"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

Visualizzazione post con etichetta e/o edizioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta e/o edizioni. Mostra tutti i post

giovedì 5 aprile 2018

I soldi di Dio, di Andreu Martìn, e/o edizioni, trad. di Maria Nicola


  Il pavido Ramirez "Sibuana" e il suo sottoposto Lallana, investigatori presso la squadra omicidi di Barcellona, vengono inviati ad indagare su un suicidio avvenuto nella notte. Il suicida è un dirigente della banca Marquès, ma non si è suicidato, o forse si. Nel caso comunque in modo strano, dopo aver ricevuto una telefonata nel bel mezzo della notte ed aver incontrato qualcuno in casa sua pochi minuti dopo. E poi non è il solo, altri dipendenti della banca si sono suicidati quella stessa notte, e altri sono fuggiti all'estero. La casa del direttore Delavall è stata data alle fiamme.
E' la notte in cui gli dei impazziscono.
  Le alte sfere vogliono il massimo riserbo sulle indagini, la faccenda, come si dice in gergo, scotta e Ramirez Sibuana non vede l'ora di liberarsene. Lallana, al contrario, vuole capire qualcosa di più prima di passare il caso ai Mossos: il centro del tutto, chiaramente è la banca. E la banca Marquès, viene a scoprire, ha un problema: è stata scalata dal suo interno da una setta religiosa di pazzi squinternati, la Comunità degli scopritori di Dio in sé o Setta Ego. Questo noir del barcellonese Andreu Martin è innanzitutto un'indagine sulla follia umana, su una parte specifica di quell'immensità che è la follia umana, su quella zona oscura che porta l'essere umano a cedere la propria razionalità (oltrechè la propria libertà, la propria esistenza in toto ed anche i propri beni) ad un singolo individuo esaltato ricevendone in cambio soprusi, umiliazioni, regole militari e verità assolute ed assurde (e in quanto verità comunque indimostrabili). E' la folla il centro dell'attenzione di Andreu, quell'insieme di anime che si amalgama in un'unica entità cieca ed idiota, capace all'improvviso di qualsiasi violenza e perversione.

 ... e si convinse che, in quel momento e in quel luogo, tutto era possibile. Un'aggressione di massa, un'esplosione, un portento.

C'è la lotta di un uomo contro tutti all'interno della banca, Delavall, di un uomo contro la setta di pazzi, Briz (il braccio armato di Delavall), e di un uomo contro la follia che pervade ogni aderente alla setta, ma che infetta anche Delavall e Briz, e ogni altro personaggio del libro, Lallana.
  Lallana è l'anima razionale del romanzo, dubbiosa, quasi disillusa se non proprio cinica, che decide di infilarsi nell'abisso di follia allo stato puro che è l'indagine sulla banca Marquès e sulla setta Ego, e sarà l'unico a non svilire sè stesso nella spirale di violenza che possiede tutti i protagonisti, anche quelli che, a rigor di logica, dovrebbero essere dalla parte giusta della barricata (ma sarà presto chiaro che i confini tra bene e male, come in ogni noir che si rispetti, sono estremamente labili, e nessuno può dirsi innocente). L'amibizione professionale di Delavall, l'ambizione folle del guru Otto Moller, la perdizione nella quale si inabissa Mata, la violenza che trova un sua guerra santa e la sua autogiustificazione di Briz, e la cecità idiota della moltitudine di fedeli, i ricatti incrociati, e la violenza che pervade ogni aspetto dell'indagine, ma anche della setta e infine della banca. L'autore intesse un noir sincopato, che non concede nulla allo stile della scrittura, scorrevole e piegata in tutto e per tutto alle logiche della trama, e racconta una storia dove al di sopra di tutto si eleva la folla, che vediamo soltanto nell'ultima scena, un'entità magmatica che non pensa, non ha morale, che vive di slogan e di istinti, che uccide, o delega altri ad uccidere ed a violentare e truffare, in cambio di una verità tanto assurda da risultare demenziale, e quindi, come tale, credibile.

  Quasi tutti i presenti erano giovani, molto giovani, ragazzi perduti nel mondo della droga e salvati per maggior gloria di un dio folle, povera gente bisognosa di direttive, di ordini, di disciplina, per dare un senso alla propria vita...

