"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 8 aprile 2011

La seconda scomparsa di Majorana, di Jordi Bonells. Keller editore

La storia è piuttosto semplice. Un uomo scompare nel nulla. Un altro uomo, molti anni dopo, lo cerca. L'uomo che svanisce dalla faccia della terra da un giorno all'altro, il 27 Marzo del 1938, è Ettore Majorana, vale a dire uno dei fisici più geniale del 900, per alcuni il più geniale di tutti. Il cervello per antonomasia. L'uomo che nel 1998 si mette sulle sue tracce non ha nome, ma è con ogni evidenza l'autore stesso, Jordi Bonells, catalano di Barcellona, trasferitosi in Francia, vincitore del premio Herralde de novela con il libro La Luna, e del premio Planeta con El olvido. Il protagonista si reca in Argentina per conto della propria università, dove è professore di letterature ispaniche, per intervistare una serie di scrittori che hanno scritto quelli che l'autore stesso definisce "romanzi sotto dittatura", con ciò indicando tutti quegli scrittori che si sono trovati a vivere e a scrivere sotto la dittatura militare argentina, o che da essa hanno dovuto fuggire per poter continuare a scrivere. Non per forza patrioti, ribelli, resistenti, comunisti o comunque, sotto qualunque forma, oppositori del regime, bansì tutti quelli che nel loro mestiere di scrittori si sono trovati a fare i conti col significato stesso di vivere in un paese ed in un periodo di follia, dove la libertà non esiste e la logica, di conseguenza, non ha più senso. Un accenno più o meno involontario durante un'intervista e il nostro protagonista si trova di fronte all'ipotesi che Ettore Majorana, una volta fattosi fantasma in Italia, sia ricomparso in Argentina. Un letterato a caccia di un fisico. Perchè proprio in Argentina? Perchè la storia sembra prendere avvio là dove s'interrompe la ricostruzione ipotetica di Sciascia, ne La scomparsa di Majorana, libro del 1975, cioè dall'idea che il fisico italiano si fosse all'epoca rifugiato presso qualche convento. Da uno di questi conventi, grazie all'aiuto dei padri gesuiti, si sarebbe imbarcato alla volta di Buenos Aires. In Argentina avrebbe lavorato come semplice ingegnere alla Entel, si sarebbe sposato in tarda età e avrebbe avuto una figlia, ma questo lo si scopre poco alla volta col procedere del libro. La storia è sospesa tra le vicende del narratore, che si sposta frequentemente tra Europa e Sud America, la ricerca (quasi una detection, però al rallenty) di tracce del passaggio di Majorana in Argentina, e gli incontri e le interviste con scrittori argentini, tutti reali, tutti conosciuti e degni di esserlo. Su tutto, il significato profondo della scelta di far perdere le proprie tracce, sia della scelta del fisico italiano, che, più in generale, della scelta che può solleticare e tentare chiunque, di prendere la popria vita, gettarla al vento e, da un momento all'altro, sparire senza lasciar notizie di sè. La scomparsa è un suicidio al quadrato, o al cubo. Il suicidio, come la scomparsa, porta con sè il mistero, la domanda solita, di sempre, il perchè, ma almeno chi si pone la domanda - perchè - non ha da arrovellarsi a chiedersi anche dove. Chi vuole indagare su un suicidio avrà da scavare nel passato ma solo per scoprire una motivazione: trovata quella, è la fine. La scomparsa ci pone di fronte al mistero più totale, non solo il perchè, ma anche il se (si è suicidato, o è ancora vivo?) e poi, eventualmente, il dove (dove diavolo è finito?), e poi ancora il se, un se nuovo ma del tutto identico al primo (posto che inizialmente non si era suicidato, ora, in questo preciso istante, è ancora vivo, o sarà deceduto nel frattempo?). E poi, se si, se fosse ancora tra i vivi, che vita conduce ora? Che nome usa per far dimenticare quello scelto dai suoi genitori? Ha una donna, ha dei figli? Cosa c'era da rendergli insopportabile la sua vita precedente? Ha ancora un ricordo di chi era prima di scegliere di essere un altro sè stesso? La sua vita attuale è ciò che agognava? Ma poi, siamo sicuri che sia scomparso per volontà propria e, ad esempio, non sia stato rapito? Qual'è la vera essenza di una persona che si è scelta una nuova identità, la prima, quella originaria, o l'ultima, quella volontaria? Noi vediamo rivivere Majorana attraverso i ricordi di chi l'ha conosciuto, o è certo di averlo conosciuto, lo vediamo giocare da solo a scacchi, lo vediamo muoversi taciturno, un po' impacciato, timido, quasi fosse l'ultimo essere ad aver diritto di parola, proprio lui che avrebbe potuto far tacere chiunque solo con la forza del suo genio. Lui che avrebbe potuto lasciare a bocca aperta il mondo intero, che nel tragitto in tram fino a via Panisperna, riempiva pacchetti interi di sigarette di formule scritte fini, per poi gettarle nel cestino appena giunto a destinazione. Lui che forse aveva intuito troppo o magari aveva già visto un futuro che non gli piaceva per niente e col quale non voleva avere nulla a che fare, o forse lui che, semplicemente, non si sentiva adatto per quello che era e che stava diventando. Lo cerchiamo per tutto il libro, lo scorgiamo, quasi arriviamo a distinguerne i passi impressi sul selciato di qualche marcipiede di Buenos Aires, ma poi anche Majorana scivola via. Dicevamo, è la storia di uno che scompare e di un altro tizio che, molti anni più tardi, cerca di trovarlo, o di individuarne le tracce. E' una storia semplice, appunto, ma scritta magistralmente, che lascia il lettore sospeso e sperso in qualche luogo da cui si può temere di non poter più tornare indietro, o da cui forse si potrebbe anche sperare di non dover più tornare indietro. C'è il fascino dell'uomo scomparso, del genio che, esteriormente, del genio pare non avere nulla, e poi c'è la grazia, la leggera profondità dello sguardo di colui che lo cerca, cioè di Jordi Bonells. E c'è la storia di questo inseguimento assurdo, poetico, votato al nulla.    

