo libro (La terza verità, Il punto cieco, La domanda di Vargas Llosa, L'uomo che dice no) e ruotano tutti attorno al concetto di "punto cieco", che dà il titolo al secondo capitolo e al libro stesso.
  Don Chisciotte è sano di mente o malato? Ecco il primo, il più alto esempio di punto cieco. Cervantes non ce lo dice, non lo esplicita. Tutto il Chisciotte è giocato sul filo dell'ironia e del paradosso, il paradosso di inanellare domande senza una risposta, o con molteplici risposte possibili. Il romanzo aperto, il primo esempio di romanzo moderno, Il Don Chisciotte, il capolavoro assoluto. In cosa consiste il punto cieco di cui Cercas parla? Nel territorio di incertezza che l'autore crea non fornendo al lettore tutte le risposte, bensì, chiamandolo ad essere parte attiva della costruzione del romanzo, ad immaginarsi le possibili risposte, e le ulteriori domande. Un centro cieco - un meccanismo che non si ferma ad essere semplice espediente narrativo - la cui prospettiva, paradossallmente, illumina il resto della narrazione e la permea di una sorta di moto perpetuo. Il romanzo come un pensiero sempre in movimento, che a sua volta genera altri movimenti, e che non trova in sè una conclusione.
 Mentre i romanzi a tesi costruiscono una storia che si svolge per attirare l'attenzione del lettore e condurlo per mano al finale che non sarà altro che la dimostrazione della tesi (implicita o esplicita) iniziale, i romanzi del punto cieco costruiscono (e al contempo cosituiscono) un meccanismo narrativo che lascia il lettore in uno stato di sospensione, in attesa di una risposta che non verrà mai, ma che fungerà da moltiplicatore di domande e di punti di vista.
  Il romanzo sarebbe dunque quello strumento che l'uomo ha creato per porsi domande, per complicare quelle che già si era posto, per mettere in dubbio le risposte che si era dato o, per dirla con le esatte parole di Cercas: 

  La risposta è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso.

 Attorno a questo assioma gli altri capitoli indagano sul perché della grandezza de La città e i cani, il primo romanzo di Vargas Llosa, uno dei grandi romanzi in lingua spagnola, del come sia possibile rendere una storia tutto sommato semplice, un capolavoro immortale. Di come un libro realista possa contenere al suo interno un punto cieco. E poi, esiste ancora il romanzo impegnato, e cos'è? Cos'è o, per meglio dire, cosa dev'essere, per il romanziere, "l'impegno"? E l'intellettuale è morto (Sartre lo è, da tempo, ma la figura dell'intellettuale, lo è?) o è più vivo e presente che mai? 
  Le riflessioni abilmente inanellate nei quattro capitoli di questo libro inquadrano un ragionamento più ampio che Cercas condivide col lettore sulla letteratura e sul suo ruolo nel mondo e nella storia, sul romanziere e sul suo ruolo nella società intessendo i diversi passaggi con riferimenti personali alla propria vita di uomo e scrittore e prendendo in esame la sua stessa produzione narrativa (Anatomia di un istante in modo particolare). La prosa piacevole, ricercata senza mai scivolare nella pesantezza, capace di sviscerare ogni argomento in un ritmo razionalmente cadenzato dal reiterarsi delle domande, rende Il punto cieco, una lettura vibrante, accessibile, indispensabile per chi ama la letteratura in ogni sua espressione e non smette di interrogarsi sul mistero di come sia possibile che l'arte di raccontarsi (e raccontare) storie sia così imprescindibile e vitale per l'essere umano.

Javer Cercas è un collaboratore abituale dell'edizione catalana di "El País" e del supplemento del sabato e dal 1989 è docente di letteratura spagnola all'Università di Gerona.
Ha raggiunto il successo con Soldati di Salamina (Guanda 2002), che in Spagna è arrivato alla quindicesima edizione; Il movente (Guanda 2004); La velocità della luce (Guanda 2006); La donna del ritratto (Guanda 2008); Anatomia di un istante (Guanda 2010); Il nuovo inquilino (Guanda 2011) e L'impostore (2015)

