"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 26 luglio 2015

Tutto inizia e finisce al Kentucky Club, di Benjamin Alire Sàenz, Sellerio editore, traduzione di Luca Briasco

  L'idea di frontiera è l'idea fondatrice degli Stati Uniti d'America. La frontiera, nel suo tracciare un prima e un dopo, un di qua ed un di là da qualcosa, definisce entrambe le porzioni del mondo che divide. Siamo quello che siamo (o, per meglio dire, ci percepiamo per come crediamo di essere) in buona parte delineando quello che non siamo, quello che consideriamo "altro da noi". Ma, cosa succede, se il punto di vista della narrazione non si trova al di là o al di qua della linea invisibile e solida della frontiera, ma la comprende? Il mondo (il microcosmo) che Sàenz ha scelto per ambientare i sette racconti che compongono questo libro è sospeso sulla linea di confine tra Usa e Messico, lungo quell'elastico che lega El Paso (America, modernità, benessere) a Ciudad Juarez (Messico, la Santa Teresa di 2666, di Bolano, una delle città più violente al mondo, teatro di più di 4000 omicidi di donne dal 1993: i femminicidi di Ciudad Juarez appunto: a tal proposito, oltre 2666, consiglio vivamente la lettura di Ossa nel deserto, di Sergio Gonzalez Rodriguez). Quindi, cosa succede quando la linea di demarcazione non è più esterna al racconto (al punto di vista del narratore) ma ne è parte integrante? Accade che si sbriciolano gli schemi mentali che l'essere umano è così abile ad imporsi pur autogiustificarsi, accade che la frontiera viene interiorizzata ed il bene ed il male si amalgamano, nella realtà e nella psiche dei protagonisti. Lo stridore dei sentimenti si mescola fino a creare un dolore tanto insopportabile quanto silenzioso. Ogni cosa è in frantumi, e danza (J.Morrison). Ognuno dei personaggi di questi racconti è in pezzi, è crollato, andando a collidere contro il muro fronterizo che ha scoperto far parte della sua stessa realtà. I sentimenti fanno male, i legami d'amore e quelli parentali fanno male; ma, come certifica Tom, il protagonista dell'ultimo racconto Il Gioco del dolore: "... non è l'amore, a essere un gioco doloroso, ma la vita. La vita è dolore."
Il Kentucky Club del titolo, giusto per la cronaca, è un locale di Ciudad Juarez col quale, in un modo o nell'altro, tutti i protagonisti hanno a che vedere, anche solo incidentalmente, e che funge semplicemente da espediente narrativo per fingere che nel microcosmo magmatico narrato da Sàenz esista un sole immobile attorno al quale tutto ruota (o, forse, meglio: attorno al quale tutto scorre). Nulla di più. Una scusa che restituisca l'idea che qualcosa a cui aggrapparsi esista sempre e comunque. Ma non ha nulla a cui aggrapparsi lo scrittore protagonista del primo racconto, E' andato a raggiungere le donne, quando il suo amore, conosciuto proprio al Kentucky Club, autista di personalità in vista e politici locali, scompare nel nulla e finisce nel deserto, a lasciare che la sabbia ed il sole gli sbianchino le ossa. Nè il ragazzo de L'arte della traduzione che torna a casa dall'ospedale come se tornasse dal mondo dei morti, dopo che ragazzi gringos lo hanno pestato e gli hanno inciso a sangue la schiena: dovrà inventarsi un nuovo modo di stare al mondo, nuove motivazioni e dovrà imparare a dare un nuovo significato alle parole. Ne L'uomo delle regole, il narratore troverà nel padre spacciatore l'appiglio per affrontare la vita a testa alta, ma sarà proprio il padre a perdersi nel mare di droga e donne che infestano la frontiera.
  Non è che non si salvi nessuno, ma ogni salvezza ha un prezzo, e il prezzo è il dolore.
  Le famiglie disfunzionali, erose dalla violenza e da stilemi culturali atavici e brutali, generano altro spaesamento, sono altre frontiere che costringono ad una scelta, o ad una non scelta:
  ne Fratello in un'altra lingua il protagonista, durante il suo rapporto con lo psicologo pagato dai genitori ricchi e anaffettivi, scopre che il fratello cacciato di casa dal padre, è ormai morto, in un'altra nazione, parlando un'altra lingua (e arriverà a capire anche le motivazioni del perchè della cacciata da parte del padre o, quantomeno, lo immagineremo noi lettori),
  mentre in A caccia del drago un fratello seguirà passo passo la cieca rincorsa autodistruttiva della sorella che, esattamente come la madre che depreca, si perde nel tentativo di possedere il drago, il suo personale drago (chiamiamolo l'attimo fuggente).
