"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 22 maggio 2014

Quitaly, di Quit the Doner, Indiana Editore

 Normalmente su questo blog vengono postate recensioni di narrativa; quel poco di saggistica che è apparso era legato a scrittori e/o artisti (sostanzialmente, se non ricordo male, si trattava di biografie o libri intervista). Poi ho letto questo Quitaly, e in questo caso faccio (volentieri) un'eccezione, per due motivi. Il primo: mi è piaciuto davvero tanto, e spero che più gente possibile abbia l'opportunità di leggerlo. Secondo: non sono così convinto che non si tratti di letteratura. Sicuramente siamo di fronte ad un'ottima scrittura, nonchè ad un ottimo uso della scrittura. Se devo mettere insieme un pugno di riferimenti cui accostare questo libro, mi vengono in mente: il giornalismo letterario latinoamericano, Hunter Thompson e i reportage di David Foster Wallace. Giusto per rendere l'idea. Che si tratti di feste vip romane, di quartieri rossi a Bologna, di fiere off del design, del Lucca comics, dell'ultimo raduno degli irriducibili fan di Berlusconi, della discesa degli alpini a Piacenza, dell'analisi del fenomeno settario del grillismo o di altro, Quit the Doner riesce in un miracolo che è di pochi: unisce un'analisi approfondita (non seria, o non fintamente profonda, non aforistica, o facilmente tagliente ma vuota) e documentata con un'ironia e, soprattutto, un'autoironia che sulla pagina scritta non è esattemente facilissimo riportare. In più mette insieme un po' di autofiction (che come tale è sempre presunta, ma nel suo caso, a sensazione, mi pare quasi sempre reale) e un pizzico di giornalismo gonzo. Rispetto al padre del Gonzo Journalism, il leggendario Hunter Thompson, la parte goliardica ed estrema è molto ridimensionata, quasi un vezzo, un modo per strizzare l'occhio al lettore e cercarne la complicità, ma la parte di analisi del fenomeno oggetto d'analisi è, al contrario di Thompson, molto più approfondita o, per meglio dire, pare esserlo in maniera più tecnica, come se l'autore non si affidasse solo al suo istinto ed alla sua intelligenza critica (come Thompson appunto) ma sapesse sempre di cosa parla. Nel senso: come se fosse sempre addentro all'argomento trattato. E questo è dovuto sicuramente all'esperienza sul campo, ad un serio lavoro di documentazione, all'intelligenza ed all'istinto di cui sopra, ma anche, a parer mio, ad una base di conoscenze delle scienze sociali di stampo quantomeno universitario (psicologia? filosofia? sociologia?). L'impressione è di cominciare a leggere il diario di un simpatico cazzeggiatore (e forse anche un po' cazzaro, verrebbe da pensare) per poi ritrovarsi nel bel mezzo di un trattato di sociologia o di dinamiche psicologiche di massa o di qualcosa di molto simile, per poi scoprirsi - mentre ci si riscopre a ripetersi in testa: "E' proprio quello che ho sempre pensato io, allora non sono solo! Certo però lui le dice meglio..." - a ridere per un'iperbole, una battuta, un giro di parole che, miracolo, non hanno nulla di forzato, ma sembrano realmente pronunciate nel mezzo di un discorso tra amici la sera davanti ad un bicchiere di qualcosa che può andare dal chinotto al whisky.
  Quindi, a Foster Wallace, al Giornalismo Letterario Latinoamericano e ad Hunter Thompson, aggiungo un altro riferimento: Woody Allen.
  Nell'ultimo non-pezzo giornalistico (nell'ultimo racconto insomma, ma che è anche l'unico, e che fa da cappello a tutto il resto e in una certa misura ne illustra la filosofia, o almeno una parte di essa) l'autore gioca sull'accostamento che evidentemente molti hanno fatto con Foster Wallace. Alla fine sembra di capire che lo consideri un autore terribilmente sopravvalutato e quindi ne prenda le distanze. Non so se lo sia, sopravvalutato, Foster Wallace, sicuramente è pretenzioso e complicato, ama gli orpelli e i bizantinismi, ed è cervellotico all'inverosimile però, tralasciando il giudizio sulla narrativa, è un saggista-reporter insuperabile, e in questo, piaccia o meno all'autore, Quit the Doner è indubbiamente molto simile all'americano, sopravvalutato o meno che sia.
  Un'ultima annotazione: la copertina. Se piace Gipi (e a che non piace Gipi, adesso?), ovviamente vi piacerà anche la copertina, ma non è solo questo. Cattura perfettamente una delle caratteristiche della scrittura di Quit the Doner: se da una parte entra e vive i suoi reportage, dall'altra riesce al contempo a mantenere uno sguardo aereo, superiore, dell'occhio esterno che fissa dentro un'acquario e lo studia: uno sguardo un po' alla Kurt Vonnegut.
  Dicevo, forse non è letteratura, ma comunque non ne sono sicuro. Ma avevo una voglia matta di consigliarlo.

Un appunto all'editore: oltre ai complimenti per aver pubblicato un autore di sicuro valore, un'attenzione maggiore ai refusi (non so perchè ma mi pare soprattutto negli ultimi pezzi) renderebbe più piacevole la lettura (che già di per sè lo è.

 Quit the Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: << Non c'è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del Nord Italia >>. Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorius B.I.G. Stufo del successo e delle grupie, inscena la sua morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra << Gattini virali via internet >> al Collége de France. Attualmente vive tra Londra e Instanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per Linkiesta, scrive a cottimo per Vice. Il suo sito è Quitthedoner.com.
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf
Quit The Doner (1982) nasce in una laboriosa cittadina del nord Italia famosa per il suo motto: «Non c’è un cazzo da ridere, questa è una laboriosa cittadina del nord Italia». Si trasferisce giovanissimo a New York dove diventa famoso con lo pseudonimo di Notorious B.I.G. Stufo del successo e delle groupie, inscena la propria morte e si trasferisce a Parigi, dove assume la cattedra di «Gattini virali su internet» al Collège de France. Attualmente vive tra Londra e Istanbul, quindi a Bologna. Inviato e analista per «Linkiesta», scrive anche a cottimo per «Vice». - See more at: http://www.indianaeditore.com/collane/quitaly/#sthash.uHctRfue.dpuf

mercoledì 14 maggio 2014

Le battaglie nel deserto, di José Emilio Pacheco, La Nuova Frontiera edizioni

  Pacheco ha una qualità rarissima in uno scrittore, quasi prodigiosa: riesce ad amalgamare nella sua scrittura due caratteristiche che normalmente stanno tra loro agli antipodi: realismo e fantastico. Ha uno stile leggero e preciso che è talmente lieve da non sembrare neppure elegante, pur essendolo. Questo Le battaglie nel deserto è un romanzo breve (o, come sempre si precisa in questi casi, un racconto lungo) e mai come in questo caso è corretta la definizione di gemma, o gioiello o chiamatelo come diavolo vi pare, ma questo libro è relamente un breve (non piccolo) capolavoro. Comincia come un libro di memorie, ("Mi ricordo, non mi ricordo: che anno era? C'erano già i supermercati ma non la televisione, solo la radio;..") con la levità che è propria di Pacheco e che, però, non sfuma nel racconto trasognato, ma rimane ben ancorato al senso della realtà: seguiamo un lungo elenco di programmi televisivi, personaggi e prodotti (""Le avventure di Carlos Lacroix, Tarzan, Il cavaliere solitario, La legione dei Nottambuli, I ragazzini saputelli, Leggende delle strade di Città del Messico, Panseco, Il dottor I. Q., La dottoressa Corazòn dalla sua Clinica delle Anime, ecc.), poi lo zoom scende a mostrarci Carlos e la sua famiglia, e subito si ampia nuovamente l'orizzonte e veniamo messi a conoscenza della situazione politica del paese, del presidente (Miguel Alemàn) e infine la storia comincia a ruotare con insistenza attorno a Carlos, alla sua famiglia ed alla scuola. Scuola e compagni di classe. Scuola e battaglie nel deserto (i giochi "bellici" della ricreazione nel cortile interno): arabi contro israeliani. Le piccole grandi cattiverie tra i compagni (il branco) e i pochi diversi presi a capri espiatori delle frustrazioni proprie di quell'età in bilico tra infanzia ed adolescenza che le disugugaglianze sociali e l'humus colturale non facevano altro che favorire. Passiamo in rassegna alcuni compagni di Carlos, chi vittima chi carnefice, ognuno portatore di un tipo sociale particolare, l'indio, l'immigrato, il povero, il ricco: attraverso i compagni di classe vediamo il Messico di quegli anni. Così come vediamo attraverso la famiglia un'altra parte della storia del paese dell'epoca: i cristeros e i movimenti che li hanno seguiti, l'eco delle rivoluzioni e controrivoluzioni che hanno caratterizzato la storia del neonato Messico, la corruzione mascherata ipocritamente da "buona politica", la prima classe dirigente di laureati, l'assorbimento "per moda" della cultura e dei prodotti yankees, il mercato locale soffocato dall'espansione di quello nordamericano e via discorrendo. La famiglia tipica messicana: padre assente perso nei suoi progetti destinati al fallimento, la madre bigotta, casa e chiesa, quattro figli sul perenne baratro di qualcosa che non è mai ben chiaro (come non lo è, effettivamente, mai, in qualsiasi epoca, per qualsiasi generazione) cosa sia, se una guerra, la perdizione, la delinquenza, un fidanzato alcolizzato, gli Usa o, semplicemente, il futuro. Poi, a seguire un precedente amico, arriva Jim. Con Jim, e le sue storie sul padre assente, sempre in viaggio a servizio del paese al fianco del presidente, entra nella vita di Carlos Mariana, la madre di Jim. Un pomeriggio a casa di Jim, e all'improvviso esplode qualcosa nella testa, nel cuore e/o nelle vene di Carlos. Il primo innamoramento. Un amore puro, innocente, che ancora non sà di sesso nè di altro. Solo quel nome che gli rimbomba in testa, Mariana. Quella voglia insopprimibile fino a diventare necessità vera e propria di vederla, Mariana. Fino a scappare da scuola per andare da lei e confessarle tutto. E poi, il capitombolo: la realtà esterna che entra in collisione con i suoi sentimenti. La società che si ribella, lo condanna, cerca parole e modi per definirlo, per dare un nome a quel morbo che deve aver infettato Carlos: o è opera del demonio (versione della madre bigotta, sostenitrice a suo tempo dei cristeros) o della malattia mentale (versione del padre, più pragmatico, se così vogliamo intenderlo, ma comunque incapace di comprendere la semplice realtà). Carlos si troverà sballottato da una versione all'altra, come un pacco che nessuno vuole davvero aprire per scoprire cosa contenga, guarderà il mondo che lo circonda e si prepara a riceverlo, con occhi allucinati, impossibilitato a comprendere il perchè di tutto quel caos, le confessioni, gli psicologi, le condanne morali, il cambio di scuola. Accade di tutto, ma sempre, ai suoi occhi, senza un vero perchè. Ma l'unico vero peccato non è forse l'odio, si domanda, e lui, in quel momento, non sta forse amando un'altra persona? Dov'è il male? Dove sta il problema? Come sempre in Pacheco, la soluzione scivola nell'incomprensibile. In 82 pagine Pacheco disseziona un'intera società e un'epoca, senza tralasciare morale comune, politica e religiosa, raccontando una storia semplice ai limiti del banale, ma che banale non suona mai, che scivola inevitabilmente nella tragedia, ma senza mai assumere i toni cupi che ci si potrebbe aspettare. Nel contempo non ci troviamo di fronte ad un favola tipo Yuri Herrera (per fortuna!). Pacheco è Pacheco, è altro. Uno scrittore di enorme valore, un grande autore della ricchissima letteratura latinoamericana che meriterebbe (e qui mi ripeto rispetto alla precedente recensione su questo blog de Il Vento distante) la traduzione completa della sua opera o, per essere più precisi, lo meriteremmo noi lettori.

José Emilio Pacheco (1939-2014) è stato un poeta, saggista e narratore messicano tra i più noti e amati. Ha pubblicato circa trenta libri di poesia, e selezionatissime opere di narrativa, che gli hanno valso i maggiori riconoscimenti letterari, fra cui il premio Cervantes nel 2009.
  In Italia è uscito Il vento distante, presso Sur Editore editore, La poesia nella speranza, presso Bulzoni

lunedì 12 maggio 2014

La vita umana sul pianeta terra, di Giuseppe Genna, Mondadori editore


  A vederlo, nella foto in copertina sono sicuro che la maggior parte dei lettori non è in grado di riconoscerlo. Io, in libreria, non l'ho riconosciuto. Ho visto il libro, registrato involontariamente il volto anonimo in un bianco e nero sgranato e sono passato oltre. Solo in un secondo momento mi sono reso conto del nome dell'autore, Genna, uno dei miei favoriti, ed è stato allora che mi sono soffermato a leggere la quarta di copertina e ho dato un nome a quel volto, banale, a grana grossa. A quasi settant'anni dalla morte, il volto di Hitler lo riconoscono tutti, anche i bambini, Anders Behring Breivik, dopo aver ucciso a sangue freddo, guardandoli in faccia, 69 ragazzi tra i 14 ed i 20 anni, sull'isola di Utoya, e aver causato la morte di altre 8 persone nell'esplosione di un'autobomba nei pressi dei palazzi del governo, in centro, ad Oslo, il 22 di Luglio del 2011, è come se fosse evaporato dall'immaginario collettivo, di più, come se fosse svanito a sè stesso, agli occhi del mondo, dalla coscienza stessa che il mondo porta con sè. Eppure ha causato 77 morti in un solo giorno, ha pianificato negli anni l'azione, ha studiato le modalità degli attentati di Al Qaeda e ne ha riprodotto le tecniche e le strategie, ha raccimolato, perso e nuovamente messo insieme una quantità ingente di denaro per procurarsi armi ed esplosivi, è entrato in contatto con nazisti deliranti in tutto il mondo, ha scritto un memoriale di oltre 1500 pagine per lasciare traccia del suo (non) pensiero. Era certo di morire nell'attentato, portando a compimento quella che si era scelto come missione, non credeva di sopravvivere per raccontarlo. Sapeva che l'avrebbero ammazzato, ma così non è stato. Ora, il suo stesso esserci ancora, non è altro che semplice testimonianza di sè stesso, di quel 22 Luglio e di tutto il resto dei suoi giorni che non contano nulla. Ma proprio il sopravvivere a sè stesso ci consegna quello che Genna (trinità del noir internazionale: Ellroy, Peace, e Genna appunto) riconosce (quasi per istinto più che per deduzione razionale) come un enorme vuoto, un male che s'incarna nell'assenza di altro (come Hitler, appunto: l'Hitler di Genna, una non persona, un vuoto, e così Breivik, una non persona). Non esistono nella biografia di Breivik episodi che originino la sua follia, soltanto casi nei quali si è potuto intravvedere la sua mancanza di "essere". Il male, ci dice Genna, il male con la maiuscola, Il Male, quello che il cristianesimo incarna nel demonio, in realtà non è altro che vuoto, assenza, uno spazio bianco dove l'esistenza non riesce ad incidere il proprio passaggio. Un vuoto che ha qualcosa di siderale, che rimanda agli scorci (ampli) del racconto di fantascienza che contrappuntava il Dies Irae, un male che non è solo terrestre, che giunge da lontano, ma non come virus caduto sulla terra da altri mondi, è un male che, in quanto vuoto, racchiude sè stesso in un abbraccio che forse non perdona, ma tutto comprende e tutto divora, e digerisce. L'autofiction caratteristica di molti lavori di Genna qui funge da stampella, un po' è racconto di Genna stesso che si inocula nel vortice nero della vicenda Breivik, lo studia, a distanza, lo segue, lo "annusa" fino a sfociare in un viaggio in una Norvegia che è un'oltretomba gelida  più che un paese vero e proprio, e un po' funge da sguardo radente sulle miserie umane, sui corpi in disfacimento, sugli squarci di realtà putrefatta dove si aggirano i relitti tanto della società quanto del genere umano. I delitti del Kebab, in Germania, i tossici nelle periferie milanesi, tutte italiane, i componenti sinistri ed allucinati di una internazionale nera che non ha bisogno di altri riconoscimenti se non i gangli digitali che connettono, comunicano, creano un network che è un enorme cervello, un contenitore "pieno di vuoto", un "non contenitore", un acquario muto dove galleggia anche Andres Behring Breivik, che il 22 Luglio 2011 deve assumere droghe per vincere la paura, che ha bisogno della musica nelle orecchie, sparata nelle cuffie, per non sentire il silenzio esploso che si ritrova non per forza in testa, ma da qualche parte dentro di sè. Genna compone un romanzo che non è una detection, e non è, in questo senso, un romanzo d'inchiesta, e forse ha anche poco di autofiction (ma è una sensazione, questa, e pertanto prendetela come tale), forse si tratta di una riflessione sul Male portata avanti "a la Genna". Sicuramente, per quanto la scrittura di Genna sia totalmente letteraria, si tratta di uno sguardo, un occhio che ci osserva dal gelo dell'universo, dal suolo di Marte e più in là, al largo dei bastioni di Orione, oltre le porte di Tannahuser, forse è l'occhio rosso e disperatamente inumano di Hal 9000 che, inespressivo, morto, bovino quanto quello di Breivik, tutto vede e tutto ingloba, tutto abbraccia.

  Qui di seguito, stralci del brano Il mondo visto dallo spazio, dei Delta V che, ovviamente non ha nulla a che vedere con La vita umana sul pianeta Terra, ma che rende l'idea, credo, di quel senso metafisico indecifrabile che sempre sottende i libri di Genna:


                                 ... il mondo visto dallo spazio e' solo un'illusione / un punto poco fermo in preda alla sua rotazione / e' il sogno di un illuso che non si e' piu' risvegliato / e noi fantasmi non crediamo che al nostro passato / ... qui non rimane piu' niente da chiedere, non sento / piu' quelle frasi che devo risolvere / la vita vista dallo spazio perde ogni ragione / e' il pianto di un bambino solo senza protezione / e' scudo alzato a riparare i colpi del destino ...

* (aggiungo QUI il link alla pagina del sito di Giuseppe Genna, dove abbiamo avuto l'onore di essere ospitati. Inoltre, in fondo al post, il commento dell'autore a questa recensione: è superfluo sottolineare che ricevere l'attenzione e i complimenti dell'autore del libro recensito è sempre una sensazione più che vagamente inebriante. Se poi, lo scrittore in questione è uno dei tuoi favoriti e si chiama Giuseppe Genna, allora si rischia l'infarto o, in alternativa, di montarsi la testa. Sperando di evitare entrambi i rischi, ringrazio calorosamente Giuseppe Genna per l'attenzione che ha posto verso questo blog. Speriamo vivamente di averlo ancora tra i nostri visitatori.)



Giuseppe Genna è nato il giorno, l'ora e il minuto dell'esplosione della bomba a Piazza Fontana. Giuseppe, il primo nome, e Carlo, il secondo, gli sono stati assegnati in onore di Stalin e Marx. Ha trascorso l'adolescenza in una sezione di zona del Pci, e la prima giovinezza in compagnia della destra radicale. E' stato redattore della rivista "Poesia", ha lavorato a Montecitorio nel '95 studiando gli atti della Commissione P2, ed ha creato e diretto il sito dei libri Mondadori.
l suo sito è Giugenna
Ha pubblicato : Catrame (serie noir, Arnoldo Mondadori Editore, 1999), Nel nome di Ishmael (Mondadori, 2001, finalista al Prix Méditerranée svoltosi in Francia), Assalto a un tempo devastato e vile (peQuod, 2001; ristampato da Mondadori nel 2002 e in versione estesa da Minimum Fax nel 2010), Forget domani. Racconti dell'italian lounge (Pequod, 2002, in collaborazione con Igino Domanin), Non toccare la pelle del drago (Mondadori, 2003), I Demoni (Pequod, 2003, in collaborazione con Michele Monina e Ferruccio Parazzoli), Grande Madre Rossa (Mondadori, 2004), Il caso Battisti (con Valerio Evangelisti e Wu Ming 1, Nda 2004), L'anno luce (Marco Tropea, 2005), Costantino e l'impero (Marco Tropea, 2005, in collaborazione con Michele Monina), Dies Irae (Rizzoli, 2006), Medium (online, 2007), Hitler (Mondadori, 2008), Italia De Profundis (minimum fax, 2008), Le teste (Strade Blu, Arnoldo Mondadori Editore, 2009), Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari (duepunti, 2010), Fine Impero (minimum fax, 2013)
  E' fiero di annoverare come amici più cari disoccupati, ex terroristi, anziani ed etilisti

giovedì 8 maggio 2014

La divina, di Sergio Pitol, Sur editore

  La "divina" è Marietta Karapetiz, intellettuale e antropologa, erede del lascito culturale del defunto marito, a sua volta antropologo di culto di fama mondiale. "Divina" in un senso che difficilmente può essere colto in tutto il suo significato se non una volta giunti alla fine (scatologica) del libro. La Karapetiz, donna affascinante, dal carattere indubitabilmente turbato, di nazionalità incerta, ex massaggiatrice, che intrattiene un rapporto al limite dell'incestuoso col fratello Sasha, è l'incarnazione del dionisiaco nel reale (nel reale letterario, ovviamente, e nel reale letterario di questo libro in particolare, ancora più ovviamente): è l'incarnazione della mente quando, al massimo del suo sforzo di comprensione della natura umana, scivola nel delirio degli istinti, dei sensi e delle aberrazioni da cui inevitabilmente questi sono accompagnati. Dioniso appunto. Il lato oscuro dell'afflato verso il divino. La trascendenza che porta all'abbattimento di ogni regola e tabù. Dante C. de la Estrella è il narratore di tutta quanta la storia (anche se, come specificherò dopo, è da subito incasellato dallo scrittore nel ruolo evidente - ed evidenziato dall'autore - di personaggio, anzi, a dirla tutta, di personaggio che altro non è che la maschera di una persona reale, conosciuta dallo scrittore stesso): si trova in casa della famiglia Millares quando all'esterno si scatena un temporale che non gli permette di andarsene, e a quel punto un istinto insopprimibile quanto bislacco (quando non involontariamente comico e patetico) lo possiede e lo porta a raccontare un episodio chiave della sua giovinezza: un viaggio ad Instanbul. Viaggia come ospite di un amico e della di lui sorella (una sorta di ebete, almeno agli occhi del narratore) alla volta della capitale turca per incontrare appunto Marietta Karapetiz, figura idealizzata nei racconti dell'amico allo strenuo di una vera e propria guru dell'antropolgia, nonchè una donna dal fascino inesausto e selvatico. Tutto il libro è la ricostruzione, filtrata dal ricordo e dalla ferita che quell'episodio ha inscritto nella psiche e nella vita di Dante C. de la Estrella. In pratica, l'umano che incontra il dionisiaco o, per essere più precisi, la tipologia dell'essere umano medio (volgare, egoista, tirchio, rozzo, grossolano, ma che vede sè stesso come il suo esatto contrario, ossia un esempio di virtù assortite) con il dionisiaco appunto: la sottigliezza d'intelletto, la cultura, la follia, l'imprevidebilità, la mancanza di freni e via discorrendo. Ma Dante C. dela Estrella altri non è se non Pepe il rozzo (Josè Rosas) vecchio compagno di università dello scrittore (presumibilmente Pitol stesso) , persona dalla grigia banalità ma che, nella sua passione che sfocia nell'idolatria nei confronti di Dante Alighieri e della sua opera, vede riflesso sè stesso come in uno specchio piacevolmente deformante. Nel primo capitolo Pitol si lancia in una meta narrazione in cui narra di uno scrittore che decide a mente fredda di cosa tratterà il suo prossimo libro e quali personaggi lo abiteranno. Tre saranno i capisaldi nonchè le linee narrative del libro dello scrittore: il tema della festa (in senso dionisiaco ed antropologico) incarnato nel personaggio di Marietta Karapetiz, l'idolatria letteraria che nel libro vedrà Gogol sostituire Dante Alighieri e la tipologia umana di cui sopra, perfettamente inscritta nei panni di Dante C. de la Estrella, clone di Josè Rosas, alias Pepe il rozzo. Chiuso il primo capitolo, comincia il libro che lo scrittore ha appena pianificato sotto i nostri occhi. In effetti, strutturalmente non si può definire un libro nè semplice nè tantomeno lineare, e la narrazione che prende il via dal secondo capitolo (il libro dello scrittore) complica vieppiù le cose. Abbiamo un narratore terzo (lo scrittore, forse sovrapponibile a Pitol) che racconta di Dante C. de la Estrella a casa dei Millares che, a sua volta, racconta del suo viaggio ad Instabul. All'interno del racconto del viaggio, di volta in volta, i vari personaggi parlano in prima persona (divenendo a loro volta narratori) all'interno dei ricordi in terza persona di Dante C. de la Estrella. Riassumiamo il tutto: ci troviamo di fronte almeno a tre livelli di narratori: il primo, lo scrittore, il secondo, Dante C. de la Estrella, il terzo, i suoi compagni di viaggio, Rodrigo e Ramona Vives, Marietta Karapetiz, il fratello Sasha ecc. I piani sono dinque tre, a meno che non si voglia considerare che scrittore ed autore non siano sovrapponibili ma siano due narratori distinti, ed a questo punto, i piani diventano quattro, strutturati come segue: un primo capitolo "didattico-metanarrativo" in cui lo scrittore ( il presunto Pitol, ma che potrebbe non essere Pitol) ci spiega il senso di quanto seguirà, la narrazione successiva (il libro dello scrittore) che vede un narratore terzo (lo scrittore appunto) che fa parlare in prima persona il narratore in seconda (Dante C de la Estrella) all'interno del cui racconto i personaggi parlano a loro volta in prima persona. Un discreto casino. Io so che tu sai che lui sa. Anzi, io dico che lui dice che quell'altro ha detto. Una cosa del genere. L'impressione personale di chi recensisce è che il primo capitolo sia stato scritto per ultimo, al fine di fungere da bussola in un dedalo che è, anche se non soprattutto, un fine esercizio di stile e una dimostrazione di perfetta gestione delle strutture narrative. Il materiale narrativo è, nelle mani di Pitol, una matassa esplosiva di storie e intrecci, balbettii e passaggi di parola da un personaggio all'altro, e la maestria dell'autore sta proprio nella capacità di saper domare fino all'ultimo la materia che pare, da un momento all'altro, sfuggirgli dal controllo e deflagrare in una cazzata tremenda. Un magnifico esercizio di stile e di polso saldo che però sfocia, di tanto in tanto, nella noia e soprattutto nella prolissità che è il limite più grave del romanzo, perchè è proprio nella prolissità che si scorge la fatica di Pitol nel gestire il suo intreccio e la volontà logorroica del suo protagonista. Si ha un po' l'impressione di essere spettatori a naso in sù di un acrobata che cammina su un filo sospeso a diversi metri da terra: la tensione in noi spettatori rimane viva fino a quando non ci si rende conto che la lentezza dei movimenti dell'artista gli permetterà sicuramente di portare a termine la sua camminata. A quel punto, soltanto una caduta, potrebbe svegliarci dall'ipnotico torpore dello spettacolo cui stiamo assistendo. Eppure è spettacolo.

Sergio Pitol (1933) è uno dei principali scrittori messicani viventi. Sin dagli inizi ha affiancato all'attività letteraria la carriera diplomatica e l'attività di traduttore (Austen, Vittorini e Conrad tra gli altri). Dal suo esordio nel 1959 ha pubblicato venticinque opere di narrativa. In Italia sono stati tradotti: La vita coniugale e Il valzer di Mefisto, entrambi per Sellerio