lunedì 14 settembre 2015

L'impostore, di Javier Cercas, Guanda editore, trad. di Bruno Arpaia

Javier Cercas veste i panni di un Cervantes titubante e ci racconta la storia di come il suo personale Don Chisciotte lo abbia ossessionato a tal punto da portarlo a vincere le sue naturali reticenze e a narrarne le (dis)avventure. Il cavaliere errante in questione si chiama Enric Marco e nel 2005, ultraottantenne, viene scoperto dal mondo intero in flagranza di menzogna. Su cosa aveva mentito? All'incirca su tutto. Peggio, non solo su tutto ma, tra le altre cose, anche su un tema sul quale non è concesso mentire. Un tema sul quale non è perdonabile mentire: l'olocausto. Nel 2005 era l'attivissimo e caoticissimo presidente dell'associazione di ex deportati spagnoli Amical de Mauthausen, in procinto di recarsi a Mauthausen per le celebrazioni del giorno della memoria, celebrazioni alle quali avrebbe preso parte per la prima volta un premier spagnolo, Zapatero, quando un oscuro storico, Benito Bermejo, scopre la sua impostura: Enric Marco non è mai stato prigioniero del campo di concentramento di Flossenburg. Da quel momento crolla tutto: non solo la sua falsa identità di deportato ed oppositore del nazismo, ma anche quella di resistente antifranchista datosi alla macchia e, almeno in parte, in buona parte, il suo passato di anarchico libertario amico del leggendario Buenaventura Durruti e di altri celebri anarchici spagnoli. Ogni cosa ora è in frantumi, e il botto è tremendo, una deflagrazione che supera i confini del mondo degli storici e dei sopravvissuti all'olocausto, supera quelli della Catalogna, della Spagna e diviene un caso internazionale. In generale il mondo lo condanna senza possibilità di redenzione, c'è addirittura chi gli augura il suicidio, unica via possibile per uscire da una situazione talmente enorme da suonare non solo mostruosa ma addirittura assurda. Enric Marco, però, nonostante l'età, a suo modo, affila le armi e combatte. Risponde a tutti, giornalisti e curiosi e a tutti spiega di aver sbagliato sì, ma fin di bene. In che senso? Nel senso che lui ha colmato un vuoto, in Spagna non c'era mai stata una particolare attenzione alle vittime della guerra, la Grande Guerra, la maggior parte di coloro che avevano patito nei campi nazisti o erano ormai morti o sufficentemente vecchi da non aver alcuna voglia di raccontare quell'incubo che ormai sembrava essere definitivamente lontano e superato. Enric Marco, nonostante la sua età, sprizzava energia come un ventenne, era dotato di una retorica fuori dal comune e sembrava non essere nato che per portare la testimonianza attiva e proattiva di un passato così oscuro e demoniaco. Ma, si domanda Cercas, chi è davvero Enric Marco? Cosa lo ha portato a mentire su quasi tutta la sua vita? Perchè a cinquant'anni suonati ha deciso di ricostruirsi un passato e, in un periodo dell'esitenza in cui è lecito prepararsi degnamente alla vecchiaia, ha premuto sull'acceleratore e ha finto di essere chi in realtà non era mai stato? Un picaro, una canaglia, un impostore, un eroe, uno scrittore che ha voluto vivere in prima persona i suoi romanzi, un uomo di buon cuore, un bambino in cerca di affetto, chi è Enric Marco? Javier Cercas, scrittore dalla penna finissima e dall'acume fuori dal comune, intellettuale di razza, si domanda se è giusto scrivere un libro su un impostore che cerca e ha sempre cercato la notorietà, se così facendo non gli si restituisca forse un favore, se non parlarne affatto non sia la scelta migliore, dimenticarlo, imporgli l'oblio come la peggior penitenza; poi, se scrivere un libro su di lui non sia, all'opposto, una condanna troppo grande per un uomo che, in fondo, non ha fatto del male a nessuno, che si è dato da fare prima come segretario della leggendaria CNT (il sindacato anarchico in cui aveva militato l'altrettanto leggendario Buenaventura Durruti), poi come dirigente di una importante associazione di genitori ed infine come supremo rappresentante della già citata Amical de Mauthausen. Si può scrivere un libro di non finzione su un uomo che ha finto tutta la vita, la cui intera esistenza è stata una messincena? Si può perdonare di aver mentito su un argomento laicamente sacro come l'olocausto? Cercas compone un libro complesso, dal passo lento, tornando spesso sui medesimi argomenti, sui medesimi dubbi, reitera interi periodi, dà volutamente l'impressione di dimenticare di aver già ribadito certi concetti e vi torna sopra con il piglio del ricercatore che non si pone il problema dello stile e della solidità della composizione ma, anche questa tecnica (mascherata da mancanza mancanza di tecnica), a suo modo è una finzione. Il libro di Cercas infatti è calibratissimo, non una parola è scivolata per caso sul foglio: le ripetizioni ossessive, lo scavare nella biografia, il comporre scenari e prove sono aspetti saggistici perfettamente bilanciati da un'attenzione spasmodica (e prettamente narrativa) allo stile. E' un romanzo (e lo è a tutti gli effetti, perchè non è un saggio), ma è un romanzo di non finzione. Non è giornalismo letterario bensì romanzo giornalistico. O qualcosa del genere. Un essere ibrido, una scommessa assurda che dà vita ad un'opera eccezionale.

  Non è lo scrittore, in fondo, colpevole del medesimo peccato di Enric Marco? Non si nasconde forse dietro storie di fantasia, non ricopre un ruolo sociale riconosciuto che diviene la sua personale maschera? Cercas, spogliando (o cercando di spogliare) Marco di tutte le sue infinite maschere, non si spoglia giocoforza delle sue? Soprattutto, si può cercare di capire un uomo chiaramente colpevole senza cadere nel vizio umano, troppo umano, di giudicare? Cercas, lungo tutta la durata del libro non fa altro che domandarsi se stia condannando il suo protagonista o se lo stia in fondo assolvendo. Addirittura si pone il dubbio se, ponendolo di fronte alla realtà, non lo stia salvando. L'impostore è un libro di domande, un libro che più che seguire il ritmo del parlato segue quello del "ragionato", scala un abisso con la netta sensazione (e paura) di scoprire in cima (o in fondo) all'abisso uno specchio. Non è che ognuno di noi si possa riconoscere in Enric Marco, ovviamente e per fortuna, ma è vero che ognuno di noi ha corso quel rischio. In fondo, così come Genna ne La vita umana sul pianeta terra (e in Hitler) definisce Breivik come una non persona, come uno spazio vuoto da riempire, anche Cercas vede in Enric Marco un contenitore vuoto. E si è contenitori vuoti fino a quel dato momento in cui non si arriva a dire No. Fino a quel dato momento in cui non si decide di non stare più con la maggioranza ma di rimanere soli, a urlare il nostro No. Sono quei No che definiscono una persona, non solo rispetto agli altri, ma anche rispetto a sè stessa, restituendole consapevolezza. Alla fine, questo, è un libro sull'identità, sul terrore che abita chi questa identità cerca, chi questa identità non trova, e chi ha creduto di averla trovata e, d'un tratto, si pone il dubbio di essersi solamente illuso di averla trovata. E' un libro che scavando nel passato si pone il quesito più cruciale del nostro tempo ricco di realtà virtuale ma privo di ideologie e spesso pure di idee:

chi sono io?

