"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 30 settembre 2012

Hell's angels, di Hunter S. Thompson, Baldini e Castoldi Dalai editore

  Si muovono in gruppo o, per meglio dire, in branco. Il loro leggendario capo - per usare le parole dello stesso Thompson: il loro Lider maximo -, Ralph <<Sonny>> Barger, è un semplice magazziniere. Le ragazze, vale a dire le "loro" ragazze, "se ne stanno tranquille in gruppo, indossando pantaloni a zampa, fazzoletti, camicie smanicate, maglioni, con stivali ed occhiali scuri; hanno reggiseni a balconcino e rossetti brillanti, e l'espressione vuota e diffidente di anime opache diventate nervose e cattive per aver accumulato troppa amara saggezza in pochissimi anni". Siamo a metà degli anni '60 e loro sono gli Hell's angels, gli angeli dell'inferno, e le cronache dei giornali del 1965-1966 sono piene zeppe delle loro "gesta" belluine: risse, incendi, devastazioni, stupri di gruppo, uso ed abuso di alcolici e droghe. Odiano la polizia e qualsiasi forma di autorità costituita ma flirtano con il credo nazista, e come i tre moschettieri sono uno per tutti e tutti per uno, senza far domande, senza porsi troppi perchè. Se uno ha dei problemi con un Angel, allora ha problemi con tutti gli Angels. Quando si muovono in sella alle loro Harley Davidson sembrano uno sciame ordinato di enormi cavallette meccaniche, o un esercito postmoderno di rombanti selvaggi con barba lunga e braccia tatuate. Il loro simbolo, un teschio con un casco alato. L'america intera, borghese e benpensante, ne è terrorizzata, e Hunter S. Thompson, l'inventore del Gonzo Journalism, ci si butta a capofitto. Non si limita a scrivere su di loro, a raccogliere informazioni ma, secondo il suo stile, li incontra, entra in confidenza con loro, diventa loro amico (per quel che è possibile dirsi amico di un esercito di animali), si compra una moto e li segue in giro per i loro raduni, si ubriaca con loro, e mette insieme questo libro che è uno dei capisaldi della letteratura giornalistica del '900. Le domande sono evidenti, tutta l'America se le pone angosciata in quei lontani anni '60: chi sono questi Hell's angels, da dove vengono, cosa vogliono, quali sono i loro obiettivi? Thompson non ci fornisce solo le risposte (o piuttosto le sue risposte), ma ci conduce insieme a lui, in sella alla sua moto comprata per l'occasione, durante le sue serate all'El Adobe con gli Angels, o ai loro raduni ed alle loro feste, a rischiare le botte (fino, all fine dei giochi, a prenderle per davvero) per cercarle, queste risposte, per strappargliele di bocca quando sono troppo ubriachi o sfatti anche solo per rendersi conto che sarebbe meglio tenere la bocca chiusa, o quando sono divenuti talmente vanitosi da comprare i giornali solo per cercare qualche articolo che parli di loro. Quello che scopriremo (e soprattutto quello che scoprirà l'America dell'epoca) non è ciò che ci aspettavamo. Per esempio, ci imbatteremo in una stampa che parla del fenomeno Hell's angels senza conoscerlo e a tal punto spaventata da esso da tenersene ben alla larga, finendo così per descrivere all'americano medio un qualcosa che è più orribile ed al contempo più affascinante di ciò che emerge dalla cruda e semplice realtà dei fatti. Ma quali sono questi fatti? Sono realmente degli stupratori di gruppo? Forse si e forse no, ma nei casi verificati da Thompson gli Angels vengono sempre prosciolti perchè, di solito, si tratta di sesso di gruppo, magari selvaggio, magari perverso, ma comunque consenziente. Le violenze? Ci sono, e in gran misura, gli Angels non rifuggono la violenza (la violenza è parte integrante della loro estetica), ma spesso si tratta di risposte a provocazioni (o a ciò che gli Angels intendono come provocazioni, normalmente in senso estensivo), anche se non sempre. Poi, hanno strane abitudini: sono capaci di distruggere un bar, di farlo a pezzi, ma prima di uscire pagano i loro conti fino all'ultimo centesimo. A volte hanno famiglia, moglie e figli. Se la cavano con lavori saltuari o stagionali e con i sussidi di disoccupazione. Ma, alla fine, cosa vogliono relamente questa sorta di Unni su due ruote? Sicuramente non ciò che la gente immagina