"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 11 dicembre 2014

Il rumore delle cose che cadono, di Juan Gabriel Vasquez, Ponte alle Grazie editore

  Se, come ho avuto modo di definirla, la letteratura è l'arte di tirarla per le lunghe, allora questo Il rumore delle cose che cadono (in spagnolo: El ruido de las cosas al caer) è certamente letteratura. Per fare un esempio: il romanzo comincia nel 2009 con un ippopotamo di una tonnellata e mezzo di peso che viene abbattuto (un incipit straordinario, a mio modesto parere). Il malcapitato ippopotamo era scappato due anni e mezzo prima dal giardino zoologico de l'Hacienda Napoles, la tenuta nella valle del fiume Magdalena (nel dipartimento di Antioquia, Colombia) di proprietà di Pablo Escobar. Più o meno a fine romanzo, i protagonisti torneranno, anni dopo la loro infanzia, ormai adulti, all'Hacienda Napoles, e sarà un cerchio che si chiude, in un certo senso, dopo un lungo viaggio. Noi, invece, mettiamo ordine: Antonio Yammara è un professore universitario che scivola sulla sua vita con un certa elegante leggerezza, passando da una giovane amante ad un'altra e trascorrendo parte del suo tempo libero a giocare a biliardo: Ricardo Laverde no. Ricardo Laverde si limita a comparire da un giorno all'altro nella sala biliardi ed a giocare qualche partita. Educato, elegante, rispettoso: porta con sè un segreto. E' un segreto che dovrebbe rimanere tale ma che in realtà segreto non lo è per nessuno. A Bogotà, le voci girano in fretta e non è possibile mantenerle sotto controllo. Ricardo Laverde, educato, elegante, rispettoso, a tratti quasi timido, è da poco uscito dal carcere, il perchè ci fosse finito, quello sì rimane un segreto. Laverde muore vittima di un attentato e in quel medesimo attentato rimane ferito Antonio Yammara. Da quel momento la vita di Yammara, cambia. La paura della violenza immotivata ed improvvisa, della morte che può colpire chiunque ed in qualsiasi momento diviene una tragica ossessione per il giovane professore, serrandolo in una invisibile prigione di paure che lo riporta ai terribili anni ottanta, gli anni in cui, giovane, nonostante molti emigrassero, era stato tra coloro che erano rimasti a Bogotà, ad assistere alla sanguinosa ascesa di Pablo Escobar (non per niente già citato nella prima pagina del libro, assieme all'ippopotamo), spettatore di una guerra mai ufficialmente dichiarata nella quale i morti si contavano col pallottoliere e che, spesso, erano ignari passanti, cittadini qualunque, donne, bambini, lavoratori, viaggiatori, tutti sacrificati con straordinaria leggerezza in attentati che dovevano colpire una sola persona (a volte, senza neppure riuscirvi) ma che immancabilmente causavano vere e proprie carneficine.Va da sè che per Yammara il biliardo è un argomento chiuso (per Laverde pure, e non solo quello). L'unico modo che sarà dato a Yammara (per certi versi anche suo malgrado) di affrontare le sue paure e tornare ad una vita normale, sarà immergersi in una detection che lo porterà a scoprire chi era Ricardo Laverde e perchè diavolo era finito in galera per vent'anni. In questa parentesi temporale - che poi è la vera polpa del libro, e che è la sua letterarietà, il tirarla per le lunghe appunto - il lettore è condotto non solo lungo le tappe della storia di Laverde (della sua famiglia, di quella che sarà sua moglie, del suo essere pilota di aerei, ecc.) ma anche (e soprattutto) lungo la via crucis della storia della Colombia attuale, da paese povero, terra bisognosa dell'aiuto dei Peace corps americani, a regno della droga, impero comandato sfacciatamente da un uomo solo (Pablo Escobar appunto), un narcotrafficante che diviene nell'arco di pochi anni l'uomo più potente della Colombia, tanto da potersi sostituire proterviamente allo stesso Stato. I gringos, che sono la domanda, che chiedono droga (inizialmmente solo marijuana, ma sarà per poco), e i colombiani, che la soddisfano questa domanda, tutti i colombiani, da Escobar e i suoi scagnozzi, ai contadini che convertono i campi alla coltura delle piante di marijuana, ai politici che si lasciano felicemente corrompere, fino al cittadino comune che preferisce far finta di niente, che accetta il ruolo di vittima pur di non alzare la testa e guardare in faccia la realtà. E il giardino zoologico che rimane come simbolo non solo, o non tanto, dell'ascesa e della caduta del regno di terrore di Escobar (che strano, ora che ci bado suona come il nome di una cialda per caffè, o qualcosa di simile) quanto del disfacimento in cui rimane intrappolata la Colombia intera. E' come se tutta la colombia (e quindi tutti i colombiani) fosse quel pugno di animali ormai abbandonati ed affamati nei recinti dell'Hacienda Napoles, senza speranza e in attesa che qualcuno venga a dar loro il colpo di grazia. Una tonnellata e mezzo, tanto di ippopotamo quanto di paese, che cade e crolla morto a terra, quella stessa tonnellata e mezzo di ippopotamo/paese fuggita dal giardino zoologico di Escobar in cerca di... speranza immagino. Vasquez parte da due vite che si incrociano e racconta la storia recente del suo paese, tirandola per le lunghe, per nostra fortuna.

Juan Gabriel Vásquez è nato a Bogotà nel 1973. Scrittore sudamericano di primissimo piano, tradotto in sedici lingue, ha conseguito un grande successo internazionale di critica e di pubblico con i suoi romanzi. Gli informatori (Ponte alle Grazie, 2009) è stato scelto come uno dei romanzi colombiani più importanti degli ultimi venticinque anni dalla rivista “Semanal”, è arrivato finalista dell’Independent Foreign Fiction Prize e ha attirato gli elogi di autori come Mario Vargas Llosa e John Banville. Storia segreta del Costaguana (Ponte alle Grazie, 2008), magnifico omaggio alla storia colombiana e all’opera di Joseph Conrad, si è aggiudicato il Premio Qwerty a Barcellona e il Premio Fundación Libros & Letras a Bogotà. Il rumore delle cose che cadono (Ponte alle Grazie, 2012), oltre agli elogi di scrittori del calibro di Edmund White e Jonathan Franzen. Si è aggiudicato il Premio Alfaguara 2011, il English Pen Award 2012 e il Premio Gregor von Rezzori-Città di Firenze 2013. Vásquez ha inoltre vinto due volte il Premio Nacional de Periodismo Simón Bolívar e nel 2012 gli è stato assegnato il premio francese Roger Caillois per l’insieme dell’opera. Feltrinelli ha pubblicato Le reputazioni (2014).

