"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 30 novembre 2014

Il ragazzo selvaggio, di T.C. Boyle, Feltrinelli editore

  Nel 1797, nel sud della Francia, nella zona dell'Aveyron, i contadini avvistano ripetutamente quello che sarà ribattezzato Victor ma che in quel momento non è altro che uno scherzo della natura, un mostro. Forse, un animale di una specie sconosciuta. T.C. Boyle ci accompagna lungo tutto l'arco dell'avventura di Victor, dal momento della sua cattura fino a quello della sua morte, a quarant'anni. Il ragazzo, perchè di essere umano si tratta, è e rimarra per il resto della sua vita più basso della media, non è in grado di articolare parola, si muove su quattro zampe come gli animali, incrostato di terra e sporcizia pare essere, al di là del suo aspetto, in tutto e per tutto un animale. Il suo unico interesse (quantomeno fino al raggiungimento dell'adolescenza ed allo sbocciare degli istinti sessuali) pare essere il cibo, e tale rimane anche quando non rappresenta più un impellente bisogno da soddisfare andando a caccia di piccoli animali o nutrendosi di tuberi e frutti (dal momento della sua cattura ormai il cibo gli viene offerto, cotto e cucinato, in tavola ogni giorno). Il rumore (mediatico, diremmo oggi) derivante dalla sua cattura, nella Francia dell'epoca, è enorme: tutti vogliono vedere il Selvaggio (così verrà ribattezzato dalla pubblica opinione), aspettandosi un fenomeno da baraccone pronto a sgranare gli occhi di fronte alle meraviglie della civiltà. La società, insomma, considera Victor uno specchio nel quale rimirare la propria superiorità a qualsiasi altro stato di natura. Nel momento in cui questo non avviene (Victor pare totalmente impermeabile agli splendori di Parigi: si limita a cullarsi sui talloni, ad addentare tutto ciò che può, senza fare eccezioni di buongusto nè di convenienza sociale, a fissare il vuoto ed a tentare la fuga verso il mondo dei boschi da cui proveniva), la società perde ogni interesse nei suoi confronti. Solo due uomini di scienza continuano ad interessarsi a lui: Pinel ed Itard. Pinel, direttore dell'istituto per sordomuti, si convince presto che il ragazzo è affetto da idiotismo ed è irrecuperabile, mentre Itard ritiene di poterlo educare e riportare nell'alveo della civiltà. Itard spenderà cinque anni della sua vita in sforzi titanici e pressochè vani per inisegnare al ragazzo selvaggio ad articolare parola, nonchè i rudimenti del comportamento ed a rendersi utile ritagliandoli un ruolo nella società. Tutto ciò che riuscirà ad ottenere sarà fargli pronunciare un unico verso e insegnargli ad apparecchiare tavola e a spaccare la legna. Questo è quanto "la civiltà" riesce ad ottenere, a costo di sforzi enormi, da Victor e dalla sua natura selvatica. Alla fine, Itard e lo stato francese che aveva sovvenzionato i suoi tentativi ammetteranno la loro sconfitta e lasceranno Victor alle cure della governante madame Guerin, l'unica che ha avuto, nella sua semplicità, la capacità di amare il ragazzo per quello che è, senza pretendere da lui sforzi improbi per raggiunere obiettivi che, evidentemente, non erano alla sua portata. T.C. Boyle compone un libro snello e gradevole che con una lievità apparente scandaglia una vicenda reale e simbolica allo stesso tempo che ci consegna un ritratto dell'esistenza umana quale esperienza tanto intensa quanto inutile. E' il libro della frustrazione. Il solido Pinel probabilmente aveva ragione: il ragazzo era stato abbandonato (recava una cicatrice da lama sul collo, probabile tentativo di sgozzamento da parte di chi voleva liberarsi di lui) in quanto sordomuto o affetto da qualche forma di deficenza e il suo recupero non poteva avvenire proprio per questo motivo: un muro invalicabile. Pinel sostenne fino all'ultimo che era stato il suo crescere lontano dal consesso umano e dalle sue regole di civiltà a ridurlo irrimediabilmente ad uno stato animale. Rousseau e il suo mito del buon selvaggio: confutazioni e controconfutazioni (tutte tentate, nessuna dimostrata nè dimostrabile). Quanto rimane del senso di frustrazione è una parentesi di stupore per la pervicacia con la quale l'essere umano rimane aggrappato ad un'esistenza che pare non aver senso alcuno se non il trascorrere del tempo: Victor, bambino abbandonato, probabilmente vittima di un tentato omicidio, quasi sicuramente affetto da qualche forma di handicap mentale, che riesce a sopravvivere prima nel mondo selvatico dello stato naturale e poi, in un secondo momento, al momento della sua cattura - cosa non meno facile della prima -, all'impatto con la civiltà e la sua smania di civilizzarlo (l'unica che si limiterà ad accettarlo veramente sarà madame Guerin, tutti gli altri esseri umani cercheranno di ottenere qualcosa da lui, fosse anche, apparentemente, per il suo bene). E Itard, che nonostante i risultati dei suoi sforzi educativi, continua a credere di poter riportare Victor a quello che ritiene essere il suo posto nel mondo (almeno fino a quando non interviene lo stato a porre fine alle sue fatiche pedagogiche).

