"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 28 giugno 2015

il padrino di Kathmandu, di John Burdett, Bollati Boringhieri editore (trad. Carlo Prosperi)

L'impressione è che il signor Burdett potrebbe tranquillamente scrivere meglio (non che non scriva bene), ad un livello superiore, autoriale, ma che in fondo non gliene freghi nulla. Forse non è importante. In fondo i suoi libri (quantomeno questi del ciclo del detective Sonchai Jitpleecheep) sono un giro di giostra, divertente, veloce, un'immersione in un mondo di cui riconosciamo le striature di colori sfrecciarci davanti agli occhi, pennellate di un mondo sconosciuto ed esotico, + delitto, + sesso. Un bel cocktail. In quest'indagine Sonchai ha perso il figlioletto Pinchai (nel senso non che si è smarrito, ma che è morto) e la moglie Chanya (non nel senso che è morta, ma che se n'è andata - leggendo vedrete dove - in seguito alla morte di Pinchai) ed è divenuto il consigliere del suo capo, Vikorn, capo della Regia Polizia Thailandese e al contempo narcotrafficante principe dell'intero regno della Thailandia. Sonchai, mezzo thai e mezzo farang (occidentale), figlio di una ex prostituta e attuale tenutaria di un bar-bordello nella zona a luci rosse di Bangkok (Bangkok è per Burdett quello che Barcellona è per Gonzalez-Ledesma), poliziotto e monaco mancato, è come sempre impegnato a scendere a compromessi ora con sè stesso ora con la realtà per mettere in piedi un sistema di contrappesi morali che gli permetta di trovare il suo agognato equilibrio karmico: in fondo è uno dei pochi che considera il karma un impegno vero e proprio e non un mezzo per giustificare il proprio stile di vita. Essere consigliere (ruolo che gli frutta un fuori-busta principesco) di un narcotrafficante non lo aiuta a rimanere in pace con la propria coscienza, specie quando si trova a dover organizzare l'acquisto di un quantitativo pantagruelico di droga in Tibet. Il venditore è un mistico tibetano, Noru Tietsin, il padrino del titolo, che con i proventi dell'affare ha intenzione di invadere nientemeno che la Cina. Il Tibet non è quel paradiso di sacrale afflato religioso che ormai è diventato il suo marchio internazionale di fabbrica (il made in Tibet, diciamo), non solo, quantomeno non lo è secondo le logiche che infestano i cervelli di noi poveri farang. La religiosità è una faccenda complessa in oriente, ricca di sfaccettature, non scevra da violenza, lussuria e sete di vendetta. Ogni cosa al suo posto, ma tutto in movimento. Inoltre a Bangkok viene rinvenuto in un pied a terre (volgarmente detto: scannatoio) il cadavere di un famoso regista hollywoodiano col petto squarciato e la calotta cranica sollevata. In una rincorsa perenne alla pagina successiva ci sfrecciano davanti ex prostitute che si fanno monache, farmaciste cinesi pazze, kongrao, Hong Kong, Katmandu, mistici, sesso tantrico, diamanti rarissimi e diamanti contraffatti, narcotrafficanti, Lek il poliziotto transessuale, eserciti schierati a difesa di militari corrotti, visioni in pieno giorno, poliziotti onesti terrorizzati dalla mafia, film d'essai mai proiettati, cervelli mangiati direttamente nel cranio della vittima, marjuana e su tutto, anzi, al di sotto di ogni cosa, a farne da base e sfondo di riferimento, una spiritualità che per non saper nè leggere nè scrivere comprende ogni aspetto del reale, dallo smercio di droga nelle strade alla prostituzione, fino alla morte incomprensibile di un figlio. Se la volontà di Burdett è quella di costruire l'ennesimo divertissement della serie, allora ha fatto centro, come al solito, ma, come al solito, qualcosa gli è sfuggito. Si ha infatti sempre l'impressione di non leggere (solo) un noir, o un pulp, bensì uno strano oggetto che è qualcosa di più leggero e, in fondo, suo malgrado, più profondo. Per quanto le storie di Burdett amino pescare nel torbido andando in cerca di argomenti abbastanza paraculi da dare quel tocco in più di trash che non guasta mai, in realtà la scrittura e lo svoglimento della storia non si fissano mai sui dettagli più disturbanti e truculenti, pur non ricnunciando a descriverli. E' come se i protagonisti si trovassero sempre a qualche metro di distanza da ciò che capita loro, come se le avventure che vivono non li toccassero realmente fino in fondo. Non si può sostenere come si fa con i romanzi farang: "Niente è come sembra", perchè a volte in oriente è vero l'esatto opposto, piuttosto la questione è che ogni parte della realtà ha in sè molti aspetti, troppi forse, o forse tutti: tutto è in movimento, ogni intero è formato da una serie infinita di sfaccettature (come per i diamanti). E' il karma che si srotola al di sopra delle teste e delle vite dei poveri umani che non possono far altro che prenderne atto e farci i conti. La realtà è terribilmente complicata, per questo "va presa con le pinze" e, in un certo senso, saggiamente tenuta a distanza.
Non spaventatevi se scoprirete che il Tibet (anche questo libro di Hopkirk ne è una prova) non è esattamente quello che vi eravate immaginati, in fondo Kathmandu non è poi così diverso da Bangkok, se guardato con gli occhi di un figlio di puttana mezzo farang, monaco mancato e consigliere di un narcotrafficante.
  


