"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 20 dicembre 2019

L'agghiacciante caso del gatto nella minestra & L'oscuro caso delle luci di Roccaverde, di Claudio Vastano, Dunwich edizioni

Cominciamo col dire che il personaggio Casper Pestalozzi è quanto di meglio abbia sfornato uno scrittore di crime novel dai tempi del Lazzaro Santandrea del compianto Andrea G. Pinketts. Pestalozzi è un investigatore privato dissacrante, che ricalca i luoghi comuni del genere per smontarli, scientificamente, uno dopo l'altro. Laureato in geologia, indossa orgogliosamente un impermeabile lercio come quello del tenente Colombo, vive da spiantato nella periferia di Lucca, per sbarcare il lunario coltiva marjuana in garage, divide l'affitto con uno psicologo psicotico (il Cacini), detto Trapasso, attirato irresistibilmente dalla morte (sua, in particolar modo, e di quanti gli stanno accanto in generale). Al posto della famosa e sgangherata Peugeot cabriolet 403 del tenente Colombo o del Maggiolino di Dylan Dog, Pestalozzi si sposta su una scalcagnata utilitaria dai connotati non meglio specificati, detta la "nipponica". Il "suo ispettore Bloch" è tale commissario Spaccalano (nomen omen), una sorta di urside per dimensioni, sembianze e timbro vocale. Per completare il paesaggio umano nel quale Pestalozzi si muove, bisogna presentare la fidanzata, Lauretta, una moretta, piccolina e ben fatta che, per amor proprio e profondo senso di vergogna, nasconde la sua relazione alla amiche e in generale a tutto il genere umano. Anche Lauretta ha funzione di antitopos narrativo del genere: non è una dark lady e nemmeno la classica "grande donna dietro un grande uomo": il suo cruccio è quello di avere avuto in sorte un fidanzato fallito, socialmente impresentabile, economicamente spiantato, incapace di ambizione, odiatore dei ricchi e di quel mondo dal quale, invece, Lauretta è attirata (anche se moderatamente, a dirla tutta). La madre di Lauretta (mamma Pezzotta), che giocoforza è a conoscenza della relazione della figlia con il malridotto Casper, è la nemesi di Pestalozzi, la sua hater personale, descritta immancabilmente come una sorta di mostro biblico, o "boiler con le ciabatte" (Lauretta deve difenderla in continuazione dalle offese del Pestalozzi, spiegando come la mancata forma fisica, che rasentà l'obesità, della madre sia causata da una disfunzione tiroidea), si esprime con urla e insulti verso il findazato della figlia, colpevole di essere ciò che è: vale a dire, il fallito di cui sopra. Nel primo libro, L'agghiacciante caso del gatto nella minestra, Pestalozzi viene chiamato dall'ispettore Spaccalano ad investigare su un caso apparentemente impossibile. Un ricco avvocato (tale Nardi) viene ucciso nello studio della propria villa, una magione immensa conosciuta come villa Tooms (una chicca, in omaggio a Eugene Victor Tooms, personaggio che appare in due episodi di X-files: "Omicidi del terzo tipo" e "Creatura diabolica"), proprio mentre al piano di sotto, nel salone principale, gli invitati stanno attendendo che questi scenda per dare inizio alla festa. Il meccanismo è quello classico dell'omicidio nella stanza chiusa, c'è, oltretutto, anche il sospettabilissimo maggiordomo. Ma, così come per i propri personaggi, anche per la trama Vastano usa uno stereotipo narrativo e lo stravolge. L'investigazione procede attraverso una detection dal passo strettamente scientifico (anche se portato avanti un po' alla bell'e meglio, non certo attraverso le tecniche sopraffine e i test di laboratorio di serie quali C.S.I), non vi è spazio per l'intuizione e il colpo di genio, vi è un avanzamento che poggia su piccoli passi razionalmente costruiti. Poi, però, il fulcro dell'indagine grazie al quale si giunge a dipanare il mistero, è "un mistero buffo", un gatto, Sisma, che quando si spaventa corre in cucina e si butta nelle pentole piene di cibo: la sera della morte dell'avvocato Nardi, nello specifico, si getta nella minestra. Chi tra gl'invitati ha ucciso l'anziano avvocato? La bionda svampita, il nipote con problemi di droga e gioco d'azzardo? Eugene Tooms? I figli desiderosi dell'eredità? Qualcuno mosso da invidia, cupidigia, vendetta? O forse è qualcuno della servitù? Chi o cosa ha spaventato il gatto Sisma? Di chi sono le impronte nella stanza dell'avvocato, perchè scompaiono appena fuori dalla porta?
  Il disprezzo di classe che Pestalozzi riserva per i ricchi troverà una conferma nell'indagine?
Lascio inevase le interrogative e non vado oltre per non guastare il gusto della lettura.