  In A volte la pioggia è il bullo Brian che vede capovolgersi il suo mondo quando viene brutalizzato dal padre a causa della sua omosessualità scoprendo però che l'aiuto più prezioso lo può trovare soltanto nella voce narrante, compagno di scuola vittima delle sue persecuzioni machiste.
  In questi tre racconti incentrati sul ruolo negativo delle famiglie (sarebbero quattro ma L'uomo delle regole in fondo riesce ad evitare una conclusione così sconfortante) il paesaggio esterno - la frontiera e, soprattutto, il deserto - altro non è che lo sconfortante specchio del paesaggio interiore dei personaggi, almeno di parte di essi, di quella parte genitoriale incapace di rivestire il proprio ruolo entro confini tollerabili: le famiglie non sono una monade, si incarnano nell'opposto del concetto di unità: due individui persi in dolori personali, tunnel imbottiti di droghe ed alcol, di sesso, persone che, sempre che si siano mai amate, non hanno saputo costruire su quel sentimento null'altro che rancori ed incomprensioni: vedono i figli come soggetti alieni, incomprensibili, complessi, che incutono terrore perchè o sono gli specchi del fallimento dei genitori o rischiano di essere gli specchi di quello che i genitori avrebbero potuto essere e non sono stati: meglio allontanarsi dunque, andarsene lontano, o allontanarli e lasciarli al loro destino. Il mondo di Sàenz, quel mondo che ha la frontiera dentro di sè, è circondato dal deserto, affollato di violenza insensata nutrita di pregiudizi, droghe, alcol, sotteso tra abissi di bilinguismo e di biculturalismo, ma tutto ciò lo vive introiettato al proprio interno. Non ha la possibilità di vedere il male come altro da sè: lo straniero non esiste, lo straniero sono io, i tratti si mescolano, le lingue anche: spesso i protagonisti dei racconti si domandano l'un l'altro se sono gringos o se sono messicani, ma invariabilmente la risposta è confusa, o composita: madre messicana e padre gringo, o viceversa, radici da un lato della frontiera, o dall'altro, o da entrambi. L'identità si sfuma lasciando nuda la psiche, ed emerge solo l'umanità, confusa, incapace di guardarsi allo specchio e comprendersi. In fondo, la vita è dolore. In fondo, tutto è in frantumi, e danza, ma si tratta di un danzare lancinante, che ha qualcosa dell'irrimediabilità nei suoi passi. Per salvarsi è necessario il sacrificio, e il sacrificio è dolore. L'unico male assoluto, di cui tutti gli altri mali non sono altro che la conseguenza ed il riflesso, è il narcotraffico, sono i narcos, che Sàenz sapientemente non descrive mai: sono un male inespresso, lasciato sullo sfondo, un male di stampo ontologico che non si può nominare nè spiegare, che è lì come da sempre, che neppure si giudica più. Solo ne piangiamo le conseguenze: i morti in quel silenzio immenso che è il deserto che ci circonda, fuori ma anche dentro di noi. Le ossa che nel deserto si sbiancano, il vento che le liscia. Sàenz, che insegna scrittura creativa - e si sente: il suo stile, bello, maturo, elegante, ha sempre qualcosa di trattenuto, di calcolato, si ha l'impressione che stia usando un qualche artificio messo lì in bella posa, ma l'artificio meglio riuscito sta nel non dire, nell'alludere e lasciar immaginare il lettore - sceglie di descrivere un mondo che finisce con l'includere al suo interno sia la migliore letteratura nordamericana che quella latina, e lo fa con una sicurezza insolita in chi è pioniere e per primo esplora nuovi territori. Compone un affresco in cui a volte affiorano dialoghi cesellati e cinematografici (ricordano a volte il cinema di Inarritu) e a volte scioglie le briglie e permette alla narrazione una fluidità più tipicamente latina (non stiamo parlando di realismo magico, per carità), un affresco doloroso, intimo ma potente dove gli stili, così come i tratti somatici e gli accenti si (con)fondono e si combinano in qualcosa di nuovo.
  Ci sarebbe da dire riguardo alla predominanza (anche un tantino ridondante a dire il vero) di amori omosessuali, come se il machismo di frontiera venisse eroso alle sue stesse fondamento dalla propria stessa fobia, ma è un particolare che alla fine passa in secondo piano, in favore della creazione di un universo piccolo ed universale, dolente ma capace di slanci di sorda umanità: uno fra tutti, il padre di L'uomo delle regole che non avendo più speranze per sè, riesce a trovare la lucidità per scegliere ed imporre quelle regole che salveranno il figlio. Una redenzione, anche il deserto, la permette.