 
 


John Burdett è nato in Gran Bretagna e vive in Asia. Ex avvocato, ha scritto A Personal History of Thirst, The Last Six Million Seconds, Bangkok 8, un romanzo che ha venduto piú di centomila copie negli Stati Uniti ed è stato tradotto in 19 paesi, e Bangkok Tattoo (verrà tradotto, vero?). Bangkok uccide è apparso nelle classifiche americane dei romanzi piú venduti del 2007

sabato 13 giugno 2015

L'eliminazione, di Rithy Panh (con Christophe Bataille), Fetrinelli editore

  Nell'Aprile del 1975 i Khmer Rossi di Pol Pot, alleatisi con il neonato Fronte Nazionale Unito Khmer, prendono il potere in Cambogia. Da quel momento fino al 1979 Rithy Panh, che è un bambino di unidici anni, vive (ma sarebbe più corretto dire che sopravvive) in una parentesi temporale nella quale ogni parvenza di logica e senso viene spazzata via in un sol tratto in nome della società nuova che l'Angkar, l'invisibile governo della nuova Kampuchea Democratica, decide di mettere in atto. Potrebbe essere comunismo, ma non è neppure quello: è follia, pura e semplice. Ed è deportazione di massa, è spoliazione dei beni, è cancellazione di ogni individualità, è fame, tortura, uccisioni, fosse comuni, stupri, esperimenti "scentifici" sui prigionieri, infanticidi. Ed è - diciamo - subito sera. Notte più che altro, la notte della ragione e, citando Goya, il sonno della ragione genera mostri. L'essere umano non esiste più, esiste solo in quanto ingranaggio di un sistema più grande, il sistema dell'Angkar, e gli ingranaggi non hanno sentimenti, non provano dolore, li si può sostituire, gettare, intercambiare. Poi, peggio, da ingranaggio si diventa nemico, nemico del popolo. E infine il popolo diventa nemico di sè stesso, si autocannibalizza, la paranoia prende il sopravvento e dalle menti dei pochi - invisibili - dirigenti si propaga come un virus e, veicolato dal terrore, infetta tutti, vittime e carnefici. Dico vittime e carnefici perchè le categorie sociali sono rimaste quelle due, non c'è modo di essere altro o si tortura e si uccide o ci si nasconde fino a quando non si ci si tradisce, magari perchè si cerca di spulciare il proprio giaciglio di paglia (ed è male, perchè le pulci sono creature dell'Angkar) e si viene torturati, si muore. La rivoluzione svuota le città e inchioda tutta la popolazione nei campi: il futuro dev'essere costruito su due soli classi sociali, operai e contadini, non esistono più medici, ingegneri, insegnanti, tantomeno artisti, o si lavora nei campi o si lavora in fabbrica. Ma la verità è che esistono solo aguzzini e vittime, tutti quanti chiusi in un'unico carcere a cielo aperto. Sarebbe più corretto definirlo inferno, non carcere. Rithy Pahn articola questo libro su due piani, il presente, in cui lui stesso intervista Dutch il boia a capo del S21 (la macchina di morte dei Khmer rossi) uno dei centri in cui si torturava in cerca di una confessione e, a confessione ottenuta, immancabilmente si uccideva, e il passato, dall'arrivo dei Khmer rossi a Phnom Penh, alla deportazione di tutta la popolazione nei campi e, follia dopo follia, mostruosità dopo mostruosità, fino alla caduta del regime e alla fuga di Rithy, ancora bambino, verso la Tailandia. Rithy, regista e documentarista, si pone di fronte a Dutch, al boia, come se fosse uno specchio, cerca in lui una risposta umana alle sue domande, un pentimento che non sia mera prova attoriale, lo incalza, gli mostra foto, immagini delle sue vittime, incrocia dati e testimonianze, domanda, continua indefessamente a domandare e a cercare uno spiraglio di pentimento, ma la follia dell'Angkar rimane ammorsata in Ducth, che ride, manipola, si finge offeso, risponde con gli slogan del regime, poi mente, tenta di portare Rithy ad essere suo complice, almeno morale, dell'intervista, lo vuole far cadere: è l'animale che non vuole morire, che si dibatte, che dà spettacolo e tenta di corrompere il suo pubblico. E' un libro terribile. E' una storia terribile. E' un mondo terribile. E' una specie, la nostra, terribile. La Kampuchea Democratica tornerà ad essere la Cambogia, i sopravvissuti sopravviveranno, più che altro a sè stessi ed ai propri ricordi, la memoria di quel periodo rimarrà uno scrigno quasi troppo doloroso per essere riportato davvero alla luce, per essere aperto in cerca di cosa ci fosse all'interno, ma rimarranno i morti, milioni, uccisi per avere rubato un pugno di riso, per aver sognato anche solo per un attimo di vivere una realtà che non fosse l'incubo che li circondava, o anche senza motivo alcuno, i morti uccisi perchè, prima, erano vivi. I carnefici uccisi perchè non erano stati carnefici abbastanza solerti. I morti per fame. I morti, i morti. Questo potrebbe benissimo essere un libro di fantascienza, una di quelle storie nelle quali un virus che arriva da qualche altro pianeta comincia ad infettare gli esseri umani e a zombizzarli, invece è una testimonianza diretta di uno di quei momenti nella storia in cui l'uomo si lascia abitare dalle sue più nere perversioni e così facendo apre una faglia, uno strappo (una fossa) dalla quale penetra un'altra dimensione, fatta di follia, paranoia, perversione e morte. E' un libro terribile, l'ho già detto, ma è anche un libro che và letto, perchè nonostante tutto parla di noi, in presa diretta, dell'essere umano, del momento in cui nella storia tanti esseri umani decidono di non essere più tali, di diventare un corpo unico, un meccanismo, un insieme di ingranaggi, una macchina di morte.

Rithy Panh nasce nel 1964 a Phnom Penh, in Cambogia. Dal 1975 è prigioniero nei campi di riabilitazione dei khmer rossi. Nel 1979, appena quindicenne, rie­sce a fuggire in Thailandia. L’anno successivo si trasferisce a Parigi. Nel 1985 si iscrive all’Institut des hautes études cinématographiques (Idhec) e firma il suo primo documentario nel 1989, Site II. Da allora Rithy Panh non ha smesso di lavorare contro l’amnesia del suo paese mostrando la tragedia cambogiana e le sue conseguenze – tra il 1975 e il 1978 il regime di Pol Pot ha fatto più di due milioni di morti. Tra i suoi documentari si ricordano S21, La macchina di morte dei Khmer rossi  (Feltrinelli “Real Cinema”, 2007) e The missing Picture, con il quale ha vinto il premio della sezione “Un Certain Regard” al festival di Cannes nel 2013. L’eliminazione (con Christophe Bataille; Feltrinelli, 2014) è stato pubblicato in Francia da Grasset e può essere considerato l’autobiografia di Rithy Panh. Il libro ha ottenuto in Francia il Gran Prix des Lectrices d’Elle, il Grand Prix Joseph Kessel, il Grand Prix sgdl de l’Essai, il Prix Essai France Télévision e il Prix Aujourd’hui, Prix “Livre et droits de l’Homme”. Attualmente è professore a La Femis di Parigi.

domenica 7 giugno 2015

Kassel non invita alla logica, di Enrique Vila-Matas, Feltrinelli editore

  Enrique Vila-Matas, nel 2012, viene invitato a partecipare alla 13°edizione di Documenta, a Kassel, a sedersi in un ristorante cinese ai limiti di un parco e a scrivere quel che gli passa per la testa, questa è in sintesi estrema la trama di Kassel non invita alla logica, che si snoda dal primo enigmatico contatto tra l'autore e gli organizzatori (anzi, le organizzatrici) del mastodontico evento artistico-culturale fino alla "Conferenza senza nessuno" tenuta dall'autore alla Standehaus che sigillerà la sua esperienza nella folle e selvaggia prateria dell'arte d'avanguardia.
  Vila Matas (detto tra parentesi) è un genio, credo, ma anche se non lo fosse comunque fa di tutto per esserlo, e questo libro, questo reportage autobiografico che è sospeso sull'abisso che divide (o unisce, vedete voi) la narrativa dalla saggistica, lo si può leggere come un diario interiore o, per meglio dire, mentale, spesso cervellotico - e forse, appunto, geniale -, erudito ma non troppo, dell'autore di fronte all'improvviso pararglisi di fronte del - nientemeno! - nucleo stesso dell'arte d'avanguardia (sempre che si possa anche solo postulare l'esistenza di un nucleo, riferito a qualsiasi avanguardia, in qualsiasi ambito artistico, cosa che non credo possibile: le avanguardie sono sbilanciate per loro stessa initma natura, in avanti, sul futuro, non possono permettersi un centro d'equilibrio). Ma poi è, questo Kassel non invita alla logica, anche altre cose: un requiem, una funzione funebre per un'Europa che, senza saperlo, è morta e che per rinascere deve trovare la forza di presenziare al proprio funerale (celebrato tra l'altro da una inintellegibile orda di cinesi), di prendere atto della propria natura cadaverica, ed è la storia di un uomo e delle sue fobie ed ossessioni, il viaggio di un intellettuale, di uno scrittore apolide in terra straniera (è un ossimoro, ma leggendo il libro si può capire che al contempo non lo è), è un reportage su Documenta, l'importante kermesse quinquennale d'arte d'avanguardia che si tiene a Kassel, in Germania, nell'alta Assia, ma è anche un esperimento, un libro di letteratura che ha come oggetto l'arte d'avanguardia stessa e come soggetto (e punto di vista, e io narrante) uno scrittore, anch'esso d'avanguardia. E' un respiro fondo, vivo e sconcertato dell'autore di fronte ad un Mondo Nuovo, a volte sfiorato ma mai, realmente, vissuto. Soprattutto, credo, si tratta di un libro sulle domande che nascono quando la logica si trova di fronte ad incarnazioni di un'altra logica (o di altre logiche): cos'è l'arte, cos'è la vita, in che rapporto stanno, e via discorrendo. Ma, seppur a volte i contorcimenti cervellotici di Vila-Matas sforino nella ridondanza, le domande di cui sopra, per quanto trite e ritrite, se non addirittura ataviche, in questo libro suonano più lievi, meno banali, forse perchè non ricevono una risposta, La Risposta, e neppure un silenzio sconosolato: le risposte che il libro fornisce sono molte, forse pure troppe, e si sussegguono a seconda dell'opera che l'autore si trova di fronte (o attorno, diciamo "dell'opera che l'autore si trova a vivere") e a seconda del suo umore, lieve e gioioso la mattina e cupo e pessimista la sera. Esiste una speranza o, come l'Europa, l'arte è semplicemente morta? Cos'è l'avanguardia se non follia, e la follia cos'è se non vita, e la vita, quella del protagonista almeno, cos'è se non un continuo pencolare tra la crisi e la rinascita, tra la paura e la gioia, tra l'oscurità della notte e la luce del giorno?