che vogliano. Ad esempio, non vogliono ciò che vuole il movimento Hippie dell'epoca, non cercano la pace, se la ridono del credo della non-violenza, non inseguono un altro mondo (magari lo vorrebbero anche, ma non hanno i mezzi culturali per saperlo immaginare) nè utopie di alcun genere, non pretendono che gli U.S.A. si ritirino dal Vietnam, non hanno interesse alcuno per gli obiettivi per cui si battono i comunisti (una società più giusta, ad esempio) perchè essi stessi sono fortemente anticomunisti (forse senza neppure sapere bene il perchè), anche se nella sostanza delle cose spesso vivono come una sorta di comune portata all'eccesso. Forse neppure sanno cosa desiderano, questo fino almeno a quando i media non fanno di loro delle star: allora comprendono (o forse non lo comprendono neppure ma si comportano comunque di conseguenza) che ciò che vogliono è la fama, sono i titoli sui giornali, sono le interviste, e sono i soldi. La fama, in qualche modo, arriva, la fama a cui puntano loro, e che si meritano, quella di terribili fuorilegge, nulla di più, ma i soldi no. Quelli non arriveranno mai, non hanno idea di come fare ad attrarli, e dunque continuano a guadagnarsi una modesta pagnotta come meccanici, magazzinieri, lavoratori stagionali, spiantati di ogni genere che non hanno un futuro e che sanno perfettamente che un futuro non l'avranno mai. Soprattutto hanno accettato la loro condizione di esclusi e hanno reagito di conseguenza. Sono tagliati fuori dalla società del benessere e per questo decidono di apparire agli occhi dell'americano medio esattamente come l'americano medio li vuole vedere: brutti, sporchi, porci (depravati, libidinosi e soprattutto violentatori) e cattivi. Sono punk prima che nascano i punk, ma punk feticisti delle motociclette e non della musica (o rumore che dir si voglia), sono figli di perdenti e perdenti essi stessi, il sottoprodotto del sottoproletariato americano che non ha nessun intenzione di muovere un solo muscolo per cambiare il proprio status. L'America non riesce a renderli parte del Grande Sogno a Stelle e Strisce e quindi ha bisogno (un bisogno disperato e incoerente) di vederli come esseri indegni di questo sogno: la responsabilità se non ne fanno parte non può essere del sistema America (società, economia, valori, media, ecc.), deve per forza essere colpa loro. E questo è il dono che gli Angels portano al proprio paese, una scusa per continuare a credere di essere perfetto o, quantomeno, nel giusto. E' colpa loro, tutta colpa loro e di nessun altro: sono dei loser, dei perdenti che non avranno neppure diritto ad essere cantati da un Bruce Springsteen qualsiasi nè di venir immortalati nei libri di qualche Nelson Algren, o John Steinbeck (che in realtà ha il tempo di vederli ma che sarebbe morto di lì a poco) o Ernest Hemingway. Sono troppo cattivi, non hanno ideali, sono selvaggi, puzzano, hanno barbe e capelli lunghi, non hanno sogni, non hanno nulla da portare in pegno al futuro, non sanno come cambiare la realtà in cui si trovano a vivere e se lo sapessero non avrebbero idea della direzione in cui incanalare il corso delle cose. Trattano le donne come oggetti, sono lontani anni luce dal movimento femminista di quegli anni, e coi figli dei fiori hanno in comune solo la passione per le droghe, ma senza pretese trascendentali, non credono che sballarsi li conduca sulla soglia della percezione di un altro mondo, è solo che a loro piace sballarsi, così come adorano sbronzarsi, e gettarsi nelle risse, andare in giro sventolando svastiche e sfoggiando elmetti nazisti, terrorizzando la gente. Amano spaventare la Brava Gente della Nazione, per loro è come mettere in piedi uno spettacolo: l'America ha drammaticamente bisogno di aver paura di qualcuno o di qualcosa, e gli Angels sono esattamente quello che l'America cerca. Nient'altro però. Niente di più.
  E se Algren e Hemingway non scriveranno mai un solo racconto su di loro, allora è Hunter S. Thompson che si prende la responsabilità di farlo, nel suo solito stile, personalissimo, scanzonato e pungente come pochi. Ironico ma al contempo capace di analisi che, al giorno d'oggi, a decenni di distanza, paiono più azzeccate che mai.