domenica 30 novembre 2014

Il ragazzo selvaggio, di T.C. Boyle, Feltrinelli editore

  Nel 1797, nel sud della Francia, nella zona dell'Aveyron, i contadini avvistano ripetutamente quello che sarà ribattezzato Victor ma che in quel momento non è altro che uno scherzo della natura, un mostro. Forse, un animale di una specie sconosciuta. T.C. Boyle ci accompagna lungo tutto l'arco dell'avventura di Victor, dal momento della sua cattura fino a quello della sua morte, a quarant'anni. Il ragazzo, perchè di essere umano si tratta, è e rimarra per il resto della sua vita più basso della media, non è in grado di articolare parola, si muove su quattro zampe come gli animali, incrostato di terra e sporcizia pare essere, al di là del suo aspetto, in tutto e per tutto un animale. Il suo unico interesse (quantomeno fino al raggiungimento dell'adolescenza ed allo sbocciare degli istinti sessuali) pare essere il cibo, e tale rimane anche quando non rappresenta più un impellente bisogno da soddisfare andando a caccia di piccoli animali o nutrendosi di tuberi e frutti (dal momento della sua cattura ormai il cibo gli viene offerto, cotto e cucinato, in tavola ogni giorno). Il rumore (mediatico, diremmo oggi) derivante dalla sua cattura, nella Francia dell'epoca, è enorme: tutti vogliono vedere il Selvaggio (così verrà ribattezzato dalla pubblica opinione), aspettandosi un fenomeno da baraccone pronto a sgranare gli occhi di fronte alle meraviglie della civiltà. La società, insomma, considera Victor uno specchio nel quale rimirare la propria superiorità a qualsiasi altro stato di natura. Nel momento in cui questo non avviene (Victor pare totalmente impermeabile agli splendori di Parigi: si limita a cullarsi sui talloni, ad addentare tutto ciò che può, senza fare eccezioni di buongusto nè di convenienza sociale, a fissare il vuoto ed a tentare la fuga verso il mondo dei boschi da cui proveniva), la società perde ogni interesse nei suoi confronti. Solo due uomini di scienza continuano ad interessarsi a lui: Pinel ed Itard. Pinel, direttore dell'istituto per sordomuti, si convince presto che il ragazzo è affetto da idiotismo ed è irrecuperabile, mentre Itard ritiene di poterlo educare e riportare nell'alveo della civiltà. Itard spenderà cinque anni della sua vita in sforzi titanici e pressochè vani per inisegnare al ragazzo selvaggio ad articolare parola, nonchè i rudimenti del comportamento ed a rendersi utile ritagliandoli un ruolo nella società. Tutto ciò che riuscirà ad ottenere sarà fargli pronunciare un unico verso e insegnargli ad apparecchiare tavola e a spaccare la legna. Questo è quanto "la civiltà" riesce ad ottenere, a costo di sforzi enormi, da Victor e dalla sua natura selvatica. Alla fine, Itard e lo stato francese che aveva sovvenzionato i suoi tentativi ammetteranno la loro sconfitta e lasceranno Victor alle cure della governante madame Guerin, l'unica che ha avuto, nella sua semplicità, la capacità di amare il ragazzo per quello che è, senza pretendere da lui sforzi improbi per raggiunere obiettivi che, evidentemente, non erano alla sua portata. T.C. Boyle compone un libro snello e gradevole che con una lievità apparente scandaglia una vicenda reale e simbolica allo stesso tempo che ci consegna un ritratto dell'esistenza umana quale esperienza tanto intensa quanto inutile. E' il libro della frustrazione. Il solido Pinel probabilmente aveva ragione: il ragazzo era stato abbandonato (recava una cicatrice da lama sul collo, probabile tentativo di sgozzamento da parte di chi voleva liberarsi di lui) in quanto sordomuto o affetto da qualche forma di deficenza e il suo recupero non poteva avvenire proprio per questo motivo: un muro invalicabile. Pinel sostenne fino all'ultimo che era stato il suo crescere lontano dal consesso umano e dalle sue regole di civiltà a ridurlo irrimediabilmente ad uno stato animale. Rousseau e il suo mito del buon selvaggio: confutazioni e controconfutazioni (tutte tentate, nessuna dimostrata nè dimostrabile). Quanto rimane del senso di frustrazione è una parentesi di stupore per la pervicacia con la quale l'essere umano rimane aggrappato ad un'esistenza che pare non aver senso alcuno se non il trascorrere del tempo: Victor, bambino abbandonato, probabilmente vittima di un tentato omicidio, quasi sicuramente affetto da qualche forma di handicap mentale, che riesce a sopravvivere prima nel mondo selvatico dello stato naturale e poi, in un secondo momento, al momento della sua cattura - cosa non meno facile della prima -, all'impatto con la civiltà e la sua smania di civilizzarlo (l'unica che si limiterà ad accettarlo veramente sarà madame Guerin, tutti gli altri esseri umani cercheranno di ottenere qualcosa da lui, fosse anche, apparentemente, per il suo bene). E Itard, che nonostante i risultati dei suoi sforzi educativi, continua a credere di poter riportare Victor a quello che ritiene essere il suo posto nel mondo (almeno fino a quando non interviene lo stato a porre fine alle sue fatiche pedagogiche).

T.C. Boyle (1948) è uno scrittore statunitense. Autore di numerosi libri tra romanzi e raccolte di racconti, è tradotto in tutto il mondo. Le sue storie sono apparse su riviste prestigiose quali “The New Yorker”, “Esquire”, “Playboy”, “The Paris Review”, “Granta” e “McSweeney’s”. In Italia sono stati pubblicati América (1997), Se il fiume fosse whisky (2001), Amico della terra (2001), Doctor Sex (2004), Infanticidi (2006) e Identità rubate (2008), Le donne (2009), Il ragazzo selvaggio (2012) e L'isola dei topi (2014).
    