 Benjamin Alire Sáenz è nato nel 1954 a Old Picacho, in New Mexico. Presidente del dipartimento di Scrittura creativa alla University of Texas di El Paso, dove vive, è artista e poeta, narratore e autore di libri per bambini, premiato con la Wallace Stegner e con la Lannan Poetry Fellowship per le sue opere di poesia, e finalista al Los Angeles Times Book Prize.

sabato 18 luglio 2015

I miei documenti, di Alejandro Zambra, Sellerio editore, trad. di Maria Nicola

  Undici racconti (divisi in tre sezioni) che delineano in maniera lancinante il mondo di Alejandro Zambra: dopo Bonsai (Neri Pozza, 2007) e Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013) viene tradotto in Italia da Sellerio (traduzione di Maria Nicola) I miei documenti. La qualità letteraria della scrittura di Zambra è fuori discussione, anche se nel precedente libro mi aveva lasciato il dubbio che venisse utilizzata con indubbia maestria ma con l'intento di coprire alcuni vuoti strutturali che, forse, in realtà non c'erano. O forse si. In questa racccolta però, forse perchè la distanza del racconto sembra ritagliata su misura sulle caretteristiche dell'autore cileno, il dubbio di cui sopra viene spazzato via. In realtà gli undici racconti sono come i pezzi di un unico puzzle, sono conclusi in sè stessi e non hanno altri agganci con i racconti che li seguono o li precedono, se non - appunto - la scrittura e il punto di vista che è invariabilmente quello di Zambra scrittore, o di un protagonista che potrebbe tranquillamente essere lo stesso Zambra e che rende il libro un unicum perfettamente omogeneo. I personaggi sono tutti ammantati di un'aura sartriana: è come se ognuno di loro avesse sempre ammorsata, in qualche punto non meglio precisato (ma presumibilmente dietro al collo, tra le scapole, e in qualche ganglio del cervello, a qualche crocicchio neuronale), la consapevolezza di essere costantemente sull'orlo di qualcosa di troppo grande, troppo assurdo e troppo silenzioso per non venirne irrimediabilmente schiacciati. Chi non è stato travolto e sconfitto è in procinto di esserlo, o comunque sà che gli ingranaggi di un destino implacabile sono in movimento e possono piombargli tra capo e collo da un momento all'altro. I protagonisti (tutti di mezza età, come l'autore) se non sono proprio tutti scrittori o comunque amanti dei libri, condividono comunque il medesimo modo di vedere il mondo. Complicato. Rassegnato, anche se solo fino ad un certo punto. La felicità non è prevista e se è stata presente nelle vite dei personaggi ha avuto un ruolo episodico, accidentale, s'è presentata e poi, irrimediabilmente, è passata oltre. Non esistono ampli orizzonti (uno dei motivi che mi portò a criticare Modi di tornare a casa messo al confronto con Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, di Patricio Pron), nè ideali (al di fuori, in certi casi, della letteratura stessa), è la vita stessa che viene ritratta per quel che è: dimessa, precaria, incompleta ed onnivora. Nei racconti di Zambra, così come già in Modi di tornare a casa, non guardiamo il mostro dritto negli occhi (come Roberto Bolano definisce il compito della buona letteratura) ma ne registriamo le conseguenze in chi la costante e minacciosa presenza del mostro deve subire giorno dopo giorno. La vita come un'abitudine tetra, una fatica immotivata, inconclusa, si parte ma non si arriva e, se si arriva, ci si rende conto che forse sarebbe stato meglio andare da un'altra parte, o magari in nessun posto. Ci si muove, si vive, perchè è il destino dell'essere umano, e ce lo facciamo piacere, non perchè abbia realmente un senso farlo.