  Di corollario a tutto ciò, una considerazione: diventa un'urgenza quella di avere in Italia una biografia di Hunter Thompson, non se ne può fare ancora a meno. Non per molto tempo. La speranza che nutro è che tra le carte lasciate da Thompson si trovi un'autobiografia, perchè Hunter S. Thompson raccontato da sè medesimo sarebbe il punto più alto del Gonzo Journalism ed al contempo il suo punto di fusione, di annullamento. Noi fans del genio irregolare di Thompson rimaniamo in attesa che venga tradotta tutta la sua opera, articoli ed inediti compresi, perchè la sua visione sbilenca e lucidissima è indispensabile per farci un'idea di questo guazzabuglio di fatti che la folla si ostina a chiamare realtà.

  

  Hunter Stockton Thompson (o Raoule Duke, o Dottor Gonzo) è nato nel Kentucky, il 18 luglio del 1939. Fece parte della Athenaeum Literary Association di Louisville, ma atti vandalici, lingua mai tenuta a freno e ubriachezza lo portarono ben presto a conoscere il carcere.
Questi problemi gli impedirono di laurearsi.
Prestò il servizio militare nell’aviazione militare in Texas e poi in Florida: scrisse di sport sotto pseudonimo per alcuni giornali interni alle basi di San Antonio e Pensacola. E' considerato l'inventore del cosiddetto Gonzo Journalism. In Italia sono stati pubblicati: Cronache del Rhum, Screwjack, Paura e disgusto a LAs Vegas, Meglio del Sesso, Hey Rube, Paura, disgusto e la grande pesca allo squalo. Hunter S. Thompson si è suicidato a 67 anni il 21 febbraio 2005 con un colpo d'arma da fuoco alla testa a Woody Creek in Colorado (in realtà la sua morta è avvolta dal mistero, pare che, scrivendo un libro sugli attentati dell'11 Settembre 2001 fosse incappato in documenti scottanti e che, una settimana prima, avesse previsto la sua morte: un approfondimento su questo aspetto lo potete trovare qui).

venerdì 21 settembre 2012

Segnali che precederanno la fine del mondo, di Yuri Herrera, La Nuova Frontiera editore