Da est calano come unni i liceali, con i loro zaini stranieri e i motorini truccati. da nord, invece, provengono gli studenti degli istituti professionali. Hanno usanze selvagge, non possiedono il senso dello Stato, della legge e della proprietà. La loro attività preferita, quando non giocano a pallone, è la ricerca delle femmine.

pag. 9-10

<< Sei un fan di Dylan Dog?>>
<< Diciamo che le mie conoscenze investigative vengono tutte dai fumetti dell'investigatore dell'incubo e dagli articoli di Donna Moderna. E' lì che uno si fa la vera cultura, altro che Università. >>
<< Se lo dici tu che sei del ramo. >>
<< Del ramo e della radice. >>
Sono tutte balle naturalmente. Ho una laurea in geologia e una specializzazione in geochimica, ma per esperienza so che se alla gente ti presenti sventolando i tuoi meriti accademici va a finire che rimani simpatico come Vittorio Sgarbi.

pag.29-30 


La seconda indagine di Pestalozzi è raccontata ne L'oscuro caso delle luci di Roccaverde. Il dottor Michael Colmer, che lavora all'istituto di ricerca di Roccaverde, viene trovato morto in maniera, anche questa volta, inspiegabile. Apparentemente è stato ucciso da un fenomeno misterioso che caratterizza l'abitato di Roccaverde, delle luci (verdi appunto) che si muovono nell'aria e che ricordano i globi misteriosi che appaiono spesso collegati ai famosi "cerchi nel grano". Il corpo dello scienziato sembra essere stato divorato da queste luci che, la sera della sua morte, sono state viste da più persone del paese. Pestalozzi, che ormai si è fatto una certa fama come esperto di casi "strani", al limite del paranormale, viene chiamato ad investigare. Alla morte del dottor Colmer fa presto seguito la morte di un'altro scienziato, anche in questo caso legata all'appazione delle misteriose luci verdi. Pestalozzi, coadiuvato da un tasso petomane (Gustavo) e dagli inseparabili Trapasso (che in questo caso si ritaglia un ruolo di maggior respiro) e Lauretta. Tra acque nauseabonde e luci globulari, tra scienza e paranormale, tra alberghi rassicuranti e grotte uterine e oscure (e high tech), il mistero, ovviamente, verrà svelato. Pestalozzi rischierà la vita, Lauretta arriverrà addirittura a preoccuparsi per lui e Trapasso si gusterà beatamente la vicinanza quasi definitiva con la Grande Consolatrice. Anche in questo caso gli studi in geologia del Pestalozzi e la sua razionalità scientifica avranno un ruolo determinante nel dipanarsi dell'investigazione e nella risoluzione degli omicidi. In questo libro non è più il giallo classico a fare da modello primigenio sul quale Vastano scatena la propria fantasia, quanto il racconto "dello scienziato pazzo" condito con un pizzico di atmosfera paranormale (alla Dylan Dog, per intenderci). Anche per L'oscuro caso delle luci di Roccaverde i modelli vengono rivoltati come calzini e utilizzati per mettere in scena una commedia umana tutta particolare. La trama in questo caso è più articolata e sfocia in scene di stampo hard boiled nelle quali la violenza prende la scena lasciando, a tratti, in secondo piano il gioco intellettuale della ricerca della verità.