T.C. Boyle (1948) è uno scrittore statunitense. Autore di numerosi libri tra romanzi e raccolte di racconti, è tradotto in tutto il mondo. Le sue storie sono apparse su riviste prestigiose quali “The New Yorker”, “Esquire”, “Playboy”, “The Paris Review”, “Granta” e “McSweeney’s”. In Italia sono stati pubblicati América (1997), Se il fiume fosse whisky (2001), Amico della terra (2001), Doctor Sex (2004), Infanticidi (2006) e Identità rubate (2008), Le donne (2009), Il ragazzo selvaggio (2012) e L'isola dei topi (2014).
    

giovedì 27 novembre 2014

Ballata per mia madre, di Juliàn Herbert, Gran Vìa edizioni

  La cavalcata un po' svitata e un po' disperata di una vita, di una donna, di una prostituta (anche se, a suo dire, di classe) e il finale, soprattutto il finale, la bellezza che svapora, il corpo che si svuota, si secca attorno alle ossa, si lascia erodere dalla malattia e lo sguardo (che poi è scrittura) di un figlio che la segue, l'accompagna, e la odia nella stessa misura in cui la ama. Un distacco lento ed impietoso di una madre (a sua volta figlia e vittima di un Messico eccessivo e violento) dal figlio e, soprattutto, di un figlio dalla madre. Questo, è un libro raro (non so se sia unico - in un certo senso dovrebbero esserlo tutti, e non lo sono - ma sicuramente raro lo è), poetico nel suo non esserlo affatto, narrato con una scrittura (che poi è sguardo) fantastica, fantasiosa e al contempo a tal punto precisa da rivelarsi, a tratti, chirurgica. Immagino sia biografia, o fantabiografia, o qualcosa del genere, ma onestamente non me ne frega niente, non mi ci metto neppure a cercare interviste in spagnolo per capire se si tratti della storia della morte della madre dello scrittore, semplicemente perchè non è importante. Il fatto essenziale è che, quando lo si legge, ci si convince che si tratta di un racconto biografico, e questo è quanto. Se di biografia si tratta, è impietosa, non maschera, non abbellisce, non trasfigura, non romanza, dice pane al pane e vino al vino, la mamma è la mamma, ma è anche una prostituta, una donna perennemente bambina in cerca di qualcosa in giro per il paese, di città in città, o forse in fuga dalla sua stessa infanzia ( e da chissà cos'altro, un insetto che cerca di fuggire sbattendo contro le pareti di vetro del bicchiere che lo intrappola. La struttura non è quella di un'indagine, non andiamo a ritroso alla ricerca di quel nucleo centrale che è stata la madre dell'autore, non cerchiamo come rabdomanti un episodio che l'ha trasformata nella puttana che era, non è questo il libro, e non vuole esserlo. Non importa sapere il perchè, il perchè dei tanti figli e degli altrettanti padri di quei figli, non importa tornare al momento in cui la ragazza che fu decise di mettere piede in un bordello, e il perchè, il quando, il dove, il nome del bordello, le luci soffuse che proiettavano o non proiettavano luci equivoche su un pavimento coperto di cicche e gusci di noccioline. In realtà non interessa nulla di tutto questo a Herbert. Il centro del libro è l'ossessione