Gli Aztechi pensavano che l'aldilà fosse situato in un mondo che essi stessi chiamavano Mictlàn, il livello inferiore del mondo sotterraneo, sarebbe come dire gli inferi, il nostro inferno. Lo immaginavano a Nord, anche se all'epoca gli Stati Uniti non esistevano, ma forse nella loro immaginazione quella doveva essere una terra tanto maledetta quanto agognata già allora, o qualcosa di molto simile. Per raggiungerlo era necessario superare nove tappe, ovviamente costellate di pericoli e prove iniziatiche. In realtà, volendo trasporre la storia alle nostre latitudini, tutto ciò ricorda molto da vicino una certa Divina Commedia di un certo Dante, solo che qui non è lo stesso Dante che compie il viaggio, ma una ragazza, Makina, sveglia, seria e figlia dei suoi tempi e dei ricettacoli delle tradizioni passate, buone o cattive che siano, e non si smarrisce nel mezzo del cammino, ma sceglie deliberatamente, su richiesta di sua mamma Kora, di intraprendere la strada che la porterà a Nord, oltre i confini del suo mondo, si potrebbe dire "oltre le colonne d'Ercole", in realtà banalmente oltre la frontiera, in cerca non di una Beatrice qualsiasi, bensì di suo fratello che, come tanti, è partito anni prima tuffandosi nell'ignoto e non è più tornato. Makina non avrà con sè un Virgilio, bensì si farà aiutare dai potenti della Cittadina, gente poco raccomandabile, che potrebbero squartarla o violentarla con un solo sguardo di ghiaccio, ma che, o in cambio di favori (le fanno fare da corriere) o per vecchi debiti di riconoscenza con la madre, decidono di accordarle il proprio appoggio. Gente che parla poco, che vive nell'ombra e che non a tutti è dato vedere, persone, sempre che siano persone e non demoni, che mettono i brividi addosso al solo sentirne pronunciare i nomi. Makina si mette in cammino, attraversa tutti i nove capitoli che rappresentano le nove tappe per giungere all'estremo Nord. Ora, però, dirvi qui se troverà o meno il fratello e se, nel caso in cui lo trovasse, riuscirà a portarlo indietro, sarebbe come minimo crudele, perchè la storia è tutta qui. No, anzi, la storia è un'altra, altrimenti sarebbe come dire che l'essenza della Divina Commedia consiste nel sapere se Dante riesce o non riesce a riveder le stelle; la storia dovrebbe essere il viaggio, un viaggio iniziatico e di formazione: la faccenda del fratello però è l'unico snodo narrativo vero e proprio, per il resto non rimane nulla. Questo libro, che riesce nell'impressionante sconcerto di ridurre le 128 pagine de "La ballata del re di denari" (primo libro di Herrera e caso letterario internazionale) a 105 pagine, dovrebbe essere il secondo di un trilogia sul Messico, sulla frontiera, sul mondo dei narcotrafficanti o su tutti e tre assieme, e il filo rosso che li dovrebbe unire, oltre all'ambientazione "narcolatina" è lo stile minimista, a tratti poetico (un poesia naif), e la struttura tipica della fiaba. Se il connubio tra le argomentazioni terribili del mondo iperviolento dei narcotrafficanti e la struttura essenziale e facilmente comprensibile della favola è indubbiamente stata il primo motivo del successo di Herrera, tale connubio è in maniera altrettanto incontrovertibile il suo limite più grande. Se, come abbiamo detto, il centro del libro dovrebbe essere il viaggio (iniziatico, di formazione e via discorrendo), di questo viaggio rimane ben poco, quasi niente, non un cambiamento psicologico nella protagonista e non un arricchimento della storia. Resta la sensazione di aver sbirciato in sequenza una serie di immaginette bidimensionali che dovrebbero richiamare il lettore a realtà terribili ed angoscianti, ma che alla fine restano poco più che immaginette ben scritte che, tra l'altro, si reggono sulla presunta conoscenza del lettore della realtà che vogliono rappresentare, o attraverso altri libri (di altra caratura, Il potere del cane, Delirio, Ossa nel deserto, 2666, eccetera) e film, o attraverso le cronache dei giornali e della televisione, ma che da sole, se per assurdo il lettore ingnorasse l'esistenza di un mondo fatto di violenza e droga al confine tra Messico e Stati Uniti, non riescono a rappresentare nulla, se non la storia sconclusionata ed appena abbozzata di una ragazzina che si muove da un posto ad un altro in cerca di qualcuno.
 E' come trovarsi di fronte ad uno scheletro (o ad una lisca, volendo essere meno macabri), perfetto, bianchissimo, lucido, che però rimane ciò che è, uno scheletro (o una lisca). Possiamo stare lì fermi ad ammirarlo, ma se vogliamo sapere e capire chi è stato quello scheletro, il suo nome in vita, il sesso, la sua storia, dobbiamo distogliere lo sguardo ed andare a cercarci tutto questo da un'altra parte. Inquietante è come la critica internazionale riesca a creare dei fenomeni editoriali con in mano un pugno di sabbia: sembra che Herrera, con all'attivo 233 pagine pubblicate per un totale di due fiabe, sia diventato l'astro nascente della letteratura sudamericana nel mondo, letteratura sudamericana che per fortuna non ha bisogno di capicordata per farsi conoscere, dal momento che è in ottima salute e ben rappresentata da un numero impressionante di scrittori giovani e meno giovani che, di solito, hanno anche il coraggio di rischiare temi, strutture e linguaggi che nel resto del mondo è raro vedere ancora (quantomeno vederli pubblicati). Come ha fatto Yuri Herrera tra l'altro, che a mio avviso non è un narcoscrittore - sempre che ce ne siano e che questo termine significhi qualcosa - e non è neppure un grande scrittore, quanto piuttosto un buon artigiano che ha intrapreso una sua strada di sperimentazione, con i suoi limiti ed i suoi punti di forza, e come tale va letto.
  Non è un libro da scansare a tutti i costi, è un libro da prendere con le pinze, per evitare di ridurre Herrera ad una sorta di santino da baraccone tipo Coelho. Non credo che potrà scrivere tutta la vita utilizzando questo stilema delle narcofiabe, ma credo che dovrà giocoforza continuare sulla stessa rotta per il terzo libro della trilogia. Per questo aspetto il suo quarto libro. Magari si dimostrerà uno scrittore all'altezza e magari si potrà apprezzare qualcosa di più di quello scheletro (o lisca) così bianco (o bianca).



Yuri Herrera è nato ad Actopan, in Messico, nel 1970. Ha studiato Scienze Politiche in Messico e Letteratura negli Stati Uniti. Con il suo primo romanzo La ballata del re di denari ha vinto, nel 2003, il Premio Binacional de Novela "Border of words", e nel 2009 in Spagna il premio "Otras voces, otros ambitos", confermandosi come uno degli scrittori messicani più promettenti.