Chi comanda quella folla senza volto ha il potere, perchè il potere è la folla stessa, che cede sè stessa a chi sa blandirla con le promesse giuste. La lotta, quindi, non è in questo caso tanto tra bene e male, quanto tra ragione e follia. Il libro incatena il lettore in maniera esemplare, fiondandolo nel mezzo della storia nello spazio di poche righe e obbligandolo ad assitere ad un olocausto di follia. La banca quale veicolo ideale utilizzato dal virus-setta Ego per infettare la società è l'idea cardine della trama, ed è geniale: la banca necessità di corsi motivazionali per il personale, la banca ha soldi in abbondanza, agganci con l'economia e con la società reali, ha interconnessioni internazionali, la banca è composta di individui che, come tali, sono soggetti a venir infettati da virus. E Otto Moller, il guru della setta, è il virus perfetto. Dio esiste, e ogni uomo è Dio, e Otto Moller è il Dio degli dei.
  Un viaggio adrenalinico nel lato oscuro della società e della mente umana perfettamente narrato da un noirista di saldo mestiere quale è Andreu Martin.


Andreu Martìn è nato a Barcellona nel 1949. Laureato in psicologia, sceneggiatore di fumetti in gioventù, scrive romanzi polizieschi dal 1979. Con la sua estesa opera di narratore ha contribuito a creare il genere del poliziesco alla spagnola. Diversi sui romanzi sono stati adattati per il cinema e tradotti in molte lingue. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui il premio internazionale iberoamericano Dashiell Hammett e il Deutche Krimi Preis.

domenica 18 febbraio 2018

Preghiere notturne, di Santiago Gamboa, E/O edizioni, trad. Raul Schenardi

  In occasione dell'uscita del suo nuovo libro Ritorno alla buia valle decido di rompere gli indugi e di leggere il mio primo libro del colombiano Santiago Gamboa. Preghiere notturne è la prima parte di una storia più ampia che, se ho ben capito, ha la sua continuazione proprio in Ritorno alla buia valle, quantomeno alcuni personaggi sono gli stessi, nello specifico il Console (che è anche il narratore, una sorta di alter ego di Gamboa) e Juana.  Detto questo, la storia: il Console, colombiano ovviamente, che svolge la sua attività diplomatica a Nuova Delhi, viene contattato dalla Thailandia per seguire il caso di un giovane colombiano, Manuel, arrestato per droga. In Thailandia la Colombia non ha un consolato, dunque il Console parte da Nuova Delhi e giunge a Bangkok. Ma chi è il ragazzo? Prima sorpresa, non è uno dei soliti sbandati, uno sfattone in giro per il mondo, né un narcotrafficante e, apparentemente, neppure un (semplice) corriere (nel gergo: un mulo). Si tratta di un emaciato laureato in filosofia che pare essere rimasto invischiato in un gioco più grande di lui. Quale sia il gioco non è dato saperlo, ma poco importa perchè in certi paesi c'è sempre un gioco più grande nel quale essere presi nel mezzo e finire a ricoprire il ruolo della vittima sacrificale. Il romanzo, polifonico, oltre la voce narrante del Console, che cuce insieme lo sviluppo del plot, ci permette di ascoltare, tra le altre, anche la viva voce di Manuel (le altre saranno quelle di un/a misterioso/a Inter-neta e di Juana) e sarà questa che traccerà una parabola esistenziale, la sua, deprimente oltre ogni possibile immaginazione. Manuel è un bambino ipersensibile, nato in una famiglia della piccola borghesia, con un padre dipendente pubblico e senza spina dorsale che vive di rancori repressi e giornalieri capi chinati, e una madre un tantino troppo acida e consapevole della grigia situazione nella quale è rimasta intrappolata la sua vita; ha una sorella più grande, Juana, ma né lei né i genitori sembrano provare la benché minima empatia (amore o affetto nemmeno per idea) per Manuel. La famiglia è anafettiva, livorosa, ansiosa di poter muovere qualche passo verso un minimo di ascesa sociale, ma immobilizzata dalla paura di perdere quel poco che ha messo insieme. Quando nella storia politica della Colombia si affaccia all'orizzonte la figura di Uribe, candidato alla presidenza, liberista, nazionalista e filostatunitense, la famiglia di Manuel si schiera silenziosamente (nel senso che le idee vengono sbandierate pervicacemente solo all'interno delle rassicuranti quattro mura di casa) al fianco di quello che diverrà il nuovo presidente. Juana, la sorella maggiore che pare non essersi neppure accorta di avere un fratello minore (o comunque finge di non saperlo), in seguito ad un periodo di malattia di Manuel lo guarda negli occhi e decide all'improvviso che la sua vita sarà da quel momento in poi vissuta solo ed esclusivamente in funzione del fratello. Parallelamente, sul piano del presente il console incontra Manuel, magrissimo, enigmatico e dolente, in carcere:

Questo non sarà un noir. Vuole stupirsi? Sarà un romanzo d'amore. Poi le spiegherò perché.
(Manuel al Console) 

  Sul piano del passato, condotti per mano dal racconto di Manuel, ripercorriamo l'incarognimento della sua famiglia, sempre più chiusa nel livore e nel risentimento verso tutto ciò che li spaventa e li costringe a vivere come topi in gabbia, e allo sbocciare in Manuel di una sensibilità artistica che lo porta a divenire uno street artist, o comunque a dipingere su muri pubblici. Juana s'iscrive in una università statale in odore di sinistrorsità e questo basta a farla divenire agli occhi dei genitori una sorta di terrorista fiancheggiatrice delle Farc. Poi, lo snodo di tutta la vicenda, il perno, il motore immobile attorno al quale tutto prende vita e e si sfalda in frantumi: Juana, l'ormai amatissima sorella, scompare. La sua vita, dal momento dell'iscrizione all'università, era stata (sempre più) vissuta fuori dalle mura di casa, e la famiglia aveva finito col rappresentare niente più di una semplice parentesi nella sua vita reale. Le continue liti in casa, soprattutto per motivi politici, avevano spinto Juana a vivere soprattutto fuori, in un mondo di cui, all'interno della sua famiglia, non giungeva che un'eco distorta (un'eco mediatica in un paese in cui i media erano la voce del potere), e forse neppure quella. Se il tratteggio della tipica famiglia piccolo borghese è onestamente un tantino troppo stilizzato, e la conversione sulla via di Damasco da parte di Juana nel suo rapporto verso il fratello risulta totalmente inverosimile, la costruzione del rapporto tra il mondo/tempo della storia e quello all'interno della famiglia di Juana e Manuel è sviluppato con molta attenzione. Ne risalta l'immagine di un luogo chiuso, oscuro, una cucina, un tavolo, un lampadario che scava le silouhette dei membri della famiglia strappandole ad un'oscurità che però non scivola mai via del tutto, un buio che rimane impigliato tra le dita, nelle ciocche dei capelli, un sentore di rancido che non sai associare a nulla e allora lo lasci a vibrare nel vuoto, legandolo all'esistenza stessa di quel nucleo sociale uguale a tanti altri. E, fuori, il rombo idiota della storia che si fa ora per ora, le parole/propagnada della storia che, al momento, è ancora cronaca. Gli slogan: se mi taglio le vene esce Colombia! La nazione che diviene urla e strepito nazionalista e, inevitabile, il ribaltamento della realtà: la violenza è indispensabile per portare la pace sociale, pertanto la violenza, se gestita dal potere, è cosa buona e giusta, la cultura è male, perché insegna il dubbio e non si può dubitare del valore salvifico della violenza, il male si sposta tutto nella stessa zona d'ombra, quella del terrorismo (cioè di chi usa la violenza senza esserne legittimato dal potere), ma da lì poi esonda, e ricopre tutto ciò che può essergli contiguo, o anche no, che non ha nulla a che vedere col terrorismo, ma che comunque in qualche maniera paradossale i media riescono ad accomunare ad esso. Lo sottolineo, perché in fondo questo è il vero argomento del libro: il Conflitto armato colombiano e i meccanismi che lo sostengono, il vivere durante il Conflitto armato colombiano, il respirare Conflitto armato colombiano. 
  Dunque: Juana scompare, Manuel decide di cercarla. E' questo il motivo per cui è a Bangkok. E qui il secondo nucleo misterioso che sostituisce il primo (vale a dire: chi è realmente Manuel) che intanto è stato abilmente svelato: chi è realmente Juana?