E che sono vigliacco e ambizioso. Sono così vigliacco che voglio vivere di più. Come se fossi, ad esempio, felice.

Dovrei dire, copiando Pessoa: << Sono arrivato a Santiago, ma non a una conclusione. >>

<< Non ha mai temuto che la sigaretta la uccidesse? >> 
<< A me non importa, sa? Perchè non trovo così positivo il fatto che noi esseri umani, nella media, viviamo tanto a lungo >>


L'unico collante che dà un senso alle cose, o si forza di farlo, è la letteratura. Raccontare la mancanza di senso restituisce già un senso, o una forma embrionale di esso. Quindi poco importa che ci si trovi davanti a tabagisti in crisi d'astinenza, a scrittori che saccheggiano i loro ricordi d'infanzia per vendere un racconto nero latinoamericano, che si parli di bugiardi indefessi, a chierichetti in incongnito, o a padri alle prese con figli e gatti ed ex mogli, ad ex fidanzati disposti ad attraversare l'oceano per riconquistare la propria metà (ma più per senso estetico del gesto che per disperazione o per amore) o a coppie in balia dei propri notebook, il mondo è sempre quello di Zambra, mesto, folle senza per questo sfumare nell'allegria, un mondo dove i personaggi sembrano sempre ineluttabilmente soli anche quando in realtà non lo sono. Sono sconfitti dall'esistenza, ma non del tutto, la loro rivincita è rimanere in piedi, comunque, senza stilemi eroici da indossare, non sono eroi romantici, sono piccoli burocrati grigi della vita che resistono, giorno dopo giorno, affrontano piccoli e grandi guai, non immaginano orizzonti diversi da quelli che gli tocca masticarsi tutte la mattine, alzandosi con l'alba, ma sono comunque quelli che la commedia, pur consapevoli della sua insensatezza, la portano avanti. E poi, sono coloro che la loro storia se la raccontano e, rendendola degna di essere raccontata, la rendono degna di essere vissuta. (Tant'è che noi, i lettori intendo, quelle storie senza senso le viviamo, leggendole)
 Un libro fantastico, che ha come collante una scrittura sopraffina, una delle migliori attualmente in circolazione e, in questo caso, perfettamente al servizio della narrazione.

          Non so se apro o chiudo parentesi.

