"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

mercoledì 13 febbraio 2013

Wiera Gran, L'accusata, di Agata Tuszynska, Einaudi editore


Come passare da un inferno all'altro e ritrovarsi all'improvviso in un terzo incubo (o inferno, trattasi del medesimo soggetto), la vecchiaia in solitudine e la fine della vita, il suo esaurirsi patetico, sporco, triste e privo di poesia. Wiera Gran non sapevo chi fosse, ne ne avevo mai sentito parlare e se mi sono soffermato su questo libro è per via della sua bellezza, grazie alla foto che il libro riporta in copertina, una bellezza in bianco e nero, fredda e calda al medesimo tempo, distaccata, come se giungesse da un altrove in cui il colore e la parola ancora non hanno fatto la loro comparsa, quindi non tanto da un passato quanto, appunto, da un altrove. Un altrove che possiamo chiamare passato. Non l'ho comprato subito e pochi giorno dopo, quando sono andato a ricercarlo, non era più esposto e in libreria non solo era introvabile ma in pratica fu come se non ci fosse mai stato, nessuno lo ricordava, nessuno riusciva a capire di cosa stessi parlando e, nonostante internet e le ricerche correlate, mi fu impossibile rintracciarlo. L'ho ritrovato tempo dopo - per caso - a metà prezzo in un remainder, e leggendolo mi sono chiesto (e me lo domando ancora) come sia possibile che un'editore come Einaudi si prenda la briga di tradurre e pubblicare un libro su una cantante sconosciuta in Italia per poi strafottersene altamente di pubblicizzarlo a dovere. Di solito funziona così: qualcuno in casa editrice si innamora del libro, si batte, smuove mari e monti per comprarne i diritti contro le opinioni di tutti, e quando finalmente deve essere inviato agli scaffali delle librerie, là dove ogni libro dovrebbe stare, almeno per un certo tempo, i colleghi che si erano lasciati piegare dalla sua foga, si tirano indietro, non forniscono l'appoggio promesso e, in buona sostanza, lo boicottano. Nel senso che boicottano la collega (o il collega) e (peggio) la pubblicazione stessa. Immagino sia andata più o meno così, o forse mi sbaglio, ma se non è così che si sono svolti i fatti allora torno a non capire. Perchè è un libro magnifico, e terribile, di una potenza sommessa e straordinaria, che non tace nulla e che scava nelle zone oscure della storia - con e senza maiuscola -, della vita e della mente della protagonista. Non solo della protagonista. Parla di diversi inferni, reali e tangibili e invisibili, fatti di parole o al contrario di silenzi, di giudizi sommari espressi o taciuti, e alla fine parla della morte, la morte celiniana, che puzza di escrementi e di altri sgradevoli odori corporei, di artriti, di piaghe da decubito e di demenza senile. Ma la morte non è il peggio che può capitare, non è - per citare un altro libro - il peggiore dei destini, anzi, forse è la giusta liberazione da una catena di follie e disgrazie che a stento di può definire vita. Wiera Gran era una cantante, Wiera Gran era ebrea, Wiera Gran si appresta a diventare una diva nel periodo in cui questo termine risplendeva di un significato che era chiaro a tutti, ammantato di un'aura al limite del religioso (o del patologico), ma Wiera Gran è anche polacca e si trova a vivere nel periodo della guerra. Non è il massimo essere donna, ebrea, polacca e con tutti quei nazisti intorno. L'essere ebreo improvvisamente (o forse poco alla volta, ma un poco alla volta comunque relativamente veloce) diventa un difetto di cui vergognarsi, poi si trasforma in un vizio ed infine in una colpa. Se si è ebrei si finge di non esserlo, ci si mimetizza, certo non lo si grida ai quattro venti. Si accettano le prime limitazioni, si pensa che in fondo si può vivere lo stesso, magari adattandosi, giusto un po', poi le limitazioni aumentano, poi diventano divieti, infine c'è il ghetto, nel caso specifico il ghetto di Varsavia, poi le persecuzioni, le torture, gli omicidi e tutto il repertorio della crudele follia umana. Wiera Gran diventa una stella (o una diva, o una quasi diva) nel ghetto, dove nonostante tutto, nonostante i bambini morti di fame in strada si cerca comunque e contro ogni logica apparente di vivere una vita, una vita qualsiasi, certo non normale, ma comunque qualcosa che possa sembrare o magari essere ricordata un domani come una vita (quel po' di vita possibile), e dove oltre la fame vera e propria esiste anche una fame vorace di arte, di cultura, di divertimento, di cafè-chantant se non proprio di vaudeville. Lei è la regina. Si esibisce in un locale, nel locale entra chi se lo può permettere e dunque gli avventori più assidui sono ovviamente gli ebrei che collaborano con i nazisti, la polizia ebrea, e gente poco raccomandabile di ogni risma. Chi prospera nel fango, di solito ha da essere un maiale. Finita la guerra, finisce il primo incubo o inferno. Teoricamente ci si aspetta il paradiso o qualcosa di simile, anche solo una normalità che a paragone di ciò si è vissuto odori di paradiso, ma non è così, perchè esattamente qui inizia il secondo inferno, più sottile del primo, meno cruento ma non meno implacabile. Perchè gli ebrei che si sono salvati si sono salvati? Se sei morto, allora sei innocente, sei stato puro e giusto e per quello sei morto, ma se ti sei salvato, perchè ti hanno risparmiato? Come hai fatto? A quali compromessi sei sceso? Cos'hai barattato in cambio della tua vita? Come ti hanno comprato, perchè, che tu ti sia venduto è evidente, altrimenti non saresti vivo. Wiera Gran viene accusata dalla sua stessa gente, con la quale ha patito le sofferenze della guerra e del ghetto, di aver collaborato con quanti quelle sofferenze hanno inferto a lei ed alla sua gente. E' come se la crudeltà dei nazisti si fosse spostata di corpo, come quei virus alieni che giungono da altri pianeti attraverso qualche meteroite del cazzo, o come se i nazisti avessero scagliato una maledizione su quegli ebrei che non erano riusciti a far fuori. Una pazzia su una pazzia su un abisso di follia ed orrore. La carriera che a quel punto avrebbe dovuto esplodere per Wiera Gran diventa un via crucis che dura tutta una vita perchè la notorietà che avrebbe dovuto essere il suo dono nella vita le si rivolta contro e la rende un bersaglio pubblico, facile al giudizio ed al pregiudizio, alle invidie e gelosie dei colleghi e delle colleghe, vittima degli strali dei nevrotici ed inflessibili tribunali ebraici e soprattutto dei tribunali non ufficiali, delle voci incontrollate, delle comunità ebreaiche in giro per il mondo, dei "si dice" che si trasformano in "è certo che", dei "dicono" che diventano "l'hanno vista" e finiscono con l'eternizzarsi in "l'ho vista". Il resto, i tuor in giro per il mondo che si trasformano in rifiuti, in cacciate e poi in fughe ed infine in una sorta di fuga perenne da un cantone all'altro dove cercare comprensione e dai quali ogni volta fuggire ricoperta di ignominia, il resto dicevo è l'immagine di una falena che sbatte e risbatte contro le pareti di vetro di un bicchiere, sempre più forte, sempre più disperatamente, per poi culminare nella paranoia, una paranoia combattiva ed orgogliosa, ma pur sempre paranoia. La vecchiaia, Parigi, l'alloggio in un condominio che assomiglia sinistramente a quello de L'inquilino del terzo piano di Roland Topor (portato sullo schermo da uno dei grandi nemici - forse immaginari - della Gran, Polansky), dove le portinaie sono diaboliche e di notte Loro entrano e fanno il bello e cattivo tempo rendendole la vita impossibile. E' un libro eccezionale e tragico, un libro che merita di essere letto e, penso, pure riletto, un libro tanto più terribile in quanto la storia non è uscita dalla penna di Kafka ma dagli intrecci del destino ed è divenuta vita, dolorosa e assurda, ma vita.
  Chiudo citando una delle ultime frasi del libro, una frase di Wiera Gran ormai vicina alla morte:

  Guardare il mondo da qui, in orizzontale, dalle piaghe da decubito, è come osservarlo dalla bara. Bruciatemi, spargetemi ai piedi di un albero. Che i cani mi piscino sopra. Mi scalderanno l'anima. Tutto qui.

  Il libro, aggiungo, è ben scritto, ma mettere i punti al posto delle virgole non è che gli giovi particolarmente e comunque il non inserire il virgolettato e il lasciare un certo margine di indeterminatezza non mi pare nè un colpo di genio nè segno di particolare avanguardia artistica, ma tutto questo conta abbastanza poco, perchè il libro è potente e sommesso al contempo e mi sento di dire che và letto, non tanto per sapere o capire di più della Storia del novecento, quanto per comprendere di più di noi stessi in quanto esseri umani e dei meccanismi spaventosi ed implacabili che in talune circostanze ci posseggono. 
  Aggiungo: non troverete nessuna certezza, ma solo indizi. Probabilmente non vi identificherete con la protagonista (me lo auguro per voi), perchè il ritratto che ne esce non è limpido e non avrebbe potuto esserlo, per fortuna, ma è una sorta di fotografia tridimensionale che riporta pregi e difetti, zone d'ombra, capricci, pose da diva o da quasi diva, disperazione assoluta ed errori infantili, pregiudizi, maldicenze, speranze assurdamente mal riposte, ma pur non simpatizzando con Wiera Gran (comunque certo non sempre, non lungo tutto il corso della narrazione) non potrete fare a meno di sentirne la carne viva, non potrete evitare certe domande che non vorrete porvi perchè intuirete che non hanno risposta. E' un viaggio in tre inferni, ma alla fine voi ne uscirete vivi e forse non vi augurerete che dei cani piscino sulla vostra tomba.

Agata Tuszynska, narratrice, poetessa, biografa, è nata a Varsavia nel 1957 ed è una delle personalità di spicco della letteratura polacca contemporanea. Insegna Giornalismo letterario all'Università di Cracovia. Per Einaudi ha pubblicato Wiera Gran. L'accusata (Frontiere, 2012).