  La risposta, se esiste, sta tutta in Cervantes, in quell'hidalgo posseduto da lucida follia che ad un certo punto della sua vita decide di essere qualcun altro, per poi tornare ad essere Alonso Quijano, e di questo morirne. Si muore, di realtà o di finzione ma si muore comunque, senza sapere chi si è stati o illudendosi di saperlo, e se in fondo Don Chisciotte alla fine rinsavisce, comunque è stato bello vederlo svalvolare in giro per la Mancha, è stato bello per noi ma, forse, viene da pensare, anche per lui. 

Javer Cercas è un collaboratore abituale dell'edizione catalana di "El País" e del supplemento del sabato e dal 1989 è docente di letteratura spagnola all'Università di Gerona.
Ha raggiunto il successo con Soldati di Salamina (Guanda 2002), che in Spagna è arrivato alla quindicesima edizione; Il movente (Guanda 2004); La velocità della luce (Guanda 2006); La donna del ritratto (Guanda 2008); Anatomia di un istante (Guanda 2010); Il nuovo inquilino (Guanda 2011).

domenica 17 maggio 2015

Godetevi la corsa, di Irvine Welsh, Guanda editore

Chi non conosce Welsh alzi la mano, e chi l'ha alzata corra in libreria a porre rimedio. Irivine Welsh è una sorta di miracolo letterario, oltre che un ossimoro vivente: scrive in uno slang tossico-edimburghese al limite del compensibile (i suoi traduttori in tutto il mondo sono figure eroiche, come il nostro Massimo Bocchiola) e con una solidità strutturale di fondo assolutamente incredibile, i suoi personaggi e le sue storie sono deviati, tossici, maniaci, perdenti, ubriaconi, caricature del peggior sottoproletariato violento scozzese, gentaccia che si perde in storie folli, sbilenche e sgangherate, eppure non c'è libro di Welsh che non finisca con l'aprirsi in improvvisi sprazzi di profondità totalmente inattesi. Verrebbe da dire che Welsh è un genio letterario suo malgrado. All'apparenza i suoi libri paiono talmente immediati da sembrare improvvisati, raccontano storie così assurde da risultare, ad un primo impatto, inverosimili, eppure non sono molti gli autori al giorno d'oggi da potersi permettere dei libri tanto riusciti come quelli del bardo scozzese. Realista kitsch? Poeta del sottoproletariato? Omero di un'infinita odissea tossica? Welsh è questo ed altro ancora. Ci ha portati per mano a conoscere il mondo dei tossici scozzesi, le loro vite e i loro sogni insostenibili (o la loro insostenibile mancanza di sogni sostenibili) con il suo stile basso, diretto e comico, urlato e involontariamente malinconico. Alla base di tutte le sue storie ci sono le vite dei personaggi, vite prese alla leggera, esistenze già segnate in partenza o che si incastrano in incubi assurdi poco alla volta, scelta sbagliata dopo scelta sbagliata, incastro dopo incastro. Questo Godetevi la corsa non si distanzia dalla poetica degli altri libri di Welsh, e come in altri casi anche in questo libro appare, anche se in un ruolo di semplice comparsa di fondo, uno degli immor(t)ali protagonisti di Trainspotting, in questo caso SickBoy, divenuto imprenditore di successo nel mondo dei video pornografici di Londra. Il protagonista invece è Terry "Gas" Lawson, nuova entrata nel pantheon welshiano, tassista e attore porno, bellimbusto senza arte nè parte, tutto riccioli e "pacco", spacciatore a tempo perso, sciupafemmine per vocazione e "ripopolatore" di Edimburgo e dintorni (i figli leggittimi e non, non si contano) proprio come il suo odiato padre Henry. Lo seguiamo nella sua discesa da una spensierata e scopereccia quotidianità agli inferi dell'astinenza sessuale coatta (causa un muscolo cardiaco ridotto a