giovedì 27 novembre 2014

Ballata per mia madre, di Juliàn Herbert, Gran Vìa edizioni

  La cavalcata un po' svitata e un po' disperata di una vita, di una donna, di una prostituta (anche se, a suo dire, di classe) e il finale, soprattutto il finale, la bellezza che svapora, il corpo che si svuota, si secca attorno alle ossa, si lascia erodere dalla malattia e lo sguardo (che poi è scrittura) di un figlio che la segue, l'accompagna, e la odia nella stessa misura in cui la ama. Un distacco lento ed impietoso di una madre (a sua volta figlia e vittima di un Messico eccessivo e violento) dal figlio e, soprattutto, di un figlio dalla madre. Questo, è un libro raro (non so se sia unico - in un certo senso dovrebbero esserlo tutti, e non lo sono - ma sicuramente raro lo è), poetico nel suo non esserlo affatto, narrato con una scrittura (che poi è sguardo) fantastica, fantasiosa e al contempo a tal punto precisa da rivelarsi, a tratti, chirurgica. Immagino sia biografia, o fantabiografia, o qualcosa del genere, ma onestamente non me ne frega niente, non mi ci metto neppure a cercare interviste in spagnolo per capire se si tratti della storia della morte della madre dello scrittore, semplicemente perchè non è importante. Il fatto essenziale è che, quando lo si legge, ci si convince che si tratta di un racconto biografico, e questo è quanto. Se di biografia si tratta, è impietosa, non maschera, non abbellisce, non trasfigura, non romanza, dice pane al pane e vino al vino, la mamma è la mamma, ma è anche una prostituta, una donna perennemente bambina in cerca di qualcosa in giro per il paese, di città in città, o forse in fuga dalla sua stessa infanzia ( e da chissà cos'altro, un insetto che cerca di fuggire sbattendo contro le pareti di vetro del bicchiere che lo intrappola. La struttura non è quella di un'indagine, non andiamo a ritroso alla ricerca di quel nucleo centrale che è stata la madre dell'autore, non cerchiamo come rabdomanti un episodio che l'ha trasformata nella puttana che era, non è questo il libro, e non vuole esserlo. Non importa sapere il perchè, il perchè dei tanti figli e degli altrettanti padri di quei figli, non importa tornare al momento in cui la ragazza che fu decise di mettere piede in un bordello, e il perchè, il quando, il dove, il nome del bordello, le luci soffuse che proiettavano o non proiettavano luci equivoche su un pavimento coperto di cicche e gusci di noccioline. In realtà non interessa nulla di tutto questo a Herbert. Il centro del libro è l'ossessione dell'autore di dire tutto, tutto raccontare, di non lasciare nulla di non detto, di non eviscerato: i suoi matrimoni, le storie passate e quella presente, i suoi figli già nati e quello in arrivo, la sua dipendenza da cocaina, il suo essere a tutti gli effetti un figlio di puttana, di esserlo sempre stato e di averlo marchiato sulla pelle e fin nell'anima, se fosse certo al cento per cento di averne una, il suo essere scrittore, il suo essere un pessimo padre, e l'aver patito la fame, l'essere stato un pacco sballottato di città in città a seguito di sua madre e dei suoi amori, delle sue follie, e dei suoi bordelli, le sue fantasie e le sue paure, la paura di passare da essere figlio di puttana ad essere puttana lui stesso. Dire tutto, trasferire tutto su carta, renderlo evidente, vivo, vero: il suo ultimo amore, la gravidanza della sua compagna, il figlio in arrivo, l'ennesimo ("n", in questo caso, è da intendersi uguale a tre), l'ospedale e le notti trascorse seduto accanto alla madre a scrivere di sè stesso seduto, in ospedale, a scrivere accanto alla madre. La scrittura (che poi è lo sguardo), l'ossessione per la scrittura, per lo stile, l'amore per le parole che, non viene mai detto, ma si percepisce che sono la mano che l'ha salvato: salvato da una vita anonima, forse misera, salvato dalla follia latente di essere il figlio di sua madre, che forse l'hanno salvato da un tentativo di suicidio e che, ora, in presa diretta, lo salvano da uno tsunami di dolore e risentimento, di amore ed incomprensione che accompagna la morte della madre. La scrittura è quella di un poeta (ed Hebert lo è), di un alchimista che gioca coi suoi amati elementi sapendo perfettamente l'effetto che otterrà ma che, al contempo, rimane egli stesso stupefatto dalle immagini e dalle sensazioni che gli escono dagli alambicchi, quasi in maniera involontaria. Non credo si possa spiegare un libro come questo, l'editrice mi aveva avvertito che si trattava di un libro particolare e, per fortuna, aveva ragione: è un'esperienza, da leggere, dura come un cubo di ghiaccio e perfettamente elegante, estemporanea ed unica come la struttura di un fiocco di neve.
Forse, a ben pensarci, questo libro è (anche) il tentativo impietoso di una famiglia che guarda sè stessa sgretolarsi e, forse, darsi un senso.

  Spero ardentemente che Gran Vìa si premuri di pubblicare altro, ed al più presto, di Juliàn Herbert: è un autore da seguire, e da coltivare.



Juliàn Herbert è nato ad Acapulco nel 1971. Poeta, scrittore, musicista, è uno dei più poliedrici esponenti culturali del suo Paese. Ha al suo attivo diversi libri di poesie, saggi, il romanzo Un mundo infiel del 2004 e la raccolta di racconti Cocaìna (manual de usario) del 2006, di cui Granta Italia ha pubblicato nel 2013 un racconto nel numero dedicato al tema delle "Dipendenze". Ballata per mia madre ha vinto nel 2011 ilPremio Jaèn de Novela Inedita e l'anno successivo il Premio de Novela Elena Poniatowska, diventando uno dei romanzi rivelazione della recente letteratura  messicana.

mercoledì 12 novembre 2014

Le notti di Reykjavik, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

  Gli slittamenti di luogo e tempo paiono essere diventati il marchio di fabbrica di Arnaldur Indridason (Le abitudini delle volpi, Cielo Nero e Sfida cruciale). Dopo aver fatto tornare Erlendur nei luoghi dove ha trascorso l'infanzia e perso il fratello in un tormenta di neve (Le abitudini delle volpi), alla ricerca quindi del proprio passato, nel tentativo, se non di farci pace, almeno di scendervi a compromessi, dopo aver descritto le indagini dei colleghi lasciati soli a Rekjavik in una sorta di montaggio parallelo (Cielo nero) ed essere tornato indietro nel tempo, fino ai giorni della storica sfida di scacchi tra Spassky e Bobb Fisher (Sfida cruciale), per seguire le indagini di una giovane marion Briem (il futuro capo di Erlendur), lo scrittore isalndese questa volta incasella un nuovo tassello del puzzle della vita del suo protagonista, riportandolo ai suoi esordi in polizia, quando, giovane agente della stradale, si trova ad indagare suo malgrado su due casi che, al principio, paiono non aver alcun punto in comune.Il giovane Erlendur è già taciturno, ombroso, riflessivo, profondamente segnato dalla tragedia della scomparsa del fratellino e da questa ossessionato nell'intimo. Comincia a collezionare e a leggere tutti i libri che gli riesce di trovare sulle scomparse avvenute in Islanda durante nevicate o altri eventi naturali, è totalmente impermeabile alla febbre americana che in quegli anni colpisce la sua terra, non possiede televisione, non ama gli hamburgher, non ama le pizze, e non si cura di avere un qualche cosa di anche vagamente simile ad una vita sociale. Tra una rissa da sedare, un incidente stradale e una violenza domestica (quasi tutte causate dall'alcool), Erlendur trova il tempo e la muta concentrazione (nonchè un certo compassato ardimento) di approfondire la morte, apparentemente per annegamento, di Hannibal, un senzatetto che aveva avuto modo di conoscere durante le sue ore di servizio. Hannibal annega vicino alla sua dimora (tubazioni del teleriscaldamento) in una quantità d'acqua che pare insufficente, al giovane agente, per causarne la morte. Da questo primo vago sospetto, oltrechè (se non soprattutto) dal suo interesse per la vicenda umana di Hannibal, Erlendur, si immerge nel sottobosco della vita sociale della capitale islandese, quello dei senza tetto, e lo sonda con il suo personale stile, quasi in punta di piedi, attento alle esistenze di coloro coi quali entra in contatto, ma al contempo inflessibile nella sua volontà di giungere ad una soluzione. La scomparsa di una donna che pare "una gioielleria ambulante" nello stesso week end in cui Hannibal muore, è un ulteriore stimolo per l'indagine di Erlendur. Inoltre, in questo ennesimo volume della saga che verte attorno, non solo alla figura di Erlendur ed alle sue indagini ma, quasi di pari passo, e sicuramente con pari dignità, anche alle sue vicende umane, assistiamo (quasi col fiato sospeso, pur sapendo perfettamente quali saranno gli sviluppi successivi) al primo incontro tra il protagonista e quella che sarà, prima sua moglie, poi la madre dei suoi figli, ed infine una ex moglie terribilmente rancorosa. E' un flashback inquietante e poetico che, ben sapendo che influsso avrà sulla vita di Erlendur (i due figli e le loro storie travagliate, la droga, le incomprensioni, la rabbia ed il nipote), ci stupisce per la levità con cui la vita ti pone di fronte a dei bivi che si riveleranno essenziali nel caratterizzare le nostre esistenze. A volte, paiono come soffi di vento gelido che giunge dolcemente dalle foreste innevate e silenziose e finiscono per rivelarsi vere e proprie tempeste nelle quali si perde tutto, non solo i fratelli, ma anche i propri figli e, infine, sè stessi.
  L'ennesimo libro, perfettamente calibrato, di Indridason. Questo volume e arricchito dal commento di Camilleri che ci rende noto di aver già letto 5 libri della serie di Indridason. Con tutto il rispetto per Camilleri e per il suo Montalbano, i libri di Indridason li leggo a prescindere da qualsiasi consiglio.

Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde e Le abitudini delle volpi 

giovedì 21 agosto 2014

Americani, di John Jeremiah Sullivan, Sellerio editore

  Premesso che il titolo "Americani" (titolo originale "Pulphead") e l'immagine di copertina che riporta la faccia di Michael Jackson non invogliano un granchè all'acquisto del libro, in realtà, se doveste decidervi a superare lo scoglio di cui sopra e puntare i vostri sudati risparmi su questa raccolta di articoli di John Jeremiah Sullivan, l'avreste indovinata. Cominciamo: quattro pezzi e mezzo sono di taglio musicale, più un tot (sette) di altri che svariano dalla fine del mondo per mano di una sinistra quanto comprensibile alleanza tra diverse specie animali, ad una terrificante gita famigliare a Disneyworld (comprensiva di excursus su certi aspetti poco edificanti della sua nascita e della mentalità del vecchio zio Walt), al vivere in una casa che è al contempo il set cinematografico di una famosissima una serie tv per adolescenti. E poi: una passeggiata nei luoghi devastati dalla precedente passeggiata di Katrina (l'uragano), una ricognizione nel mondo dei real tv americani (e nelle menti di coloro che li vivono - non che vi partecipano, ma che proprio li vivono, e che di real vivono), gli ultimi mesi di vita di un vecchio scrittore del sud un po' rimbambito, un po' sporcaccione e un po' lucidissimo intellettuale e, infine, la carriera e la vita di un naturalista talmente geniale da azzeccare solo le note ai suoi lunghissimi e sballatissimi trattati (e non per questo, agli occhi di Sullivan, meno geniale). I quattro pezzi sul mondo musicale riguardano: il primo, la partecipazione dello scrittore (come spettatore, ovviamente) ad un festival di rock cristiano, una sorta di woodstock dei fondamentalisti cattolici americani, una di quelle manifestazioni che sono parte integrante del brodo "culturale" dei tea parties e della destra ultraconservatrice americana. Il secondo pezzo, che sfarfalla sulla vita di Michael Jackson, sulle sue indubbie doti e, pur valutando gli aspetti poco chiari e/o edificanti della sua carriera (dalla famiglia ossessionata dalla musica e, soprattutto, dai soldi che speravano di farne conseguire, alle accuse di violenza su minori), svolta verso un'interpretazione sostanzialmente positiva della persona, del personaggio e del musicista. Il terzo saggio, forse il più interessante tra i quattro e mezzo che vagolano in un modo o nell'altro nel mondo della musica, si immerge nella realtà che ha cullato l'infanzia e l'adolescenza maledetta di una rockstar come Axl Roses che, come sostiene Sullivan in apertura di articolo, "viene dal niente", ossia dall'Indiana. Poi ci spostiamo in Giamaica ad intervistare Bunny Wailer, l'ultimo dei Wailers, la prima band di Bob Mailer, trovandoci invischiati in una caccia all'uomo (un altro uomo, che coinvolge tutta l'isola e non solo, un delinquente, anche se con la propensione alla sindrome da Robin Hood). Infine, il pezzo intitolato "piedi in fumo", che è il "mezzo" dei quattro articoli e mezzo di ambito musicale, che racconta quando, il 21 Aprile del 1995, il fratello di Sullivan avvicina la bocca ad un microfono (cantava in una band) e muore. In realtà non muore, ma la scarica elettrica lo spedisce in coma e quello che segue è il racconto dei mesi in cui il fratello deve riprendere le misure al concetto stesso di esistenza e a tutti quegli aspetti (infiniti) che ne fanno parte tra cui, non ultimo, la logica causa effetto. Quest'ultimo articolo, pur se venato da una notevole ironia che solo si può permettere qualcuno coinvolto nei fatti e, immagino, col beneplacito del diretto interessato che pare aver preso bene la disavventura, riporta per certi versi, in alcune considerazioni evidenziate sul funzionamento del cervello e su come noi siamo quel cervello o, per meglio dire, siamo, nella normalità delle cose, quel funzionamento del cervello, riporta dicevo ai libri di Oliver Sacks. I libri di Sacks, a mio avviso, pur nella loro dolcezza (non saprei come definirla altrimenti) sono terrificanti incubi da svegli: le paure di Poe traslate nella realtà clinica: essere sepolti vivi in una tomba non è meglio, a mio avviso, dell'essere sepolti dentro i propri corpi privi di comando o, se volete, nelle proprie menti sbrindellate. Il racconto di Sullivan invece non arriva ad inabissare il lettore a tal punto nell'angoscia, forse semplicemente perchè la storia si conclude per il meglio e il lieto fine, come sempre, riverbera la sua luce ottimista su tutta l'oscurità che l'ha preceduto. Un po' tutta la raccolta ha questa caratteristica: racconta certi aspetti poco compatibili con l'idea che è stata venduta al mondo di american dream, ma lo fa con una (apparentemente) naturale leggerezza e un taglio ironico non sprovvisto di una certa acuta intelligenza dello sguardo (e alla diretta partecipazione dell'autore agli eventi narrati). Non ultimo, Sullivan, e con esso il suo stile, sa essere efficacemente paraculo, che è una dote che non guasta quando bisogna intrattenere degli sconosciuti su argomenti che con tutta probabilità non li interessano neanche un poco. Non so se sia la raccolta di saggi più importante dall'epoca dell'uscita di Una cosa divertente che non farò mai più, di Foster Wallace, e non credo che sia il nuovo Hunter Thompson, ma è sicuramente un ottimo esempio di New Journalism. E un bel libro da leggere. Anche divertente. Sul lato oscuro dell'America e via discorrendo.