Monsieur Pain, di Roberto Bolano, Sellerio editore

  Monsieur Pain è un libro strano. Bolano lo scrisse nel 1981 o 1982, col titolo "La pista degli elefanti" (titolo che ha lasciato per l'epilogo di questo libro, un compendio di voci che mette o non mette un punto fermo alla storia) per uno di quei concorsi letterari con cui riusciva a raccimolare qualche pesos quando la fama letteraria era solo una chimera. Glielo pubblicarono, passò inosservato e presto finì nel dimenticatoio. Immagino che vendette poco o niente. Eppure è un libro notevole - e lo era quindi anche prima che Bolano diventasse Bolano - ma nel suo essere di indubbio valore è a anche un libro misterioso, strano. Tutti i suoi personaggi (o quasi tutti) sono reali, storicamente esistiti, il contesto dei fatti altrettanto, eppure è il ritratto di un incubo dove la realtà sfuma ben presto in paranoia, e da lì, in un balzo lento e progressivo, alla follia. Siamo a Parigi, nell'anno 1938, e Cesar Vallejo, il più grande poeta peruviano, colui che Thomas Merton definì "il più grande poeta universale, dopo Dante" si trova ad agonizzare in ospedale, come lui stesso aveva predetto in un suo poema: " Morirò a Parigi mentre fuori piove / in un giorno di cui ho già il ricordo". Il male è sconosciuto, nessuno riesce a capirne l'origine nè le cause, eppure il poeta è sul limite imperfetto che lo porterà di lì a poco al cimitero di Montparnasse: i medici però non sanno che pesci pigliare, sanno che soffre di signhiozzo, niente di più. La moglie di Vallejo si rivolge ad un amica, Madame Reynaud, che a sua volta si rivolge a Pierre Pain, il Monsieur Pain del titolo, un mesmerista che aveva tentato, invano, di curare suo marito. Pain, che non ha idea di chi sia Vallejo, si interessa del caso, e assicura a Madame Reynaud che farà quanto in suo potere per aiutare il marito della sua amica, ma a quel punto cominciano ad accadere fatti insoliti, poi inquietanti ed infine minacciosi, ma connotati da quella forma di minaccia che aleggia nell'aria senza giungere ad acquisire una qualche forma chiara. Due uomini, forse degli spagnoli, anzi, sicuramente degli spagnoli, lo seguono. Lo vanno a cercare nella pensione dove alloggia. Quando finalmente Pain, Madame Reynaud e Madame Vallejo si incontrano e si recano alla clinica dove giace il poeta peruviano, il medico personale di Vallejo, che incredibilmente non se ne cura, o se ne cura il minimo necessario, prende di mira Pain e lo umilia trattandolo come un ciarlatano, si frammette in maniera anche fisica come una barriera tra Pain e la stanza dove giace Vallejo. Poi giungono altri medici, tra cui un luminare, il dottor Lemiere, che avrà modo di senteziare: " Tutti gli organi sono intatti, non vedo cosa possa nuocere alla salute di quest'uomo ": tra questi medici Pain crede di riconoscere i due spagnoli. Il centro dell'azione, come il Castello dell'agrimensore K. ne Il castello di Kafka, è un luogo irraggiungibile, ed è la stanza d'ospedale dove si trova Vallejo. La porta che la separa dal corridoio, i medici che gli impediscono di entrare, la donna all'entrata dell'ospedale, l'energumeno che lo scorta fuori, i due spagnoli che cercheranno con lui un accordo che rappresenterà anche una forma di velata minaccia, la scomparsa improvvisa di Madame Reynaud, ogni cosa sembra complottare contro di lui, come se qualcuno, qualche forza esterna, misteriosa e forse superiore, esigesse che la morte del poeta (del Poeta con la P maiuscola, simbolo della purezza della poesia e dell'animo umano; Poeta esule, incorruttibile, meticcio, marxista e povero) si compisse ad ogni costo, ed avvenisse in quella data maniera, a Parigi, esattamente come aveva scritto lo stesso Vallejo anni prima, quasi che il complotto fosse finalizzato a far sì che si realizzasse la sua stessa predizione. E' un libro, Monsieur Pain, a tratti ipnotico, inquietante, è un ritratto oscuro di un'epoca in bilico tra modernità, tecnologismo, e sapienze occulte, cenacoli segreti e bohème in fondo già conscia di sè stessa e di ciò che avrebbe rappresentato di lì a poco. La storia, se dovesse mai essere tradotta in pellicola, sarebbe ritagliata su misura per David Lynch, la scrittura stessa di Bolano, qui non ancora affinata all'affabulazione perfetta dei suoi capolavori, sembra voler riportare sulla pagina immagini ed atmosfere dei film di Lynch, e molte scene che Bolano descrive fino all'esasperazione, con una lentezza ed un'attenzione spasmodica ai particolari volutamente portate all'eccesso, sono la trasposizione della medesima tecnica utilizzata dal regista, dove l'angoscia viene portata non fino al limite della sopportazione o della giusta misura, ma poco più in là, oltre, per poi esplodere in una sorta di vuoto pieno di sottintesi che, immancabilmente, rimanda ad altro, normalmente altrettanto inquietante ed indefinito. Per assurdo, quella che parte come un'opera terribilmente letteraria, quasi conformista nell'ambientazione e, almeno inizialmente, nel linguaggio, è forse l'opera di Bolano più esplicitamente filmica.


Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare ArchivioBolano. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.
  Di Bolano in questo blog sono stati finora recensiti: I dispiaceri del vero poliziottoIl Terzo reich, La pista di ghiaccio.

mercoledì 12 settembre 2012

Corpo a corpo, di Gabriela Wiener, La Nuova Frontiera edizioni

  Pare che il termine "gonzo" sia nato all'interno della comunità irlandese di Boston Sud per indicare l'ultima persona a rimanere in piedi dopo una notte di bevute e bagordi, una sorta di Higlander da pub. In seguito, nel 1970, il signor Bill Cardoso, professione giornalista del Boston Globe, ha utilizzato questo termine per indicare il tipo di giornalismo praticato da Hunter S. Thompson, vale a dire un modo totalmente personale di riportare le notizie, sconclusionato e fuori di senno, ma non per questo meno veritiero del giornalismo che possiamo chiamare normale. In realtà, per chi non conoscesse Hunter Thompson (che comunque va conosciuto, almeno il suo Paura e disgusto a Las Vegas), normalmente i suoi articoli vedono lui stesso come protagonista che si occupa di un fatto di cronaca, va sul posto, comincia a guardarsi intorno, a fare qualche domanda e nel giro di un niente si trova in qualche bar a ubriacarsi assieme ad un presunto quanto improbabile testimone e, qualche pagina dopo, da "qualche parte" non meglio specificata in preda a deliri allucinatori causati da abuso di sostanze stupefacenti e superalcolici. A quel punto, del fatto di cronaca non si ha (ovviamente) più traccia alcuna. Altrimenti, nei suoi articoli più sobri, vale a dire quando riusciva a terminare un articolo senza rischiare l'overdose, di solito parla a lungo e con approfondita cognizione di causa delle scommesse sportive, su chi puntare, cavalli, macchine, cani, squadre di footbal, di baseball, di basket, quanto puntare e via discorrendo. Non per questo (anzi, forse proprio grazie a questo suo aspetto) non è stato un ottimo scrittore, sicuramente unico: critico quasi inconsapevole del grande sogno americano e delle sue bugie, delle ombre e delle luci artificiali che lo fanno sembrare ciò che in realtà non è. E poi è divertente. Ora, se si vuole applicare l'etichetta di giornalista "gonzo" a Gabriela Wiener, bisogna pensare a lei come ad una nipotina responsabile di Thompson. Talentuosa, certo, ma seria e responsabile, ma solo perchè effettivamente il suo modello era realmente un pazzo scatenato oltre ogni immaginazione. Al contrartio, se la si paragona ad una persona normale, è una simpatica svitata ed eccentrica. Mi spiego. Quando iniziate a leggere una delle sue cronicas potete stare tranquilli che parlerà di quello che è l'argomento di partenza (cosa che difficilmente accade nei libri di Thompson); faccio un esempio: se parla di donazione di ovuli, potete stare tranquilli che di quello tratteranno le pagine che seguono il titolo "Addio piccolo Ovocito, addio". Però, rispetto ad una persona normale, o ad un giornalista normale (spesso le due categorie sembrano non coincidere), la Wiener va oltre, e qui sta il suo lato gonzo. Lei bussa ad una clinica, si dice interessata a donare un ovulo, segue la procedura, compila questionari, si fa visitare da dottori, si sottopone ad una serie infinita di visite specialistiche, lascia che i medici controllino giornalmente la crescita dei suoi ovuli fino a quando, finalmente, non giunge il grande giorno in cui dà l'addio ai suoi ovociti. Tutto rigorosamente in prima persona. Così come le esperienze in un club di scambisti a Barcellona, o in un allevamento ultramoderno di maiali fuori Lima (in cui si impara che i maiali possono avere orgasmi anche di mezz'ora consecutiva), o sul palco di uno spettacolo di dominazione ad una fiera dell'eros. Quando va ad intervistare un uomo con sei mogli, tale Badani, lo fa andando a passare due notti a casa sua, dormendo con le sue mogli, parlando e vivendo con loro e con lui, ed immergendosi in quella realtà al confine (se non oltre) di quanto normalmente accettato dalla società. Quando vuole conoscere la vita di una trans sudamericana emigrata in Europa - nel caso indagato dalla Wiener, a Parigi - va a casa sua, dorme sul letto dove questa (la trans) fa sesso coi clienti, condivide la casa col suo fidanzato francese, e l'accompagna al Bois de Boulogne dove si prostituisce, aspettando che termini la sua nottata di lavoro. Poi la troverete in giro da sola per la più pericolosa prigione maschile di Lima, facendosi passare per moglie o sorella o fidanzata di qualche galeotto, per studiare il linguaggio ed i significati dei tatuaggi carcerari. Una cronicas a mio avviso interessantissima è quella che riguarda l'assunzione di ayahuasca ("In viaggio con l'ayahuasca"), una pianta sacra agli sciamani peruviani - pianta "visionaria o enteogena" più che non allucinogena-, prima provata in un alloggio nel centro di Lima, con risultati deludenti, poi nella foresta ma con lo sciamano sbagliato (si, ci sono sciamani giusti e sciamani sbagliati; dalle mie parti si direbbe: ci sono sciamani e ci sono sciamacci), e solo alla fine, dopo aver trovato lo sciamano che sarebbe stato quello giusto per lei, riesce ad immergersi in un mondo che forse non c'è e, al contrario, forse è più reale di quello che noi riteniamo essere reale, e a verificare le effettive qualità della pianta. Comunque, di qualsiasi cosa parli, Gabriela Wiener c'è sempre, lei e la sua vita, lei e suo marito Jaime Rodriguez Z. (poeta e giornalista peruviano), lei e il suo pancione che si gonfia, prima, e poi lei e sua figlia. Non è una Hunter Thompson in gonnella, è Gabriela Wiener, sa scrivere, sa essere licenziosa, sa essere ironica e, fuor di dubbio, sa provocare ed interessare il lettore.
 Degna rappresentante della nuova ondata di giovani scrittori e giornalisti sudamericani.