brandelli) ed alle conseguenze che questa porta, come un uragano, nella sua e nelle vite di chi gli ruota attorno. L'uragano che si abbatte su Edimburgo all'inizio del libro, affettuosamente (ed esorcisticamente) ribattezzato "Du'palle", non è altro che l'incarnazione reale del trambusto che scuote interiormente il protagonista per tutto il romanzo. Terry salverà una ragazza in procinto di suicidarsi, diventerà amico e "socio" di un miliardario americano della tv, farà da supervisore al vice-pappone di un bordello, cercherà, senza troppa foga a dire il vero, una ragazza scomparsa (Jintina) la sera in cui Du'palle si sfoga sulla città, ragazza che è la compagna di un suo cugino mezzo scemo (cugino per modo di dire, se leggerete il libro, capirete) nonchè prostituta - per necessità ma anche per vocazione - e infine sua amante occasionale (in realtà si tratterà solo di "una botta e via", ma tant'è), aiuterà il miliardario americano a trovare una bottiglia di costosissimo whisky per collezionisti appena comprata e subito rubata, diventerà un ottimo giocatore di golf, cercherà di rimediare ai suoi errori passati redimendosi come buon padre e pessimo figlio, scoperchierà tombe e, addirittura, si taglierà i suoi leggendari riccioli accalappia-femmine, inizierà il suo cugino "mongo" al mondo del porno, e via discorrendo. Entrare oltre nella trama vorrebbe dire svelare anche solo un singolo ganglio dell'intreccio, e sarebbe già troppo. Se il protagonista è indubitabilmente Terry Lawson (e in un certo senso anche il suo "Vecchio Compare"), le voci narranti sono diverse: oltre Terry, c'è Jontino (il cugino cui manca qualche Venerdì), Jintina (la di lui compagna, prostituta e persona scomparsa) Ronnie Checker (il miliardario americano, star dei reality televisivi) e, in un paio di occasioni, addirittura "il Vecchio Compare". Se vogliamo elencare quello che capita in questo romanzo, è più facile ribadire ciò che non succede: non ci sono invasioni aliene e non crollano le Torri Gemelle. Al di là della trama, apparentemente estemporanea (non lo è, al contrario, è ben salda) ma comunque assolutamente secondaria se non in funzione di divertissement, il centro del libro sono Terry e la sua psicologia, comunque piuttosto sorprendente per essere l'emanazione di un tipo sociale (all'apparenza) parente strettissimo dell'australopiteco. Terry si barcamena in un contesto sociale in cui la violenza è il mezzo più comune per rapportarsi col prossimo e, al contrario di quanti gli stanno attorno, lo utilizza soltanto come extrema ratio. Il sesso per lui non è una perversione nè un commercio, ma il momento vitale che dà significato a tutti gli altri. Nel cercare sè stesso, nel tentativo di definirsi come "altro" da suo padre, incorrerà in una serie interminabile di accadimenti deliranti e in una scoperta devastante che lo porterà ad una rivoluzione copernicana nel percepire sè stesso, e il tutto senza l'ausilio della sua droga preferita, il sesso. Alla fine, scoprirà che essere Terry Lawson, alla fine, con tutti i suoi difetti e le sue mancanze, non è la cosa peggiore che gli potesse capitare. Questo Godetevi la corsa, è un libro straordinariamente divertente, lessicalmente devastato e devastante, sicuramente non il capolavoro di Welsh, ma comunque una folle cavalcata nei bassifondi di Edimburgo e dell'anima di Terry Lawson, un personaggio che non sarà facile dimenticare (se non è all'altezza dei leggendari SickBoy, Marc Renton, Spud e Franco Begbie (il generalissimo Franco!) è solo perchè il contesto letterario nel quale Welsh lo immagina non è Trainspotting).

