"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 30 aprile 2021

Intervista con Felipe Polleri: IL FINALE E' SEMPRE SANGUINOSO (forse i buoni sentimenti creano una cattiva letteratura). La traduzione dell'intervista è stata curata da Carmen Piccirilli

In occasione delle recente pubblicazione del suo ultimo libro Le poltrone appassite nella collana Gli Eccentrici di Arcoiris Edizioni, pubblico qui di seguito l'intervista con l'autore, il geniale Felipe Polleri, uruguaiano di origine italiane (come leggerete nell'intervista). Ne approfitto per ringraziare la cortesia e la disponibilità dell'autore (per l'avventatezza che lo ha portato a concedere la sua prima intervista per il pubblico italiano a questo piccolo e appassionato blog) e la casa editrice Arcoiris che l'ha resa possibile, in particolar modo Loris Tassi, curatore della collana Gli Eccentrici e traduttore di Polleri, e Barbara Stizzoli che ha seguito la traduzione di quanto trovate qui di seguito.

  Concludo questa breve intro consigliando a tutti l'esperienza di lettura dei libri di Polleri, che amo in particolar modo: testi particolarissimi che, facendo a pezzi ogni riferimento narrativo abituale (trama, narratore, e via discorrendo), puntano dritto al cuore della sua poetica, con uno stile impeccabile che si fa esso stesso narrazione. Sono incubi ad occhi aperti, gli incubi di un'umanità dolente e goffa, scorbutica, difettosa e difettata, che amerete da subito. La speranza, a questo punto, è che ai due titoli per ora tradotti in italiano, se ne aggiungano di nuovi. 

La letteratura, per citare uno slogan, come non l'avete mai vista.  



- Ne Le poltrone appassite il microcosmo narrativo è quello di un palazzo. In Germania, Germania! era il paesaggio nazista, temporale e psichico in particolar modo. La messinscena della tragedia umana è adattabile ad ogni contesto?

* Pascal diceva, pressapoco, che la vita può sembrare una commedia molto divertente, ma che il finale è sempre sanguinoso. Dunque, tutta la vita umana non è altro che una tragedia contenuta in una brodaglia in scatola o nel quartiere più insigne di Roma.

- Leggendo i suoi libri (Le poltrone appassite, Germania, Germania! La inocencia, quest'ultimo titolo non è ancora stato tradotto in italiano) la sensazione che ne ricevo è che quella che sopra ho definito "tragedia umana" sia connaturata con la nostra stessa natura, in tal senso, chi ne vede la mostruosità, per riconoscerla, deve per forza porsi al di fuori di essa, e quindi, paradossalmente, al di là della propria stessa natura umana. In un certo senso lo scrittore deve trascendere l'umano, divenire occhio imperturbabile e scrutare il vivere da uno spazio profondo. Nel libro Le poltrone appassite, lo scrittore del 101, un Proprietario, è colui che dice di prestare la voce al povero Nestor, ma sembra più che altro un personaggio fittizio, non riesco a sentirlo come la voce di "Polleri scrittore". E' questo, per Lei, lo scrittore, colui che si pone al di fuori della vita per poterla ritrarre senza le schermature che, vivendola, ci sono imposte? Lo scrittore, quindi, è corretto affermare che è colui che, dalla morte, ci parla di noi stessi? O, in caso contrario, chi è, cos'è lo scrittore?

* Lo scrittore, per come lo intendo io, è qualcuno che è stato estromesso dalla vita comune. Lui è stato estromesso o in un certo senso si è allontanato spontaneamente perché non può condividere la visione del mondo che ha la maggior parte delle persone. Dall'esterno quindi, probabilmente da una sorta di morte, descrive quello che sente e quello che vede con occhi da straniero. Forse è un mostro, ma un mostro che capta con una chiarezza singolare la mostruosità degli altri e della società in cui si vede costretto a vivere. Esagerando, si potrebbe dire che se c'è qualcosa di veramente mostruoso, è la mostruosità del neoliberismo e della conseguente miseria. O siamo vittime, o siamo carnefici. Io spero con fervore di risultare tra le vittime e non tra gli aguzzini. 




- Lo scrittore, nel suo caso, mi pare si possa dire perda la sua voce per diventare esso stesso voce. Ho cercato più volte di capire chi fosse il narratore in Germania, Germania! e in questo Le poltrone appassite e ogni risposta che mi davo non era soddisfacente, fino a quando non mi sono risposto che il narratore è la narrazione stessa. Nel suo caso più che in altri mi sembra che la parola si liberi di ogni legame ed orpello e si faccia carico di seguire la follia che la circonda. Qual'è il suo rapporto con la parola, chi comanda alla fine dei giochi, Lei o la parola?

* La mia voce narrante è solo una e mi ci è voluta gran parte della vita per trovarla. Attraverso quella voce parlano i miei personaggi, i miei mostri, che non posso fare a meno di amare. Diciamo che scrivere per me significa immergermi nell'inconscio, per lasciare parlare i mostri che porto con me. Quelle voci dicono della parole che quasi non riconosco, parole negate che spesso mi spaventano a causa della loro malevolenza e crudeltà o per la loro veridicità. I miei personaggi stanno combattendo contro di loro. Io offro al lettore l'opportunità di dare il proprio contributo e di vedere il mondo con occhi più critici. Di prendere in considerazione problemi morali più complessi rispetto a quelli che gli presenta la letteratura dozzinale.

- Per quanto le realtà che descrive siano apparentemente grottesche, disturbanti e non poco folli, il suo stile è estremamente pulito, lineare, pur senza essere freddo. E' una voce che esce di getto o è frutto di un'opera attenta e certosina di limature e sottrazioni?

* Ripeto che, la mia voce narrante è frutto di una ricerca lunga e dolorosa. A volte sgorga come un getto, altre volte devo lavorarci parecchio affinché, alla fine, il rubinetto si apra. C'è sempre una correzione accurata, con "limature" e tantissime "sottrazioni". Di tutti i miei libri, un cinquanta per cento finisce nel cestino. O anche un cento per cento.


- Leggendo i suoi libri ho come l'impressione che a volte le frasi si impongano per la loro iconicità, per un loro intrinseco ritmo nascosto, come se ne privilegiasse l'estetica, come se il semplice suono di una frase fosse già parte del suo significato. In base a questa mia azzardata affermazione, quanto pensa io sia affetto da delirio, e in quale grado e forma?

* Sono un esteta. Un libro si giustifica per la sua bellezza, anche se è un fiore del male. Per quanto riguarda il delirio, pur essendo una persona gentile e rispettosa con gli altri, so di avere una specie di pazzoide dentro di me. ed è la mia condanna, ma anche ciò che mi costringe a (e mi permette di) scrivere i miei libri. Dunque è una condanna e una benedizione.

- Gli Angeli/Ordinatori sono esseri umili e divini, destinati all'umiliazione in una vita in cui non è prevista l'opzione del "paradiso in Terra", si lasciano umiliare per rendere felici gli esseri umani (i Proprietari), perché è attraverso la felicità che possono avvicinarsi a Dio. Eppure l'unica modalità che hanno i Proprietari di rapportarsi con Nestor, l'Ordinatore, l'Angelo, è quella di farlo sentire inferiore, trattarlo come un ritardato, umiliarlo. Non sono capaci di vederne la natura divina. Gli esseri umani, nei suoi libri, sembrano destinati ad una vita di soprusi, inflitti o subiti, e incatenati ad una intima incapacità a cambiare il proprio registro: non esiste l'empatia nei mondi che crea. Esiste il riso, ma grottesco, amaro, beffardo, ma mai l'empatia. E con essa non s'intravede mai una possibile redenzione. Nel suo modo di vedere il mondo e la letteratura, esiste redenzione?

* Potrebbe non sembrare, ma c'è empatia verso le mie vittime, verso tutte le vittime della società. Non è esplicita perché non scrivo opere a tesi. Non ho mai scritto o pensato che la mia scrittura debba essere più pia della realtà; la realtà è crudele, la nostra storia (da cui non abbiamo appreso mai niente) è una storia di genocidi.



- La struttura sociale che sottende la vita del condominio è molto rigida e piuttosto semplice e ricalca con trasparenza le contraddizioni svelate dal marxismo: proprietari e portieri, padroni e lavoratori, e le dinamiche sono quelle tipiche dei rapporti di forza: chi può si approfitta dell'altro e lo irride. I concorsi poi paiono dei momenti istituzionalizzati e regolati che mettono in scena sempre lo stesso meccanismo, la sopraffazione, in gare che sono epifanie grottesche del meccanismo capitalista della concorrenza spietata. Eppure nei sui libri prevale l'aspetto "umano" (nel senso più deteriore del termine) rispetto alla critica sociale, come se la società fosse solo un palco sul quale vengono esibiti gli stessi mostri, mostri che cambiano maschera ma restano sempre gli stessi, quelli ai quali il genere umano è condannato. Quanta attenzione pone alle due polarità narrative? E' la società a corrompere l'uomo o è l'uomo, già naturalmente corrotto, a creare una società a sua immagine?

* Credo, e magari questo è sufficiente per darmi del marxista, nella lotta di classe. Non lo so se è la società quella che ci corrompe o viceversa. Qualcuno lo sa? Ad ogni modo voglio credere che un giorno verrà un mondo più giusto.


- La morte, il disgusto, la violenza, la sofferenza, le pene legate ad un corpo materiale che si deteriora, che odora, che suda, che marcisce: tutto questo è parte del vivere o è il tutto?

* Oltre alla morte, al disgusto, alla violenza, alla sofferenza, ecc., esistono l'amore, l'amicizia, la solidarietà, ecc. ma forse i buoni sentimenti creano cattiva letteratura, come è già stato detto.

- Quanto è importante per l'essere umano come specie la narrazione di sé stesso? Perché siamo così intimamente legati alla necessità di raccontare noi stessi a noi stessi? Di rappresentarci all'interno di un meccanismo narrativo come se questo potesse dare un senso al nostro stare la mondo?

* Narrare, nel mio caso, significa provare a vedermi in modo oggettivo. Ed è l'unica maniera che ho trovato per scoprire chi sono e cosa sento perché da buon "pazzo" ho un'identità problematica. 

- Non esiste empatia, forse nemmeno nella narrazione, non esiste redenzione: esiste almeno la speranza di vedere altri suoi libri tradotti in italiano?

* Ci redimiamo nell'amore per una donna, per gli amici, nel rispetto per tutti gli esseri umani con i quali ci incrociamo e che proviamo ad aiutare. Sì: ho la speranza di vedere altri miei libri tradotti con amore in italiano dai miei amici di edizioni Arcoiris. Spero che li collochino tra la Divina commedia e le opere di Pasolini. Scherzi a parte, il mio cognome è italiano e mia nonna era una contadina lombarda. Ho un certo diritto, pertanto, ad avere un posticino molto, molto modesto, nelle librerie italiane. E molto, molto lontano da Dante, o Leopardi, o Ungaretti, tre poeti che amo.




Apprezzato da autori come Mario Levrero, Fogwill, Elvio Gandolfo e Mario Bellatin, l'uruguaiano Felipe Polleri è considerato uno dei più grandi scrittori latinoamericani degli ultimi decenni. 

Edizioni Arcoiris ha pubblicato Germania, Germania! e, da poco, Le poltrone appassite



domenica 25 ottobre 2020

Aldilà, di Andrea Morstabilini, Il Saggiatore editore

 

Una casa, la pianura che si estende senza fine e colma l'occhio di vuoto, e uno scrittore in cerca di solitudine e ispirazione: non serve altro. Questo ultimo libro di Andrea Morstabilini ha bisogno davvero di pochi elementi per creare la giusta atmosfera in cui immergere il lettore, pochi punti cardinali che gli permettono di navigare con sicurezza in una storia che ha il passo lento del classico e l'ambientazione che ribalta il south gothic nostrano per riversarsi nettamente sul gotico padano. Dunque, una casa presa in affitto per isolarsi e potersi dedicare a scrivere un libro del terrore, un contratto d'affitto singolare, economico ma con clausole strambe, una casa che pare avere una personalità tutta sua, un profilo unico, sghembo, uno sguardo, un respiro, la solitudine che la circonda come un collier circonda il collo di una, nobile, vecchia signora. Il protagonista ci conduce in prima persona dentro la storia, passo per passo. Il caldo dell'estate, le valigie, la macchina da scrivere che deve arrivare, il giardiniere, la donna delle pulizie, le stanze, la sensazione misteriosa che si avverte quando si entra per la prima volta in una vecchia casa disabitata per molto tempo, l'impressione che qualcosa della vita passata sia rimasta intrappolata tra le mura, nei battiscopa, dietro i mobili, un brivido freddo (piacevole, all'inizio) che smorza la calura oppressiva della pianura cotta dal sole estivo. Lo scrittore prende possesso del suo nuovo spazio, espone i libri che si è portato con sè per farsi ispirare, lascia che l'odore della casa gli percuota le narici, sbircia stanza per stanza, e fuori dalle finestre. Si appresta far conoscenza con la sua nuova dimora, ma le vecchie case, come le vecchie, nobili, signore, sono piene di sorprese e ricche di passato, strane e misteriose, e di solito non sono facili a stringere nuove amicizie. Il centro del mistero si annida nella soffitta, laddove una grata e poi un muro non permettono di andare oltre, nemmeno col solo sguardo.                                                                                                                  Ma, quindi: cosa si cela dietro la grata, oltre il muro? Perchè quel "qualcosa" è stato nascosto, chiuso a chiave come si fa con le bestie feroci per assicurarsi che non possano fuggire e divorare nessuno?  Inoltre: perchè il giardiniere sembra scavare e coprire sempre le stesse due fosse, giorno dopo giorno? Cosa nasconde la scontrosità della donna delle pulizie? 

La storia è tutta qui, e non è poco, perchè si confronta con i classici del romanzo gotico e delle storie del terrore e, soprattutto, perchè avanza in un territorio liminale che per sua stessa natura non ha definizione, nè forma. Cos'è che ci fa paura? L'indagine avanza per accumulo di ipotesi, e noi con essa: ci troviamo in una possibile storia di fantasmi, poi in un Amityville Horror in salsa padana (o una Hill House di provincia) dove è la casa ad avere un'anima, poltergeist, possessioni, ritorni dal passato, svitati esoteristi, il giro di giostra è lungo e scandaglia tutti i ripostigli nei quali ci si aspetta di trovare un cadavere, ma, senza voler spoilerare, l'operazione di Morstabilini è più fine, non si limita ad aprire una finestra sulla nostalgia del passato della letteratura di genere, e nemmeno si pone l'obiettivo, il genere gotico, di volerlo modernizzare a tutti i costi, va più a fondo o, per meglio dire, il percorso che traccia segue un passaggio molto sottile, quasi invisibile, che si intuisce alla fine per sottrazione: vale a dire: se non è una storia di fantasmi (ma davvero poi non lo è?), se non si tratta di poltergeist, o di presenze, o di una casa con un'anima, cosa rimane? Di cosa è fatta, qual'è l'essenza materica ed immateriale che modifica la realtà e la rende misteriosa, pericolosa, incombente su un essere umano che viene ridimensionato a semplice comparsa, essere minuscolo, ininfluente, impotente che, al più, può cercare di comprendere il mondo oscuro nel quale è inscritto, senza peraltro (questa è la condanna dell'essere umano) mai riuscirvi? Alla fine della storia lo si intuisce; o forse è solo l'affacciarsi di un'ultima estrema ipotesi che possa contenere tutte le stranezze che la storia ha riversato sullo scrittore.

  Un gran bel libro, che si fa beffe delle attuali esigenze di stili vertiginosi, veloci, psichedelici, ma che segue il passo lento del camminatore, che trova il tempo di (guardare e) vedere il paesaggio e al contempo di seguire il corso delle proprie elucubrazioni, avanza lento ed elegante, scandaglia la realtà che lo circonda, e si tende per cercare di intercettare suoni inesplicati, scricchiolii, fruscii, il respiro della casa e della pianura che, spesso, procedono all'unisono. I richiami ai classici, come detto, sono molti, ed evidenti, chiari omaggi ai grandi della letteratura (li trovate riportati nella sinossi). Ma c'è anche il cinema di Pupi Avati, i richiami all'opera di Eraldo Baldini e, infine, il piacere fanciullesco di ascoltare in silenzio le storie che, bambini, non ci permettevano di dormire. 

  Una nota particolare, personale, mi permetto, per la copertina, che trova assolutamente perfetta.

 


 Andrea Morstabilini (1983) è editor e traduttore. per Il Saggiatore ha curato la nuova edizione de Le montagne della follia, di Lovecraft (2018), e ha pubblicato il romanzo Il demone meridiano (2016)

mercoledì 12 agosto 2020

Il rapporto di Brodeck (1: L'altro / 2: L'indicibile), di Manu Larcenet, trad. di Francesca Scala, Coconino Press

E' un'opera sulla memoria, sul suo potere distruttivo? Si. E' un'opera sulla colpa, sulla colpa collettiva e su quella individuale? Anche. E' un'opera sulla guerra, sul suo potenziale distruttivo e disumanizzante? Assolutamente si. Come sempre quando si parla di Larcenet, il tema non è mai uno solo ed è così ben amalgamato agli altri da renderlo inisolabile, perchè Larcenet ha quel dono che era di Shakespeare: raccontare una storia parlando di tutto. In ogni storia c'è un universo di significati, di registri, di stili, di richiami, ogni storia è un universo completo in ogni suo aspetto. Quindi: è una storia d'amore, è la storia di un delitto, un  romanzo psicologico, un romanzo diaristico (diaristico su più piani), una storia di vendetta, di colpa, di silenzi, di montagna, di comunità isolate chiuse a pugno di fronte alla pazzia del mondo, è la storia di un omicidio, è un manuale su come dimenticare le proprie colpe, è un libro (in realtà due ma comunque è come se fosse uno e, credo, presto lo sarà), sul razzismo, sulla paura che lo sottende, sull'inumano che è alla base dell'umanità, sulle dinamiche bestiali che reggono ogni società, è una storia sul valore antropologico del capro espiatorio, è un libro che racchiude un mondo, o più mondi, tutti quanti, o quasi, disastrosi, disastrati, pericolosi, oscuri, selvatici e impietosi verso l'idea stessa di essere umano. L'opera di Larcenet è tratta dal libro di Philippe Claudel, Il rapporto (Ponte alle grazie, 2008). E' la storia di come un piccolo paese di montagna, nel post guerra, accolga uno straniero e di come questo "Anderer" (straniero appunto, così lo chiameranno sempre tutti gli abitanti) sconvolga suo malgrado gl'incerti equilibri degli abitanti e risvegli in loro le paure più irrazionali. L'intreccio è semplice: gli abitanti, macchiatisi del delitto, chiederanno a Brodeck, uno dei pochi ad avere la mani pulite rispetto all'assassinio dell'Anderer, uno dei pochi a saper scrivere (compila per mestiere rapporti periodici su flora e fauna locale), di redigere un rapporto che li assolva. La richiesta è esplicita e dà per scontato che lo stesso Brodeck, pur non essendo stato presente al delitto, ne condivida le radici e la messa in atto. Da subito, quindi, stendere il rapporto per Brodeck diventa una sorta di esame, una prova per dimostrare di essere realmente parte della comunità (lui che venne accolto anni prima, ma mai del tutto accettato). Da subito si sente osservato, seguito, controllato: la paura degli abitanti è che Brodeck non compia correttamente il suo lavoro, perchè in fondo dubitano di lui in quanto, appunto, mai accettato fino in fondo come facente parte del villaggio. E Brodeck infatti li tradisce: scrive sì, un rapporto assolutorio, ma al contempo, di nascosto, scrive la sua versione dell'arrivo e della permanenza dell'Anderer nel paese (quella che noi leggiamo). 

Con un abile uso di flash back la storia dell'Anderer esonda fino a diventare la storia di Brodeck e, soprattutto, dell'intero paese e dei suoi abitanti, la storia della guerra e della sua brutale follia. Di fronte a questo, all'insensata follia degli esseri umani in armi, l'unica risposta è quella della moglie vittimizzata di Brodeck, che perde l'uso della parola e si isola da tutto e da tutti, limtandosi a cantare ossessivamente la canzone con la quale si era conosciuta con Brodeck. Al di fuori del silenzio e dell'isolamento, il mondo è un grumo di dolore che gli animali, il bosco e la natura selvaggia, si limitano ad osservare da lontano, apparentemente incapaci di comprenderne le logiche. L'Anderer quindi, con la sua sola presenza, scoperchia un passato prossimo fatto di colpa, di vergogna e di paura che gli abitanti hanno il bisogno (prima di tutto inconscio) di dimenticare il più presto possibile. Invece, la sua presenza sortisce l'effetto opposto: tutti ricordano, tutti vedono le loro colpe e loro debolezze specchiarsi nello straniero e nel suo (apparente) mistero. Sono tensioni che non sono tollerabili, la psiche collettiva del paese va in tilt, i singoli non contano più, gli abitanti diventano un solo organismo psicotico e come tale reagiscono ad una guerra dall'Anderer mai dichiarata. L'unica possibilità è macchiarsi di una nuova colpa pur di dimenticare quelle precedenti. A questo serve il rapporto di Brodeck, a dimenticare. Se però Brodeck non dovesse sottomettersi al volere degli abitanti e decidesse di perseguire la verità, la soluzione certa sarebbe un altro delitto, altra colpa da aggiungere alla colpa, qualsiasi cosa pur di cancellare la memoria, personale e collettiva. Pur avendo detto molto, non ho svelato nulla, perchè la profondità di quest'opera è tale che comunque una parte importante rimane comunque fuori da qualsiasi riduzione se ne voglia fare.

 

L'Anderer dipinge (da notare come la sua figura sia simile a quella che sarà poi quella di Polza Mancini in Blast, con quel pizzo che anche in altri fumetti pare essere un segno di riconoscimento biografico dell'autore), la sua pittura scatenerà la follia omicida degli abitanti, Brodeck scrive, e anch'egli rischia sulla propria pelle gli sfoghi dell'intolleranza del paese: il mondo è un coacervo di pulsioni primarie, violente, animalesche, selvatiche, e chiunque ne sia fuori, almeno in parte, viene visto come un pericolo: il diverso è il pericolo. Saper scrivere, saper dipingere, saper parlare correttamente, arrivare da fuori, fermarsi in paese, qualsiasi elemento di discrepanza dai canoni sclerotizzati del paese e dei suoi abitanti è sintomo di pericolo: innanzitutto di un pericolo psicologico (perchè l'Anderer non può certo rappresentare un pericolo sul piano fisico), una variabile che può o non può turbare equilibri sottili ed incerti. Il branco si riunisce e fa della propria paura l'arma per annullare qualsiasi pulsione al cambiamento, vera o presunta che fosse. Quando la primitiva mente dei singoli si agglomera in un'unica entità collettiva, la follia diviene la regola, è la comunità che risponde ad un pericolo invisibile ma, al contrario degli animali, la psicologia umana pone un secondo livello di incertezza: vale a dire che non può accettare la propria colpa (perchè, diversamente dall'animale, percepisce il proprio comportamento come sbagliato) e pertanto nasce il bisogno disperato dell'oblio. Ma si tratta di un bisogno a tal punto assoluto che, per assurdo, per cancellare la vergogna di una colpa è disposto a commetterne una nuova.

Chiodo scaccia chiodo, e in questo vortice di umano (per come ci ostiniamo a considerare l'umanità) non rimane più nulla. Lo sguardo degli animali, lo si può intendere in questo senso come perplesso: non perchè condannino la violenza, che è parte del loro stesso mondo, ma perchè non capiscono il senso di colpa successivo e lo scatenarsi di nuova violenza che, a quel punto, diviene immotivata, sganciata da qualsiasi causa sul piano reale. La tragedia dell'essere umano è tutta psicologica, ed è permeata di paura, la paura di essere qualcosa di diverso dall'animale che si desidera continuare ad essere.  

 

 

Manu Larcenet è nato nel 1969. Ha studiato grafica al Sèvres Lycée e ha iniziato a pubblicare alla fine del

199

4, nello stesso periodo in cui cantava in un gruppo punk rock. La sua attività spazia dal fumetto all’illustrazione all’ideazione di giochi. Ha legato il suo nome soprattutto alla collana “Poisson Pilote” di Darga

ud, ma ha lavorato con tutti i maggiori editori francesi.

Larcenet ha collaborato con vari sceneggiatori, ma sono le storie più personali il suo punto di forza, come il graphic novel “Lo scontro quotidiano”, che ha vinto il premio come “Miglior libro” al Festival di fumetti di Angoulême e il premio come “Miglior libro straniero” al Comicon di Napoli.

Con Jean-Yves Ferri, l’attuale sceneggiatore di Asterix, ha realizzato i volumi della serie umoristica “Ritorno alla terra” e da solo la saga “Blast”, anche questa in corso di pubblicazione in Italia da Coconino Press.

giovedì 30 luglio 2020

Blast, di Manu Larcenet, Coconino Press, traduzione di F. Scala

      
                                                         
Chi è Polza Mancini?
Il filo conduttore di questo romanzo a fumetti sta tutto in questa domanda. Polza lo troviamo arrestato e interrogato dalla Polizia. Sappiamo che ha aggredito una donna e che questa donna ora si trova in gravi condizioni e rischia la vita. Ma Polza nega di averle fatto del male. Da qui in avanti il romanzo avanza a strappi, tra incursioni nel presente e lunghi flash back, grazie ai quali ricostruiamo la sua storia. Il libro è imponente, inizialmente pubblicato in 4 volumi, questa edizione integrale consta di 816 pagine. Se vogliamo ampliare  l'orizzonte ottico del lettore e sorvolare sul taglio classicamente noir dell'opera, potremmo dire che è la storia di Polza Mancini. In pratica vi troviamo un po' tutto quello che dovrebbe rientrare in una biografia, tutti i momenti importanti, le persone essenziali, gli affetti, gli snodi, ma Blast non è ovviamente una biografia (o lo è solo in parte o, più probabilmente non lo è affatto). Blast è la storia di uno sbandato, su questo non ci sono dubbi, su una persona con problemi psicologici importanti, con traumi emotivi, al contempo Polza è un uomo estremamente intelligente, lucido (di quella lucidità che per lui è una condanna e che cerca continuamente di fuggire), ma è anche un assassino? Un pluriassassino, un serial killer, uno psychokiller? Da questa angolazione (quella scelta da Larcenet) il libro è indubbiamente un noir, una detection, un viaggio nell'abisso strampalato della psiche di un uomo strano, enorme, famelico e dolente. Polza mente, o Polza è l'unico che racconta la verità, tutta la verità? La sua testa funziona, o è matto da legare?


  Fino a questo punto, come detto, l'autore sceglie un genere ed una struttura ben conosciuti, non esiste, in queste scelte, alcuna novità rilevante, nulla che sia indicatore che questo romanzo a fumetti sia qualcosa di più di un noir. Invece la sensibilità di Larcenet e la sua incredibile capacità narrativa fanno di Blast un libro eccezionale. Provo a spiegare perchè. Larcenet bordeggia diversi stili, gioca con delle sensibilità molto diverse tra loro e lo fa dosandole in maniera sopraffina. Non sono solo perfetti i tempi narrativi rispetto alla detection, ma anche i tempi che svelano di volta in volta, aspetti della storia e del suo protagonista che lo rendono ora quasi poetico (un Jack Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma a fumetti), ora delirante, ora cupissimo ai limiti dello splatter, ora sociale (la storia del padre di Polza è puro neorealismo, e pertanto Larcenet disegna il padre di Polza in maniera totalmente fantasiosa, come un essere inumano, col becco, sfigurato e disumanizzato dalla fatica e dai dolori dell'esistenza). Se inizialmente affrontiamo la lettura con la convinzione che quel buffo e singolare ciccione sia sostanzialmente innocente, e che riuscirà a sbrogliare la matassa e a dimostrare la sua estraneità ai fatti, e col tempo  arriviamo a comprendere, almeno in parte (almeno ad avvicinarci a comprendere) il perchè delle sue stranezze (e la tentazione è sempre quella di leggere qualche avvenimento del passato quale causa giustificatoria per il suo peso e per la sua fame atavica e animalesca), con l'avanzare della stroia veniamo portati a dubitare sempre più delle nostre sensazioni. Forse Polza non è quel bontempone che pensavamo, forse è qualcosa di peggio. Comunque di più complesso. Questo passaggio, e gli altri che seguiranno, è però graduale, quasi impercettibile, bisogna tendere l'orecchio per rendersene conto. Mettiamo in dubbio la storia e mettiamo in dubbio la reale natura di Polza. Avanzando, entriamo in un territorio che mescola sapientemente degrado sociale e disagio psichico, ci addentriamo in quel mondo che è ai margini del nostro, nella penombra, e poi nel buio. Ad un certo punto ci rediamo conto che l'unica cosa che resta da chiarire è se i delitti (si, sono più di uno quelli di cui è accusato) sono opera di Polza o meno, ma intanto avremo viaggiato abbastanza a lungo nella mente e nelle scelte scellerate del protagonista da esserci fatti un'idea più chiara di chi sia realmente. E' un bambino bullizzato, dalle limitate possibilità economiche, senza madre, forse troppo sensibile per accettare un mondo che per lui è da subito estremamente duro. E' un uomo che trova la sua strada lavorativa, la sua vita matrimoniale, ma che abbandona tutto quando il padre muore. Da quel momento, tutta l'oscurità che l'infanzia e l'adolescenza avevano fatto crescere dentro di lui, trovano una via di fuga e si manifestano. Da lì in poi è una lotta tra fantasmi, tra Polza e il suo passato, tra il mondo di Polza e il mondo reale, tra le regole (o, per meglio dire, l'assenza di regole) del mondo di Polza e le regole del mondo reale. Il nuovo mondo fatto di libertà però non sarà meno violento di quello vissuto dal protagonista nella sua infanzia, forse, anzi, è peggio. Polza fugge da un mondo che sente come falso, che si teneva in piedi solo grazie alla figura del padre che ne era in qualche modo garante, e piomba in un mondo in cui la libertà assoluta che si è scelto (di vagare, di sperimentare, di essere slegato da tutto e da tutti) porta con sè delle conseguenze devastanti. La ricerca (non della detection, non della polizia, non nostra di lettori di noir) di Polza diventa la "queste" ossessiva di un "blast", un viaggio diverso, psichico, un trip, lontano da regole morali, un luogo che gli permetta di dissolvere la sua stessa identità, un luogo-non luogo dove il dolore non esiste, nè quello fisico nè quello psicologico, dove gli altri non ti possono fare del male semplicemente perchè in quel non luogo gli altri non ci sono: non c'è nessuno, c'è solo Polza, e un Moai, un volto immaobile, enorme ed inanimato, che significa qualcosa che nessuno conosce. O, forse, significa esattamente quello: l'impossibilità di conoscere qualcosa, qualsiasi cosa.


Ogni esperienza umana, se non del tutto negativa, finisce comunque per impregnarsi di dolore, la vita borghese, la moglie, il lavoro e gli affetti, sono stati rifiutati in toto. Non resta spazio nè nel mondo reale nè in quello psichico per un angolo di pace, non c'è requie. Per Polza, così enorme, così goffo, ingombrante, così inadatto ai canoni del vivere civile, non c'è posto. E' di troppo. Troppa carne sulle ossa, troppa intelligenza, troppa sensibilità, troppa voglia di cercare altro, troppo tutto. Il mondo è troppo stretto per lui (non basta la natura, non bastano le apparizioni quasi mistiche degli animali), e anche la sua psiche lo è, persino le droghe e l'alcool lo sono, Polza, non sappiamo se sia un serial killer o un ghettizzato dalla sorte, un loser, un pazzerello, un mostro da prendere in giro per l'aspetto fisico, ma sappiamo per certo che qualsiasi cosa sia, qualsiasi azione abbia commesso, qualsiasi sia la sua reale aspirazione, è troppo complesso per un mondo che non lo accetta, nè lo accetterà mai.
Larcenet ci racconta questa odissea, questa biografia (questo noir) con uno stile tutto suo che non è epico, non è biografico nè noir, Polza rimane un "monstrum", un essere sfaccettato, quasi poetico, vittima e forse carnefice, e folle e forse feroce, inincasellabile, fa paura perchè è altro da noi, ma richiama tenerezza perchè è anche profondamente come noi, si spinge dove noi tutti almeno qualche volta avremmo voluto osare, e poi va oltre, e oltre ancora. E poi si perde e non sa più dove si trova, nè lo sappiamo noi e, credo, nemmeno il suo autore.
  Alla fine, che il blast lo cerchiamo o lo rifuggiamo, ci rendiamo conto che le domande di Polza, le sue aspirazioni, il suo anelito di libertà, sono quelle cose che abbiamo soffocato ormai molto tempo fa. E forse - leggendolo veniamo presi anche da questo dubbio -in fondo abbiamo fatto la scelta giusta.


Manu Larcenet è nato nel 1969. Ha studiato grafica al Sèvres Lycée e ha iniziato a pubblicare alla fine del 1994, nello stesso periodo in cui cantava in un gruppo punk rock. La sua attività spazia dal fumetto all’illustrazione all’ideazione di giochi. Ha legato il suo nome soprattutto alla collana “Poisson Pilote” di Dargaud, ma ha lavorato con tutti i maggiori editori francesi.

Larcenet ha collaborato con vari sceneggiatori, ma sono le storie più personali il suo punto di forza, come il graphic novel “Lo scontro quotidiano”, che ha vinto il premio come “Miglior libro” al Festival di fumetti di Angoulême e il premio come “Miglior libro straniero” al Comicon di Napoli.

Con Jean-Yves Ferri, l’attuale sceneggiatore di Asterix, ha realizzato i volumi della serie umoristica “Ritorno alla terra” e da solo la saga “Blast”, anche questa in corso di pubblicazione in Italia da Coconino Press.

venerdì 17 luglio 2020

Tokyo città occupata, David Peace, Il Saggiatore, trad. di Marco Pensante

Sono le tre e venti del 26 Gennaio 1926, a Tokyo, alla banca Teykoku si avvicina la chiusura, mentre gli adetti sbrigano le ultime scartoffie della giornata: entra nella filiale un uomo che chiede di parlare urgentemente col direttore. Il direttore ha lasciato da poco l'ufficio perchè stava male, presentava forti dolori allo stomaco. Siamo nell'anno del ratto, il Giappone è un paese in ginocchio, occupato, stravolto dalla povertà, dalle malattie che circolano tra la popolazione come un nuovo esercito nemico, tifo e dissenteria la fanno da padroni. L'uomo viene condotto nell'ufficio del vicedirettore, si presenta come il dottor Yamaguchi Jiro (responsabile tecnico, Ministero della Sanità e dell'Assistenza sociale), sostiene che in mattinata è entrato in quella filiale un uomo infetto che presentava sitnomi di dissenteria. La dissenteria in quegli anni, in un Giappone in quelle condizioni, ti prosciuga, ti porta alla morte, ogni infetto contagia altri infetti, la morte porta altra morte. L'uomo, che ha al braccio un fascia che reca scritto Medico prevenzione malattie (o Ufficio metropolitano città di Tokyo, o Caposquadra disinfenzione, o Amministrazione quartiere di Tashima, squadra epidemie), sostiene di essere stato inviato appositamente per mettere in sicurezza il personale della banca, ha con sè gli antidoti. Il primo Farmaco e il secondo farmaco. Da prendere subito, immediatamente. Chiede di chiamare a raccolta il personale presente. Fuori, dice, lo aspetta il tenente Parker (Parker o un nome simile). Il personale viene riunito, l'uomo spiega come assumere i farmaci. Il personale ingerisce il primo, stando attento a inghiottirlo direttamente, senza che questo vada a contatto con i denti o con le gengive, poi si aspetta un  minuto esatto, a quel punto si può ingerire il secondo farmaco. Solo a quel punto si può bere acqua per ripulirsi la bocca dal sapore amaro dei medicinali. I dipendenti della filiale della banca Teykoku si avviano verso il bagno per sciacquarsi la bocca e bere, invece vengono scossi da conati e contrazioni, vomitano, cadono in terra, muoiono, uno dopo l'altro. Solo una dipendente riesce a trascinarsi fuori dalla filiale e ad essere soccorsa. Alla fine si conteranno dodici vittime.
  Il romanzo si apre con uno scrittore che corre verso la Porta Nera ("ma nel tempio di Zojoji non rimane nulla... Alberi enormi e bruciati, radici rivolte al cielo...Tutte le rovine della vecchia Porta Nera"; Tokyo anno zero, pag 52), teme di non arrivare in tempo, corre a perdifiato, perchè alla Porta Nera si deve tenere una seduta spiritica, verranno evocate dodici anime, lo scrittore avrà modo, finalmente, di conoscere la verità sul misterioso caso della banca Teykoku, potrà terminare il suo libro e portare alla luce la verità.
Uno dopo l'altro, si manifestano nel fiato corto di una candela che lentamente va a morire, le anime dei sopravvissuti, di detective, di giornalisti, di militari, di presunti colpevoli: ognuno racconta la propria storia, ogni storia contraddice, almeno in parte, quelle precedenti. L'identikit dell'assassino è sfaccettat: ha diverse altezze, diverse caratteristiche, dice certe cose e dice altre cose, la fascia che porta al braccio mostra una scritta, anzi un'altra, o forse un'altra ancora. O un'altra. Quello che rimane è il suo biglietto da visita. L'unica traccia materiale che resta del suo passaggio alla filiale della banca Teykoku. Nasce la squadra investigativa "Biglietti da visita". Vengono individuati tutti coloro che sono in possesso di quel dato biglietto da visita, vengono interrogati, verificati alibi, interrogati parenti, possibili testimoni, si cercano contraddizioni, collegamenti, si seguono piste che non portano ad alcuna soluzione e si seguono piste che portano in uno dei cuori oscuri della guerra: l'unità 731, là dove la guerra non la combattono i generali ed i soldati, ma i dottori e gli scienziati. Dipartimento di guerra betteriologica.
E se le storie delle varie anime si contraddicono l'un l'altra, lette insieme permettono però di farsi un quadro, per quanto sfocato, non tanto del colpevole del crimine della banca, quanto dei colpevoli dei crimini di guerra o, quantomeno dei colpevoli crimini di guerra. Lo scrittore si trova così per le mani un puzzle dell'orrore che sotto la patina della fredda perfezione nipponica nasconde crimini inumani, prigionieri usati come cavie, i cosiddetti "tronchi", popolazione civile inconsapevole sterminata per testare virus e batteri letali. Bambini, donne, cinesi, russi, persone che guardano con gratitudine i dottori credendo che gli stiano iniettando medicinali salvifici e che invece li stanno giustiziando. E' questo il vero crimine di questo noir, e l'umanità ne è il colpevole, nessuno è innocente, nè i giapponesi, nè i russi, nè gli americani, nessuno s'indigna per i crimini commessi, tutti sono interessati a coprirli, le vittime rimangono anime che si manifestano nella fiamma di una candela, esistenze ormai trascorse e dimenticate in nome di una normalità che poggia le sue fondamenta sui crimini di guerra. Tokyo è una città occupata, dove non sono più i giapponesi a comandare e a decidere di loro stessi, Tokyo diviene così il palcoscenico sul quale lo scrittore ricostruisce la rappresentazione dell'abisso nel qual si dibatte l'umanità intera. E' Tokyo, è il Giappone, ma potrebbe essere qualsiasi altro posto del mondo, qualsiasi altra guerra, qualsiasi dopoguerra, l'inumanità è la stessa ovunque.
Tokyo città occupata è il secondo libro di una trilogia (il primo è Tokyo anno zero, l'ultimo, di prossima pubblicazione sempre per Il Saggiaotre è Tokyo redux) incentrata sulla città di Tokyo, una capitale martoriata, uscita a pezzi dalla guerra, nella quale la gente prova a costruirsi una normalità che ancora non può essere tale, e fa (o non fa) i conti col proprio passato recente. Quella città, in quel momento è La città, il microcosmo sul quale Peace punta il proprio microscopio e studia la vita dopo la morte, la vita dopo la guerra, e le nuove guerre che servono per costruire una nuova vita. Nessuno è innocente, la normalità ha radici sporche, la vita si nutre della morte di chi è stato prima, la guerra porta nuova vita, disperata, sbilenca e, dalla distanza di un sipario che divide i vivi dai morti, anche assurda. Chi studiava le armi batteriologiche, oggi si arrabatta a sopravvivere, o ha trovato nuovi lavori, ha famiglie a cui nascondere il proprio passato, la guerra, così vicina, sembra lontana, le proprie colpe, così lontane, sembrano vicine, così vicine da cercare di scrollarsele di dosso, come fossero insetti repellenti.
  Il solito, grande, eccellente Peace, dopo il capolavoro assoluto del Red Riding Quartet (anch'esso ripubblicato in toto da Il Saggiatore) trova un'altra pozza oscura e maleodorante nella quale immergere le mani, alla ricerca di cosa significhi essere umani. Non vi piacerà saperlo, vorrete voltarvi dall'altra parte, fingere di non vedere, non sentire, non capire, ma Peace il suo mestiere lo ha fatto. Col suo stile sincopato, ossessivo, preciso fino allo sfinimento, vi ha mostrato l'orrore nel quale siamo immersi. Non potrete più far finta di non sapere, di non aver capito, di non aver guardato nel fondo dell'abisso. Dopo, niente è più come prima.
  David Peace, a mio parere, è semplicemente il più grande scrittore di noir vivente, e uno dei migliori scrittori del mondo.

In attesa della pubblicazione del terzo volume del trilogia di Tokyo, vi consiglio di rileggervi i primi due volumi, o di recuperarli e leggerli per la prima volta, se ancora non lo avete fatto.


DAVID PEACE nasce nel 1967 a Ossett dove cresce, nel West Yorkshire. Nel 1991 lascia il Manchester Polytechnic per andare a insegnare inglese a Istanbul, dove rimane per due anni, prima di tornare in patria. Dal 1994 si trasferisce a Tokyo, con l'intenzione di trascorrervi un periodo altrettanto breve, invece si ferma a vivervi stabilmente.
Nel giro di quattro anni, dal 1999 al 2002, pubblica il cosiddetto Red Riding Quartet, una quadrilogia di romanzi noir ambientati nello Yorkshire di fine anni settanta e primi ottanta, segnati degli efferati delitti dello Squartatore dello Yorkshire. Per questi romanzi, che mescolano cronaca nera e finzione, con uno stile molto impegnativo per il lettore, Peace viene paragonato al James Ellroy di American Tabloid e Sei pezzi da mille.
Nel 2009 il primo, il secondo e il quarto romanzo sono stati adattati in tre film per la televisione, conosciuti collettivamente come Red Riding e trasmessi da Channel 4.
Nel 2003 l'autorevole rivista letteraria Granta inserisce Peace nella sua lista dei venti migliori giovani (under 40) romanzieri britannici (Best Young British Novelists), pubblicata a cadenza decennale.
La sua opera successiva, GB84 (2005), è incentrata su un episodio cruciale della storia britannica, lo sciopero dei minatori del 1984-1985, terminato con la vittoria di Margaret Thatcher e del Partito Conservatore e la completa sconfitta dei sindacati. Il romanzo vince il prestigioso premio letterario nazionale James Tait Black Memorial Prize.
In Il maledetto United (2006) Peace racconta, a modo suo, il breve periodo (soli 44 giorni) durante il quale Brian Clough allenò il Leeds United. Nel 2009 il romanzo è stato adattato per il cinema dallo sceneggiatore Peter Morgan, nel film omonimo, diretto da Tom Hooper, con Michael Sheen nel ruolo del protagonista e Timothy Spall come coprotagonista.
Con Tokyo anno zero (2007) dà inizio ad una trilogia ambientata nel Giappone devastato dopo la Seconda guerra mondiale, durante l'occupazione americana, ispirata ad autentici episodi di cronaca nera. Tokyo città occupata (2009) è il secondo libro della trilogia che verrà completato dalla pubblicazione del terzo volume Tokyo redux (in Italia per Il Saggiatore).

 (nota biografica tratta da Wikipedia)

domenica 12 luglio 2020

Terra Alta, di Javier Cercas, Guanda editore in Parma, trad. Bruno Arpaia

Javier Cercas abbandona la sua comfort zone (spero temporaneamente), lascia la strada che aveva tracciato e che correva sul limitare tra fiction/non-fiction e autofiction e si dedica a fare due passi ristoratori nel giallo tradizionale.

  Nella Terra Alta, regione sud della Catalunya, vengono scoperti nella propria casa i cadaveri di un'anziana coppia e della loro domestica. I due anziani, al piano di sotto, (al contrario della domestica rumena, freddata con un colpo di pistola) sono stati torturati a lungo e in modi atroci, la volontà, chiara, è stata quella di farli soffrire. L'uomo è il proprietario delle Graficas Adell, l'azienda più florida della zona, ormai divenuta multinazionale con sedi in diverse parti del mondo e che dà lavoro a buona parte dei residenti nella Terra Alta. In realtà Le Graficas Adell o, per meglio dire, il suo proprietario e fondatore, sono proprietarie di quasi tutta la Terra Alta. Ad indagare sul crimine che sconvolge l'intera regione, c'è, tra gli altri, Melchor Marìn, un poliziotto giovane, ossessionato dal libro I miserabili, dal passato travagliato diviso tra luci ed ombre (più ombre che luci, a ben vedere). E' stato inviato in Terra Alta per allontanarlo dai pericoli della vendetta da parte del terrorismo islamico dopo che, durante gli attacchi del 2017 a Barcellona, ha freddato, da solo, quattro terroristi. Figlio di una prostituta il cui omicidio è rimasto irrisolto e di padre ignoto, in seguito ad una gioventù scapestrata è stato in carcere, ed è qui dove, leggendo il capolavoro di Hugo e identificandosi nel personaggio di Javert, decide di entrare in polizia. Nella Terra Alta ha trovato il proprio equilibrio, un comunità che lo ha accolto, e una compagna con la quale ha creato la propria famiglia: la sua vita ora scorre su binari tranquilli, ma il brutale omicidio dell'anziana coppia  (e della domestica) lo porta a contatto con una realtà che, ancora una volta, lo fa precipitare nell'ossessione. Ossessione per la giustizia assoluta, per la ricerca della verità e del trionfo del bene. Ma cos'è davvero il bene? L'indagine, che gli toglierà ogni certezza, materiale e non, pare arenarsi di fronte alla mancanza di prove che portino ad imboccare una linea investigativa, l'impressione è che i colpevoli e le motivazioni del delitto debbano a tutti i costi rimanere occulti, che interessi troppo grandi e persone troppo in vista vogliano che il caso rimanga irrisolto. Ma perchè sono stati uccisi i due anziani? Chi li odiava o, per meglio dire, chi odiava il vecchio Adell, proprietario e fondatore di un impero? Tutti lo amano o lo odiano tutti? Si è trattato di una rapina, o di una vendetta? A compiere il delitto sono stati dei professionisti o dei ladri drogati? I colpevoli (forse, a questo punto, si può parlare anche di mandanti) sono da cercarsi all'interno dell'organigramma aziendale, o all'interno della famiglia?
La detection si intreccia ai flashback sulla storia personale di Melchor, e funziona come un meccanismo perfetto. La tensione è sempre alta e le svolte narrative sono preparate e dosate con sapienza. Melchor è un personaggio memorabile, complesso e tormentato ma non irredimibile, capace di trovare una sua via alla felicità e di tenersela stretta ma, anche, di metterla in gioco pur di arrivare fino in fondo alla verità. Fino a questo punto parliamo di un ottimo thriller, godibilissimo, capace di tenere avvinto il lettore già dalla prima pagina. Però qui l'autore è un signore che nella sua carriera ha scritto capolavori come Soldati di Salamina, Anatomia di un istante e L'impostore (e cito qui anche il pregevole saggio Il punto cieco), e dunque non si accontenta di seguire le regole del genere, di scrivere bene e di dosare al punto giusto tutti gli ingredienti di un buon thriller: se l'ossessione di Melchor sono i personaggi de I miserabili (l'unica concessione alla "metaletteratura" e allo specchiarsi tra narrativa e vita), quella di Cercas è il passato, e anche in questo caso la soluzione del caso giungerà da un passato che nessuno poteva sospettare. Il passato dunque è, come in tutti i libri di Cercas, il vero protagonista: la sua natura fallace, scivolosa, bifronte, e l'incapacità dell'essere umano di rapportarvisi in maniera sensata. E' il passato che nasconde la verità, ma col passare del tempo, la verità perde i suoi contorni, si arricchisce di nuove prospettive, la storia la illumina secondo modalità nuove e ciò che ad un dato momento sembrava essere una figura bidimensionale, priva di chiaroscuri, col tempo diviene un caleidoscopio di ipotesi. Fare i conti col passato vuol dire fare i conti con sè stessi o, piuttosto, scegliere scientemente di rinunciare al proprio io costruito negli anni, alla propria identità sociale e privata, in favore di un nuovo equilibrio sbilenco? Il passato, sembra dirci l'autore, è foriero di cambi di prospettiva bruschi, spesso violenti, mette in discussione ogni certezza, le sgretola, distrugge un mondo e non garantisce di porre le basi per un mondo nuovo. Eppure è dal passato che veniamo, siamo quello che siamo perchè abbiamo vissuto quello che abbiamo vissuto. Ma quello che abbiamo vissuto, rivisitato da una prospettiva futura, è ancora ciò che abbiamo vissuto, e solo quello?
  Terra alta ha diversi livelli di lettura, può essere un ottimo giallo, e può essere letto come una riflessione sul valore del passato, della vendetta e sul senso del tempo. I capolavori di Cercas sono altri, chiaro, ma gialli solidi, maturi, profondi e disturbanti come Terra Alta non sono molti in circolazione.

Melchor Marìn è un protagonista (quasi) indimenticabile (chissà che non torni in qualche libro futuro, magari più anziano, alle prese con la figlia adolescente). Cercas è sempre Cercas, anche fuori dalla sua comfort zone, basta che abbia una penna in mano (o le mani su una tastiera).



Javier Cercas è nato nel 1962 a Ibahernando, Cáceres. La sua opera, tradotta in più di trenta lingue, è pubblicata in Italia da Guanda: Soldati di Salamina (Premio Grinzane Cavour 2003), Il movente, La velocità della luce, La donna del ritratto, Anatomia di un istante, Il nuovo inquilino, La verità di Agamennone, Le leggi della frontiera, L’avventura di scrivere romanzi (con Bruno Arpaia), L’impo­store, Il punto cieco e Il sovrano delle ombre. Anatomia di un istante ha vinto nel 2010 il Premio Nacional de Narrativa e nel 2011 il Premio Salone Internazionale del Libro di Torino e il Premio Letterario Internazionale Mondello. L’impostore è stato finalista al Man Booker International Prize 2018.

venerdì 20 dicembre 2019

L'agghiacciante caso del gatto nella minestra & L'oscuro caso delle luci di Roccaverde, di Claudio Vastano, Dunwich edizioni

Cominciamo col dire che il personaggio Casper Pestalozzi è quanto di meglio abbia sfornato uno scrittore di crime novel dai tempi del Lazzaro Santandrea del compianto Andrea G. Pinketts. Pestalozzi è un investigatore privato dissacrante, che ricalca i luoghi comuni del genere per smontarli, scientificamente, uno dopo l'altro. Laureato in geologia, indossa orgogliosamente un impermeabile lercio come quello del tenente Colombo, vive da spiantato nella periferia di Lucca, per sbarcare il lunario coltiva marjuana in garage, divide l'affitto con uno psicologo psicotico (il Cacini), detto Trapasso, attirato irresistibilmente dalla morte (sua, in particolar modo, e di quanti gli stanno accanto in generale). Al posto della famosa e sgangherata Peugeot cabriolet 403 del tenente Colombo o del Maggiolino di Dylan Dog, Pestalozzi si sposta su una scalcagnata utilitaria dai connotati non meglio specificati, detta la "nipponica". Il "suo ispettore Bloch" è tale commissario Spaccalano (nomen omen), una sorta di urside per dimensioni, sembianze e timbro vocale. Per completare il paesaggio umano nel quale Pestalozzi si muove, bisogna presentare la fidanzata, Lauretta, una moretta, piccolina e ben fatta che, per amor proprio e profondo senso di vergogna, nasconde la sua relazione alla amiche e in generale a tutto il genere umano. Anche Lauretta ha funzione di antitopos narrativo del genere: non è una dark lady e nemmeno la classica "grande donna dietro un grande uomo": il suo cruccio è quello di avere avuto in sorte un fidanzato fallito, socialmente impresentabile, economicamente spiantato, incapace di ambizione, odiatore dei ricchi e di quel mondo dal quale, invece, Lauretta è attirata (anche se moderatamente, a dirla tutta). La madre di Lauretta (mamma Pezzotta), che giocoforza è a conoscenza della relazione della figlia con il malridotto Casper, è la nemesi di Pestalozzi, la sua hater personale, descritta immancabilmente come una sorta di mostro biblico, o "boiler con le ciabatte" (Lauretta deve difenderla in continuazione dalle offese del Pestalozzi, spiegando come la mancata forma fisica, che rasentà l'obesità, della madre sia causata da una disfunzione tiroidea), si esprime con urla e insulti verso il findazato della figlia, colpevole di essere ciò che è: vale a dire, il fallito di cui sopra. Nel primo libro, L'agghiacciante caso del gatto nella minestra, Pestalozzi viene chiamato dall'ispettore Spaccalano ad investigare su un caso apparentemente impossibile. Un ricco avvocato (tale Nardi) viene ucciso nello studio della propria villa, una magione immensa conosciuta come villa Tooms (una chicca, in omaggio a Eugene Victor Tooms, personaggio che appare in due episodi di X-files: "Omicidi del terzo tipo" e "Creatura diabolica"), proprio mentre al piano di sotto, nel salone principale, gli invitati stanno attendendo che questi scenda per dare inizio alla festa. Il meccanismo è quello classico dell'omicidio nella stanza chiusa, c'è, oltretutto, anche il sospettabilissimo maggiordomo. Ma, così come per i propri personaggi, anche per la trama Vastano usa uno stereotipo narrativo e lo stravolge. L'investigazione procede attraverso una detection dal passo strettamente scientifico (anche se portato avanti un po' alla bell'e meglio, non certo attraverso le tecniche sopraffine e i test di laboratorio di serie quali C.S.I), non vi è spazio per l'intuizione e il colpo di genio, vi è un avanzamento che poggia su piccoli passi razionalmente costruiti. Poi, però, il fulcro dell'indagine grazie al quale si giunge a dipanare il mistero, è "un mistero buffo", un gatto, Sisma, che quando si spaventa corre in cucina e si butta nelle pentole piene di cibo: la sera della morte dell'avvocato Nardi, nello specifico, si getta nella minestra. Chi tra gl'invitati ha ucciso l'anziano avvocato? La bionda svampita, il nipote con problemi di droga e gioco d'azzardo? Eugene Tooms? I figli desiderosi dell'eredità? Qualcuno mosso da invidia, cupidigia, vendetta? O forse è qualcuno della servitù? Chi o cosa ha spaventato il gatto Sisma? Di chi sono le impronte nella stanza dell'avvocato, perchè scompaiono appena fuori dalla porta?
  Il disprezzo di classe che Pestalozzi riserva per i ricchi troverà una conferma nell'indagine?
Lascio inevase le interrogative e non vado oltre per non guastare il gusto della lettura.

Da est calano come unni i liceali, con i loro zaini stranieri e i motorini truccati. da nord, invece, provengono gli studenti degli istituti professionali. Hanno usanze selvagge, non possiedono il senso dello Stato, della legge e della proprietà. La loro attività preferita, quando non giocano a pallone, è la ricerca delle femmine.

pag. 9-10

<< Sei un fan di Dylan Dog?>>
<< Diciamo che le mie conoscenze investigative vengono tutte dai fumetti dell'investigatore dell'incubo e dagli articoli di Donna Moderna. E' lì che uno si fa la vera cultura, altro che Università. >>
<< Se lo dici tu che sei del ramo. >>
<< Del ramo e della radice. >>
Sono tutte balle naturalmente. Ho una laurea in geologia e una specializzazione in geochimica, ma per esperienza so che se alla gente ti presenti sventolando i tuoi meriti accademici va a finire che rimani simpatico come Vittorio Sgarbi.

pag.29-30 


La seconda indagine di Pestalozzi è raccontata ne L'oscuro caso delle luci di Roccaverde. Il dottor Michael Colmer, che lavora all'istituto di ricerca di Roccaverde, viene trovato morto in maniera, anche questa volta, inspiegabile. Apparentemente è stato ucciso da un fenomeno misterioso che caratterizza l'abitato di Roccaverde, delle luci (verdi appunto) che si muovono nell'aria e che ricordano i globi misteriosi che appaiono spesso collegati ai famosi "cerchi nel grano". Il corpo dello scienziato sembra essere stato divorato da queste luci che, la sera della sua morte, sono state viste da più persone del paese. Pestalozzi, che ormai si è fatto una certa fama come esperto di casi "strani", al limite del paranormale, viene chiamato ad investigare. Alla morte del dottor Colmer fa presto seguito la morte di un'altro scienziato, anche in questo caso legata all'appazione delle misteriose luci verdi. Pestalozzi, coadiuvato da un tasso petomane (Gustavo) e dagli inseparabili Trapasso (che in questo caso si ritaglia un ruolo di maggior respiro) e Lauretta. Tra acque nauseabonde e luci globulari, tra scienza e paranormale, tra alberghi rassicuranti e grotte uterine e oscure (e high tech), il mistero, ovviamente, verrà svelato. Pestalozzi rischierà la vita, Lauretta arriverrà addirittura a preoccuparsi per lui e Trapasso si gusterà beatamente la vicinanza quasi definitiva con la Grande Consolatrice. Anche in questo caso gli studi in geologia del Pestalozzi e la sua razionalità scientifica avranno un ruolo determinante nel dipanarsi dell'investigazione e nella risoluzione degli omicidi. In questo libro non è più il giallo classico a fare da modello primigenio sul quale Vastano scatena la propria fantasia, quanto il racconto "dello scienziato pazzo" condito con un pizzico di atmosfera paranormale (alla Dylan Dog, per intenderci). Anche per L'oscuro caso delle luci di Roccaverde i modelli vengono rivoltati come calzini e utilizzati per mettere in scena una commedia umana tutta particolare. La trama in questo caso è più articolata e sfocia in scene di stampo hard boiled nelle quali la violenza prende la scena lasciando, a tratti, in secondo piano il gioco intellettuale della ricerca della verità.

<< O' Cacini, ma vieni via così?>>, domando. <<Con la maglietta a mezze macniche e i sandali?>>
<<C'è qualche problema?>>
<<Siamo a fine Novembre, cialtrone! Ti sei accorto che fuori è ghiaccio marmato? In montagna pare d'essere in Siberia.>>
<<Meglio, così stianto assiderato.>>
<<Mettiti almeno i calzini.>>
<< Niente calzini. Voglio che la morte di ghiaccio mi prenda dalle gambe.>>
<<E' più facile che la morte ti guardi e si ritragga>>, gli rispondo. <<Ha buon gusto, lei. Che anch'io forse non scherzo, ma te... guardati gli stinchi. Con quei pelacci neri e scimmieschi, sembri un oltraggio alle leggi dell'evoluzione darwiniana.>>
... Il Cacini però non la prende bene. <<Sai che hai ragione? Ho una fisionomia da scimmia bonobo>> constata con amarezza. <<Faccio schifo al maiale.>>
<<Cacio, questa è una di quelle rare occasioni in cui l'uomo saggio sceglie di dimostrare giudizio.>> 

pag.12 

  Casper Pestalozzi è un prodotto (narrativamente felice) di due fattori specifici: i tempi nei quali si trova a vivere, il nostro presente, e la cultura regionale della quale è impregnato (ma, importante, non soltanto lui), vale a dire la toscanità. E' giovane, laureato, ma si trova in un mondo nel quale queste due caratteristiche non fanno una virtù, è costretto a vivacchiare, e considera la realtà nella quale vive talmente scontata da non prendere in considerazione altre opportunità. Sopravvive senza per questo farne una tragedia (al più, una commedia). Il suo titolo di studio non gli permette uno sbocco lavorativo, pertanto ricicla le proprie competenze mettendo in piedi un piccolo traffico di marjuana e come strumento per risolvere i casi che deve affrontare. E' lo spirito di adattamento che lo tiene in piedi, e l'ironia. E su questo aspetto la toscanità diventa un elemento fondamentale: Pestalozzi è greve, dissacrante, anche volgare, cinico e astuto. Non esiste argomento che non possa essere dissacrato con una battuta, e l'ironia è comunque al contempo un punto di vista "altro" rispetto alla normale visione della realtà. Ogni cosa ha il suo giusto peso, anche la morte, anche l'amore e l'amicizia, nulla ha la grandiosità epica dell'ideale assoluto a cui sacrificare sè stessi (amori, carriera, famiglia, ecc.) tipico del noir classico. Pestalozzi non è uno spiantato perchè ha rifiutato l'ipocrisia della società in cui vive, al contrario è stato rifiutato da quella società ipocrita ma, al contempo, il modello sociale del vincente o del benestante non lo attirano (come invece avviene per Lauretta).
La società del benessere la si percepisce come un'eco di fondo, ed è rappresentata da quella Lucca vecchia, raggomitolata all'interno delle antiche mura come un presepio che si specchia su sè stesso e nelle sue vie dello shopping, in una nobiltà che ormai è solo il ricordo di un ricordo. Tutt'attorno a quel circolo di mura che racchiude il centro storico, il mondo di Pestalozzi si muove in cerca di un'entrata per arrivare a fine mese. Un senso a tutto questo non lo si cerca più, Pestalozzi non è roso da nessun tarlo, non anela ad un'infinito, non cerca un significato alla propria esistenza, nè draghi da combattere che giustifichino il proprio passaggio su questa Terra.
  Se Lazzaro Santandrea, di Pinketts, poteva dedicarsi alle sue investigazioni, oltre che ai suoi passatempi alcolici, grazie ad una corposa eredità che lo salvaguardava dalle incombenze giornaliere e dalle preoccupazioni finanziarie, Pestalozzi con queste deve farci i conti. Così come, d'altronde, anche il suo coinquilino, anch'egli laureato (in psicologia nel suo caso) eppure incapace di ricavarsi una nicchia soleggiata nella società del benessere. Trapasso, dal canto suo, risponde ai controsensi della realtà in maniera malata, vagheggiando una fuga definitiva nella morte, quella fuga dissacrata sinistramente alla perfezione dal modo di dire toscano "levarsi da patire". Tutti e due sono dei falliti, losers come nella più classica tradizione letteraria americana, ma con un tocco da commedia tipicamente italiano. Lauretta è l'unica che ancora spera di trovare la sua strada nella vita, una strada compatibile con le aspirazioni di mamma che, per il momento, sono anche le sue. E' per questo suo vitalismo che fa da contraltare all'apparente passività del findanzato, che le sue critiche ed i suoi insulti sono più che sproni, per Pestalozzi, quanto delle vere e proprie sferzate, schiaffi a mano aperta in pieno volto, scosse elettriche.
  Forse l'aspetto più importante dei libri di Vastano, che fanno passare in secondo piano alcuni difetti che paiono derivare più che altro da una certa mancanza di editing, è l'uso sapiente dell'ironia, innanzitutto nei dialoghi brillanti. Se potessimo cancellare del tutto la presenza dell'ironia, i due libri di Pestalozzi rimarrebbero comunque in piedi, forti di trame salde e ben sviluppate, ma risulterebbero privati della loro forza vitale e, azzerderei, della loro ragion d'essere. Ma è proprio l'ironia, lo scambio salace, la battuta improvvisa, spiazzante, che riporta ad un maestro del genere come Malvaldi, anch'egli toscano. Rispetto al più volte citato Lazzaro Santandrea, sia in Malvaldi che in Vastano, l'ironia ha un'arma in più, o più affilata: non è solo il protagonista (il barrista Massimo o Casper Pestalozzi) a farne uso sapiente ed abbondante: ogni personaggio ne è dotato ed è capacissimo ad utilizzarla secondo le più svariate. e colorite, modalità. Non c'è una battuta al vetriolo del Pestalozzi che non riceva in risposta un missile terraria altrettanto devastante. Tutti, Lauretta, Trapasso, mamma Pezzotta, Spaccalano e pressochè tutti i personaggi minori sono perfettamente in grado di rispondere colpo su colpo. Se il genere giallo è da sempre considerato come quello più adatto a fungere da specchio critico della realtà, i libri della serie di Pestalozzi non fanno eccezione. Vastano ha uno stile piano e ottimamente adattato alle esigenze narrative che ben si presta all'inserto di dialoghi taglienti estremamente efficaci, talvolta però cade in clichè e frasi fatte che un buon editing potrebbe tranquillamente evitare. Gl'inserti di taglio scientifico, nel corso della trama, subiscono, soprattutto nel secondo libro, a mio parere quello meno riuscito, uno stacco dal resto del tessuto narrativo troppo forte, rimarcando così la propria natura di corpi estranei. Certe caratterizzazioni potrebbero essere smorzate, senza per questo che perdano mordente, al contrario, facendole risaltare oltremodo senza scadere in bozzetti dalla natura un tantino troppo grottesca. Questi e altri piccoli difetti non tolgono però nulla alla freschezza di questi libri che vivificano un genere che spesso si chiude in sè stesso e sui propri stereotipi: il detective disperato, la bella e impossibile, la violenza ostentata, l'alcolismo, la depravazione, il paesaggio metropolitano, l'ideale morale da raggiungere in un mondo eticamente devastato, la famiglia distrutta o perduta, il complotto più o meno esoterico, il serial killer. In Vastano tutto questo non lo troverete. Vivrete invece una realtà che conoscete bene, in una provincia un tempo ricca e attualmente in fase di sfaldamento, lontana dai clangori e dai fumi metropolitani, vivrete la spiazzante inadeguatezza che si prova di fronte ad una vita precaria, la gioia malvagia nel prendere in giro la futura suocera, la fidanzata, gli amici, sè stessi, i gatti, i tassi, i becchini, gli scienziati, i ricchi, le forze dell'ordine. Infine, i libri di Vastano sono libri che fondamentalmente prendono in giro sè stessi, prima ancora del genere che ricalcano. E' di per sè un dono piuttosto raro.
  Non è ben chiaro come avvenga che nessuna casa editrice di prima fascia (ad eccezione della collana Urania di Mondadori) si sia ancora resa conto del potenziale di questo autore.

  Vastano, dotato di una capacità narrativa estremamente naturale, ha scritto anche libri di fantascienza (ha vinto il premio Urania con Simbionti, pubblicata da Mondadori), horror, libri per bambini oltre ad una produzione di saggistica realtiva al suo campo di studi, la geologia.
 


 
Claudio Vastano è nato e vive a Lucca. Laureato in Scienze Naturali e in Scienze Geologiche all’Università di Firenze, ha pubblicato due romanzi di fantascienza (Ragni e Il Pozzo delle Tenebre, con Dunwich Editore), Micelio (con Effequ edizioni), un romanzo per bambini (La compagnia dei topi d’ospedale, Carmignani editore), un libro horror (Sentieri Infernali, Nero Press), due gialli (L’agghiacciante caso del gatto nella minestra e L’oscuro caso delle luci di Roccaverde, sempre per Dunwich Editore) e il saggio scientifico Garfagnana, la valle dei terremoti (Garfagnana editrice, 2014). Nel 2018 ha vinto il Premio Urania con il romanzo di fantascienza Simbionti, pubblicato da Mondadori