  La parte del libro che dà la voce direttamente a Juana, per lungo tempo tra l'altro, e che quindi svela chi sia davvero Juana, e cosa abbia fatto, è quella che dovrebbe più concentrare l'attenzione del lettore ma in fondo si rivela essere quella più debole. Mi spiego: Juana racconta e racconta, è un fiume in piena, inanella periodi, nomi, date, sviscera misteri, illumina zone buie, racconta la sua storia che poco alla volta chiarifica il perché sia scomparsa dalla Colombia e sia riapparsa in Giappone ma, soprattutto, nell'intento dell'autore, racconta il marciume del suo paese, e lo fa dall'interno. La guerra sporca del DAS, le fosse comuni, i civili scomparsi, l'uso sistematico della violenza brutale da parte dell'esercito, la violenza e la cocaina che la sostiene, che pervade l'intero paese come un vento silenzioso che porta con sé la follia generalizzata, e quindi il narcotraffico, l'ombra di Escobar, i collegamenti con la politica, i giochi sporchi, doppi, tripli. In questo senso, è questo il momento nel quale, mentre si legge, ci si rende conto (troppo) che la storia di Manuel è un semplice espediente per raccontare altro, e che anche la storia di Juana ha in sè soltanto il valore che le conferisce il marciume nel quale è sprofondata la Colombia. Ciò che non dovrebbe mai avvenire, se non alla fine, a libro chiuso, qui lo senti come uno schiaffo che ti arriva in faccia: pensavo fosse amore invece era un calesse. Per parlarmi della sua Colombia l'autore mi ha raccontato una storia più o meno inverosimile che non c'incastra nulla, che alla fine, non interessa più di tanto neppure a lui. Ti senti tradito, anche se questo è il tradimento proprio della letteratura, ma il problema è che l'autore se ne è fatto accorgere. Poi, però, succede qualcosa che non ti aspetti (o, almeno, io non mi aspettavo): il plot più strettamente narrativo riprende improvvisamente vigore, la figura di Juana (finalmente) esplode silenziosamente in una tridimensionalità che fino a quel momento le era mancata e misteriosamente assurge a personaggio vero e proprio e non a semplice stampella di una tesi da esporre. Dico misteriosamente non a caso, perché è la sensazione di mistero che aleggia attorno alla sua figura che finalmente prende forma, e che lascia il lettore nel dubbio di chi sia realmente Juana, di chi sia stata e soprattutto di quale sarà il suo futuro. D'un tratto, dopo troppe pagine dedicate al reportage sulla storia recente colombiana, l'intreccio della detection  riprende vigore prepotentemente e lascia il lettore stordito, con sul palato la voglia di assaggiarne ancora, di saperne di più, come se realmente fosse in quel momento, in chiusura di romanzo, che la storia prendesse realmente avvio. 
  Un romanzo a tema, dunque, assemblato come un mistery da best seller (citazioni e scrittura ne fanno eventualmente un best seller di livello comunque superiore alla media), il fascino dell'esotico, le descrizioni di Nuova Delhi e Bangkok che emergono su tutte, con punti deboli evidenti (snodi narrativi improbabili, personaggi un tantino troppo bidimensionali) e, al contrario, passaggi esemplari: si resta con la sensazione (che non so se sia piacevole o meno o, almeno, lo è, ma solo in parte) di un ondivago scivolare dal best seller al romanzo impegnato che, al momento, a mio parere, è un'arte che in Colombia riesce alla perfezione solo a Juan Gabriel Vasquez (citato tra i numerosi altri autori all'interno del libro). 
  Piacevole alla lettura, lascia in bocca sia il sapore amaro di un prodotto non perfettamente riuscito che la voglia di leggerne il seguito, e anche stilisticamente passa da immagini e scene stereotipate che non ti aspetteresti da un autore della fama di Gamboa, a descrizioni riuscitissime che, in poche frasi, fotografano non solo un luogo, ma anche l'aria che in quel luogo si respira e la storia che quell'aria sostiene.


 Santiago Gamboa è nato a Bogotá nel 1965. Tra i suoi romanzi ricordiamo Gli impostori, Ottobre a Pechino, Perdere è una questione di metodo e Vita felice del giovane Esteban. Dello stesso autore le Edizioni E/O hanno pubblicato Morte di un biografo, Preghiere notturne, Una casa a Bogotá e Ritorno alla buia valle.

lunedì 14 novembre 2011

La gamba sinistra di Joe Strummer, di Caryl Férey, e/o edizioni

  A McCash manca l'occhio destro, perso in un pub di Belfast, sfondato dal calcio di un fucile, ma questo è un avvenimento di molti anni prima, quando ancora credeva nell'Ira. Poi è finito in Francia e si è ritrovato a fare il poliziotto. Adesso, nel momento in cui facciamo la sua conoscenza, è steso su un lettino con un dottore che lo rimprovera per non aver mai pulito la sua protesi (l'occhio di vetro), e per non averla mai cambiata. McCash è scosso da dolori lancinanti che gli perforano la cavità oculare e gli strapazzano il cervello, la sua "bestia" personale. Da sotto la benda di cuoio nero gli sgorga liquido giallastro che non lascia intendere nulla di buono. McCash è stanco, rassegna le dimissioni ad un passo dalla pensione, ripensa amaramente alla moglie che lo ha abbandonato (con tutte le ragioni, tra l'altro). E' il classico tipo che, per noia o per destino, le donne le ha perdute. Come ogni noir che si rispetti sta raschiando il fondo dell'esistenza, con le unghie, quello strato putrido di sozzura che si accumula inevitabilmente col passare dei giorni, a voler vivere. Ed è ad un passo da premere il grilletto che spazzerà via ogni cosa, sozzura, esistenza e tutto il restante. Quando apre una busta. All'interno della busta c'è una lettera. La lettera lo mette al corrente di avere una figlia, Alice, una bambina speciale dice la lettera, che aggiunge che la madre della bambina, la scrivente, sta per morire di cancro, lasciando la bambina da sola nel mondo. Aggiunge dove trovarla, e lo prega di prendersene cura. Poco dopo essere giunto in incognito nel paese dove la bambina risiede presso una famiglia temporanea, McCash s'imbate nel cadavere di una bambina di poco più piccola di sua figlia, portata dal fiume, con un passamontagna rosso in testa. Caryl Férey pare sia uno dei nomi di punta del noir francese (polar), anche se qui da noi prima di questo libro è stato tradotto solamente Zulu, per la Mondadori (attualmente disponibile nella collana Piccola Biblioteca Mondadori). Ha vinto tutti i premi francesi dedicati alla letteratura noir. Eppure a me non sembra totalmente un noir, questo La gamba sinistra di Joe Strummer, anche se lo è, ma non a tutti gli effetti. Dopo il ritrovamento del cadavere della bambina ovviamente si innesca il meccanismo dell'indagine che andrà a scavare nelle miserie morali e nei vizi della provincia francese, come da copione. C'è poi anche uno spostamento di scena, in Marocco, secondo la lezione di Jean Christophe Grangé. Eppure non ha nulla del noir alla Derek Raymond, nè tantomeno di quello alla Izzo, come erroneamente rivendicato in ultima di copertina. Nonostante il protagonista sia un duro dal cuore tenero, provato (provatissimo!) dalla vita, sommerso dai rimorsi più che dai ricordi e sempre in cammino su quel terreno che divide la vita dalla non vita, nonostante dissemini la sua strada di morti senza darsi troppa pena, forse proprio perchè la distinzione tra morte e vita per lui non ha più un gran significato, nonostante la bontà umana non la s'intravveda neppure da lontano e il paesaggio sia quasi sempre scuro e piovoso, l'impressione che se ne ha è che non sia un noir. Intendo dire un noir per davvero. Il nucleo del male, non lo si sfiora mai. C'è il vizio, c'è la corruzione, c'è la violenza, ma il vero centro nero dell'esistenza pare non essere mai messo a fuoco. Alla fine, la causa della morte della bambina col passamontagna rosso e di tutte quelle che verrano in seguito a cascata si verificherà essere semplicemente grettezza, non però avulsa da un coacervo di sentimenti addirittura positivi seppur distorti.Il vizio e le perversioni di provincia (uguali identiche ai vizi ed alle perversioni delle metropoli), non sono altro che un'occasione, e non hanno nulla della grandezza del male, sono solo passatempi che aiutano a rimanere vivi, a vincere la noia, ad intessere relazioni di potere o ricattatorie. Il male vero, sarebbe a dire il mare di morti che ne consegue, compreso quella della bambina, è una sorta di danno collaterale non voluto e non previsto da nessuno dei protagonisti. Eppure questo libro è una lettura piacevole (e anche in questo non è un noir che, per sua stessa natura, è disturbante), scritto non in maniera eccelsa ma certamente trascinante, con un'ottima scansione delle scene ed un buon ritmo. Per dire, poi, quanto non sia noir, termina in un finale che potrebbe quasi essere una sorta di happy end.
  Un bel giallo, solido anche quando pare non esserlo, capace di trasciare il lettore nell'oscura provincia francese e nelle sue perversioni, seguendo un protagonista che è bidimnesionale al punto giusto per farci da Virgilio nel suo personale inferno.
  La sua qualità, dicevo, non si trova nella qualità della scrittura, buona ma non eccelsa, nè in altro che riesco ad indentificare, però lascia la voglia di correre a comprare Zulu, l'altro libro di Férey tradotto in italiano, quantomeno per cercare di capire dove risieda il quid che permette all'autore di immergerci nel suo mondo, anche se un po' sgangherato, e a non lasciarci andare fino all'ultima riga.







Carel Férey è nato nel 1967. Si è imposto all'attenzione del pubblico con Haka e Utu, due noir ambientati tra i Maori, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi, e con Zulu, pubblicato in Italia da Mondadori nella collana Strade Blu.

domenica 4 settembre 2011

La ballata di Mila, Matteo Strukul, Edizioni e/o

Ora, questo dovrebbe essere un romanzo pulp (o sugarpulp, secondo la definizione dell'autore) che si addentra e ci illumina sulla realtà criminal-economica del nostro paese; pare che esattamente per questo motivo sia stato scelto (per inaugurare la collana SabotAge) dal curatore della collana Massimo Carlotto, nonchè nome di punta del noir nostrano. Il romanzo è ambientato in quel NordEst tanto caro a Carlotto, e una delle cose migliori che traspare da questa Ballata di Mila è esattamente "l'amore per" e "la conoscenza del" territorio. Grazie alla cura con cui Strukul ce lo descrive, riusciamo a quasi a vederlo e, per la prima volta dopo diverso tempo, ad immaginarcelo differente da quello che balza agli onori delle cronache come una landa medieval-industriale abitata da orde di razzisti medioborghesi incapaci di parlare un italiano corretto e dediti, di solito, ad accumulare soldi e arricchire la cronaca nera nazionale di casi più o meno turpi. Vien voglia di prendere la macchina e visitarli, certi altopiani e certe zone se non proprio descritte comunque accennate: però non è un libro di viaggio, nè un pamplet turistico della regione Veneto. C'è un cinese, tale Guo, che s'è installato nel NordEst per conto di una triade cinese, la 14K, e c'è un tale Rossano Pagnan che è il boss indigeno che gestisce la malavita locale, entrambi ben inseriti nel contesto sociale e politico della zona. Poi c'è Mila, una ragazza piuttosto bella che, deradlock rossi a parte, ricorda molto da vicino la protagonista di Kill Bill, ed è una macchina da guerra alimentata ad odio e vendetta (a giusta ragione, tra l'altro). Senza voler svelare troppo, Mila si inserisce tra le due gang e le mette una contro l'altra, così spiega la quarta di copertina del libro (bella la copertina di Laurenti). In realtà qui cominciano, a mio avviso, le contraddizioni. Cioè, il romanzo si apre con un ammazzamento dei commercialisti di Pagnan da parte della Triade: dunque, deduco che erano già, le due organizzazioni, in guerra tra loro. Quantomeno quella doveva essere con ogni probabilità la prima mossa che avrebbe scatenato comunque il putiferio. La presenza di Mila sulla scena non è spiegabile. Sapeva già della pianificazione dell'omicidio? E come? Dopodichè Mila si mette nel mezzo e prende parte a degli eventi che, ripeto, si ha la netta sensazione che, a logica, si sarebbero verificati ugualmente ed ineluttabilmente. Scorre una quantità di sangue impressionante, senza peraltro che le forze dell'ordine diano segno di vita, come se in realtà tutto ciò avvenisse in una qualche regione selvaggia ed abbandonata all'anarchia del globo terracqueo. Le contraddizioni non sono concluse: ci sono riprese video in soggettiva che vengono viste scaricate su computer comprese delle immagini di chi le ha girate, ci sono monchi che allungano le mani, e avvimenti che non paiono essere proprio ancorati ad una rigida sequenza causa effetto. Un pregio di Strukul è quello di non voler a tutti i costi copiare il suo mentore, Carlotto, e questa per un esordiente è una virtù da non sottovalutare, inoltre riesce a tratti ad utilizzare uno stile che, senza lanciarsi nei personalismi, riesce ad essere parecchio incisivo e, di tanto in tanto, evocativo. Però non sempre. A volte certe frasi lasciano la sensazione di non essere passate attraverso nessun editing (come la questione del monco che porge le mani) e suonano stonate, come certe scene. L'ultima, ad esempio, che più che una conclusione è un aggancio a quella che sarà sicuramente la prossima puntata. E' un romanzo ingenuo, con diverse imperfezioni, nel quale si possono riconoscere i modelli ed i padri, sia cinematografici che letterari, ed è un romanzo che ha come principale difetto il fatto di essere spacciato per quello che non è. Una volta letto non saprete nulla di più della realtà criminale del NordEst (per quello leggete Carlotto) nè di quella italiana o cinese (leggete Genna). Sicuramente è un romanzo che ha la sua forza più sul versante pulp, nonostante tutti i limiti e le ingenuità di cui sopra, ed è un romanzo che si fa leggere con piacere. Solo che, leggendolo, a volte ti trovi ad incazzarti perchè non capisci come certi errori siano sfuggiti prima della pubblicazione. Un po' come un buon film di genere, a basso budget, in cui di tanto in tanto si vede il microfono che ballonzola sul lato superiore dell'inquadratura e che, invece che essere venduto per quello che è, magari un buon noir casereccio, viene spacciato per nouvelle vague italiana. In questo senso trovo totalmente controproducente la tirata di Tim Willocks sul benvenuto a Strukul nella cerchia dei romanzieri folli e via discorrendo, così come gli accostamenti non tanto a Tarantino o Rodriguez (la differenza di medium può mascherare e giustificare certe differenze) quanto a Joe Lansadale (su Victor Gischler non mi sbilancio perchè non l'ho mai letto). Non è Lansdale, nella maniera più assoluta, non adesso, e questo va detto, nel bene e nel male. E' un'altra cosa, Strukul, e sicuramente in futuro sarà qualcosa forse anche di notevole nel suo genere, ma per ora manca la mano sicura (a volte c'è, ma non sempre, e si sente), l'esperienza, e un buon editing. Il punto forte - uno dei punti forti assieme a certe frasi come lampi ed alla descrizione del territorio - è la costruzione del personaggio di Mila. Il suo passato e il suo presente. Il suo look e il suo modo di muoversi e di combattere la rendono una eroina che rimane nella memoria, e se anche i suoi modelli sono piuttosto chiari e facili da rintracciare (Kill Bill, Nikita, Alias, Lisbeth Salander) ciò non toglie nulla alla resa del personaggio che, pur non volendo essere un esempio di neorealismo, rimane un immagine che continua a muoversi nel subconscio del lettore ancora tempo dopo averlo letto. Nonostante tutti i limiti e le contraddizioni sottolineate (comunque comprensibili per un esordiente) ed il fastidio per i paragoni roboanti e - per ora - fuori luogo, rimane un romanzo divertente che si fa leggere volentieri e che lascia presagire un autore interessante per il futuro.



N.B: è interessante notare come certi personaggi borderline femminli, come ad esempio quello di Mila, abbiano avuto modo di venire alla luce solo dopo l'esplosione sulla scena mondiale della Lisbeth Salander di Stieg Larsson.