 Irvine Welsh: cresciuto in un quartiere di case popolari, abbandona presto la scuola per intraprendere vari lavori, tra cui lo spazzino (ruolo in cui comparirà in un cameo nel film The Acid House). Nel 1976 si trasferisce a Londra e aderisce alla rivoluzione punk e comincia a sperimentare diverse sostanze stupefacenti. Ormai ex-tossicodipendente, Irvine Welsh comincia a scrivere mentre era ai servizi sociali, dopo aver letto il romanzo Dockerty (1975) di William McIllvaney. Scrive Trainspotting cercando di ricreare l'eccitazione che si prova andando a un rave o in un club house e utilizzando il dialetto scozzese, perché più funky rispetto allo Standard English.
Trainspotting, Ecstasy, Acid house, Il lercio, Tolleranza zero, Colla, Porno, I segreti erotici dei grandi chef, Una testa mozzata, Crime, Tutta colpa dell'acido, Serpenti a sonagli, Skagboys e La vita sessuale delle gemelle siamesi, tutti per Guanda.

mercoledì 12 novembre 2014

Le notti di Reykjavik, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

  Gli slittamenti di luogo e tempo paiono essere diventati il marchio di fabbrica di Arnaldur Indridason (Le abitudini delle volpi, Cielo Nero e Sfida cruciale). Dopo aver fatto tornare Erlendur nei luoghi dove ha trascorso l'infanzia e perso il fratello in un tormenta di neve (Le abitudini delle volpi), alla ricerca quindi del proprio passato, nel tentativo, se non di farci pace, almeno di scendervi a compromessi, dopo aver descritto le indagini dei colleghi lasciati soli a Rekjavik in una sorta di montaggio parallelo (Cielo nero) ed essere tornato indietro nel tempo, fino ai giorni della storica sfida di scacchi tra Spassky e Bobb Fisher (Sfida cruciale), per seguire le indagini di una giovane marion Briem (il futuro capo di Erlendur), lo scrittore isalndese questa volta incasella un nuovo tassello del puzzle della vita del suo protagonista, riportandolo ai suoi esordi in polizia, quando, giovane agente della stradale, si trova ad indagare suo malgrado su due casi che, al principio, paiono non aver alcun punto in comune.Il giovane Erlendur è già taciturno, ombroso, riflessivo, profondamente segnato dalla tragedia della scomparsa del fratellino e da questa ossessionato nell'intimo. Comincia a collezionare e a leggere tutti i libri che gli riesce di trovare sulle scomparse avvenute in Islanda durante nevicate o altri eventi naturali, è totalmente impermeabile alla febbre americana che in quegli anni colpisce la sua terra, non possiede televisione, non ama gli hamburgher, non ama le pizze, e non si cura di avere un qualche cosa di anche vagamente simile ad una vita sociale. Tra una rissa da sedare, un incidente stradale e una violenza domestica (quasi tutte causate dall'alcool), Erlendur trova il tempo e la muta concentrazione (nonchè un certo compassato ardimento) di approfondire la morte, apparentemente per annegamento, di Hannibal, un senzatetto che aveva avuto modo di conoscere durante le sue ore di servizio. Hannibal annega vicino alla sua dimora (tubazioni del teleriscaldamento) in una quantità d'acqua che pare insufficente, al giovane agente, per causarne la morte. Da questo primo vago sospetto, oltrechè (se non soprattutto) dal suo interesse per la vicenda umana di Hannibal, Erlendur, si immerge nel sottobosco della vita sociale della capitale islandese, quello dei senza tetto, e lo sonda con il suo personale stile, quasi in punta di piedi, attento alle esistenze di coloro coi quali entra in contatto, ma al contempo inflessibile nella sua volontà di giungere ad una soluzione. La scomparsa di una donna che pare "una gioielleria ambulante" nello stesso week end in cui Hannibal muore, è un ulteriore stimolo per l'indagine di Erlendur. Inoltre, in questo ennesimo volume della saga che verte attorno, non solo alla figura di Erlendur ed alle sue indagini ma, quasi di pari passo, e sicuramente con pari dignità, anche alle sue vicende umane, assistiamo (quasi col fiato sospeso, pur sapendo perfettamente quali saranno gli sviluppi successivi) al primo incontro tra il protagonista e quella che sarà, prima sua moglie, poi la madre dei suoi figli, ed infine una ex moglie terribilmente rancorosa. E' un flashback inquietante e poetico che, ben sapendo che influsso avrà sulla vita di Erlendur (i due figli e le loro storie travagliate, la droga, le incomprensioni, la rabbia ed il nipote), ci stupisce per la levità con cui la vita ti pone di fronte a dei bivi che si riveleranno essenziali nel caratterizzare le nostre esistenze. A volte, paiono come soffi di vento gelido che giunge dolcemente dalle foreste innevate e silenziose e finiscono per rivelarsi vere e proprie tempeste nelle quali si perde tutto, non solo i fratelli, ma anche i propri figli e, infine, sè stessi.
  L'ennesimo libro, perfettamente calibrato, di Indridason. Questo volume e arricchito dal commento di Camilleri che ci rende noto di aver già letto 5 libri della serie di Indridason. Con tutto il rispetto per Camilleri e per il suo Montalbano, i libri di Indridason li leggo a prescindere da qualsiasi consiglio.

Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde e Le abitudini delle volpi 

martedì 31 dicembre 2013

Le abitudini delle volpi, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

 Erlendur vive a Reykjavík, fa il poliziotto nella capitale, ha un matrimonio fallito alle spalle e due figli coi quali cerca di riconciliarsi dopo essere sparito dalle loro vite per diversi anni, dopo la separazione. La figlia è uscita da un lungo periodo in cui è stata una tossica di strada e il figlio è chiuso in sè stesso e rimane un mistero insondabile agli occhi del padre. Ha una compagna, Valgerdur, che forse lo ama e lo capisce o forse lo ama malgrado lo capisca.
  Erlendur è un uomo solitario, di poche parole e questa volta è lontano da Reykjavík, da solo, nei luoghi dove è stato bambino, dove la sua vita, in un certo senso, molto tempo fa, si è fermata. Quelli sono i luoghi in cui, durante una tormenta di neve, hanno rischiato di morire assiderati lui e suo padre, nella stessa tormenta che ha inghiottito il suo fratellino, Bergur, scomparso senza lasciar traccia di sè se non un'eredità di dolore muto, carico di silenzi e di sensi di colpa, che ha eroso la sua famiglia, portandola a cercare sollievo (e distanza, distanza dal dolore) a Sud, nella capitale, Reykjavík, la grande città che in quegli anni fungeva da calamita per tutti coloro che cercavano un lavoro o fuggivano da qualcosa.
Ha preso l'abitudine di tornarci, di tanto in tanto, e di trascorrere le gelide notti del nord dell'Islanda, da solo, nei ruderi della casa della sua infanzia. Seguendo un abitante del luogo, tale Boas, alla caccia alla volpe, s'imbatte in una delle sue ossessioni, un caso di scomparsa. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve negli stessi luoghi dove è sparito il suo fratellino Beggi, in una di quelle tormente nelle quali l'esitenza di Elrendur si è smarrita, o è rimasta congelata in qualche crepaccio, sepolta sotto metri di neve e di sensi di colpa. Nel 1942, in Gennaio, nel medesimo giorno e nel medesimo luogo in cui una colonna di militari inglesi si era fatta sorprendere dal mal tempo, scompare una donna che, a piedi, senza apparente motivo, voleva oltrepassare il passo nella brughiera e scollinare dall'altro versante per raggiungere la madre. I militari inglesi, soccorsi dagli abitanti del luogo, erano stati ritrovati tutti, i vivi e i morti, ma della donna, Matthildur, non si era trovata traccia, neppure negli anni successivi. La sua storia era divenuta una sorta di leggenda locale che la voleva tornata sotto sembianze di spettro a tormentare l'esistenza di Jakob, il marito, che avrebbe trovato la morte qualche anno dopo, durante una tempesta in mare. Erlendur, spinto dalla curiosità e dal parallelismo con la vicenda del fratellino, si incaponirà per giungere alla verità celata dietro gli anni trascorsi, i silenzi e dietro i pudori che hanno fino a quel momento coperto i reali termini della vicenda. Scoperchierà bare ed esistenze, risveglierà dolori e fantasmi, ma non arriverà a far pace con sè stesso nè a placare quel muto demone che lo divora giorno dopo a giorno, brandello dopo brandello. Anche se ogni libro della serie fa storia a sè, il ciclo di Elrendur va letto tutto, perchè solo l'insieme compone i reali parametri esistenziali entro cui si muove la vita del protagonista e la poetica (si, poetica, anche se parliamo di gialli) dell'autore. Solo avendo già letto gli altri si può aprezzare appieno quest'ultimo episodio che, pur nel presente, torna alle radici della vita del protagonista e lo mette faccia a faccia con la tragedia che lo ha segnato nell'infanzia, modifcandone il carattere e il suo approccio alla vita, e così facendo, come in una reazione a catena, siamo portati a credere che il fallimento del suo matrimonio, i suoi silenzi, il difficile rapporto coi figli, e quindi la vita stessa dei figli, il suo approccio al dolore e agli altri esseri umani, dipendano tutti, almeno in parte - in larga parte - da quell'episodio perso nella tormenta, nel passato, assieme a Beggi. Leggendo Indridason, si ha l'impressione confortevole di non essere soli davanti (o dentro) un libro, un libro giallo, ma di trovarci di fronte agli avvenimenti di un essere umano in carne ed ossa che non ha a che vedere con complotti millenari o con serial killer mefistofelici, che non ingolla alcool dalla mattina alla sera per lenire un dolore un po' troppo stereotipato per essere vero (spesso neppure verosimile), ma che affronta come può, spesso sbagliando (forse), il dolore di tutti i giorni, la difficoltà dei rapporti umani e dei sentimenti, l'assurdo e caparbio trascorrere del tempo che tutto travolge, lentamente, e ad ogni cosa rende una prospettiva infima, insignificante. Erlendur vive in un mondo dolente, grigio, dal quale si lascia trasportare perchè è egli stesso parte di quel dolore silenzioso e invisibile: oppone la resistenza che gli è consentita dal proprio codice morale e dal proprio ruolo di poliziotto, ma è una lotta persa in partenza dove bene e male si confondono spesso, dove chi commette il reato, a volte, è dalla parte della ragione ma non della legge, dove a volte i sentimenti che eruttano in un attimo nell'esistenza di una persona cambiano i destini di una e più vite. Questo episodio, in particolar modo, pur essendo un giallo nel più puro stile Indridason, quindi un giallo solido, scritto bene, è al contempo un romanzo sul tempo, sul suo incedere cieco, sul suo togliere significato e speranza, e sulla pochezza della vita umana, che si conta a consuntivo sulle date incise su una lapide, dove d'un tratto balza agli occhi come una vita lunga, novanta e più anni, sia alla fine una parentesi che si chiude in un cimitero, sotto qualche metro di terra, a marcire, come il ricordo si sbiadisce nella testa della gente. Ho parlato di poetica perchè i romanzi di Indridason, pur senza essere pretenziosi nello stile e nelle strutture (ma comunque lineari, chiari, accessibili e, nella loro semplicità, eleganti) sono indubbiamenti poetici: sono struggenti come solo sanno esserlo le esistenze comuni se solo ci si prende la briga di fermarsi ad osservarle, come fa Indridason, con distacco e partecipazione allo stesso momento.


Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde

giovedì 29 agosto 2013

Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, di Patricio Pron, Guanda editore

  Ci sono paesi in cui i figli non sono altro che la rivincita dei genitori rispetto alle loro sconfitte, o forse lo sono dappertutto, in ogni parte del mondo, in ogni epoca. In Argentina più che in altri posti, i giovani uomini e le giovani donne di oggi sono questo, e o prima o dopo devono farci i conti. Sono i figli di una generazione che ha intrapreso una guerra, una generazione che ha perso una guerra, anche se alla fine i dittatori sono caduti e la democrazia è stata ripristinata. Una generazione di sconfitti, spaesati, abbattuti, sferzati dalla storia e dai suoi mostri, e chi ne è uscito vivo non ha potuto fare altro che perpetuare quell'esistenza che ha messo a rischio così sfacciatamente, seppur spesso nella clandestinità, forse in maniera meccanica, seguendo il richiamo dell'istinto e null'altro. Il protagonista del romanzo di Pron è uno di questi figli della dittatura. Vive in Germania, a furia di ingurgitare pastiglie ha praticamente rimosso buona parte della propria memoria e quando gli viene comunicato che suo padre, in Argentina, sta male ed è in pericolo di vita, decide di tornare in quel paese col quale otto anni prima aveva tagliato i ponti, lasciandoselo alle spalle come qualcosa di morto e maleodorante, o moribondo e maleodorante. Il padre, Chacho, è in ospedale seppellito sotto una forma di mutismo comatoso. La casa è divenuta un corpo estraneo per il protagonista, un corpo che si è conosciuto e poi si è voluto dimenticare e dal quale si è fuggiti, mettendo chilometri da esso. La madre e i fratelli sono fantasmi che emergono enigmatici da un passatto che è fatto di nebbie e di silenzi, di brandelli di ricordi e di enormi ellissi di oblio. Il padre, inchiodato nel letto d'ospedale e, più simbolicamente, in un non luogo dove nessuno ha possibilità di raggiungerlo, è il fulcro degli interrogativi muti che vorticano nella testa del protagonista. Giornalista, padre e marito, protagonista di brevi scene strappate all'oscurità della dimenticanza, e ora corpo immobile e inconcosciente incapace di percepire la presenza del figlio. Il protagonista, presumibilmente Pron stesso, s'imbatte nello studio del padre in una serie di cartelle stipate di stralci di articoli sulla scomparsa di un tale José Alberto Burdisso, detto Burdi, sessantenne semplice e innocuo , dipendente presso il club Trebolense, dedito a lavori umili e manuali. La scomparsa era presto divenuta un caso che aveva inquietato e appassionato la città, in maniera forse inspiegabile. Soprattutto Pron (Pron protagonista) non riesce a spiegarsi l'interesse del padre per la scomparsa di un uomo che non aveva nulla in comune con lui (se non aver frequentato alcune classi insieme, a scuola, da bambini), e niente di affascinante nella propria biografia. Tutta la parte centrale del libro è un'analisi accurata e pedante del contenuto delle cartelle del padre, fino a conclusione della storia della scomparsa di Burdisso e della sua terribile risoluzione. Un particolare emerge dall'indagine e ci trasporta nella terza ed ultima parte: la sorella di Burdisso, Alicia, era scomparsa durante la dittatura, desaparecida, presumibilmente uccisa. 
  Ma chi era Alicia, perchè era collegata a quel padre sospeso in uno stato di non vita in una stanza anonima di un ospedale, perchè tra tanti desaparecidos lei era importante, la scomparsa del fratello aveva qualcosa a che vedere con quella di Alicia, anni prima?
  Il protagonista si trova di fronte all'evidenza brutale e sottile che non potrà conoscere realmente il padre, e quindi non potrà capire sè stesso e il suo senso nel mondo, se non vincerà la sua amnesia e non indagherà nel passato, suo, della sua famiglia e di Alicia Burdisso.
  La soluzione della sua indagine sarà ciò che chiunque si potrebbe aspettare se solo ci pensasse, ma riflettere sul passato, su quel certo passato, è un atto che fa tremare i polsi, perchè il passato, per definizione, non esiste ma, pur non esistendo, proietta la sua ombra sul presente e con l'ombra pone le basi per dare un senso al presente. Qual'è quel senso, per il protagonista, e dunque qual'è la sooluzione della sua indagine?
  Nel quantità spropositata di romanzi argentini sul periodo della dittatura, il romanzo di Pron è una lama elegante che affonda nei recessi meno evidenti dell'abisso di dolore che quegli anni hanno provocato, nei rapporti famigliari di chi è sopravissuto, nella proiezione del senso ostinato di sconfitta che una generazione trasmette, suo malgrado, a quella dei figli, nel senso di spaesata inutilità di quei figli che si ritrovano annegare in un mare di silenzi, di accenni involontari, di indizi disseminati più o meno volontariamente perchè qualcuno un giorno li individui, e li metta insieme, e infine ne racconti la storia.
  Un romanzo lento, scritto con la perizia di un anatomista nel descrivere sentimenti che non possono essere esplicitati, che racconta le conseguenze del male e come queste conseguenze si propagano come onde di generazione in generazione, mutando forme ed intensità ma rimanendo sempre uguali a sè stesse nella domanda di fondo. Un romanzo, quello di Pron, che senza voler essere consolatorio, è a sua volta una risposta, seppur imperfetta e dolorosa, a quella domanda che il romanzo stesso pone, instaurando un gioco di specchi e di dolori che in essi si riflettono che si comprende appieno solo alla fine. Certi mali, e con essi certe sconfitte, acquistano un senso solo se qualcuno trova la forza, la pazienza ed il coraggio di narrarli. Chi assolverà questo compito dolente, non si salverà, nè cambiera la propria vita e tantomeno il corso della storia: ma darà un senso ad Alicia, e a Chacho, a chi è morto e a chi è rimasto vivo senza più nemmeno la forza di raccontare.


Patricio Pron ha conseguito un dottorato in filologia romanza all'università di Gottingen e attualmente vive a Madrid, dove lavora come traduttore e critico letterario. E' autore di racconti (Hombres infames; El vuelo magnifico de la noche; El mundo sin las personas que lo afean y lo arruinan; Trayendolo todo de regreso a casa e La vida interior de las plantas de interior) e romanzi (Formas de morir; Nadadores muertos; Una puta mierda; El comienzo de la primavera e appunto il libro qui recensito: El espiritu de mis padres sigue subiendo en la lluvia) che hanno ricevuto numerosi premi.

Un interessante articolo su Pron lo trovate qui, dal blog delle edizioni Sur.

Il blog di Patricio Pron lo trovate qui (blog sul quale abbiamo l'onore di essere ospitati con un link nella sezione resena , vale a dire recensioni, esattamente qui: un grazie di cuore all'autore, Patricio Pron)