<< O' Cacini, ma vieni via così?>>, domando. <<Con la maglietta a mezze macniche e i sandali?>>
<<C'è qualche problema?>>
<<Siamo a fine Novembre, cialtrone! Ti sei accorto che fuori è ghiaccio marmato? In montagna pare d'essere in Siberia.>>
<<Meglio, così stianto assiderato.>>
<<Mettiti almeno i calzini.>>
<< Niente calzini. Voglio che la morte di ghiaccio mi prenda dalle gambe.>>
<<E' più facile che la morte ti guardi e si ritragga>>, gli rispondo. <<Ha buon gusto, lei. Che anch'io forse non scherzo, ma te... guardati gli stinchi. Con quei pelacci neri e scimmieschi, sembri un oltraggio alle leggi dell'evoluzione darwiniana.>>
... Il Cacini però non la prende bene. <<Sai che hai ragione? Ho una fisionomia da scimmia bonobo>> constata con amarezza. <<Faccio schifo al maiale.>>
<<Cacio, questa è una di quelle rare occasioni in cui l'uomo saggio sceglie di dimostrare giudizio.>> 

pag.12 

  Casper Pestalozzi è un prodotto (narrativamente felice) di due fattori specifici: i tempi nei quali si trova a vivere, il nostro presente, e la cultura regionale della quale è impregnato (ma, importante, non soltanto lui), vale a dire la toscanità. E' giovane, laureato, ma si trova in un mondo nel quale queste due caratteristiche non fanno una virtù, è costretto a vivacchiare, e considera la realtà nella quale vive talmente scontata da non prendere in considerazione altre opportunità. Sopravvive senza per questo farne una tragedia (al più, una commedia). Il suo titolo di studio non gli permette uno sbocco lavorativo, pertanto ricicla le proprie competenze mettendo in piedi un piccolo traffico di marjuana e come strumento per risolvere i casi che deve affrontare. E' lo spirito di adattamento che lo tiene in piedi, e l'ironia. E su questo aspetto la toscanità diventa un elemento fondamentale: Pestalozzi è greve, dissacrante, anche volgare, cinico e astuto. Non esiste argomento che non possa essere dissacrato con una battuta, e l'ironia è comunque al contempo un punto di vista "altro" rispetto alla normale visione della realtà. Ogni cosa ha il suo giusto peso, anche la morte, anche l'amore e l'amicizia, nulla ha la grandiosità epica dell'ideale assoluto a cui sacrificare sè stessi (amori, carriera, famiglia, ecc.) tipico del noir classico. Pestalozzi non è uno spiantato perchè ha rifiutato l'ipocrisia della società in cui vive, al contrario è stato rifiutato da quella società ipocrita ma, al contempo, il modello sociale del vincente o del benestante non lo attirano (come invece avviene per Lauretta).
La società del benessere la si percepisce come un'eco di fondo, ed è rappresentata da quella Lucca vecchia, raggomitolata all'interno delle antiche mura come un presepio che si specchia su sè stesso e nelle sue vie dello shopping, in una nobiltà che ormai è solo il ricordo di un ricordo. Tutt'attorno a quel circolo di mura che racchiude il centro storico, il mondo di Pestalozzi si muove in cerca di un'entrata per arrivare a fine mese. Un senso a tutto questo non lo si cerca più, Pestalozzi non è roso da nessun tarlo, non anela ad un'infinito, non cerca un significato alla propria esistenza, nè draghi da combattere che giustifichino il proprio passaggio su questa Terra.
  Se Lazzaro Santandrea, di Pinketts, poteva dedicarsi alle sue investigazioni, oltre che ai suoi passatempi alcolici, grazie ad una corposa eredità che lo salvaguardava dalle incombenze giornaliere e dalle preoccupazioni finanziarie, Pestalozzi con queste deve farci i conti. Così come, d'altronde, anche il suo coinquilino, anch'egli laureato (in psicologia nel suo caso) eppure incapace di ricavarsi una nicchia soleggiata nella società del benessere. Trapasso, dal canto suo, risponde ai controsensi della realtà in maniera malata, vagheggiando una fuga definitiva nella morte, quella fuga dissacrata sinistramente alla perfezione dal modo di dire toscano "levarsi da patire". Tutti e due sono dei falliti, losers come nella più classica tradizione letteraria americana, ma con un tocco da commedia tipicamente italiano. Lauretta è l'unica che ancora spera di trovare la sua strada nella vita, una strada compatibile con le aspirazioni di mamma che, per il momento, sono anche le sue. E' per questo suo vitalismo che fa da contraltare all'apparente passività del findanzato, che le sue critiche ed i suoi insulti sono più che sproni, per Pestalozzi, quanto delle vere e proprie sferzate, schiaffi a mano aperta in pieno volto, scosse elettriche.