   Alejandro Zambra è nato nel 1975 a Santiago del Cile, dove vive. Poeta, narratore e critico letterario, insegna letteratura all'università Diego Portales e scrive per il supplemento "Babelia" di "El País" e per la rivista messicana "Letras Libres". Il suo primo romanzo, Bonsai (Neri Pozza 2007), ha vinto il premio cileno della critica. Nel 2010, Zambra è stato segnalato dalla rivista "Granta" come uno dei migliori giovani narratori di lingua spagnola.

lunedì 13 luglio 2015

Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, di Giuseppe Rizzo, Fetrinelli editore

  Leggendo la quarta di copertina si pensa subito a uno di quei libri generazionali (mutuo la definizione dall'ambito cinematografico), leggeri, sbadati, che raccontano storie di trentenni che ancora non si sentono adulti (ma sanno che dovrebbero ormai esserlo) e che dubitano di riuscire a raggiungere la maturità in un qualsiasi futuro, fosse anche lontano. Amici che vengono sballotati dall'esistenza rimanendo intimamente ancorati alle serate con gli amici, alle notti ventenni, le indianate, le cavolate, le fidanzate che andavano e venivano, il disimpegno obbligato di una certa età che non ti permette - per statuto verrebbe da dire - di prendere troppo sul serio nè te stesso nè, soprattutto, il mondo. E la prima parte del libro suo malgrado conferma questo clichè. Tre amici, siciliani, ormai sparsi per il continente se non proprio per il mondo, si ritrovano al paesello natìo, Lortica, per fare scaricare una camionata di sterco davanti a casa del sindaco del paese. Scaricano la camionata di merda di cui sopra e, soddisfatti, si prendono qualche giorno per fare i conti con le proprie famiglie e coi pregiudizi e i legami ottusi dai quali sono fuggiti. Pensano sia facile, una vacanza: Andrea che è la voce narrante, vive a Roma, e lavora come giornalista in una radio di sinistra che lo sottopaga, Pupetta (vero nome Martina) che vive a Berlino, femmina al mille per mille, dotata di cervello, curve e di forti stati d'ansia, che ha lavorato per un ministero ma, caduto uno dei tanti governi del paese, ha dovuto arrangiarsi con un impiego in una ong, e  Gaga (vero nome Marco) che vive a Praga, dove è finito per seguire uno dei suoi tanti amori eterni di pochi mesi, un parrucchiere che ad un bel momento l'ha piantato, in un rigurgito di eteresessualità. Fin qui, dicevo, nulla che non ci si aspetti: serate, ricordi, alcolici, adrenalina, il punto di vista di chi ha lasciato la terra natale e ora vi torna, scettico, critico, lontano, corrosivo. E poi: amori passati, traumi infantili, fratelli in carcere, e dinamiche ormai lasciate a marcire nel dimenticatoio che tornano a galla. E i pidocchi. Soprattutto i pidocchi, che sono alla base della piccola guerra lampo del titolo. Non è chiarissimo da subito chi siano, ma lo si intuisce agevolmente. Dallo scarico fecale davanti casa del primo cittadino si passa ad una seconda bravata. Dalla seconda bravata si precipita nel thriller. Chiamiamolo thriller. Non è proprio un thriller, non secondo i canoni comuni che definiscono il genere, ma comunque la tensione va alle stelle. Tutti rischiano qualcosa, forse tutto, forse pure la vita. Ed è in questa seconda parte che il romanzo esce quasi involontariamente dagli stilemi fin qui seguiti e diventa - felicemente - altro. Il lettore quasi non se ne accorge, ma dai toni da commedia generazionale (appunto), elegante e simpatica ma pure manierata e un filino scontata, la storia prende il sopravvento e finalmente se ne fotte delle frasi ad effetto e degli arzigogoli su cosa sia la Sicilia, la sicilianità e i siciliani, e semplicemente procede per conto suo, con una forza e una profondità naturale, priva di ritrosie. Qualche meccanismo della narrazione si è innescato e ora è