La possibilità che mi annoiassi, pensai, non doveva assolutamente preoccuparmi visto che se volevo tenermi ben occupato per tutta la notte era sufficente che mi domandassi, per esempio, a che genere di cose si dedicava Dio prima di creare il mondo. (pag.210)

Quello era stato sicuramente il mio errore più grande del giorno: non essere convinto che il profumo di Eva Braun potesse avere a che fare con l'arte d'avanguardia.  (pag.73)

Vedevo che il mondo mi scivolava tra le mani e mi accorgevo che era sgradevole trattenerlo per più tempo con me, volevo scagliarlo in una qualsiasi discarica spaziale, o forse in un Euro-Sexy-Shop, o in una macelleria della Selva Nera, o in un negozio di tappeti a El Paso, o in una lavanderia di Melbourne. Non sapevo cosa farmene del mondo. (pag. 137)

  Forse tutto il libro è un unico, lungo McGuffin, o forse lo è Documenta, o magari lo stesso Vila-Matas, nel libro, è un McGuffin. L'importante resta comunque il viaggio, l'occhio dell'autore di fronte ad uno spaesamento continuo, perenne (e voluto, cercato, braccato), l'essenziale è la sospensione del testo tra fiction e non-fitction, tra realtà e rivisitazione fantasticata, è l'ironia che lo permea, il mettersi a nudo dell'autore catalano, il condurci in una paese delle meraviglie in cui il Bianconiglio è la quintessenza della normalità e in cui tutto ciò che sembra non è ma necessita di una spiegazione. La rinascita dopo la caduta è la ricerca di questa spiegazione, ma in fondo non si può essere più chiari (cioè non lo si può essere affatto) perchè Kassel non invita alla logica in effetti non invita affatto alla logica. Detto questo, Vila-Matas va comunque letto, anche solo per detestarlo, anche solo per il semplice e banale dato di fatto che lui, anche se non lo fosse, un genio si sforza realmente di esserlo: e in tempi di mediocrità elevata a modus vivendi come quelli che ci troviamo a vivere, questo sì è d'avanguardia. Se poi sia arte o meno, è un altro paio di maniche.



   Enrique Vila-Matas (Barcellona, 1948), considerato uno dei maggiori scrittori spagnoli contemporanei (diversi critici letterari lo hanno indicato come il maggiore scrittore spagnolo vivente) , è tradotto in tutto il mondo e ha ricevuto prestigiosi premi letterari. Appassionato delle opere di James Joyce e del suo Ulisse in particolare, ha contribuito a fondare a Dublino l'Order of Finnegans, al quale partecipa piuttosto di frequente tutti gli anni, di solito in occasione del Bloomsday il 16 giugno. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Bartleby e compagnia (2002), Il mal di Montano (2005), Dottor Pasavento (2008), Storia abbreviata della letteratura portatile (2010) e Un’aria da Dylan (2012).            

   Qui potete trovare la pagina del sito di Vila-Matas in cui c'è il link a questa recensione (e altre ancora)