lunedì 4 aprile 2011

Pedro Paramo, di Juan Rulfo, Einaudi

  Il Pedro Paramo di Juan Rulfo è un testo fondamentale della letteratura latinoamericana del 900, pubblicato nel 1955 in Messico, ed è un libro straordinario. Il perchè è presto detto. E' un libro che parla della morte, forse è addirittura un libro sulla morte, un racconto che la descrive, che ascolta la sua voce (le sue voci), che dialoga con essa, ma nonostante tutto finisce con l'essere una storia viva, che si trasforma, che pur essendo ridotta all'osso, tocca diversi generi, senza peraltro sovrapporsi a nessuno. Li sfiora, e quando si pensa di aver capito dove incasellarlo, scivola via e diventa qualcosa di differente. E' un libro del mistero, soprattutto all'inizio, dove ci rendiamo conto che è la suspence a farla da padrona e la scarnezza della lingua funziona come mezzo per rendere al meglio l'atmosfera di sospensione. Nel giro di poco pare trasformarsi in una storia di fantasmi. Poi in una sorta di Spoon River messicana. Poi in un racconto dal taglio quasi western, con la rivoluzione messicana sullo sfondo (e Pancho Villa a far da comparsa, pur se sempre e solo citato). Eppure non è nulla di tutto questo, ma non è neppure altro. Direi, se mi si passa l'immagine, un materiale (o un paesaggio, o una bestia) in continua evoluzione. Juan Preciado si mette in viaggio verso Comala, il villaggio natale della madre recentemente morta (ma è davvero morta? o non lo è forse lui?), in cerca del padre, Pedro Paramo. Risuonano le parole della madre, << Non chiedergli nulla. Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e che non mi diede mai... Figlio mio, fagli pagare caro l'oblio in cui ci ha lasciati. >>, che più che una supplica sono un testamento. E' lei che gli chiede, come ultima volontà, di anadare in cerca del padre. Juan Preciado giunge a Comala, e scopre che Pedro Paramo, suo padre, è morto. Non pare essere molto toccato dalla notizia, e subito viene deglutito dalla cittadina e dai suoi strambi abitanti. Comala è un paese fantasma, pare disabitata, ma in realtà gli abitanti ci sono, interagiscono con lui, anche se lo percepiscono in maniera singolare, come se a volte non riuscissero a metterlo bene a fuoco, e soprattutto hanno un rapporto bislacco col flusso temporale. Passato, presente, futuro. Da qui in poi i piani temporali cominciano a confondersi, sovrapponendosi e, spesso, giustapponendosi. Gli abitanti parlano di altri abitanti come se fossero vivi, poi credono di ricordare che non lo sono più, ma non si scompongono più di tanto, come se fosse normale non possedere la facoltà di distinguere gli uni dagli altri. Raccontano del passato remoto come se fosse presente, poi sono colti dal dubbio, e non sanno più in che punto del tempo si trovino, ma continuano a raccontare. Scuotono le spalle, e vanno avanti a raccontare. Juan Preciado, come logico, è frastornato da quanto gli capita attorno e dalle storie che gli vengono somministrate dagli abitanti. Storie come farmaci, per farlo tornare in sè, per spegnergli la febbre. Non capisce, prova a mettere insieme un racconto con l'altro, ma quello che ne viene fuori è un quadro d'insieme di un'epoca, ma sfilacciato, un quadro polifonico e sfocato. Ricorda le parole della madre, riporta a galla i suoi ricordi di Comala e degli anni da lei vissuti in quel villaggio, anni trasfigurati dal ricordo. Poi, poco alla volta, la voce della madre si fa più rada, e la storia sfugge a Juan Preciado che, da narratore esterno, diventa una delle tante voci che compongono il rumore di fondo. E' a questo punto che ci rendiamo conto che anche lui è morto. Non sappiamo dove, nè quando, nè come, ma in qualche maniera Juan è morto. Forse allora sua madre è viva e le parole che lei gli ha lasciato come testamento non le ha sussurrate una madre morente al figlio, bensì una madre al figlio morente. I morti, le molte voci che si susseguono, rincorrendosi, narrano brani delle loro vite e il momento del trapasso, che è un momento della vita come un altro. Spesso non ci si rende conto di morire. Lo si scopre, o magari lo si sospetta, solo in seguito, quando ormai ci si ritrova sotto terra, a rigirarsi in bare terrose corrose dall'umidità. E poi c'è Pedro Paramo, il centro oscuro di tutta la storia più o meno recente di Comala, che è la rappresentazione stessa del potere assoluto detenuto dai proprietari terrieri messicani prima della rivoluzione. Semina il paese (e villaggi circonvicini) di figli illegittimi, di offese, di morti, di soprusi, si appropria delle terre con l'inganno, mette a tacere gli ingannati con l'omocidio. Se non lui, suo padre, o suo figlio. Tre generazioni che sono tutta la storia del Messico. E all'orizzonte, ancora una volta voci indistinte, confuse, spesso riportate da gente di passagio, e che quando parlano sono caotiche, ancora incapaci di comprendere dove le porterà il corso della storia, inconsapevoli di essere esse stesse a fare la storia nel momento stesso in cui parlano. Finirà tutto, perchè in fondo è già finito, e il tempo non è altro che un serpente avvoltolato su sè stesso in spire ipnotiche, e del futuro non sapremo nulla. Sappiamo che c'è Pancho Villa in giro per il Messico, sappiamo che ha intenzioni più o meno rivoluzionarie, come altri gruppi e gruppuscoli pseudo o para rivoluzionari, ma non conosceremo le sue gesta, perchè siamo rimasti intrappolati in una bolla di tempo che le anime di Comala si sono create per costringerci ad ascoltare le loro storie, ora tristi, ora assurde, ora passionali, ora banali, così come banale è, in fondo, l'amore di Pedro Paramo per Susana San Juan, l'unico essere umano che sia mai stato capace di amare veramente e che, invece, rimane intrappolata nel suo guscio di ricordi (o di follia) fino alla fine, insensibile anche solo alla sua prensenza.

  Un capolavoro, macchiato da certe sviste di traduzione poco comprensibili, e dalla mancanza assoluta di una nota introduttiva, di un una postfazione, di un inquadramento del romanzo nella storia della letteratura sud americana, o almeno di una nota biografica dell'autore.


  << Ed è questo il motivo per cui questo luogo è pieno di anime; un puro vagabondare di gente che è morta senza perdono e che non l'otterrà in nessun modo, e ancor meno avvalendosi del nostro aiuto. Sta arrivando. Lo sente? >>
                           pg.59