lui che comanda, l'autore non può fare altro che corrergli dietro a perdifiato, tentando di mantenere un minimo di undestatement. Corre, ne percepisci il battito accelerato, ma non si ferma mai piegato in due a riprendere fiato. Della tripartizione classica, questo secondo movimento è in assoluto il migliore, non solo perchè vi si dipana la storia, e l'azione che ne consegue, ma anche perchè finalmente lo stile ricade totalmente al servizio della trama, si libera di orpelli, di ironie a volte troppo ricercate e di tic narrativi che rendono lo stile di Rizzo troppo simile a quello di Paolo Nori. La scuola emiliana ha delle caratteristiche ben precise, Nori ne è uno dei maestri, e sicuramente uno dei più conosciuti, e Rizzo pare essersi cimentato nell'esperimento di trasferire la scuola emiliana in Sicilia, e ci riesce, è bene sottolinearlo, ma il troppo stroppia e in diversi momenti (troppi, appunto) si riceve l'impressione di leggere un libro di Nori che si finge siciliano. Questo, soprattutto nella prima e nella terza parte. Nella seconda, come detto, la forza della trama trascina tutto con sè e distoglie l'autore da quei manierismi che, seppure sono nelle sue corde (e gli riescono pure bene), appesantiscono il romanzo rischiando di relegarlo in un ambito un tantino soffocante e scontato. Ora, torniamo a noi, a cosa succede nella seconda parte. Senza svelare troppo, Lortica è un paesello ma è pur sempre un paesello siciliano, il potere reale è un potere non lecito, mafioso, e gli altri poteri ufficiali (politica, chiesa, forze dell'ordine) a questo primo potere oscuro ineluttabilmente si piegano. Se qualcuno arriva da fuori a rompere le uova nel paniere, qualcosa deve succedere, per forza. Non vado oltre. L'amicizia, gli amori, passati e presenti, il futuro che non esiste, e se c'è comunque non è visibile a nessuno, i rapporti con le famiglie, la corruzione, lo status quo, i pidocchi (i mafiosi, a questo punto è chiaro), la sicilianità e la Sicilia, la violenza e l'ineluttabilità di ciò che accade e la normalità di chi si è scassato la minchia della violenza e della ineluttabilità, della corruzione, dei pidocchi, e di Lortica, della lorticanità, e della Sicilia e della sicialianità. Questo Piccola guerra lampo (etc) è un compendio di diversi aspetti, un romanzo ben riuscito, ma ancora non perfetto, non di grandissimo respiro, ma comunque di una profondità tanto più intensa quanto inaspettata, di uno stile che a tratti pare essere davvero lo stile di Rizzo, ma che in certi casi paga un debito troppo altro a modelli che l'autore sembra voler ancora seguire pedissequamente, e inutilmente, dal momento che, nella seconda parte, la migliore, l'ho già detto, finalmente si ha la sensazione di leggere lo stile di Rizzo, quello suo proprio, il risultato di quell'esperimento che vuole la scuola emiliana alle prove con la terra (e la lingua, e la cultura) siciliana. Un bel romanzo, leggero e intenso, a volte un po' troppo di maniera, a volte forse banale, ma in fondo totalmente vero e, a tratti, inaspettato. La lettura è piacevole, veloce, ironica, i personaggi un po' troppo bidimensionali. Alla fine, si ha l'impressione di aver visto un film, o che stiano per trarne un film, e questo rapporto un po' troppo stretto tra narrazione letteraria e immaginario filmico tende a stendere come una patina opaca sul libro, quasi a snaturare il "romanzo" nella sua natura intima di narrazione rivoluzionaria, lontana dalle mode, capace di scavare nel corpo stesso della società. Un po' meno commedia (di commedie in Italia ne abbiamo già viste di tutti i tipi) e un po' più coraggioso nell'essere sè stesso, qualsiasi cosa sia: se c'è una critica da fare a questo romanzo (che di difetti è pieno, ma pure di splendidi pregi), è questa.



Giuseppe Rizzo è nato in Sicilia nel 1983. Ha pubblicato i romanzi L’invenzione di Palermo (Giulio Perrone Editore, 2010) e Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia (Feltrinelli, 2013).
 

domenica 5 luglio 2015

La prossima volta, di Holly Goddard Jones, Fazi editore, trad. di Silvia Castoldi

  Siamo nel 1993, ad Ottobre, a Roma, nel Kentucky, ed Emily, una tredicenne "strana", vittima di bullismo, trova un cadavere nei boschi dietro casa, ma non ne denuncia la scomparsa. Wyatt, un operaio solitario, oggetto dello scherno e dei pesanti scherzi dei colleghi più giovani, viene fatto ubriacare in un bar e s'infilerà in un mare di guai, forse troverà l'amore (eros&thanatos, coppia inseparabile) ma certamente troverà la forza di alzare la testa ed affrontare una volta per tutte la realtà. Susanna, una giovane professoressa, scopre all'improvviso di navigare a vista in un matrimonio in crisi e, quando, la scapestrata sorella Ronnie scompare, ogni aspetto della sua vita andrà in pezzi. In un certo senso questo La prossima volta può essere letto come un romanzo di (tras)formazione. Emily, Wyatt e Susanna sono i tre personaggi principali attorno ai quali ruota l'intera vicenda e al contempo rappresentano tre fulcri narrativi e soprattutto tre punti di vista differenti. Tutti e tre si trovano a giocare il loro ruolo in una zona dell'esistenza che li vede isolati, persone in difficoltà, emarginati dalla società (dalla piccola società della cittadina, dall'ambiente della scuola o del lavoro); sono chiusi, introversi, insicuri, si accontentano della marginale ed insoddisfacente realtà che vivono, fino a quando non capita qualcosa. Quel qualcosa che è l'argomento del romanzo e che li spingerà per la prima volta nella loro vita a provare ad immaginarsi diversi. Forse alzeranno la testa, forse combineranno dei gran casini, forse cambieranno e daranno una svolta alla loro esistenza (al matrimonio, al lavoro, alla scuola), nel bene e nel male, ma a Goddard Jones non interessa conoscere gli sviluppi di questa svolta (se non quelli strettamente legati alla detection), piuttosto il suo focus si concentra sul momento preciso (un arco di pochi giorni) in cui questi cambiamenti si presentano all'orizzonte e, nel giro di breve, brevissimo tempo, piombano sulla realtà come un tornado furibondo, a spazzare via tutto l'ordine apparente che fin a quel momento aveva regnato su ogni cosa, silenziandola. L'occhio dell'autrice si concentra sugli effetti di questo tornado, sulle dinamiche che il tornado scatena, sui resti che vorticano tra le spire d'aria del turbine, come si combinano, come si scontrano: non dove si posano e se marciranno o torneranno a nuova vita. La scrittura della Goddard Jones è piana (attenta, quasi piatta, anche se assolutamente non scialba), lascia parlare gli eventi e i personaggi, e li segue (li scruta, li studia) con un'attenzione da entomologa (o forse, meglio, da psicologa), è precisa fino alla sfinimento nel seguire ogni minimo mutamento psicologico, ogni capriccio del caso e della psiche: la storia la gestisce con sapienza, con l'incedere lento e (in un certo senso) maestoso dei grandi romanzi americani, ambietando il tutto in quella provincia dove tutto succede proprio perchè pare che non accada mai nulla. Un bel romanzo solido, psicologicamente attento, capace di mantenere la tensione per 470 pagine nonostante la verità di quanto accaduto si intuisca piuttosto presto (forse troppo), una lettura piacevole ma non disturbante. Un noir dal taglio elegante, psicologico, ben scritto, elaborato con una certa attenzione allo stile e al palato fine (ma non finissimo) di certo lettore di genere. Quindi: tutto bene? No, non tutto, non a mio avviso. Il libro, lo abbiamo detto, si muove su quello stretto sentiero che divide (o unisce) il noir (il meccanismo della detection) dal librone mainstream di taglio sociale (certo non sociologico), non è solo una o solo l'altra cosa. Dargli una lettura ed una veste marketing di taglio noir lo avrebbe indubbiamente sminuito, incasellandolo in un ambito che gli sarebbe risultato stretto, d'altronde la detection serve e funziona proprio per parlare di altro, per  descrivere (in maniera un po' troppo stereotipata) una provincia americana che, tra l'altro, ormai è stata svelata da diverso tempo e da svariati autori, in libri, canzoni (Springsteen su tutti), film e serie tv, di successo o meno. In questo filone (potremmo chiamarlo de "L'altra America") La prossima volta non spicca per acutezza dello sguardo nè tantomeno per profondità di analisi: è come il compito redatto da una studentessa non troppo portata ma molto attenta, il frutto di una capacità non eccelsa sostenuta da una volontà ferrea che, alla fine dei giochi, non riesce nell'intento che si era proposta (svelare qualche aspetto della provincia americana ancora non conosciuto), ma comunque mette insieme un libro che si fa leggere con partecipazione per quasi cinquecento pagine (e non è poco). Quello che risulta più fastidioso è lo scarto tra le aspettative che crea il marketing impresso direttamente su copertina e quarta di copertina e la reale portata del libro. Sono certo che senza le aspettative create (spropositate a tal punto da risultare, per molti versi, ridicole) l'impressione che emergerebbe sul libro sarebbe assolutamente positiva, non entusiastica (non stiamo parlando di un capolavoro) ma comunque positiva. E' un noir elegante, sorretto da uno psicologismo attento, lento quel tanto da renderlo diverso da un semplice prodotto commerciale. E' un'istantanea riuscita non tanto di una (micro)società quanto delle vite dei protagonisti, segue morbosamente il nodo da sciogliere che Emily, Susanna e Wyatt si trovano per le mani in momenti ed età differenti. Poi, se fosse stato ambientanto in Antartide o tra le tribù Navajos o nel centro di Calcutta sarebbe stato sostanzialmente la stessa cosa. Quindi, perchè, mi domando, infarcirlo di aspettative assolutamente fuori luogo?
Cito: Un libro che piacerà a chi ha amato Twin Peaks / In un'atmosfera in pieno stile Twean Peaks 
  Ecco, con Twin Peaks non c'incastra un accidente.
Cito: Nessun politico dovrebbe utilizzare l'espressione american people senza aver prima letto questo libro, meglio se due volte.
Mah...
  Per quanto possa avere poca stima della categoria dei politici, dubito che qualsiasi politico americano non abbia anche solo la vaga percezione che nel loro sterminato paese non esistono solo Hollywood e Wall Street ma anche operai sottopagati, sfigati di varia natura perennemente vittime di stronzi di varia natura, insegnanti in crisi matrimoniale e bambini sensibili vittime di bullismo. Ah, si, e infermiere sovrappeso in cerca d'amore, investigatori di colore che ancora vengono guardati con un minimo di sospetto dalla popolazione wasp, insegnanti di musica pieni di boria, genitori iperprotettivi e, infine, si, pure una certa linea di demarcazione che divide tra chi ha i soldi e chi i soldi non li ha. Tra chi umilia e chi è umiliato.
  Leggetelo, ma per quello che è non per quello che vorrebbero che fosse.


Holly Goddard Jones è nata nel Kentucky. Ha pubblicato racconti su varie riviste e alcuni sono apparsi in prestigiose antologie come la New Stories From The South: The Year's Best, 2007 e la American Mystery Stories 2008. Insegna nell'Università del North Carolina. Per Fazi è uscita anche la raccolta di racconti Questa America. La prossima volta è il suo primo romanzo.