  Onestamente, non sono riuscito a capire se questo Corpo a corpo, sia la traduzione del suo primo libro, Sexografìas (nel caso, la scelta della traduzione del titolo sarebbe come minimo demenziale), o una raccolta di brani tratti dai suoi libri e dai suoi articoli pubblicati su quotidiani e riviste. Immagino la seconda che ho detto.

Gabriela Wiener nasce a Lima (Perù) nel 1975. Scrive per quotidiani e riviste spagnole e sudamericane. I suoi primi reportage li ha scritti per Etiqueta Negra, di cui è corrispondente a Barcellona. E' stata redattrice della Sezione culturale e del Supplemento domenicale del quotidiano El comercio del Perù. Ha studiato Linguistica e Letteratura all'Università Cattolica di Lima e nel 2003 è volata a Barcellona per seguire un master in Cultura storica e Comunicazione. Da questa città ha scritto per media quali, tra gli altri, Etiqueta Negras, Caretas e Travesìas. In Spagna ha lavorato come redattrice della rivista Lateral e ha pubblicato suoi articoli con La Vanguardia, El periodico de Cataluna, Letras Libres, Primera linea e Quimera. Le sue cronicas sono apparse sul numero speciale di Latinoamerica dell'edizione congiunta di Virginia quartely Review - Etiqueta Negra, Mejor que ficciòn, Cronicas ejemplares e Antologia de la crònica latinoamericana actual.
Attualmente vive a Madrid dove lavora come caporedattrice di Marie Claire.
 Ha pubblicato Sexografias nel 2008, Nueve Lunas nel 2009, e Kit de supervivencia para el fin del mundo nel 2012, oltre ad una raccolta di poesie, Cosas que la gente deja cuando se va.

  Il suo blog è Sexografias.

