"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 28 dicembre 2017

Le forze misteriose, di Leopoldo Lugones, Lindau editore, trad. di Francesco Verde

Operano qui, sulla superficie della Terra (...), molte forze tremende, ormai vicine ad essere scoperte.. Forze intereteree destinate a modificare i più saldi concetti della scienza e che sempre più chiaramente,  a riprova di quanto afferma il sapere occulto, dipendono dall'intelletto umano. 

  L'estratto qui sopra riportato, citato dal primo racconto della raccolta (primo di dodici), La forza Omega, è in un certo senso un chiara chiave di lettura per orientarsi nel mondo costruito da Leopoldo Lugones in questa raccolta, ora riproposta da Lindau nella nuova traduzione di Francesco Verde (mi risulta una precedente pubblicazione del 1989 per l'editore Lucarini, dal titolo Le forze strane). Il libro infatti ci restituisce la visione di un mondo in balìa di potenze oscure, ma spesso sul punto di essere spiegate, di leggi naturali nell'atto della loro scoperta, di cataclismi biblici che prefigurano certa filmografia di fantascienza (quando non di fantastoria) che esplodono, travolgono, divelgono società intere con la freddezza dell'equazione che sottostà al dispiegarsi delle forze stesse. L'essere umano, quando è presente, è un narratore terzo, testimone sopravissuto dello scatenarsi delle forze misteriose, un fedele rendicontatore dell'instancabile e nozionistica cronaca di esperimenti perennemente in bilico tra la follia di credenze esoteriche e la scienza colta un attimo prima di divenire tale. Lugones, autore pilastro del modernismo latinoamericano, e nume tutelare delle lettere argentine, fu anche studioso e appassionato di teosofia e scienze occulte, e proprio questo campo parallelo al sapere ufficiale è la chiave di volta, nonchè l'impasto, usata da Lugones per costruire il mondo che si configura in questi dodici racconti. Ma, al contrario di maestri riconosciuti del genere quali Poe, Lovecraft e Hodgson  (su tutti), l'attenzione posta da Lugones non è sull'orrore metafisico e deforme che si cela dietro il muro di una dimora in disfacimento, o al di sotto delle onde marine, nè, tantomeno, nella psiche mostruosa dell'essere umano: l'orrore è un fatto incidentale sul cammino della scienza, è la conseguenza dell'hubris dell'uomo che non riesce a  controllare le forze da lui stesso (non evocate ma) sperimentate. Quella che chiamo hubris non è in senso classico "arroganza", non ha molto da spartire con la sovrumana volontà di raggiungere, e superare, il divino, di prenderne il posto, ma è piuttosto la causa involontaria dell'isolamento nel quale il protagonista si trova ad agire. Non siamo mai in presenza di un'equipe di scienziati in un laboratorio, la teoria sta tutta nell'erudizione dello sperimentatore, nel suo genio, nel suo incaponirsi per arrivare prima di altri ad una conclusione alla quale, pare, per forza si dovrà giungere. Di questo primo filone, che definirei (para)scientifico, fanno parte i racconti La forza Omega, Un fenomeno inesplicabile, La metamusica, Lo Psychon, nei quali il narratore racconta con dovizia enciclopedica di particolari tecnici e riferimenti sceintifici un episodio nel quale un amico, o conoscente, gli confida di aver fatto una scoperta (o di essere vicino a fare una scoperta) facendo seguire la cronaca di come la scoperta, in un certo senso, finisca con l'esplodere tra le mani dell'amico/conoscente. La tecnica dell'oralità, il sussurro tra due individui i cui segreti li isolano dal mondo, e il colpo di scena finale, sono un'imbastitura strutturale abbastanza primitiva che, solleticando la curiosità del lettore verso temi oscuri e recanti in sè lo stigma del terrore, in realtà racconta con dovizia quasi tediosa, una realtà (para)sceintifica, che l'autore, nel ruolo di "vate modernista del proprio popolo", somministra al suo pubblico. L'arte altissima e finissima dello stile di Lugones permette di far sì che questi racconti non scadano nel mero enciclopedismo (per certi versi il nozionismo portato all'estremo di questi racconti può essere paragonato al ruolo che hanno i dialoghi nei film di Tarantino, tipo "quiete prima della tempesta", che innalzano la tensione fino a renderla insopportabile, e a farla esplodere all'improvviso), ma rendano comunque un'atmosfera sospesa che finisce col risolversi nel breve volgere di poche righe, quasi controvoglia. La struttura è quella tipica della letteratura del terrore: due amici, uno ha un segreto, il segreto è il muro invalicabile che li isola dal mondo e li porta, poco alla volta, alla pazzia, la pazzia li spinge a mettere in pratica il segreto, fino a quel punto teorico, la pratica apre mondi scellerati, universi demoniaci, abissi di perversioni. In Lugones invece scatena un semplice meccanismo narrativo che non apre a nulla che non sia il colpo di scena finale. Le forze misteriose sfuggono di mano, all'improvviso l'uomo che credeva di maneggiarle, se le vede esplodere tra le mani. Non sta in questo l'orrore. L'orrore, parte di esso, lo si trova nelle lunghe spiegazioni (para)scientifiche che rendono credibile agli occhi del lettore l'esistenza stessa di queste forze sconosciute "destinate a modificare i più saldi concetti della scienza".

  Un secondo filone di racconti (Il rospo, I cavalli di Abdera, Viola Acherontia, Yzur), il filone cosidetto animale, mostra le forze misteriose del titolo nell'atto di manifestarsi a contatto col mondo animale (in Viola Acheronthia sono le piante il soggetto del racconto). Ne Il rospo, ad esempio, è la malìa dei racconti di credenze popolari che rende il mistero di forze conosciute (conosciute, tant'è che la madre del protagonista lo mette in guardia) ma non controllate. Ne I cavalli di Abdera troviamo invece un'ambientazione che sarà la vera protagonista del terzo filone di racconti, quello mitico e parastorico, che quasi prefigura il moderno cinema catastrofistico: una rivolta di evolutissimi cavalli contro gli esseri umani. Ma all'interno di questo filone animalesco (ma anche anomalesco), che pesca dalla tradizione latinoamericana dei racconti di animali (un'autore tra tutti: Quiroga), quello più sconvolgente è Yzur: vi si racconta dell'ossessione di un imprenditore convinto di poter portare la sua scimmia a parlare.

  ... lessi, non ricordo dove, che i nativi di Giava attribuiscono l'assenza del linguaggio articolato nelle scimmie non a un difetto, ma a una deliberata astensione. <<Non parlano - dicono -per evitare che le si metta al lavoro.

La foga dell'uomo lo porta ad umanizzare la scimmia, fino a renderla tristemente vittima delle caratteristiche umane che le si vogliono attribuire: pensosa, chiusa, si trasforma nell'oggetto dell'odio del suo padrone e, con l'umanizzazione di Yzur, lo stesso rapporto padrone/animale viene a evocare tinte fosche: il rapporto trasla nei binomi tragici padrone/servo e vittima/carnefice. E la parola, o per meglio dire la sua negazione, il mantenerla segreta, il tenerla per sè, rappresenta per la scimmia l'ultimo baluardo per non cedere alla resa definitiva; per rimanere animale e, come tale, più umana dell'uomo.