venerdì 7 ottobre 2011

Chi non muore, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

Angie, mamma mia! Il romanzo qui recensito sta tutto in una parola, che poi è pure la protagonista assoluta del romanzo: Angie, vale a dire Angela detta Angie. Così somigliante ad Angelina Jolie, tette a parte, con le sue labbra carnose e il suo essere un po' rocker e un po' snob, e la sua follia dei vent'anni o giù di lì, quella stessa follia che tutti abbiamo avuto a quell'età o, più che altro, tutti abbiamo sognato di avere e che ora, passata abbondantemente la trentina, tutti ci illudiamo di aver avuto. La storia pretenderebbe di essere un giallo, un giallo che poi finirà col tingersi di sfumature paranormali, così come Cicatrici, ma la pretesa è una finzione. Non è un giallo. Nel senso che usa la struttura (seppur in modo molto elastico) del giallo per parlare di altro, non so esattamente di cosa. Non so dire di cosa tratti perchè non so se ci sia un messaggio o un argomento particolare - se c'è non me ne sono accorto o me ne sono scordato - quello che so è che è la storia di Angie, è una sorta di telecamera che entra nella sua vita, dietro i suoi occhi, all'interno del suo cristallino e delle sue sinapsi cerebrali per mostrarci il mondo confuso, sconclusionato, forse pure terribile, ma ancora totalmente aperto ad ogni sviluppo, di una ventenne che vive da sola in una città universitaria, una ventenne che dovrebbe trascorrere le sue giornate all'università ad apprendere e a studiare e che invece pensa alla musica e a diventare una rocker. La musica, non tutta la musica e non una musica in particolare, bensì tutta quella musica che la fa sentire viva e, soprattutto, diversa. Diversa da tutto e da tutti. L'italia banale, massificata, bigotta e videodipendente, sostanzialmente lobotomizzata di questi anni non è neppure sullo sfondo, ma si limita a venir ben rappresentata dalle odiate coinquiline di Angie. Delle idiote, maniacali, bigotte, paranoiche e quant'altro, ma che non servono a nulla se non a ridicolizzare sè stesse. Il centro del romanzo non è neppure il mistero della morte di tre elementi di una band avvenuta anni prima del presente in cui Angie racconta, e non risiede neppure nella storia d'amore tra Angie e Mizar: il centro del racconto è la furia devastante della protagonista che ci racconta in presa diretta cosa fa e cosa pensa, e anche quando"fa" senza pensare, il suo essere a volte perfida e altre superficiale ed altre ancora lievemente romantica. E' la voce della gioventù cosciente di essere tale e che si concede la licenza di guardarsi da fuori e di viversi contemporanemante. Il finale, a mio avviso, lascerà un po' l'amaro in bocca, perchè se era una finzione il giallo ovviamente non può che essere una finzione pure la soluzione del giallo, ma non è questo il punto, perchè il romanzo non lascerà l'amaro in bocca, per nulla. Quello che rimane è la sensazione di essere incappati raramente, o forse mai, in un personaggio così fresco e assoluto, femminile e forte al contempo, nella letteratura italiana contemporanea. E su questo bisogna riconoscere a Morozzi un ulteriore balzo nella sua caratura di scrittore: è riuscito a creare un personaggio nuovo (senza peraltro esserlo realmente) e fornendolo di una voce - questa sì - assolutamente unica e perfettamente azzeccata.
La voce di Angie. Angie. Il sesso di Angie. La sua musica. Il suo mondo scapestrato e futilmente anarchico.
La copertina invece fa schifo.

lunedì 26 settembre 2011

Cicatrici, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

In realtà si tratta di due romanzi in uno. Due microromanzi, diciamo. Due microromanzi lunghi; uno un po' più lungo (o meno corto) dell'altro e, in un certo senso, in netto contrasto tra loro. Mi spiego. C'è una storia terribilmente e tragicamente realistica, la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg (uomo), che è una storia d'amore disgraziata e maledetta. Forse. Nel senso che forse è una storia d'amore. Come storia invece è senza dubbio tragica e terribile, non ci piove. Per certi versi ricorda le inquietudini e i misteri e i sottintesi del capolavoro di Ernesto Sabato "Sopra eroi e tombe" e la figura di Felice (donna) pare ritagliata su quella di Alejandra, almeno fino ad un certo punto, poi comunque questo Cicatrici non è certo Sopra eroi e tombe. E qui finisce la similitudine. L'intrecciarsi della loro vicenda riesce ad essere tanto realistica quanto onirica. Lui è un tipografo triste che lavora di notte, ogni notte sale sul suo autobus per andare al lavoro e ogni mattina vi risale per tornare a casa. Lei appare sullo stesso autobus come per magia. Lui è brutto, enorme, sgraziato, chiuso in sè stesso e nella reiterazione sorda dei suoi giorni. Lei, no, lei è dolce, eterea, sottile. E misteriosa. Poi, com'è come non è, si conoscono: lui è già cotto da un pezzo e lei pare ricambiarlo. Fino a qui nulla di male. Poi però arriva l'altro, che è suppergiù l'incarnazione del male. Non vado oltre a svelare la trama, però ci tengo a sottolineare che nel pezzo in cui Felice (donna) ricorda e svela il suo lento (o velocissimo) cadere e degradarsi per amore dell'altro mi pare di leggere una netta volontà di riportare, trasfigurandola, una certa realtà al giorno d'oggi molto ben rappresentata nel nostro paese (e non solo): quella del potente che può e vuole tutto, abietto, che considera la donna un oggetto e che si comporta di conseguenza, che gode delle proprie perversioni e della propria impunità. Chiusa parentesi. Poi c'è l'altro microromanzo lungo (un po' meno lungo del primo), che funge da cornice, e che è una storia di reincarnazioni a rotta di collo, vorticose alla fine, una dietro l'altra, un avvilupparsi di karma che si intrecciano e dipanano alla velocità di un battito di ciglia. All'inizio pare fatichino a coabitare, ed in effetti secondo me è così, non coabitano per nulla, ma alla fine della fiera finiscono per funzionare perchè una racchiude l'altra, e quando la prima si conclude ha senso portare a termine la seconda, che quasi lascia sfumare la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg in secondo piano, smorzando i termini tragici, guardandola come da lontano, da una spiaggia fredda e immobile sul limitare del tempo.
  Morozzi scrive bene, non lo si può negare. E' dotato di uno stile freddo e calcolato, però in qualche maniera anche fresco e se, nella prima parte della sua carriera, era messo al servizio di storie sgangherate e divertenti di provincia (la sua provincia), a dar voce a giovani sull'orlo di un allegro nulla, una banda di lievi tardoadolescenti felicemente smarriti nel mondo d'oggi, da Blackout in poi ha utilizzato le virtù del suo scrivere per scavare nel lato oscuro dei suoi personaggi. Ci riesce bene.

 
E' uscito da poco il nuovo libro di Gianluca Morozzi, Chi non muore, sempre per Guanda.
  Qui potete trovare la sua bibliografia, nonchè la biografia.