John Jeremiah Sullivan è nato a Louisville, Kentucky, nel 1974. Collabora con il New York Times Magazine ed è editor della Paris Review. Ha esordito con Blood Horses, un resoconto storico e culturale dell’industria delle corse dei cavalli.

giovedì 31 luglio 2014

Mezzanotte a Pechino, di Paul French, Einaudi editore

Immagino che non molti siano a conoscenza di quanto avvenne nella notte tra il 7 e l'8 di Gennaio del 1937 a Pechino. E quindi molto probabilmente non avete idea di chi fosse Pamela Werner, nè suo padre E.T.C. Werner, nè di come sia morta la madre di lei, Gladys Nina, e neppure di chi fosse il dentista Prentice, il detective Dennis e il colonnello Han (tralascio da questa breve lista molti altri personaggi non di secondo piano con cui avrete modo di far conoscenza leggendo il libro). Paul French, giornalista e storico inglese residente a Shangai, ce lo racconta, per filo e per segno. Pamela Werner è la vittima - è l'unica cosa che vi posso dire - assieme alla giustizia, che non arriverà mai, e all'umanità, che pare sprofondata in abissi di perversione paradossalmente senza fondo. La mattina dell'8 Gennaio il cadavere di Pamela Werner, dissanguato e sventrato secondo una tecnica che si verificerà essere utilizzata dai cacciatori, viene ritrovato ai piedi della Torre delle volpi, una spettrale torre di guardia che si diceva essere infestata dagli spettri degli spiriti volpe, appunto, spiriti maligni della tradizione cinese che la notte rovistano nei cimiteri e per il resto del tempo seminano male e sventura e, all'occasione, non disdegnano di procacciarsi morti freschi per rifornirsi di energia. O qualcosa del genere. Esseri comunque assai poco raccomandabili. Ma sempre meno inquietanti degli esseri umani e delle istituzioni che li legano e che dovrebbero presiedere alla giustizia, quantomeno a quella terrena. La ragazza, Pamela, figlia adottiva di un famoso sinologo inglese ed ex ambasciatore, misantropo e burbero, si trovava a Pechino per le vacanze di Natale, in visita dalla città di Tianjin, dove studiava, e in procinto di traferirsi definitivamente in Iinghilterra per sfuggire alle attenzioni malsane di un preside dalla libido un filo troppo attiva. Ecco, la mano invisibile del destino: stava per partire. Mancava poco. Pochi giorni e si sarebbe allontanata per sempre da quella che stava per divenire la sua tomba. Pamela era una brava ragazza, almeno all'apparenza, ma forse neppure poi troppo. Comunque non cattiva: difficile, nel pieno degli anni, desiderosa di sbocciare come donna e di frequentare in un sol balzo quel mondo degli adulti che l'aveva sempre lasciata sola. Il padre era stato estremamente assente, spesso impegnato in viaggi di studio o, quando a casa, immerso in qualche tomo a studiare astrusi dialetti cinesi. La madre, morta presto (di morte naturale o per mano di qualcuno, e di chi, del marito?). Pamela, lo diceva spesso, si sentiva sola. Era sempre stata sola. Era figlia adottiva e lo sapeva. Sola. Quando viveva col padre era come se vivesse sola, poi era stata mandata a studiare in una città lontana e lì sola lo era stata veramente, e in quel Gennaio maledetto e gelido, con i Giapponesi alle porte pronti a mettere a ferro e fuoco la città e i suoi abitanti, era di nuovo in procinto di partire, per l'Inghilterra stavolta, di nuovo da sola. I detective Dennis e Han si buttano a capofitto (o forse no?) nell'indagine, devono risolvere il caso entro 20 giorni, prima cioè che la legge cinese del tempo prevedesse l'abbandono del caso, ma soprattutto devono fare i conti con i politici ed i loro superiori che si fanno portavoce di cause, diciamo così, "di stato", vale a dire la difesa del buon nome della comunità cinese, o di quella inglese di stanza in Cina, delle istituzioni dell'uno o dell'altro paese, dei rappresentanti delle due diplomazie e dei personaggi di spicco delle due società. Avendo le mani legate, le indagini giocoforza non portano a niente. Si scoprirà in seguito, grazie agli sforzi indomiti del padre, che l'attività dei due detective arrivò a lambire i colpevoli ed il loro sinistro e malsano habitat, ma nulla più. Non si giungerà mai più in là di una certa invisibile linea tracciata da altri, più in alto. Le indagini vengono chiuse e l'assisinio rubricato come delitto per mano di ignoti. Sarà il taciturno ed ombroso E.T.C. Werner a dissanguare le proprie finanze ed a spendere i suoi ultimi - lunghi - anni di vita, a ricostruire l'accaduto, e ci riuscirà, anche se sapere la verità non porterà a nulla. La verità non serve conoscerla se non interessa a nessuno, e non interessa nessuno quando mette in gioco interessi e reputazioni di troppe persone troppo importanti. Spetterà a Paul French riscattare questa storia tanto lugubre quanto sinistramente (banalmente) umana dagli archivi dei giornali e delle ambasciate per ricostruirla, tasselo dopo tasselo, e portarla alla luce. A farci conoscere Pamela, prima bambina sola, e poi adolescente sola, ed infine cadavere straziato, e il sottobosco malavitoso che conviveva a poche strade di distanza dal ricco quartiere delle Legazioni, "riserva e prigione" degli stranieri influenti della città. A metterci in contatto con l'aspetto più torbido e meschino dell'animo umano. Una Pechino circondata dai Giapponesi, pronti a calarle addosso per divorarla in una delle maniere più brutali che la storia ricordi, una città come sospesa in una sinistra attesa che pare senza fine. L'immobilità della preda che fiuta l'immobilità del predatore. Due comunità, quella elitaria degli stranieri importanti che risiedono in Pechino e quella della malavita - autoctona o importata fa lo stesso, in certi ambienti il razzismo non è un problema particolarmente sentito - che fingono di ignorarsi a vicenda ma che spesso intrecciano i loro interessi più inconfessabili in trame di sesso, perversione e potere.
Sesso, omicidio, mistero, detection, la faccia oscura del misterioso oriente, e in sottofondo la grande storia che si muove, come la coda di un drago di cui non si indovina la testa ma che, lentamente, si sveglia, e modella destini di singoli e nazioni a proprio capriccio. L'ombra di Mao in lontananza, la rivoluzione che non è ancora alle porte ma appena più indietro, alle spalle di qualche anno, pochi, pronta a cambiare il mondo, ed al contempo il ricordo vivido dell'ultima dinanstia di un impero millenario. Un giallo perfetto, se non fosse che l'abilità dell'autore non ci permette di dimenticarci che, per quanto lontana nel tempo, si tratta di una storia vera, non verosimile, e che nulla di quanto successo e raccontanto è meno che dolente, e che i protagonisti sono state persone in carne ed ossa, e soprattutto che Pamela è morta, in trappola, da innocente (vedi la dedica).