  Il terzo filone (La pioggia di fuoco, Il miracolo di San Wilfredo, L'origine del diluvio, La statua di sale) è a mio avviso quello nel quale la caratura letteraria di Lugones si esprime al meglio delle sue potenzialità o, per meglio dire, si esprime nella maniera apparentemente più naturale, in senso quasi opposto ai racconti del filone (para)scientifico. La narrazione che si dipana nel territorio mitico/biblico/(fanta)storico de La pioggia di fuoco (che immagino sia il racconto che ha ispirato la splendida copertina del libro), è un capolavoro assoluto di virtuosisismo letterario. La capacità di evocare un mondo (evocato da un disincarnato di Gomorra) affossato a tal punto nei meandri del tempo da risultare, appunto, mitico, la descrizione magniloquente di una società organizzata e funzionale che viene inaspettatamente e incomprensibilmente inghiottita da un fenomeno misterioso è, in Lugones, un esercizio di tecnica sopraffina che, da sola, vale la lettura del libro. La stessa epica di Gomorra fa da riferimento interno al racconto La statua di sale, nel quale l'orrore ha il volto informe del non detto: viene infatti sussurrato dalla moglie di Lot all'orecchio di Sosistrato, ma non al lettore, che rimane privo di riferimenti, perso, appunto, nell'orrore, un orrore che viene dalle viscere del tempo, e che in queste si perde. In questo filone le forze misteriose a volte sconfinano nel classico esoterico: vi appare addirittura Satana, anche se con la semplice funzione di agente agitatore della narrazione, o una mano che prende vita sulla croce, ma ne L'origine del diluvio, l'argomentare, eccelso nel dipingere una visione del mondo prima del mondo, riesce nella pretesa di spiegare razionalmente il mito dietro il quale si nasconderebbe la verità non detta dell'universo e del suo diluvio.

  La grandezza di questa raccolta, una vera perla, va trovata nell'insieme dei racconti che la compongono e va goduta per quello che è, cioè il prodotto di un'epoca e di un autore che fanno del "meccanismo dell'annessione perennemente spinto da un'ansia di innovazione congiunta ad un'estrema esigenza tecnica" (Yurkievich) il centro vitale di una narrativa pulsante e viva, capace di inglobare conoscenze scientifiche, storiche, esoteriche, mitiche, folcloriche in un "innalzamento della forma a chiave armonica dell'enigmatico universo (ancora Yurkievich). Il gusto modernista dell'esotico qui trova il suo soddisfacimento nella lontananza di tempo, di luogo, di sguardo. In Lugones non solo la verità, ma anche la realtà è esoterica, ed oscilla tra un passato mitico nel quale storia e leggenda si confondono, e godono di questo loro confondersi, e fondersi, e un presente nel quale singoli illuminati (in Lugones non sono alchimisti, ma nemmeno scienziati pazzi, più che altro funzioni narrative pressochè bidimensionali) cercano di manipolare quelle forze ancora occulte che governano il mondo. In Lugones l'orrore è relativo, un effetto indesiderato ed accidentale del manifestarsi incontrollato di forze di per sè stesse scevre dalla connotazione di bene o male. L'uomo scopre queste forze, o v'incappa casualmente (come ne Il rospo), e non le sa controllare, divenendone vittima. Il punto estremo della vittimizzazione dei protagonisti la si trova esplicitata nella figura dell'imprenditore che, convinto di poter dare la parola alla sua scimmia, la rende umana e sofferente ma, soprattutto, finisce col divenire egli stesso qualcosa di peggio di un animale,

Mi svegliai di soprassalto. La scimmia, con gli occhi sbarrati, era prossima alla fine; la sua espressione, così umana, mi fece paura(...) E allora, col suo ultimo respiro, un respiro che premiava e insieme dissolveva tutte le mie speranze, sgorgarono (...) le seguenti parole, la cui umanità riconciliava con la specie: << Padrone, acqua. Padrone, padrone mio... >>

 e nel grido muto di Sosistrato, al quale viene sussurrato il segreto estremo dell'orrore, 

E Sosistrato, folgorato, annientato, senza emettere un grido, cadde morto. 

Non importa che si tratti della natura ondivaga dell'acustica o dello spettro del colore della musica, piuttosto che di piogge misteriose, o di materializzazione dell'anima, ogni racconto è un tassello di un disegno più ampio dal quale l'uomo esce sconfitto dall'incommensurabilità dell'ignoto che lo circonda, lo stesso uomo che, con scarsa psicologia e cieca ostinazione (un'ostinazione quasi venata di cretinismo) persiste nella sua scalata a quelle forze misteriose che, immancabilmente, gli esplodono tra le mani.
  Aspetto rilevante dello stile di Lugones, è l'imperturbabilità con la quale percorre le sue storie, come se non avessero una morale, nè una chiave di lettura capace di decifrarle. Avrebbero potuto tranquillamente essere inserite in un libro di Wilcock, e risultare assurde e disperatamente comiche, o essere lo spunto per i racconti di uno Stephen King, e risultare spaventevoli. Ma Lugones lascia che i suoi personaggi si muovano come figure bidimensionali, sostanzialmente privi di una psicologia vera e propria, e di una storia personale, e in questo senso è significativo che lo psicologismo più spinto (e riuscito, anche se ottenuto per semplici accenni) sia quello riferito ad una scimmia. La distanza, fredda ed elegante che Lugones pone tra sè e la materia narrata, rende i racconti quasi cronache che, come tali, non contengono in sè l'orrore che ci si può aspettare in un racconto; in questo senso, se l'orrore c'è, non è quello disegnato da Edgar Allan Poe, ad esempio. C'è, insita nell'imperturbabilità algida di Lugones, la stessa distante imperturbabilità del manifestarsi della natura e delle sue forze misteriose, ed è in questa imperturbabilità che si manifesta il perturbante della raccolta, sfrontata, fredda e agghiacciante.


Leopoldo Lugones (1874-1938) nacque nella provincia di Córdoba, in Argentina, ricevendo dalla madre una severa educazione cattolica e un’iniziale formazione letteraria. Dopo aver mosso i primi passi nell’ambito del giornalismo e della poesia (firmando i propri componimenti con lo pseudonimo di Gil Paz), intraprese un lungo viaggio in Europa, esperienza all’epoca considerata imprescindibile per far parte dell’élite letteraria di Buenos Aires.
Nel corso della sua vita fu giornalista, poeta – influenzato inizialmente dal simbolismo francese e poi dal modernismo europeo (in particolare nelle opere Los crepúsculos del jardín, 1905, e Lunario sentimental, 1909) –, ma anche prolifico autore di racconti (La guerra gaucha, 1905, Las fuerzas extrañas, 1906, Cuentos fatales, 1924), nonché studioso di occultismo e teosofia. Dopo aver aderito alla massoneria nel 1889, fu protagonista di successive giravolte ideologiche, passando dal socialismo al liberismo fino ad approdare al nazionalismo autoritario (con la fondazione, nel 1929, del partito parafascista Liga Repúblicana).
Il 18 febbraio 1938, in preda a una pesante crisi depressiva dovuta a delusioni amorose e politiche, Lugones si tolse la vita in un hotel di Tigre, ingerendo un mix letale di cianuro e whisky.

domenica 5 novembre 2017

E' sempre difficile tornare a casa, Antonio Dal Masetto, Einaudi, trad. di Laura Pariani

Jorge, Ramiro, Cucurucho e Dante. Quattro sconfitti, quattro losers in salsa argentina, ma in quanto tali, in quanto perdenti, uguali a mille altri in qualsiasi angolo del mondo. Gente che le occasioni, quando le ha avute, le ha giocate male, che ha gettato al vento tutto quello che aveva costruito, uomini soli e allo sbando, forse in grado di rimettersi in piedi, ma in fondo troppo storditi dai rovesci patiti per riuscirci e, quando ci provano, perchè in fondo provarci ci provano sempre, ci provano cumque, lo fanno nel modo sbagliato. Rapinano una banca. Le logiche sono sempre lo stesse: una cittadina dove nessuno ti conosca, gli impiegati di banca che non avranno voglia di rischiare la pelle per soldi che non sono loro, una violenza minacciata ma non messa in pratica, una banca che comunque è assicurata. Un colpo facile facile, per prendere fiato, rialzare la testa e tornare ad affrontare la realtà con qualche carta da giocarsi. La lotta, vecchia come il mondo, tra l'uomo e il suo destino: seguiamo in presa diretta i quattro arrivare a Bosque, un paese fittizio che darà il titolo ad un altro libro di Dal Masetto che sarà in qualche modo la continuazione di questo E' sempre difficile tornare a casa.

I quattro scesero, entrarono nel bar e ordinarono birra.
- Salute, - disse il primo.
- Salute, - rispose il secondo.
- Che domani sia un giorno fortunato, - disse il terzo.
- Che possiamo tornare a casa, - aggiunse il quarto.
- In che senso?
- Ciascuno a casa sua.
- Dicono che la propria casa stia esattamente dove nasce l'arcobaleno.
- Allora non dev'essere un posto facile da raggiungere.
- Certo che no.
Pagarono, uscirono e ripresero la strada.

 L'albergo, i preparativi, la serata, due passi per il paese con la tensione da tenere sotto controllo, con l'imperativo di distrarsi ma non troppo. Quasi turisti, quasi lavoratori in trasferta, e quasi per nulla rapinatori: non ancora. S'imbattono in una scena che dovrebbe essere divertente, invece è inquietante: un matrimonio che non è un matrimonio: lo scemo del paese a cui viene fatto credere di sposarsi con una ragazza fatta arrivare apposta per lui, la ragazza vestita da sposa che in realtà è una prostituta pagata dai compaesani per farsi gioco dello scemo. Tutti ridono, si stringono attorno alla burla come avvoltoi attorno ad una carcassa. Quando la ragazza sparisce e lo scemo rimane da solo senza capire cosa sia successo è l'apoteosi. Per i quattro rapinatori la scena è straniante, ma la vivono come pesci dall'interno di un'acquario, è la realtà, è ributtante, è quella stessa realtà che li ha feriti e lasciati in ginocchio, quella stessa gente che si accanisce sul più debole, ma vanno avanti, non sono giustizieri: quattro passi per il paese, una bevuta, si guardano attorno, poi tornano in albergo. Intanto, uno di loro, Jorge, a ballare conosce Adriana, e non rientra, va a casa di lei, ci va a letto. Adriana è giovane, sta per sposarsi: forse, se l'avesse incontrata prima la sua vita, quella di Jorge, avrebbe potuto essere diversa, o forse no, non sarebbe cambiato nulla. Ma il momento importante sarebbe stato il giorno dopo, lì sta il fuoco, lì sta il futuro: la rapina. Alla banca di Bosque.
  Bosque è una cittadina, ed è tutte le cittadine, non solo argentine o latinoamericane, ma del mondo. I suoi abitanti sono l'umanità stessa, sempre sull'orlo dell'abisso che li separa da una caduta nel selvaggio primitivismo. Gli istinti che li guidano sono quelli che guidano un branco di lupi: solo le regole del branco permettono un'apparente ordine e tranquillità, ma oltre le regole c'è l'istinto di sopraffazione. Stop, solo quello. Dalla rapina in poi è una caduta continua, un crollo verticale, e uno scatenarsi del branco di lupi contro gli intrusi. Jorge, Cucurucho, Dante e Ramiro si vedono costretti a darsi alla fuga, ma senza riuscire ad uscire dal paese. Il branco li accerchia, li divide, e li segue. Ne segue le tracce, li stana, poco per volta, uno per uno, senza fretta, col pulsare del sangue che martella le vene con l'aumentare del tempo che passa. L'unica speranza per i quattro è il sopraggiungere della notte, che è ancora lontana e si staglia nelle speranze dei rapinatori come l'unica possibile via di fuga. Intanto però devono trovare un riparo, ognuno per conto proprio. Le strade del paese sono ormai pattugliate da bravi cittadini in assetto di caccia, i sensi tesi alla ricerca degli animali da stanare. Ovviamente, mentre le regole del vivere civile vengono sovvertite per trovare i rapinatori, gli istinti bestiali prevalgono, e vecchi conti in sospeso interni al branco di stimati cittadini tornano a galla e vengono regolati. E' il momento ideale per uccidere la propria moglie ad esempio, e per poi far ricadere la colpa sui rapinatori in fuga. L'azione messa in scena da Dal Masetto è un perfetto saggio di psicologia delle masse in forma di romanzo, caduta l'apparenza di civiltà, sospese temporaneamente le regole, quello che emerge è l'istinto bruto e primordiale della folla che si autoalimenta e cresce. Cresce fino a divenire furia incotrollabile. I rapinatori, va detto, non vengono (per fortuna) dipinti dall'autore quali "cattivi dal cuore tenero", cattivi ma non troppo, e non per colpa loro: sono quattro sbandati che, forse, in altre circostanze sarebbero stati anche dei buoni cristi (ma non è detto), ma che comunque la realtà nella quale sono sprofondati se la sono costruita con le proprie mani, per incapacità, distrazione, sfortuna, per mille motivi, ma non sono solo vittime. Non è detto che, ad averne la possibilità, non avrebbero ripetuto gli stessi errori che li hanno portati ad essere quel che sono. Di più, il sospetto è che se fossero dalla parte dei bravi cittadini, a questo punto si comporterebbero essi stessi da lupi. Non ci sono buoni in questa storia. C'è qualche perdente così perdente da essere talmente ai margini di qualsiasi branco da risultare un tantino più umano degli altri suoi simili, ma anche in questo caso la maggior umanità non è una scelta consapevole, bensì una condanna.

Il prete si rimise a parlare:
- Perchè fa questo?
- A cosa si riferisce?
- Figliolo, ci sono altre maniere di fare soldi.
Ramiro lo bloccò con la mano, senza alterarsi:
- Precisiamo le cose. Prima di tutto, non mi chiami figliolo, non sono suo figlio. In secondo luogo, se davvero ci tiene a saperlo, il denaro non m'interessa.
- Non capisco.
- Non importa.
- Se non le interessano i soldi, perchè li ruba?
- Non mi ci metto neanche a spiegarglielo.
- Con me può parlare.
- No, non posso.
- Se oppone resistenza la uccideranno.
- Si.
- E anche lei ucciderà.
- Si.
... - La violenza non serve, non serve mai.
Questa volta Ramiro tentò di sorridere e non ci riuscì. Alzò l'arma:
- Lei la chiama violenza. Questa è una violenza minore. C'è un altro tipo di violenza, quella vera, quella che ci condanna tutti per sempre. E anche quella che voi esercitate dal pulpito.

  La penna di Dal Masetto scava negli spazi silenziosi che vibrano nelle teste dei protagonisti e, spesso, nelle incomprensioni mute tra i personaggi. Le parole, quando vengono pronunciate pesano come macigni, non perchè siano portatrici di una qualche verità ma, al contrario, proprio perchè non lo sono. Le parole, i silenzi, le scelte, anche quegli scampoli, rari, di umanità sono tutti personaggi del romanzo che, come gli altri, esistono solo sotto una cappa asfissiante che è il destino, un moloch senza nome, senza volto, immobile, al cospetto del quale, bene o male, tutti soccombono. Il destino è uno specchio muto che vince sull'uomo proprio perchè lo costringe a specchiarsi. Per questo l'uomo - i quattro rapinatori in questo caso, Jorge, Ramiro, Cucurucho, Dante - fugge. Il sesso, la violenza, l'omicidio, l'istinto di caccia, la logica del branco, il tradimento: ogni cosa viene mostrata con la spietata freddezza di chi, scappando, già sa di non avere scampo. La fine è nota (da qui l'ironia sottile ma feroce del titolo), ma ciò non toglie il piacere quest'ottimo libro che ha il passo claustrofobico dei grandi noir (pur non essendolo), la lentezza di un afoso pomeriggio d'estate, implacabile come il sole di mezzogiorno.

  Questo libro ha un suo seguito naturale in Bosque (edito da Le Lettere editore, come già Strani tipi sotto casa, recensito Qui ) che sarà sicuramente recensito su questo blog.

 Antonio Dal Masetto. Nacque a Intra (Verbania) nel 1938 da genitori contadini. La sua famiglia emigrò in Argentina nel 1950 e si stabilì nella città di Salto. Qui imparò lo spagnolo leggendo libri della biblioteca del paese. Uno dei temi principali delle sue opere è quello dell'immigrazione, come in Oscuramente fuerte es la vida o La tierra incomparable (premio Biblioteca del Sur 1994). Da giovane lavorò come imbianchino, gelataio, impiegato pubblico, venditore ambulante, e giornalista. Il suo primo libro di racconti, Lacre, venne menzionato dal Premio Casa de las Americas. In italia sono stati tradotti E' sempre difficile tornare a casa (Einaudi 2004), El bosque (Le lettere 2004) e Il sacrificio di Giuseppe (La nuova Frontiera, 2009).
Fino alla morte, avvenuta il 2 novembre 2015 all'età di 77 anni, ha collaborato con la rivista Página/12 di Buenos Aires.

domenica 22 ottobre 2017

Le venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria, Frassinelli editore

    1977-2017: questo è l'arco temporale entro il quale si inscrive la parabola di uno dei casi editoriali più singolari della letteratura fantastica nostrana. Le venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria, viene pubblicato nel 1977 (il primo Gennaio) dalle Edizioni Il Formichiere. Quarant'anni dopo, quando ormai quasi nessuno, se non pochi estimatori, conservavano il ricordo del passaggio editoriale del libro, la casa editrice americana Norton, lo ripubblica, riportandolo alla luce dopo un oblio lungo abbastanza da averlo fatto dimenticare ai più. Ora, preso atto del luogo comune che certe opere fanno giri immensi e poi ritornano, il libro torna a disposizione del suo paese d'origine e del suo primo pubblico naturale grazie all'editore Frassinelli. Per quelle strane circostanze che non esiteremmo a definire casualità, il libro racconta la storia di un anonimo ricercatore/investigatore che, dieci anni dopo i fatti, torna ad indagare sulle venti giornate che (appunto dieci anni prima) avevano sconvolto la città di Torino con un susseguirsi di eventi assurdi ed inspiegabili, nonché feroci e grotteschi, tutti apparentemente legati alla nascita di una misteriosa biblioteca cittadina, per poi essere rapidamente cancellati quasi del tutto dalla memoria collettiva.
Tutto poteva avere accesso alla Biblioteca: prodotti gracili o innaturalmente 
rigonfi... Capolavori capitati per caso... Manoscritti le cui prime 
cento pagine non rivelavano alcuna anomalia, e poi a poco a poco 
franavano verso abissi di follia senza fondo... Altri invece concepiti
 con puro spirito di cattiveria... La casistica era infinita...Il frequentatore
 tipico della Biblioteca era un individuo timido, desideroso
 di approfondire la propria solitudine e di farla pesare al massimo sugli altri.

La Biblioteca, creata e propugnata da un esercito silenzioso di giovani azzimati e fin troppo ordinati per non risultare oltremodo inquietanti (un po' troppo simili a quelle falangi di ragazzi neofascisti che in quegli anni si scontrava a Palazzo Nuovo coi coetanei di sinistra), è un social network ante litteram: uno spazio dove viene raccolto qualsiasi scritto il comune cittadino voglia depositarvi, rendendolo accessibile alla lettura di chiunque sia interessato a leggerlo e, insieme allo scritto, consegnando alla pubblica consultazione i dati anagrafici dell'autore (identità, residenza). Manoscritti che, a poco a poco, franavano verso abissi di follia senza fondo, concepiti con puro spirito di cattiveria. Questo, viene lasciato intendere, è il centro focale del maelstrom nel quale la città, dieci anni prima, è stata risucchiata, in abissi di follia, appunto, senza fondo. Ma, come spesso avviene nel corso del romanzo, come regola tecnica, più di ciò che si dice abbonda quanto rimane non espresso. Il non detto è quell'alito del maligno lasciato a vibrare a mezz'aria che infesta la città e che spaventa oltremodo in quanto lascia le cause, e i mandanti, nell'ombra, un'ombra tanto fitta da lasciare nel dubbio che cause e mandanti esistano davvero e non siano altro che un riverbero del buio nel buio. Non verremo a sapere chi siano i giovani eleganti e per bene, agghindati, che hanno creato la Biblioteca, né da dove arrivino e in quale oscuro piano si collochi l'esistenza inquietante della Biblioteca: sappiamo solo che c'erano, e che sono stati loro. Come sia collegata la Biblioteca all'epidemia di insonnia che, in quelle terribili venti giornate (in quelle sulfuree e deliranti venti notti), aveva portato decine di cittadini in giro per le strade notturne in stato catatonico come squadre di zombie idioti scollegati tra loro, anche questo rimane avvolto da una nebbia che, pur non facendo parte del panorama cittadino torinese, è parte integrante del racconto. Ogni cosa, la narrazione stessa, stilisticamente sobria e controllata, è intrisa di nebbia che più che nascondere, confonde. Lo sforzo del narratore e protagonista di riportare ordine nella memoria sbiadita degli eventi di dieci anni prima viene reso vano dalla nebbia nella quale lo avviluppano le testimonianze che di poco alla volta raccoglie. Urla inumane che squarciano la notte, esseri enormi, statuari, che usano gli esseri umani come clave in un gioco violento apparentemente senza senso, gruppi di insonni che vagano per la città che, sovranamente, rimane spettatrice della follia nella quale è scivolata, quasi che quella follia, pur latente, fosse parte integrante dell'urbe e del suo tessuto sociale, una zona atavica e primitiva attentamente occultata allo sguardo dall'immagine di città industriale, città laboratorio, città operaia. Ma quell'ondata improvvisa di "Male" - ondata che si sviluppa, s'inalbera in un picco violento e poi repentinamente scema - è qualcosa di incomprensibile, forse di parallelo alla realtà stessa, ed è per questo che la razionalità con la quale il protagonista cerca di indagare si incaglia ben presto in quella nebbia di cui sopra, che è un sostanziale sonno della mente. Sono forze "altre" che si sono svegliate, hanno fatto il diavolo a quattro, e poi sono tornate da dove sono venute. Ma: da dove sono venute? Chi o cosa le risvegliate? Qual'era la logica della loro azione?
  A ben vedere, non sappiamo niente. Il non detto, appunto, che la fa da padrone, che lascia senza punti di riferimento, interdetti, spaesati e spaventati. Non ci sono risposte. Ci sono fatti, eventi, tanto surreali quanto brutali, che si scatenano, che svaniscono, che tutti cercano di dimenticare e che il protagonista cercherà di comprendere per poi, infine, come tutti, rifuggirne, in cerca di salvezza, di razionalità, di sanità mentale. 

  La parabola editoriale del libro e quella umana del suo autore (un genio a suo modo capace di una notevole dote di anticipazione sui tempi ma spesso preda di stati psicotici alimentati dall’alcol e dal ricorso smodato all’Halcion) è illustrata dall'ebook di Giovanni Arduino, Il diavolo è nei dettagli, che potete scaricare Qui. Vi si racconta la storia delle ricerche svolte da Arduino dal momento in cui riceve l'incarico di scrivere un libro sulla vicenda de Le venti giornate di Torino, la sua ricerca di testimonianze di amici e parenti di De Maria e, soprattutto, la fitta rete di coincidenze (conoscenze, frequentazioni di posti e persone e via discorrendo) all'interno della quale si rende conto di essersi trovato fin dall'inizio, da quei lontani anni settanta nei quali l'idea del romanzo prende vita nella mente del suo autore, quasi come un monumento al centro della sua piazza.

<<Mio padre è morto mezzo barbone, tutto matto,
 alcolizzato, e distrutto dall'Halciòn >>, 
mi spiazza Corallina con un'espressione serena.

  Il libro, ben accolto negli Stati Uniti, elogiato da Jeff Vandermeer (l'autore della trilogia dell'Area X), è una scoperta tout court anche da noi, e non delude il lettore; attraversato da un'inquietudine sottile e vibratile, riesce in poche pagine a scivolare velocemente e con passo cadenzato ma mai lento in uno stato paranoide nel quale ogni avvenimento diviene credibile proprio in quanto non lo è. La parentesi delle lettere che giungono al protagonista è addirittura delirante. La storia, che s'inscrive in quel filone del racconto del terrore che percepisce la minaccia in una dimensione (parallela, sovrapposta, tangenziale) altra rispetto a quella della realtà, ha il merito di far sì che il lettore percepisca quasi fisicamente la presenza impalpabile di tale dimensione. Nel suo genere, si tratta indubbiamente di una gemma, un piccolo capolavoro che, alla luce anche del maledettismo nel quale ha vissuto il suo autore, si fatica a comprendere come sia stato possibile che abbia dovuto attendere quarant'anni per essere riconosciuto come tale. Questo, forse, è il mistero reale de Le venti giornate di Torino.

Giorgio De Maria è nato nel 1924 a Torino. È stato critico teatrale per “L’Unità” torinese dal 1958 al 1965. Nel 1958 ha fatto parte con Liberovici, Straniero, Calvino, Fortini e Amodei del gruppo “Cantacronache” per il rinnovamento della canzone italiana. Ha pubblicato, tra l’altro, Le canzoni della cattiva coscienza (1964, in collaborazione con Eco, Straniero, Liberovici e Jona); i romanzi I trasgressionisti (1968), I dorsi dei bufali (1973), La morte segreta di Josif Giugasvili (1976). Le venti giornate di Torino fu pubblicato nel 1977. Dopo una vita di genio e sregolatezza, di anni di concerti per piano interrotti da una bizzarra malattia alle mani, di impieghi dirigenziali prima alla FIAT e poi alla RAI, di amicizie importanti (Umberto Eco, Italo Calvino, Elémire Zolla), di critica teatrale, di scrittura a ritmi serrati, d’insegnamento in istituti di periferia, di anticlericalismo spinto all’eccesso e poi rimpiazzato dal fanatismo religioso, di stati psicotici alimentati dall’alcol e dal ricorso smodato all’Halcion, Giorgio De Maria ed è morto nel 2009 (*)
La foto di Giorgio De Maria qui sopra è tratta dalla pagina facebook della figlia Corallina.

martedì 26 settembre 2017

Strani tipi sotto casa, di Antonio Dal Masetto, Le Lettere editore, trad. di Antonella Ciabatti

Mentre Juan Rodolfo Wilcock, argentino bonaerense, si trasferiva in Italia e, naturalizzato, diveniva uno dei massimi scrittori italiani, Antonio Dal Masetto, nato ad Intra nel 1938, si trasferiva in Argentina e scrivendo, come giornalista e come scrittore, in spagnolo, si affermava come uno dei più interessanti narratori argentini.
  Il 1978, anno nel quale è ambientato Strani tipi sotto casa (scritto nel 1998 e pubblicato in Italia nel 2002 dall'editore Le Lettere) fu l'anno dei mondiali di calcio farsa, della festa che doveva imporre un'immagine moderna e festosa dell'Argentina a livello internazionale, ma che in realtà stava coprendo le mostruosità della dittatura militare e l'orrore sotto vuoto spinto dei desaparecidos, delle torture, dei bambini strappati ai genitori fatti scomparire e adottati dai gerarchi del regime. Il paese produceva morti e, assieme a loro, le madri disperate di Plaza de Mayo, capaci di sfidare la dittatura a volto scoperto con la forza del loro pianto rabbioso.
I mondiali di calcio furono il ghigno svergognato del regime contro la propria popolazione martoriata e l'intento parossistico e demente di intercettare uno sguardo benevolente della platea politica internazionale. Su questo paradossale palcoscenico si muovono pochi personaggi che, kafkianamente, si scontrano con una realtà che, al contrario che in Kafka, non è più una preveggenza metafisica degli orrori che verranno, ma è già essa stessa orrore quotidiano. Pablo lavora come giornalista, è giunto dalla provincia e, lentamente, si sta ricavando la propria nicchia nel mondo (quel mondo, assurdo e necrofilo che comunque è, in quel momento, la realtà). In una Buenos Aires totalmente assorbita dalla follia collettiva dei mondiali di calcio non sono solo i generali ad usare la manifestazione per i loro fini, ma è la stessa popolazione che li fa propri per soddisfare un desiderio di normalità che è ormai merce rara, una finta normalità festosa nella quale risultare vincitori, almeno per un giorno. Ana, amica di Pablo, lo avverte che ci sono dei tipi strani che stazionano sotto casa sua. Tutto prende avvio (e vi trova la sua naturale conclusione) da questa semplice presa d'atto. Forse, quei tipi strani sotto casa, sono lì per lui, per Pablo, forse lo sorvegliano. Se lo sorvegliano, però, lo fanno con l'intento di essere ben visibili agli occhi di tutti; se lo sorvegliano, parte del loro compito è far sapere al sorvegliato di essere tale. Nei brutali meccanismi psicologici che s'instaurano in certi casi è bene che non solo il sorvegliato abbia coscienza di esserlo, ma che anche chi non lo è viva nel terrore di esserlo. C'è un cacciatore dunque, che si staglia sotto il sole: ma qual'è la preda?
  Non essendoci nessuna preda dichiarata, ma solo la presenza del cacciatore, allora tutti sono prede, almeno a livello potenziale. Ma quello che conta è quello che viene vissuto dalle possibili prede, è il riflesso atavico della paura che funziona come un orologio svizzero, che scandisce i rintocchi dell'incubo, che scalza ogni certezza e riporta l'essere umano allo stato primitivo dove solo l'istinto di sopravvivenza e sopraffazione hanno significato e portanza. Pablo, inizialmente nega l'evidenza, prima di tutto a sé stesso e poi ad Ana. L'evidenza, ovviamente, per sua propria natura però finisce per imporsi. Quei tipi strani ci sono. Sono lì. Si danno il cambio con altri tipi strani. Sorvegliano qualcuno. Pablo?
  Il libro sta tutto qui, scritto con uno stile asciutto e convenzionale, che lascia spazio solo a quanto chirurgicamente descrive, trova la sua forza ipnotica nel succedersi degli avvenimenti, che poi è soprattutto un sovrapporsi di stati mentali, di paure che giocano a nascondino con sé stesse per godere la dubbia ricompensa di ritrovarsi. E ritrovarsi sempre uguali e, di volta in volta, ingigantite. E', il libro di Dal Masetto, la cronaca puntuale dello sgretolarsi della realtà di fronte ad una semplice minaccia, all'ombra di una minaccia: i tipi strani diventano creature diaboliche non tanto per quello che fanno, o dicono, perchè non fanno né dicono nulla, ma piuttosto per quanto accade nelle strade attorno, le urla, gli strepiti e poi il marciapiede vuoto e una Ford Falcon che si allontana: è il contesto che rende dei semplici tipi strani in potenziali carnefici. L'orrore non è mai mostrato, il pericolo incombe, ma non mostra il proprio volto, ed è questo celarsi che sfoglia poco alla volta la maschera di tranquillità borghese e fa riemergere l'istinto primordiale della fuga e della sopravvivenza. Pablo è uno come tanti abbiamo detto, l'uomo nella folla - e nella follia -, non è caratterizzato in maniera particolare, all'autore non interessa, lo abbozza appena, non deve fare nulla Pablo, non è interessante di per sé stesso, è una parte all'interno di un meccanismo. E' quella parte che ad un certo punto scopre di essere porzione di quel dato meccanismo che, sa, lo porterà ad essere stritolato. A stritolarsi da solo prima che altri lo depongano definitivamente da essere umano. Non necessita, la narrazione, di mostrare la tortura, lo strazio delle carni, i voli dagli aerei, i corpi in caduta libera, non servirebbe nemmeno farne cenno, è cosa risaputa, a quello ci pensa già il Mondiale di calcio, quel Mondiale che è come il pagliaccio di It: basta la sua presenza per stendere un velo tetro su ogni altro aspetto. Quel mondiale che è l'unico referente della realtà storica durante la quale si svolgono i fatti: se non ci fossero i riferimenti alle partite, alle squadre, alle sfide, al procedere della competizione a connotare storicamente il realismo del racconto, potremmo tranquillamente leggerlo come una narrazione fantastica ambientata in un mondo irreale e d'ombra, creato dall'immaginazione cupa di uno scrittore imbestialito.

Pablo dunque è l'uomo, un uomo, che cade. Dapprima, che teme di cadere, poi che scopre di cadere (forse di essere in caduta da sempre), poi che sa di cadere, e infine diventa esso stesso caduta.

  La macchina narrativa di Dal Masetto mette in atto qualcosa di basilare, e complesso: ci mostra il meccanismo stesso del terrore che si fa materiale poco alla volta che prende atto di sé stesso, un insieme di cadute che si specchiano l'una con l'altra e formano un maelstrom nel quale Pablo, e tutti noi (perché il protagonista è Pablo, ma siamo tutti noi, potenziali prede di fronte al cacciatore), veniamo inghiottiti. Anzi, ci autofagocitiamo. La paranoia è il passo di danza che accompagna la caduta, lo sprofondo, lo sfaldamento delle basi del reale. La paranoia è il ritmo che scandisce i pensieri, le singole frasi del racconto, ne determina il ritmo, è il demiurgo che scolpisce la realtà e le dà forma di terrore strisciante. E quando la realtà perde consistenza resta a fissarci negli occhi ciò che dietro il reale si nasconde: l'abisso. L'atavico abisso che ci accompagna da sempre. La paura di essere prede quando si ha la certezza di non essere cacciatori. Dal Masetto, avendo descritto la paura sotto la dittatura argentina, ha raccontato la paura universale che possiede ogni uomo sotto ogni dittatura in qualsiasi parte del mondo in qualsiasi tempo.    

Antonio Dal Masetto. Nacque a Intra (Verbania) nel 1938 da genitori contadini. La sua famiglia emigrò in Argentina nel 1950 e si stabilì nella città di Salto. Qui imparò lo spagnolo leggendo libri della biblioteca del paese. Uno dei temi principali delle sue opere è quello dell'immigrazione, come in Oscuramente fuerte es la vida o La tierra incomparable (premio Biblioteca del Sur 1994). Da giovane lavorò come imbianchino, gelataio, impiegato pubblico, venditore ambulante, e giornalista. Il suo primo libro di racconti, Lacre, venne menzionato dal Premio Casa de las Americas. In italia sono stati tradotti E' sempre difficile tornare a casa (Einaudi 2004), El bosque (Le lettere 2004) e Il sacrificio di Giuseppe (La nuova Frontiera, 2009).
Fino alla morte, avvenuta il 2 novembre 2015 all'età di 77 anni, ha collaborato con la rivista Página/12 di Buenos Aires.

domenica 20 agosto 2017

L'eternauta, fumetto di H.G. Oesterheld e F. Solano Lopez, 001 Edizioni

  L'azione ha inizio nello studio di uno sceneggiatore di fumetti: all'improvviso sulla sedia di fronte alla sua scrivania prende forma un uomo. Siamo all'incirca nel 1957 (alla fine verrà specificato che ci troviamo nel 1959)  e l'uomo appena apparso si presenta come l'Eternauta, come lo ha definito "una specie di filosofo della fine del XXI secolo". Il suo vero nome è Juan Calvo, anche se, spiega, " Potrei darti centinaia di nomi. E non ti mentirei: tutti sono stati miei ". L'Eternauta comincia a raccontare la sua vita banale che s'interrompe quando, in una fredda sera d'inverno, su Buenos Aires comincia a cadere una fitta nevicata che pare non volersi fermare, che copre di bianco cose ed esseri viventi, e li uccide. Intanto il cielo viene spazzato da fasci di luce e da globi splendenti che senza apparente difficoltà abbattono gli aerei militari alzatisi in volo. Lo sgomento e la paura sono sensazioni a tal punto tangibili da divenire, nei disegni di Solano Lopez, entità quasi materiali seppur non direttamente visibili. Gli amici, sorpresi dalla nevicata durante la partita settimanale di truco e fino a quel momento rimasti barricati in casa, decideranno di costruirsi delle tute isolanti e di inoltrarsi nel mondo esterno divenuto nel frattempo una landa silenziosa di morte bianca. Da quel momento, la tragica assurdità della situazione prende lentamente forma e assume le sembianze di un incubo senza via di uscita. La città è divenuta un candido cimitero a cielo aperto e i pochi superstiti che, come Juan e i suoi amici, si sono salvati fabbricandosi tute isolanti, si guardano in cagnesco da lontano, pronti a sbranarsi l'un l'altro. La solidarietà, che dovrebbe unire gli uomini in momenti di pericolo, pare essere un'opzione difficile da percorrere. Lungo il percorso verso il centro città la verità si disvela in tutto il suo ineluttabile orrore: è in corso un attacco alieno contro l'umanità. L'intero pianeta è sotto attacco. Inizialmente il gruppo di amici si troveranno ad affrontare degli enormi scarafaggi chiamati Cascarudo, che sono la versione mignon dei Gurbos, mastodontici (mastodontici rispetto ai cascarudo che, per essere insetti, sono affetti da intenso gigantismo) esseri insettiformi che, al loro passaggio, provocano crolli e tremori nell'intera città. Sarà poi la volta dei Mano, umanoidi che hanno sviluppato la mano destra adattandola alle esigenze delle infinite tastiere che usano per dirigere l'invasione (arricchendola di un numero impressionante di dita che giungono fino al polso, e oltre), e che zombizzano gli esseri umani catturati facendoli divenire uomini-robot che poi comandano a distanza. I Mano però sono semplici soldati piegati al volere di chi realmente sta dirigendo l'invasione, i Loro, e ad essi devono obbedienza: in caso contrario infatti un dispositivo impiantato nei loro corpi li porta immediatamente alla morte (Mimnio athesa eioioio). I Mano dunque conquistano per conto terzi, dopo essere stati a loro volta conquistati. Non odiano, non agiscono secondo un reale volere di conquista: l'unica spinta che li porta ad essere soldati in guerra è la volontà di restare vivi il più a lungo possibile. Inoltre: Loro, i veri colonizzatori di mondi, sono invisibili agli stessi colonizzati, dirigono l'invasione da qualche altro luogo, forse dal loro stesso pianeta, fatto che gli permette di non essere mai parte in causa direttamente sul campo di battaglia. Sono una sorta di superiori sconosciuti guerrafondai che agiscono in preda ad una brama di potere e di conquista che, in assenza di altre motivazioni non esplicitate, pare autoalimentarsi ed autogiustificarsi.
  E un nemico invisibile, un nemico che solo si può (tentare di) immaginare è quanto di più spaventoso possa esistere.



  Il gruppo di amici si unirà ad un improvvisato esercito di resistenti, si rifugerà nello stadio del River Plate dove tutti saranno vittime di allucinazioni che li porteranno ad uccidersi a vicenda ed infine cercherà la salvezza in una fuga verso un nord (che pare essere più una speranza immaginata che non un luogo geografico reale) dove è attiva una coalizzata resistenza all'invasore alieno. 
  Senza scendere troppo nei particolari (anche se sarebbe ininfluente: L'eternauta va letto come i classici, non per lasciarsi sorprendere dalla trama come per un qualsiasi giallo): la resistenza umana pare non riuscire ad imporsi sulla superiorità dell'invasore ed è allora che Juan Calvo, suo malgrado, manovrando inopinatamente una nave aliena, diviene un viaggiatore nel tempo. Ed è a questo punto che la storia si ricollega al prologo e ci troviamo di nuovo di fronte all'Eternauta ed allo sceneggiatore nel suo studio. Grazie a questa chiusa la storia di Juan Calvo entra a far parte di un più ampio panorama narrativo che include, tra le altre possibili implicazioni, il ripetersi all'inifinito della storia stessa in un dato continuum temporale che probabilmente esiste da sempre parallelamente alla nostra realtà. Il personaggio dello sceneggiatore potrebbe quindi essere la persona reale (Hector Germàn Oesterhled) che, sceneggiandola in un fumetto, ha portato alla conoscenza del mondo la realtà terrificante che Juan Calvo non solo ha vissuto, ma che continua a vivere in un loop che si reitera all'infinito. Il lettore scopre infine la raggelante possibilità di essere lui stesso un potenziale elemento di una narrazione che si ripete uguale a sè stessa.
  Nel caso in cui, invece, la bolla autoreplicante esplodesse, quali sarebbero le conseguenze? Sparirebbe in un universo dove scivolano tutte le realtà possibili che infine non si sono realizzate? Rimarrebbe solo il fumetto a ricordo di una possibile realtà che non ha trovato spazio nel continuum del nostro reale? O, al contrario, diverebbe essa stessa La Realtà, e noi lettori dovremmo trovarci ad affrontare cascarudos, manos, gurbos, uomini-robot e gli intangibili Loro? (in questo senso il lettore diverrebbe parte della narrazione, in quanto la narrazione diverrebbe reale)





  Questo fumetto, uscito sul settimanale Hora Cero tra il 1957 e il 1959, è considerato un capolavoro assoluto del fumetto di fantascienza, e a ragione. In un'avventura nella quale le interpretazioni politiche dei fatti sono più che possibili, volute, l'idea di una entità aliena che annichilisce con la forza qualsiasi tipo di resistenza alla propria volontà di potere fino a rendere gli esseri umani semplici uomini-robot, zombi piegati al proprio volere cieco, l'uso dello stadio come campo di sterminio, il tentativo di organizzazione di una resistenza che si nutre di speranze disperanti, il richiamo alla calda e splendida imperfezione dell'umanità in risposta alla mostruosa logica rigida ed artificiale degli invasori, tutto porta a considerare questo fumetto una forma di preveggenza di quanto di lì a poco sarebbe accaduto in Argentina, e la struttura temporale usata rafforza ulteriormente questa sensazione. In fondo, non può forse essere vero che Oesterheld abbia in qualche maniera avuto modo di vedere il futuro del suo paese, riportandolo poi in forma di fumetto perchè servisse da monito, per evitare che quel futuro prendesse forma? Non è forse possibile che in qualche continuum temporale l'argentina sia ancora una dittatura abitata da desaparecidos e generali omicidi? 

  Ovviamente, come per tutti i capolavori, non è necessario scegliere un certo tipo di intepretazione per attribuire un certo pregio all'opera stessa, la semplice narrazione basta sè stessa, e la storia rimane un misterioso avvertimento che dal futuro giunge allo sceneggiatore, e a noi lettori, di un pericolo che incombe sulle nostre vite, sul nostro pianeta, un pericolo che ci porta a credere che in fondo, se qualcuno vuole conquistarci, allora addirittura il genere umano deve avere un qualche valore.


Hector Germàn Oesterheld nacque a Buenos Aires il 23 luglio del 1919 da una famiglia di origini tedesche e spagnole. Nonostante la laurea in geologia, la sua passione rimase per tutta la vita quella della letteratura. Iniziò a lavorare come correttore di bozze presso una tipografia, poi a scrivere dei racconti per ragazzi e in seguito, a partire dal 1949, a sceneggiare le prime storie a fumetti per la Editorial Abril, di proprietà di Cesare Civita, un ebreo italiano fuggito in Argentina per evitare le persecuzioni razziali. Presso questo editore lavorò a serie quali Ray Kitt, Sergento Kirk, Bull Rockett, Uma-Uma, Alan y Grazy, Lord Commando. Nel 1957 fondò, con il fratello Jorge, l'Editorial Frontera: proprio nel 1957 l'autore argentino scrisse la prima storia di Ernie Pike sul primo numero del mensile argentino Hora Cero: questo primo episodio è disegnato dal già famoso Hugo Pratt, che in tutto ne realizzerà 34. Nel creare il protagonista di tale serie Oesterheld ha preso spunto da un noto reporter americano Ernie Pyle che venne ucciso dai giapponesi nel 1945 a Okinawa. Sempre per l'Editorial Frontera scrisse altre famose serie quali Ticonderoga (anche questa disegnata da Pratt, come pure la nuova riproposizione del Sgt. Kirk), Randall (con i disegni di Arturo del Castillo), Sherlock Time e Dottor Morgue, questi ultimi hanno come disegnatore Alberto Breccia, col quale avrebbe collaborato anche nel 1968 per la realizzazione di una biografia su Ernesto Guevara, pubblicata postuma in Spagna nel 1987 a causa dell'ostracismo del governo dittatoriale argentino: al progetto ha anche collaborato Enrique, figlio di Alberto. Per la stessa casa editrice pubblicò anche quella che resta una delle più belle ed importanti opere del fumetto mondiale e di genere fantascientifico in particolare: L'Eternauta. La saga, pubblicata a puntate su Hora Cero Semanal e disegnata da Francisco Solano López, a molti è sembrata una chiaroveggente metafora della dittatura che di lì a poco avrebbe sconvolto l'Argentina.
Oesterheld scomparve il 21 aprile del 1977 a La Plata, prelevato da una squadra armata. Da allora è entrato a far parte della numerosa schiera dei desaparecidos argentini. Dal giugno dell'anno precedente erano sparite due sue figlie, Beatriz Marta e Diana Irene, quest'ultima incinta di sei mesi. Nel novembre 1977 a scomparire è una terza figlia, Marina (incinta di otto mesi e il cui marito era già desaparecido). Il mese dopo viene uccisa, insieme al marito, anche Estrela Inés, l'ultima figlia fino ad allora sopravvissuta alla Guerra sporca della giunta militare argentina.
Secondo i registri raccolti dal CONADEP, fu detenuto nella caserma Campo de Mayo e nei centri di detenzione clandestina conosciuti come El Vesubio e El Sheraton e fu visto anche nel Batallón de Arsenales 601 Domingo Viejobueno; fu assassinato, si crede, a Mercedes, in provincia di Buenos Aires, nel 1978.
(Estratto da Wikipedia, a cui rimando)


qui un articolo interessante su H.G.O. da Fumettologica

Francisco Solano Lopez: discendente dell'omonimo militare e presidente del Paraguay, esordisce nel mondo del fumetto nel 1953, e presso la casa editrice Abril conosce Héctor Oesterheld, con il quale nasce un sodalizio di grande importanza per il fumetto argentino. Dopo aver lavorato insieme a serie come Uma-Uma e Bull Rockett, si trasferiscono all'Editorial Frontera, per cui Solano Lopez disegnerà Rolo el marciano adoptivo, Amapola negra, Joe Zonda, Rul de luna e, soprattutto, L'Eternauta, abbandonando il suo posto di lavoro in banca contro la volontà del padre.
Negli anni sessanta Lopez si trasferisce in Europa, dove lavora per l'inglese Fleetway. Rientra in Argentina nel 1976, dove riprende L'Eternauta, sempre in coppia con Oesterheld; in più disegna Slot Barr, sui testi di Ricardo Barreiro. La grave situazione politica argentina lo costringe al trasferimento in Spagna, a Madrid, e la serie dell'Eternauta resta quindi incompiuta. Dalla Spagna e, successivamente, dal Brasile (Rio de Janeiro), continua la collaborazione con Barreiro e con soggettisti come Carlos Sampayo, del quale disegna le storie di Evaristo, uno dei suoi lavori migliori.
Dopo qualche anno rientrò in Argentina, dove riprese la serie dell'Eternauta con El Eternauta: El Regreso ("L'Eternauta: Il Ritorno") e produce la serie Los Internautas per il supplemento di informatica del quotidiano Clarìn, una tavola settimanale in cui fonde avventura e realtà virtuale. Nell'ottobre del 2008 viene dichiarato "Personalità Importante della Cultura" dalla legislatura della città autonoma di Buenos Aires. In occasione del bicentenario della rivoluzione di maggio, nel 2010, illustra il racconto di Roberto Lorenzo La guerra contra el Paraguay, fra i più riusciti dell'antologia pubblicata dal Ministero della Cultura della Presidenza della Nazione Argentina dal titolo La Patria dibujada.
Muore colpito da un ictus.