  Forse l'aspetto più importante dei libri di Vastano, che fanno passare in secondo piano alcuni difetti che paiono derivare più che altro da una certa mancanza di editing, è l'uso sapiente dell'ironia, innanzitutto nei dialoghi brillanti. Se potessimo cancellare del tutto la presenza dell'ironia, i due libri di Pestalozzi rimarrebbero comunque in piedi, forti di trame salde e ben sviluppate, ma risulterebbero privati della loro forza vitale e, azzerderei, della loro ragion d'essere. Ma è proprio l'ironia, lo scambio salace, la battuta improvvisa, spiazzante, che riporta ad un maestro del genere come Malvaldi, anch'egli toscano. Rispetto al più volte citato Lazzaro Santandrea, sia in Malvaldi che in Vastano, l'ironia ha un'arma in più, o più affilata: non è solo il protagonista (il barrista Massimo o Casper Pestalozzi) a farne uso sapiente ed abbondante: ogni personaggio ne è dotato ed è capacissimo ad utilizzarla secondo le più svariate. e colorite, modalità. Non c'è una battuta al vetriolo del Pestalozzi che non riceva in risposta un missile terraria altrettanto devastante. Tutti, Lauretta, Trapasso, mamma Pezzotta, Spaccalano e pressochè tutti i personaggi minori sono perfettamente in grado di rispondere colpo su colpo. Se il genere giallo è da sempre considerato come quello più adatto a fungere da specchio critico della realtà, i libri della serie di Pestalozzi non fanno eccezione. Vastano ha uno stile piano e ottimamente adattato alle esigenze narrative che ben si presta all'inserto di dialoghi taglienti estremamente efficaci, talvolta però cade in clichè e frasi fatte che un buon editing potrebbe tranquillamente evitare. Gl'inserti di taglio scientifico, nel corso della trama, subiscono, soprattutto nel secondo libro, a mio parere quello meno riuscito, uno stacco dal resto del tessuto narrativo troppo forte, rimarcando così la propria natura di corpi estranei. Certe caratterizzazioni potrebbero essere smorzate, senza per questo che perdano mordente, al contrario, facendole risaltare oltremodo senza scadere in bozzetti dalla natura un tantino troppo grottesca. Questi e altri piccoli difetti non tolgono però nulla alla freschezza di questi libri che vivificano un genere che spesso si chiude in sè stesso e sui propri stereotipi: il detective disperato, la bella e impossibile, la violenza ostentata, l'alcolismo, la depravazione, il paesaggio metropolitano, l'ideale morale da raggiungere in un mondo eticamente devastato, la famiglia distrutta o perduta, il complotto più o meno esoterico, il serial killer. In Vastano tutto questo non lo troverete. Vivrete invece una realtà che conoscete bene, in una provincia un tempo ricca e attualmente in fase di sfaldamento, lontana dai clangori e dai fumi metropolitani, vivrete la spiazzante inadeguatezza che si prova di fronte ad una vita precaria, la gioia malvagia nel prendere in giro la futura suocera, la fidanzata, gli amici, sè stessi, i gatti, i tassi, i becchini, gli scienziati, i ricchi, le forze dell'ordine. Infine, i libri di Vastano sono libri che fondamentalmente prendono in giro sè stessi, prima ancora del genere che ricalcano. E' di per sè un dono piuttosto raro.
  Non è ben chiaro come avvenga che nessuna casa editrice di prima fascia (ad eccezione della collana Urania di Mondadori) si sia ancora resa conto del potenziale di questo autore.

  Vastano, dotato di una capacità narrativa estremamente naturale, ha scritto anche libri di fantascienza (ha vinto il premio Urania con Simbionti, pubblicata da Mondadori), horror, libri per bambini oltre ad una produzione di saggistica realtiva al suo campo di studi, la geologia.
 


 
Claudio Vastano è nato e vive a Lucca. Laureato in Scienze Naturali e in Scienze Geologiche all’Università di Firenze, ha pubblicato due romanzi di fantascienza (Ragni e Il Pozzo delle Tenebre, con Dunwich Editore), Micelio (con Effequ edizioni), un romanzo per bambini (La compagnia dei topi d’ospedale, Carmignani editore), un libro horror (Sentieri Infernali, Nero Press), due gialli (L’agghiacciante caso del gatto nella minestra e L’oscuro caso delle luci di Roccaverde, sempre per Dunwich Editore) e il saggio scientifico Garfagnana, la valle dei terremoti (Garfagnana editrice, 2014). Nel 2018 ha vinto il Premio Urania con il romanzo di fantascienza Simbionti, pubblicato da Mondadori
     

sabato 17 agosto 2019

Tor, la montaña maldita, Carles Porta, Editorial Anagrama


Tor è un piccolo "pueblo" che confina con Andorra, frazione del comune di Alyns, nella regione del Pallars Sobirà, nei Pirenei Catalani, e si trova a 1646 metri di altitudine. Ovviamente in Spagna. Nel 2010 contava 19 residenti. Conta 13 case.
  Nel Luglio del 1995 viene ritrovato nella sua baita il cadavere di Josep Montané (Sansa), uno dei leader della comunità (l'altro è Palanca e, in un ruolo di secondo piano, Cerdà). "No estaba muerto, estaba podrido" (non era morto, era marcio, decomposto), queste parole lasciano intendere perché non sia possibile riportare ancora oggi una data certa di morte e si sia costretti ad indicare un generico "luglio 1995". A trovarlo sono due hippies che si sono introdotti in casa di Sansa, confidando nella sua assenza (pensavano fosse da giorni a Barcellona), per cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Sugli hippies ci torneremo. Pochi mesi prima Sansa era stato indicato dal tribunale a cui si era rivolto per risolvere una disputa che andava avanti da molti anni come l'unico proprietario della montagna. La sentenza aveva provocato molti malcontenti, in particolar modo aveva mandato su tutte le furie (cosa relativamente facile da ottenere) il principale contendente della proprietà: Palanca. Due anni dopo i fatti, nel 1997, il giornalista di Tv3Catalunya, Carles Porta, si reca a Tor, accompagnato da due collaboratori, Pol e Pepe, e vi rimane per diversi mesi portando avanti l'inchiesta raccontata in questo libro.
E' un'inchiesta, ed è un'investigazione, una detection: fino all'ultimo Porta non si toglie dalla testa la possibilità di riuscire a trovare la soluzione del caso e ad individuare il colpevole. Ma quel mondo, quello della gente di Tor, della montagna, del confine con Andorra, è un mondo chiuso, violento, verticale, dove ognuno è un anfratto a parte, dove i rapporti interpersonali sono basati su logiche selvatiche e primitive e dove la legge non arriva, e quando infine riesce ad arrivarci è un riflesso deformato di ciò che dovrebbe essere. Tutto nasce nel 1896, quando i vecchi del paese siglano un contratto tra loro nel quale si autoeleggono proprietari di Tor e della montagna; ma c'è una clausola. La clausola prevede che mantengano il diritto di proprietà soltanto coloro che "non faranno spegnere il fuoco" delle loro case, vale a dire, coloro che continueranno a risiedere in paese tutto l'anno. Stiamo parlando di un frazione le cui abitazioni (tredici, vale la pena ricordarlo) ancora pochi anni fa non avevano a disposizione né l'elettricità né l'acqua corrente, un gruppo di case che durante il rigido inverno di quelle zone rimaneva totalmente isolato a causa della neve e del ghiaccio che ricoprivano l'unico sentiero che unisce Tor al primo paese più vicino (che in questo caso è da considerarsi il primo avamposto di civiltà).
  Nel 1997, quando Porta comincia la sua inchiesta, le condizioni di vita erano quelle appena descritte.


  Nel 1976 Sansa, Cerdà e Generosa (sorella di Cerdà) si autoproclamano unici proprietari della montagna ed entrano in contatto con un promotore immobiliare, tale Ruben Castaner Ejarque, personaggio equivoco, come quasi tutti quelli che entrano ed escono da questa storia; Ruben è intenzionato a costruire in loco una stazione sciistica, e con questo intento con lui Cerdà, Sansa e Generosa mettono in piedi una società. Palanca, in risposta alla mossa del suo storico nemico Sansa, convoca la vecchia società e con i restanti soci si dichiara a sua volta legittimo proprietario della montagna. Nel 1980 vengono uccisi in una sorta di rissa degenerata in agguato mortale due lavoratori, Pedro Linan e Josè Aguilar, alle dipendenze di Palanca. Nello stesso episodio anche Ruben Castaner rimane ferito. Questi sono i primi due morti che si possono collegare con evidenza alla questione del 1896, vale a dire alla prima società fondata tra i residenti in Tor.
  Porta, giunto sul posto, scopre da subito un ambiente schiacciato dalle presenze (spesso presenze-assenze, sospese come l'alito del maligno a vibrare nell'aria) di personaggi che incutono timore e vivono in un alone di leggenda, per quanto bruta e primitiva. Primo tra tutti Palanca, che non si farà problemi a minacciarlo in maniera piuttosto esplicita. Ma se quelli fin qui elencati sono i personaggi principali, la corte di comparse che li accompagna non è meno incredibile ed inquietante. Gli hippies dicevamo: sono in molti che vivono accampati nella frazione di Tor, come cani selvatici si accucciano fuori dalla casa di Sansa e ne divengono delle sorta di guardaspalle tuttofare, in cambio delle briciole che Sansa concede loro o, più spesso che si limita a promettere loro. Lo stesso vale per Palanca. I lavoratori, gli hippies, i guardaspalle quasi sempre sono figure sovrapponibili, spesso sbandati, fuggiti da guai più grossi di loro che li aspettano in agguato nel mondo "civilizzato", da qualche città che li ha feriti e che si rifugiano in montagna nella speranza di farsi dimenticare dal mondo e, a loro volta, di dimenticarlo. Per sopravvivere e ritagliarsi il loro spazio vitale - quasi sempre composto, quando gli va bene, da un paio di pasti scarsi al giorno (spesso non hanno nemmeno un tetto sulla testa) - si schierano ora con un contendente ora con l'altro, divenendone gli sgherri, lasciandosi tirare dentro ad un gioco che diviene sempre più violento e folle e che sempre di più ha a che fare con la morte. Poi ci sono i contrabbandieri.

 La zona che da Tor porta ad Andorra è, da tempi immemorabili, una via sicura per i contrabbandieri. Contrabbando di sigarette, ma non solo, anche di armi e, in tempi di guerra, zona che veniva usata per far fuggire gli ebrei che, pare, spesso venivano derubati dei loro averi e poi venduti ai nazisti o direttamente eliminati nei boschi. Molti in quelle zone, si mormora, si sono arricchiti sulla pelle degli ebrei. Ci sono poi le istituzioni che, come pugili suonati, non riescono ad imporre la legge dello stato, vengono incolpati di ogni cosa e rimangono come una figura istupidita sullo sfondo. A Tor la legge, se c'è, quando c'è, non funziona. Come ha da rimarcare uno dei tanti avvocati che girano attorno a questa storia:

la giustizia è lenta, e Tor è lontano.

  Non ha logica andare oltre a spiegare la trama, è un libro di non fiction novel e pertanto la trama è tutto, non fosse altro perché è la realtà sporzionata e servita su un piatto direttamente al lettore. L'indagine andrà avanti, le sentenze si susseguiranno, Porta riuscirà a confezionare il servizio per il programma 30minutos che avrà una certa risonanza presso l'opinione pubblica, soprattutto quella catalana. Ma quello che rimane di questa inchiesta e del modo che Porta sceglie per raccontarcela è l'incursione in un mondo ancestrale e violento che ci vive accanto ma del quale ignoriamo (o preferiamo ignorare) l'esistenza. Tor è un microcosmo senza acqua né elettricità nel quale chi è più forte comanda, una porzione di realtà presa in ostaggio dalla lotta tra due capibranco che si scontrano fino ad ammazzarsi, senza che questo ne scalfisca il mal inteso senso dell'onore e della sopraffazione. I codici comportamentali che s'intravedono in controluce sono quelli ancestrali della sopravvivenza, della legge della giungla che prevede che solo il più forte comandi e che il debole deperisca. Un mondo nel quale non sono previsti sentimenti che non siano paura o vendetta. L'ansia di dominio a Tor viene certificata e giustificata dall'accordo del 1896 che, nell'ansia di garantire al paese una vita il più lunga possibile (per questo la clausola del fuoco che non si deve spegnere) ne decreta invece una lotta intestina delle più sanguinose immaginabili. Su Tor e sui suoi abitanti regna un povertà assoluta, che riporta a quelle zone della cosiddetta "Spagna vuota" (secondo la definizione di Sergio Dal Molino *) che è ben rappresentata da Las Hurdes (a questo proposito lascio il link al documentario di Luis Buñuel che ne tratta: Las Hurdes, tierra sin pan), ma la sua strategica posizione al confine con Andorra fa sì che Tor stessa rimanga in una zona altrettanto di confine tra povertà endemica e una ricchezza improvvisa che potrebbe essere portata dall'arrivo della civiltà e della stazione sciistica (e che tarda ad arrivare).


Intanto però chi ci vive si arrangia come può, mostra i denti, fa affari coi contrabbandieri, combatte una guerra di trincea in cui ogni metro di avanzamento è una vittoria, una guerra portata avanti con ogni mezzo, bruciando case, usando a proprio piacimento morti di fame in cerca di una scodella calda, affidando ad avvocati la contesa presso i tribunali (avvocati che vengono sostituiti uno dopo l'altro, che spesso non vengono pagati, avvocati a loro volta strani, inquietanti, nostalgici franchisti), fino all'omicidio ("morir matando!"). Poi ci sono ossa nascoste sotto il pavimento della baita di Sansa, gli hippies scomparsi, i suicidi tentati e i suicidi riusciti, i nazisti, i pastori dalla vita talmente disgraziata da non riuscire a contenerla tutta nella propria razionalità (struggente la vita di Antono Gil Josè, testimone considerato inattendindibile, borderline e disadattato).

  Tutto questo è a un passo da noi, poco più, dalle nostre città, proprio come le morti di Alleghe svelavano un paesaggio umano non dissimile da questo di Tor in una località di vacanza, già abituata al turismo (anche se ancora non di massa): cartoline sotto cui si cela l'incubo. Quello che rimane è un libro perfetto che racconta un'indagine giornalistica su un fatto delittuoso, ma che s'innerva in un'esistenza che pensavamo ormai dissipata da tempo, cancellata dalla vita frenetica delle città. La voce di Porta è però capace di grande umanità e riesce nell'impresa di non giudicare (o non farlo più di tanto) le persone "selvatiche" che incontra nel corso della sua inchiesta, in certi casi pare arrivare a compatirle se non a capirle del tutto. Tor come Alleghe: seppur inscritti entro paesaggi idilliaci, a tanti metri di altitudine, alla fin fine si rivelano quartieri degradati come tanti altri, si trovano ad essere in mano al delinquente più forte, al più minaccioso. Sono zone in cui la legge non arriva, dove avvengono i fatti più turpi, dove, forse, si intrecciano anche interessi più grandi, incombono personalità innominabili che vivono altre esistenze, a chilometri dai luoghi del delitto, che tirano fili che nessuno vede, ma qualcuno indovina esserci. Tor è (o forse era, speriamo) uno di quei posti dove i nomi non si fanno e, a volte, nemmeno si sussurrano.

  Se volete leggetelo come un noir, è comunque godibilissimo. Ma è pura e semplice non-fiction novel, delle migliori. Proprio come I misteri di Alleghe, di Sergio Saviane (libro del 1964 che precede di due anni quello che è universalmente riconosciuto come il primo libro di non-fiction novel, quel capolavoro che ancora è A sangue freddo, di Truman Capote)
  
  Potrebbe avere un unico difetto: si trova solo in spagnolo, per ora. Ma se conoscete la lingua, consiglio di leggerlo.

* Il libro di porta qui recensito è citato in La Spagna vuota, di Sergio dal Molino, Sellerio editore, 2019. Oltre il caso di Tor, nel libro di Del Molino, si accenna anche ad un altro delitto, quello avvenuto nella località di Fago, anche su questo caso esiste un libro scritto da Carles Porta: ne parlano qui.








Carles Porta (Vila Sana 1963)

giornalista, scrittore, produttore, ha lavorato 14 anni per il programma 30minutos, del canale Tv3, componendo reportage di investigazione. E' stato inoltre inviato in zone di guerra, in Bosnia, in Ruanda, in Kosovo e in Medio Oriente.