Riporto, dalla prima pagina del libro:

 Non è necessario credere in una fonte sovrannaturale del male: gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità.

                                                                Joseph Conrad,  
Con gli occhi dell'Occidente (1911)




  Paul French (1966) è un giornalista e storico inglese. Vive a Shangai. Nel 2009 ha pubblicato Carl Crow: A Tough Old China Hand e Through the Looking Glass e nel 2013, per Einaudi, Mezzanotte a Pechino ovvero Il torbido omicidio della Torre delle Volpi.

martedì 8 luglio 2014

L'avversario, di Emmanuel Carrère, Adelphi editore

Ho pensato che scrivere questa storia non poteva essere altro che un crimine o una preghiera. Si conclude così questo libro, strano e terribile, di Carrère, pubblicato in Francia nel 2000, in Italia nel 2000, da Einaudi, e ora riproposto nella medesima traduzione di Eliana Vicari Fabris per Adelphi.
  Mai come in questo caso si può parlare di immersione in quella zona oscura che ospita (ed è, a sua volta, ospitata da) ogni essere umano. Il 9 Gennaio 1993 Jean Claude Romand veniva estratto dalle fiamme che avevano avvolto la sua casa e ucciso sua moglie ed i suoi due figli. Solo che non era così. Il fatto ha avuto un'amplissima eco in Francia, nella pubblica opinione, per cui giocoforza l'autore non ha avuto altra scelta che cominciare a narrare dalla fine: dal fuoco, dai corpi carbonizzati, da Jean-Claude estratto ancora vivo, dai segni inequivocabili sui corpi dei figli e della moglie e dal castello di carte che in un attimo - in un soffio verrebbe da dire - crolla miseramente a terra, scuotendola fin nei suoi più oscuri recessi. Da quel momento tutto è cambiato, nulla è stato più uguale a sè stesso. Non è stata una tragedia, non sono state delle morti nè un incendio, fortuito o doloso, è stato lo sbriciolarsi di un mondo pazientemente creato in diciotto anni di finzione, un mondo (o un universo o, meglio, un'esistenza e le esistenze che da quella interdipendevano) che ad un tratto implode e ingoia tutto ciò che vi si trova attorno. Toglie certezze, instilla dubbi, fa nascere colpe. Le torri gemelle che cadono e il mondo che cambia, un fatto del genere. Basta un'analisi superficiale per rendersi conto che le tre vittime non sono morte nell'incendio ma per cause differenti (una per colpo contundente e due per spari). Si scopre che anche i genitori di Romand sono stati uccisi in quei giorni. Da quel momento, è un attimo, e tutto l'equilibrio, precario, si spezza e da lì in avanti si viaggia oltre una linea che ormai è stata tracciata nel corpo stesso (corpo dolente) del reale. Un prima ed un dopo. Carrère analizza entrambi, sia il prima che il dopo, va e viene oltre il confine tracciato da quella linea scioccante intrisa nel sangue e nella follia. Bastano un paio di telefonate e gli inquirenti capiscono che il dottor Romand (esimio professore-ricercatore all'OMS di Ginevra) non è chi dice di essere. Ma chi è? Una spia? Un trafficante d'armi? Un uomo dei servizi segreti? Mister x, l'uomo del mistero? Jean Claude Romand, in realtà, non è nessuno. Il buco nero del libro sta proprio qui, il mostro da guardare dritto negli occhi, come usava dire Bolano della letteratura, è lo stesso Romand. Ma il mostro è vuoto, una maschera su una maschera, probabilmente indossate a loro volta sopra altre maschere, innumerevoli, sotto le quali non c'è nulla. Non un dottore, non un ricercatore, forse nemmeno un padre nè un marito, certamente non un uomo. Non un uomo come lo possiamo intendere comunemente. Carrère si appassiona al caso, decide di scriverci sopra un libro, si interrompe. Ne scrive uno che però è un romanzo, La settimana bianca. Passa il tempo, alla fine affronta l'impresa, il suo avversario. Scrivere di un personaggio del genere, cercando di capirlo, che cos'è? Una preghiera o un crimine? O entrambe le cose insieme? Chi è Romand? Un ragazzo che, saltato un esame all'università (senza mai essere in grado di spiegare, nè forse spiegarsi, il perchè) non ha il coraggio di ammetterlo con chi gli sta vicino e da quel momento in poi mente a tutti, forse anche a sè stesso, finge di sostenere gli altri esami, finge di laurearsi, si sposa, mette al mondo due figli, finge di lavorare, finge di esistere, passa le giornate nei boschi o nei parcheggi, in giro, a guardar il tempo passargi davanti, e tra le dita, lentamente. Finge viaggi di lavoro, finge di investire i soldi di parenti ed amici in favolosi conti svizzeri dai rendimenti principeschi, e con quelli vive. S'innamora, e truffa anche l'amata. Sperpera i soldi che lei gli affida ed infine, quando capisce di non poter evitare di essere scoperto, uccide tutti i possibili testimoni (tutti coloro che, mettendo assieme i pezzi, avrebbero potuto ricostruire il nulla che Romand in realtà era), finge (o no?) di volersi suicidare e poi in carcere, una volta uscito dal coma, mente ancora, prova altre maschere, diventa l'assassino pentito che scopre Dio e la fede, non scende mai negli abissi da lui stesso creati, li sfiora soltanto, dribblandoli, li sbircia da lontano, risulta sempre fuori luogo, interpreta personaggi che parlano fuori sincro, a sproposito, sembra aver disimparato come si fa a fingere. Ma chi è alla fine Jean-Claude Romand? Quando e dove si è perso, sempre che ci sia mai stato? E, scrivere la sua storia, è un crimine o una preghiera? E noi che lo leggiamo come ci poniamo di fronte a quest'abisso che, nonostante tutto, è un uomo, nato da ventre di donna, come tutti noi?
  Carrère è un maestro che ha scelto una strada parallela alla letteratura, scrivendo non-fiction letteraria, che poi è comunque sempre una forma di letteratura: la sua scrittura è sempre cristallina, a tratti chirurgica (o comunque prova intensamente ad esserlo). Non ha il gusto del macabro, nè quell'attenzione patologica di taglio criminologico che oggi ammorba non solo la letteratura e la televisione ma pure la vita quotidiana e il nostro stesso ragionare. Non si immerge solo in questo storia (vera, verissima) nera, nerissima, non solo vi cerca un senso e rifugge qualsiasi morale, ma si domanda qual'è il suo ruolo, si mette in gioco e, così facendo, obbliga anche il lettore a farlo. Per quanto tremendo, è un libro magnifico, che ho letto nel 2000, quando uscì per Einaudi, e che in qualche maniera non mi è mai uscito del tutto da qualche angolo misterioso del cervello in cui è rimasto a lottare con sè stesso. Se non l'avete mai letto, leggetelo. Altrimenti rileggetelo.