sabato 8 settembre 2012

La signora in verde, di Arnaldur Indridason, Tea editore

Chi non ha mai letto Indridason, ha perso qualcosa. Che cosa, esattamente, non lo so, comunque qualcosa di importante. Chiunque ami la letteratura si può rendere conto che questo autore islandese non è il solito fenomeno (più o meno tale, in realtà in giro non ce ne sono molti) del cosiddetto giallo del nord. E' stata un'ondata, forse lo è ancora: i giallisti del nord europa hanno travalicato il filtro della buona qualità (e - avolte - del buon gusto) imposto da Iperborea o dalle scelte editoriali oculate delle grandi case editrici e hanno invaso quel piccolo mondo provinciale che è l'editoria italiana. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Di Stieg Larsson ce n'è uno solo (c'era, purtoppo, ora non più) e la maggior parte dei suoi emuli sono, per così dire, legione, una schiera di demoni più o meno agguerritti che puntano alla fama facile seguendo il maestro e cercando di tanto in tanto qualche strada alternativa che si va presto esaurendo. Sono tanti, troppi, e la maggior parte di loro non vale nè la spesa nè il tempo utilizzato a leggere le loro storie. Le uniche cose che li uniscono sono le ambientazioni, i paesaggi, i sapori e gli odori che fanno da sfondo (e spesso non solo, spesso rivestono la parte di coprotagonisti) dei loro gialli. Città e cittadine avvolte dalla nebbia, centri isolati dal resto del mondo, personaggi cupi e taciturni, neve pressochè perenne, tempeste solari, mugnai impazziti, violenze famigliari, alcolismo, droga e via discorrendo. Se questa è la media, Indridason è molto di più. I suoi libri sono un bisturi che entra poco alla volta nella carne viva della società e della storia islandese, nelle sue genti, e seziona freddamente l'animo oscuro di una terra fredda e, per molti mesi l'anno, coperta da un fitto strato di buio. L'equazione è semplice, quasi banale, buio sulla terra, buio nell'anima. Il suo protagonista è Erlendur Sveinsson, per tutti Erlendur, diciamo, quasi senza ironia, l'uomo più triste d'Islanda. I suoi collaboratori, tanto fidati quanto diversi da lui, sono Sigurdur Oli, una specie di fighetto perfezionista con poco tatto e meno pazienza, ed Elìnborg, una mamma in carriera, più sottile e comprensiva. In questo "La signora in verde", la storia rimbalza tra il presente, in cui viene ritrovato uno scheletro su una collina, e il passato, durante la guerra, dove seguiamo le vicende di una famiglia in balìa di un padre e marito violento e sadico oltre ogni misura. Di chi è lo scheletro sulla collina? E' morto di morte naturale o violenta? E, in questo secondo caso, chi l'ha ucciso? Tutto parte da questa che è una situazione piuttosto banale e già vista nell'ambito del giallo, qualsiasi giallo, nordico o mediterraneo che sia, ma il modo in cui l'autore sviluppa ed approfondisce la storia la fa diventare, come sempre capita nei libri di Indridason, un trattato sociologico (e storico in questo caso) che ci è dato seguire in presa diretta. Cos'era la società svedese durante la guerra, il ruolo della donna, l'accettazione della violenza domestica come un fatto, se non proprio naturale, comunque ineluttabile, la presenza degli inglesi prima e degli americani poi, gli echi di una guerra spaventosa ma nonostante tutto sempre percepita come lontana, la povertà, la fame, le dicerie popolari, i furti presso gli insediamenti militari degli americani, i figli della guerra, vale a dire i figli dei soldati che sono rimasti di stanza in loco qualche mese e poi sono stati spediti sui fronti caldi del Grande Conflitto, spesso a morire. Quasi sempre a morire. Le vedove non riconosciute, perchè ragazze madri, quindi svergognate, impudiche agli occhi della gente, puttane. E poi una signora "storta" e vestita di verde che si aggira per la collina attorno ad un cespuglio di ribes, che qualcuno ha visto, diversi ricordano, ma che sembra essere come l'ombra di un fanstama. Non vado oltre. E' un libro tanto terribile quanto magnifico. La scrittura di Indridason è piatta, calma, ha un suo ritmo ben preciso, scandito dagli avvenimenti e dai dialoghi, e affonda la sua capacità di analisi poco alla volta nella storia, non scade mai nel compiacimento quando descrive fatti violenti o perversi, è come un'occhio che rimane esterno senza però negarsi la possibilità della pietà umana. Erlendur, tra l'altro è un personaggio indimenticabile, complesso, che si sviluppa ed arricchisce un libro dopo l'altro. Ossessionato dalla morte del fratello avvenuta quando entrambi erano piccoli durante una tempesta di neve, morte di cui si sente responsabile e che non è mai riuscito a superare, si è separato dalla moglie dopo aver avuto due figli che, se è ingiusto affermare che abbandona in tenera età, comunque non tenta neppure di essere loro vicino, questo per molti anni, fino a quando non saranno i figli stessi ad andarlo a cercare, ormai adulti: Eva Lind, tossicodipendente che lo accusa di essere la causa primigenia di tutte le sue sventure e Sindri, ragazzo solitario e distante. Questo è il mondo di Arnaldur Indridason, Reykjavìk e dintorni, brughiere, fiordi, pianure infinite ricoperte di lava e ghiaccio, strade di periferia e storie di disgrazie che giungono dal lontano nord della regione. Ogni storia è una scusa per approfondire un tema, ma sia l'intreccio giallo che l'approfondimento - storico o psicologico o antropologico che sia - sono di qualità assolutamente superiore alla norma, e se la scrittura può ad una prima impressione apparire banale o magari un po' sciatta, la realtà è che è un piccolo miracolo di equilibrio tra il ritmo lento che caratterizza la vita dei protagonisti, lo svolgersi della vicenda e un'attenzione particolare a non andare mai sopra le righe, non marcare mai troppo i contorni di una scena, di un fatto o di un personaggio, lasciando che sia la storia a imprimere le impressioni dovute nei lettori.

 N.B: Subito dopo ho letto Un grande Gelo, e prima Un caso archiviato, La voce, Sotto la città e Un corpo nel lago. Li consiglio tutti. Sono inoltre usciti Un doppio sospetto e Cielo nero (tutti e due per Guanda; tutti gli altri sono ora disponibili in edizione economica per Tea)

Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.