dell'autore di dire tutto, tutto raccontare, di non lasciare nulla di non detto, di non eviscerato: i suoi matrimoni, le storie passate e quella presente, i suoi figli già nati e quello in arrivo, la sua dipendenza da cocaina, il suo essere a tutti gli effetti un figlio di puttana, di esserlo sempre stato e di averlo marchiato sulla pelle e fin nell'anima, se fosse certo al cento per cento di averne una, il suo essere scrittore, il suo essere un pessimo padre, e l'aver patito la fame, l'essere stato un pacco sballottato di città in città a seguito di sua madre e dei suoi amori, delle sue follie, e dei suoi bordelli, le sue fantasie e le sue paure, la paura di passare da essere figlio di puttana ad essere puttana lui stesso. Dire tutto, trasferire tutto su carta, renderlo evidente, vivo, vero: il suo ultimo amore, la gravidanza della sua compagna, il figlio in arrivo, l'ennesimo ("n", in questo caso, è da intendersi uguale a tre), l'ospedale e le notti trascorse seduto accanto alla madre a scrivere di sè stesso seduto, in ospedale, a scrivere accanto alla madre. La scrittura (che poi è lo sguardo), l'ossessione per la scrittura, per lo stile, l'amore per le parole che, non viene mai detto, ma si percepisce che sono la mano che l'ha salvato: salvato da una vita anonima, forse misera, salvato dalla follia latente di essere il figlio di sua madre, che forse l'hanno salvato da un tentativo di suicidio e che, ora, in presa diretta, lo salvano da uno tsunami di dolore e risentimento, di amore ed incomprensione che accompagna la morte della madre. La scrittura è quella di un poeta (ed Hebert lo è), di un alchimista che gioca coi suoi amati elementi sapendo perfettamente l'effetto che otterrà ma che, al contempo, rimane egli stesso stupefatto dalle immagini e dalle sensazioni che gli escono dagli alambicchi, quasi in maniera involontaria. Non credo si possa spiegare un libro come questo, l'editrice mi aveva avvertito che si trattava di un libro particolare e, per fortuna, aveva ragione: è un'esperienza, da leggere, dura come un cubo di ghiaccio e perfettamente elegante, estemporanea ed unica come la struttura di un fiocco di neve.
Forse, a ben pensarci, questo libro è (anche) il tentativo impietoso di una famiglia che guarda sè stessa sgretolarsi e, forse, darsi un senso.

  Spero ardentemente che Gran Vìa si premuri di pubblicare altro, ed al più presto, di Juliàn Herbert: è un autore da seguire, e da coltivare.



Juliàn Herbert è nato ad Acapulco nel 1971. Poeta, scrittore, musicista, è uno dei più poliedrici esponenti culturali del suo Paese. Ha al suo attivo diversi libri di poesie, saggi, il romanzo Un mundo infiel del 2004 e la raccolta di racconti Cocaìna (manual de usario) del 2006, di cui Granta Italia ha pubblicato nel 2013 un racconto nel numero dedicato al tema delle "Dipendenze". Ballata per mia madre ha vinto nel 2011 ilPremio Jaèn de Novela Inedita e l'anno successivo il Premio de Novela Elena Poniatowska, diventando uno dei romanzi rivelazione della recente letteratura  messicana.

mercoledì 12 novembre 2014

Le notti di Reykjavik, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

  Gli slittamenti di luogo e tempo paiono essere diventati il marchio di fabbrica di Arnaldur Indridason (Le abitudini delle volpi, Cielo Nero e Sfida cruciale). Dopo aver fatto tornare Erlendur nei luoghi dove ha trascorso l'infanzia e perso il fratello in un tormenta di neve (Le abitudini delle volpi), alla ricerca quindi del proprio passato, nel tentativo, se non di farci pace, almeno di scendervi a compromessi, dopo aver descritto le indagini dei colleghi lasciati soli a Rekjavik in una sorta di montaggio parallelo (Cielo nero) ed essere tornato indietro nel tempo, fino ai giorni della storica sfida di scacchi tra Spassky e Bobb Fisher (Sfida cruciale), per seguire le indagini di una giovane marion Briem (il futuro capo di Erlendur), lo scrittore isalndese questa volta incasella un nuovo tassello del puzzle della vita del suo protagonista, riportandolo ai suoi esordi in polizia, quando, giovane agente della stradale, si trova ad indagare suo malgrado su due casi che, al principio, paiono non aver alcun punto in comune.Il giovane Erlendur è già taciturno, ombroso, riflessivo, profondamente segnato dalla tragedia della scomparsa del fratellino e da questa ossessionato nell'intimo. Comincia a collezionare e a leggere tutti i libri che gli riesce di trovare sulle scomparse avvenute in Islanda durante nevicate o altri eventi naturali, è totalmente impermeabile alla febbre americana che in quegli anni colpisce la sua terra, non possiede televisione, non ama gli hamburgher, non ama le pizze, e non si cura di avere un qualche cosa di anche vagamente simile ad una vita sociale. Tra una rissa da sedare, un incidente stradale e una violenza domestica (quasi tutte causate dall'alcool), Erlendur trova il tempo e la muta concentrazione (nonchè un certo compassato ardimento) di approfondire la morte, apparentemente per annegamento, di Hannibal, un senzatetto che aveva avuto modo di conoscere durante le sue ore di servizio. Hannibal annega vicino alla sua dimora (tubazioni del teleriscaldamento) in una quantità d'acqua che pare insufficente, al giovane agente, per causarne la morte. Da questo primo vago sospetto, oltrechè (se non soprattutto) dal suo interesse per la vicenda umana di Hannibal, Erlendur, si immerge nel sottobosco della vita sociale della capitale islandese, quello dei senza tetto, e lo sonda con il suo personale stile, quasi in punta di piedi, attento alle esistenze di coloro coi quali entra in contatto, ma al contempo inflessibile nella sua volontà di giungere ad una soluzione. La scomparsa di una donna che pare "una gioielleria ambulante" nello stesso week end in cui Hannibal muore, è un ulteriore stimolo per l'indagine di Erlendur. Inoltre, in questo ennesimo volume della saga che verte attorno, non solo alla figura di Erlendur ed alle sue indagini ma, quasi di pari passo, e sicuramente con pari dignità, anche alle sue vicende umane, assistiamo (quasi col fiato sospeso, pur sapendo perfettamente quali saranno gli sviluppi successivi) al primo incontro tra il protagonista e quella che sarà, prima sua moglie, poi la madre dei suoi figli, ed infine una ex moglie terribilmente rancorosa. E' un flashback inquietante e poetico che, ben sapendo che influsso avrà sulla vita di Erlendur (i due figli e le loro storie travagliate, la droga, le incomprensioni, la rabbia ed il nipote), ci stupisce per la levità con cui la vita ti pone di fronte a dei bivi che si riveleranno essenziali nel caratterizzare le nostre esistenze. A volte, paiono come soffi di vento gelido che giunge dolcemente dalle foreste innevate e silenziose e finiscono per rivelarsi vere e proprie tempeste nelle quali si perde tutto, non solo i fratelli, ma anche i propri figli e, infine, sè stessi.
  L'ennesimo libro, perfettamente calibrato, di Indridason. Questo volume e arricchito dal commento di Camilleri che ci rende noto di aver già letto 5 libri della serie di Indridason. Con tutto il rispetto per Camilleri e per il suo Montalbano, i libri di Indridason li leggo a prescindere da qualsiasi consiglio.

Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde e Le abitudini delle volpi