Emmanue Carrère è laureato presso l'istituto di studi politici di Parigi.
La maggior parte delle sue opere sono incentrate sulla riflessione su se stesso e sul nesso fra illusioni e realtà. Molti suoi libri sono poi stati trasposti in sceneggiature cinematografiche. È autore anche di numerose sceneggiature per telefilm, basate su testi di Georges Simenon e altri.
Nel 2011 la sua opera biografica Limonov ha ottenuto il Prix Renaudot. Il libro descrive la vita controcorrente del poeta ed attivista politico ucraino Eduard Limonov.
Nel 2006 ha vinto l'Efebo d'oro per il film L'amore sospetto, tratto dal suo stesso romanzo.

martedì 1 luglio 2014

Il caso Eddy Belleguele, di Edouard Louis, Bompiani editore



Non devi fare così, lo sai che ti vogliamo bene, non devi cercare di salvarti (pag.156): è il padre del protagonista che parla così al figlio che ha appena tentato la sua prima maldestra fuga da casa o, per meglio dire, ha appena finto di tentare la sua prima, maldestra, fuga da casa, facendo sì che il padre potesse seguirlo e ritrovarlo in tutta fretta, prima che la fuga vera e propria potesse concretizzarsi. Il protagonista è Eddy Belleguele (trad: bell'imbusto, spaccone, faccia tosta), che viene rigettato dal microcosmo in cui nasce in quanto effeminato, frocio, femminuccia ed omosessuale e che rigetta il mondo che avrebbe dovuto accoglierlo perchè rozzo, sessista, razzista, ignorante. Ma non solo. Eddy viene rifiutato dalla società del suo paese (dalla cultura del paese che parla attraverso i suoi abitanti) perchè i suoi modi di fare, la sua finezza d'animo, non solo la sua sessualità, ma il suo talento artistico fungono da specchio per la sua famiglia e per le altre persone del paese. Lui non è dei loro, non è come loro, lui è altro da loro se non in tutto e per tutto il loro opposto. Lui è ciò che loro non vogliono essere, in quanto non possono esserlo. Eddy, e questo è il punto, è meglio di loro. Appartiene ad un altro mondo, come nei film di fantascienza dove un virus alieno contamina gli abitanti del villaggio e dei bambini in tutto e per tutto uguali agli altri in realtà si rivelano essere delle entità extraterrestri installatesi all'interno di corpi di esseri umani. In tal senso, questo libro, può essere letto come un libro di fantascienza. Ma non solo, è anche un libro di zombie (o di vampiri, capiamoci, comunque di mostri epidemici). Mi spiego. Tutti i personaggi che compaiono nel libro, tranne Eddy, sono posseduti da qualcosa di più grande di loro che si esprime attraverso i loro corpi, che parla con le loro voci, un'entità senza volto, terribile, un moloch oscuro che tanto più pervade ogni cosa tanto meno è possibile individuarla: la (sub)cultura del posto, una cultura sottoproletaria brutale e primitiva: gli uomini bevono, ruttano, si ammazzano dal lavoro in fabbrica (letteralmente, si ammalano a furia di lavorare e talvolta ne muoiono) , si picchiano, scopano le loro donne e si interessano al calcio ed al catch, e se rimane loro tempo si inebetiscono davanti a programmi spazzatura in tv, sono razzisti ed omofobi. Ignoranti non solo perchè ignorano ma perchè si incaponiscono nell'ignorare, ne vanno fieri, facendone un punto di vanto. Le donne sono pragmatiche, razziste, dolenti, vittime di uomini brutali, hanno sogni che si spezzano verso i quindici anni quando rimangono incinta e cominciano a riempirsi di figli, in un ciclo vitale di stampo animale che si ripete uguale di generazione in generazione, da tempo immemore. Tutto ciò che non rientra in questi canoni è escluso a forza dall'entità che tutti possiede. In questo senso Eddy è come il protagonista del racconto di Matheson Io sono leggenda: è l'unico diverso in un mondo di mostri, ma in quel mondo è lui il mostro e l'unico modo che ha per salvarsi è la fuga. Poi, questo libro, è anche altro: è una sorta di diario, è uno scontro sociale tra un sottoproletariato brutale e brutalizzato dalla società e una borghesia lontana, estetizzata al punto da apparire quasi effemminata o, per meglio dire, efebica. Atene e Sparta, ma che non si combattono neppure più, che si sbirciano a distanza, disprezzandosi, quando non ignorandosi, fingendo l'una l'inesistenza dell'altra. Poi è il romanzo di una famiglia che non ha i mezzi per comprendere il proprio figlio e la sua diversità e che l'unico modo che trova in sè per salvarlo è torturarlo, standardizzarlo alla realtà circostante. E in nuce, a sprazzi, quasi di sfuggita: la fierezza di avere un figlio intelligente che farà strada e, al contempo, il terrore di non poterlo capire, di percepirlo sempre come qualcosa di incomprensibile quando non addirittura illogico: lontano, troppo lontano dai propri (dis)valori. Infine, il libro è anche un racconto biografico. Ma chissenefrega, non è importante. Quello che colpisce in un giovane autore al suo primo romanzo è la padronanza dello stile e del materiale narrativo e, soprattutto, del taglio personalissimo che riesce a dare alla storia: un taglio antropologico. Nessuno viene giudicato. Neppure quell'entità maligna che tutto pervade e tutti possiede. E proprio quella sensazione di una (sub)cultura che parla attraverso gli abitanti (tutti tranne Eddy, che pare sordo alla voce dell'entità) è il fattore più sconvolgente del romanzo, più delle violenze e delle umiliazioni subite dal protagonista, più dell'identità sessuale vissuta come marchio d'infamia, più della consapevolezza che ci viene sbattuta in faccia come uno schiaffo, che quei mondi, che quelle realtà esistono, che piaccia o meno, e non sono per nulla dissimili da realtà identiche di fine ottocento, e che, forse, sono le stesse realtà che esistono dall'inizio del mondo e che quell'entità che parla e possiede gli abitanti della cittadina, forse altro non è che la natura umana.


Édouard Louis, nato Eddy Bellegueule, è cresciuto nella Francia del Nord, regione descritta nel suo primo romanzo, Il caso Eddy Bellegueule.
Proviene da una famiglia della classe operaia: suo padre è disoccupato e la madre non ha mai lavorato. La povertà, il razzismo, l’alcolismo con cui si è confrontato nella sua infanzia e la sua classe sociale sono il punto di partenza della sua opera letteraria.
È il primo della famiglia a concludere gli studi e viene ammesso all’Ens, la Scuola Normale Superiore di Parigi, nel 2011. Nel 2013 ottiene di poter cambiare nome e diventa Édouard Louis.
Nello stesso anno cura l’opera Pierre Bourdieu. L'insoumission en héritage, pubblicata da Presses universitaires de France (PUF), in cui viene analizzata l’influenza di Bourdieu sul pensiero filosofico e sulle politiche dell’emancipazione. Presso lo stesso editore Louis crea, nel marzo 2014, la collana di scienze umane “Des mots”, dove comincia a pubblicare testi di George Didi Hiberman e Didier Eribon.
Nel gennaio 2014, all’età di 21 anni, pubblica Il caso Eddy Bellegueule, un romanzo di forte matrice autobiografica. A lungo recensito dai giornali, che ne hanno sottolineato le qualità, il libro ha anche alimentato molte polemiche, in particolare per il ritratto che l’autore fa della sua famiglia e del contesto sociale in cui è cresciuto. Il libro ha venduto oltre 200.000 copie in pochi mesi ed è in corso di traduzione in una ventina di lingue. Didier Eribon parla di un “exploit” a proposito del libro, “Le Monde” lo celebra come “la storia di un fallimento salutare”, Xavier Dolan evoca “l’autenticità inimitabile dei dialoghi”, “come se Édouard Louis scrivesse da sempre”, aggiunge.

giovedì 22 maggio 2014

Quitaly, di Quit the Doner, Indiana Editore

 Normalmente su questo blog vengono postate recensioni di narrativa; quel poco di saggistica che è apparso era legato a scrittori e/o artisti (sostanzialmente, se non ricordo male, si trattava di biografie o libri intervista). Poi ho letto questo Quitaly, e in questo caso faccio (volentieri) un'eccezione, per due motivi. Il primo: mi è piaciuto davvero tanto, e spero che più gente possibile abbia l'opportunità di leggerlo. Secondo: non sono così convinto che non si tratti di letteratura. Sicuramente siamo di fronte ad un'ottima scrittura, nonchè ad un ottimo uso della scrittura. Se devo mettere insieme un pugno di riferimenti cui accostare questo libro, mi vengono in mente: il giornalismo letterario latinoamericano, Hunter Thompson e i reportage di David Foster Wallace. Giusto per rendere l'idea. Che si tratti di feste vip romane, di quartieri rossi a Bologna, di fiere off del design, del Lucca comics, dell'ultimo raduno degli irriducibili fan di Berlusconi, della discesa degli alpini a Piacenza, dell'analisi del fenomeno settario del grillismo o di altro, Quit the Doner riesce in un miracolo che è di pochi: unisce un'analisi approfondita (non seria, o non fintamente profonda, non aforistica, o facilmente tagliente ma vuota) e documentata con un'ironia e, soprattutto, un'autoironia che sulla pagina scritta non è esattemente facilissimo riportare. In più mette insieme un po' di autofiction (che come tale è sempre presunta, ma nel suo caso, a sensazione, mi pare quasi sempre reale) e un pizzico di giornalismo gonzo. Rispetto al padre del Gonzo Journalism, il leggendario Hunter Thompson, la parte goliardica ed estrema è molto ridimensionata, quasi un vezzo, un modo per strizzare l'occhio al lettore e cercarne la complicità, ma la parte di analisi del fenomeno oggetto d'analisi è, al contrario di Thompson, molto più approfondita o, per meglio dire, pare esserlo in maniera più tecnica, come se l'autore non si affidasse solo al suo istinto ed alla sua intelligenza critica (come Thompson appunto) ma sapesse sempre di cosa parla. Nel senso: come se fosse sempre addentro all'argomento trattato. E questo è dovuto sicuramente all'esperienza sul campo, ad un serio lavoro di documentazione, all'intelligenza ed all'istinto di cui sopra, ma anche, a parer mio, ad una base di conoscenze delle scienze sociali di stampo quantomeno universitario (psicologia? filosofia? sociologia?). L'impressione è di cominciare a leggere il diario di un simpatico cazzeggiatore (e forse anche un po' cazzaro, verrebbe da pensare) per poi ritrovarsi nel bel mezzo di un trattato di sociologia o di dinamiche psicologiche di massa o di qualcosa di molto simile, per poi scoprirsi - mentre ci si riscopre a ripetersi in testa: "E' proprio quello che ho sempre pensato io, allora non sono solo! Certo però lui le dice meglio..." - a ridere per un'iperbole, una battuta, un giro di parole che, miracolo, non hanno nulla di forzato, ma sembrano realmente pronunciate nel mezzo di un discorso tra amici la sera davanti ad un bicchiere di qualcosa che può andare dal chinotto al whisky.
  Quindi, a Foster Wallace, al Giornalismo Letterario Latinoamericano e ad Hunter Thompson, aggiungo un altro riferimento: Woody Allen.
  Nell'ultimo non-pezzo giornalistico (nell'ultimo racconto insomma, ma che è anche l'unico, e che fa da cappello a tutto il resto e in una certa misura ne illustra la filosofia, o almeno una parte di essa) l'autore gioca sull'accostamento che evidentemente molti hanno fatto con Foster Wallace. Alla fine sembra di capire che lo consideri un autore terribilmente sopravvalutato e quindi ne prenda le distanze. Non so se lo sia, sopravvalutato, Foster Wallace, sicuramente è pretenzioso e complicato, ama gli orpelli e i bizantinismi, ed è cervellotico all'inverosimile però, tralasciando il giudizio sulla narrativa, è un saggista-reporter insuperabile, e in questo, piaccia o meno all'autore, Quit the Doner è indubbiamente molto simile all'americano, sopravvalutato o meno che sia.
  Un'ultima annotazione: la copertina. Se piace Gipi (e a che non piace Gipi, adesso?), ovviamente vi piacerà anche la copertina, ma non è solo questo. Cattura perfettamente una delle caratteristiche della scrittura di Quit the Doner: se da una parte entra e vive i suoi reportage, dall'altra riesce al contempo a mantenere uno sguardo aereo, superiore, dell'occhio esterno che fissa dentro un'acquario e lo studia: uno sguardo un po' alla Kurt Vonnegut.
  Dicevo, forse non è letteratura, ma comunque non ne sono sicuro. Ma avevo una voglia matta di consigliarlo.

Un appunto all'editore: oltre ai complimenti per aver pubblicato un autore di sicuro valore, un'attenzione maggiore ai refusi (non so perchè ma mi pare soprattutto negli ultimi pezzi) renderebbe più piacevole la lettura (che già di per sè lo è.

 Quit the Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: << Non c'è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del Nord Italia >>. Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorius B.I.G. Stufo del successo e delle grupie, inscena la sua morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra << Gattini virali via internet >> al Collége de France. Attualmente vive tra Londra e Instanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per Linkiesta, scrive a cottimo per Vice. Il suo sito è Quitthedoner.com.
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf