"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

sabato 7 gennaio 2017

E' morto lo scrittore argentino Ricardo Piglia

Venerdì 6 gennaio, è morto all'età di 75 anni il grande scrittore argentino Ricardo Piglia (Adrogué, 24 Novembre 1941 - Buenos Aires, 6 Gennaio 2017), l'autore de: L'ultimo lettore (Feltrinelli, 2007), Soldi bruciati (Feltrinelli, 2008), La pazza e il racconto del crimine (racconto) e Il genere poliziesco (saggio) in Inchiostro sangue* (Arcoiris editore, 2009)  Bersaglio notturno (Feltrinelli, 2011), Respirazione artificiale (2012), La città assente (Sur edizioni, 2014), L'invasione (edizioni sur, 2015).


 Lo ricordiamo con un'intervista tratta dal blog di Sur edizioni (che ringraziamo) e inseriamo QUI il link alla pagina dello stesso blog che riunisce tutti gli articoli su Ricardo Piglia:



Intervista a Ricardo Piglia

di Ana Ciurans
pubblicato da Blow up e dal blog Sur (e dal sito ArchivioBola
ño)

Ricardo Emilio Piglia è nato ad Adrogué, provincia di Buenos Aires, Argentina, nel 1940. Nel 1955 la famiglia si trasferisce a Mar del Plata e oggi vive a Princeton, dove insegna all’università. Scrittore, critico e saggista, malgrado i tanti riconoscimenti ricevuti (tra cui il premio Planeta per Soldi bruciati, nel ’97), Piglia è pressoché sconosciuto in Italia. Con lui abbiamo parlato della sua idea fissa, il poliziesco. E abbiamo tentato di far venire alla luce i retroscena del brodo di coltura di scrittori come Roberto Bolaño. La pubblicazione di un suo racconto, La pazza e il racconto del crimine, nell’antologia di racconti e saggi del Río de la Plata, Inchiostro sangue* ci ha dato lo spunto per intervistare questo maestro del noir di cui uscirà tra poco Blanco nocturno per Feltrinelli.
 
Nel 1975 il racconto La pazza e il racconto del crimine, contenuto nell’antologia recentemente pubblicata in Italia (Inchiostro sangue, ndr), vince il premio letterario della rivista Siete días. Borges è uno dei membri della giuria. L’Argentina sta precipitando nella repressione. Il racconto narra la storia di un giornalista che, grazie alle sue particolari conoscenze linguistiche, riesce inutilmente a risolvere un crimine perché “interessi superiori” gli proibiscono di rivelare l’identità del colpevole. La letteratura come veicolo di denuncia, soccombe. Nonostante, il racconto, metafora di questa situazione, vince il premio. Crede che in quel momento la giuria non fosse cosciente di ciò che stava per accadere in Argentina o che la buona letteratura riesce a scavalcare persino gli interessi politici?
RP - I rapporti tra letteratura e realtà politica non sono mai diretti. Il racconto – tra altre cose – sembra criticare la logica dei meccanismi giornalistici che impediscono, in questo caso, la denuncia di un crimine. Come conseguenza di questo rifiuto, Renzi (il giornalista protagonista del racconto, ndr) decide di scrivere il racconto come una sorta di alternativa fiction all’immediatezza della stampa. Se dovessi definire la funzione della letteratura – ma non intendo farlo – direi che narra ciò che i mass media non possono affermare o capire.
La finalità del racconto è far apparire artificialmente qualcosa che prima era nascosto, cerca la verità segreta, indaga. Crede che questo sia il motivo per cui il genere poliziesco trova la sua massima espressione nella brevità del racconto? Qual è la differenza, a questi effetti, tra un romanzo e un racconto poliziesco?

RP - Non sono sicuro che il genere poliziesco possa solo esprimersi attraverso il racconto. Esistono romanzi polizieschi straordinari – basta ricordare Il lungo addio di Chandler. Forse la tradizione inglese, legata all’enigma, funziona meglio nel racconto; ma anche su questa linea ci sono dei magnifici romanzi, come Mr Byculla di Eric Linklater o Laura di Vera Caspary. In quanto al noir nordamericano, anche se è famoso per i romanzi, ci sono dei racconti eccellenti come Aspetterò di Chandler o First Offense di Evan Hunter. Proviamo a ipotizzare una risposta radicale alla domanda sulla durata del genere poliziesco: un racconto narra un solo crimine; una novella (romanzo breve, ndr) narra almeno due crimini, un romanzo tutti i crimini. Non so se è una definizione pertinente, mi piace però la progressione: uno, due, tre, tutti…

Epistolari, sottostorie, sottotesti, racconti. La sua opera è una mescolanza di ricorsi e di generi, basti prendere come esempio L’ultimo lettore. Anche quella di Roberto Bolaño lo è, così come quella di molti scrittori latinoamericani. Perché in America latina questo “disordine” apparente sembra particolarmente significativo? Crede che esista qualche qualità latinoamericana intrinseca dalla quale scaturisce questa scrittura?

RP - Noi siamo figli – o nipoti – di Borges che aprì questa strada nella narrativa contemporanea. In Argentina ci stiamo ancora riprendendo dalla sorpresa che causa la lettura di un racconto come «Tlön Uqbar Orbis Tertius» (Finzioni, ndr). Credo che questo “tocco” concettuale definisca parte della migliore narrativa attuale. Pensate ad Avalovar di Osmans Lins o a Il Danubio di Magris o ancora a Gli anelli di Saturno: un pellegrinaggio in Inghilterra di Sebal.

In Italia la letteratura argentina e latinoamericana in generale, è stata poco tradotta, con eccezioni che occupano una posizione all’estremo opposto, di grande fama, quasi sempre legate in qualche modo al boom latinoamericano. Che ne pensa del boom? Nel saggio I miti di Chtulhu, Bolaño si chiede: “che possono fare Sergio Pitol, Fernando Vallejo e Ricardo Piglia contro la valanga di glamour? Ben poco”. Mi scusi perché so che non è la prima volta che le viene chiesto, ma può fare qualcosa Ricardo Piglia contro la valanga del glamour? Crede che Bolaño si riferisse precisamente a “quella” valanga?

RP - Per Bolaño il glamour è il realismo mágico; la moda dice che gli scrittori latinoamericani siamo primitivi, spontanei e meravigliosi. È evidente che i migliori scrittori latinoamericani – Roberto Bolaño, Juan José Saer, José Emilio Pacheco, Clarice Lispector, per citarne solo alcuni – sono molto lontani da questo stereotipo anti intellettuale e selvatico.

Dopo gli anni sessanta la “scuola dell’enigma” lascia il posto alla “scuola dei tipi duri” nel romanzo poliziesco rioplatense. Il suo saggio sul poliziesco, pubblicato dentro all’antologia di cui parlavamo prima, è un piccolo manuale per capirne l’evoluzione. Può spiegare il ruolo della letteratura nordamericana, dell’hard boiled, in questo sviluppo? E anche quello della letteratura europea…

RP - Secondo me, la cosa più importante del poliziesco nordamericano è lo stile, uno stile che viene da Hemingway, anti soggettivo, anti psicologico, impersonale, un po’ schizofrenico. Basterebbe includere in questa linea del hard boiled Lo straniero di Camus, Breve lettera del lungo addio di Peter Hanke o Le gomme di A. Robbe Grillet per apprezzarne tutte le possibilità. Anche i romanzi corti di Pavese – in particolare La casa in collina – hanno questo tono. I miei primi racconti sono molto legati a questa tradizione. In quello che concerne il poliziesco europeo, ci sono molti scrittori di grande qualità, come Sciascia o Simenon – e anche Dürrenmatt – che hanno dato una nuova impronta al genere, portandolo oltre il classico noir.

“La poesia è essenziale per pensare a una poetica della prosa in lingua spagnola” ha dichiarato in un’occasione. Aveva in mente Nicanor Parra quando lo dichiarò? Solo in lingua spagnola o la poesia è essenziale per pensare in una poetica della prosa in qualsiasi lingua?

RP - In qualsiasi lingua, per scontato, pensiamo ai toni di Ezra Pound o di Ungaretti che hanno capovolto i ritmi del linguaggio e hanno mostrato – ancora una volta – che lo stile dipende dall’udito, dall’ellisse, dalla sintassi.

La chiave di lettura del noir è contraddittoria o ambigua perché spesso racconta storie contraddittorie e ambigue. C’è chi ne condanna il cinismo e chi gli attribuisce una profondità eccessiva che forse non era nelle intenzioni neanche dell’autore. In Soldi bruciati l’epigrafe riporta la seguente frase di Brecht: Cos’è rapinare una banca a paragone di fondarne una? E, nel suo saggio, afferma che in questa domanda è contenuta la miglior definizione del noir. É quindi il materialismo del noir quello che fa di questo genere il possibile genere del futuro?

RP - In un certo senso sì. Tutto è molto concreto nel poliziesco. Ho pensato spesso – ultimamente – alla finzione paranoica, una categoria che forse ci può aiutare a immaginare il futuro del genere. Mi sembra che molte storie poliziesche degli ultimi tempi abbiano la tendenza a narrare seguendo l’ottica della vittima, di quello che viene braccato (o crede di esserlo): una tradizione la cui origine può trovarsi nei romanzi di David Goodis. Allora, schematicamente, potremmo dire che la narrativa inglese classica si centra sul detective, che la narrativa poliziesca nordamericana ha la sua chiave di lettura nell’assassino e che la posizione contemporanea del genere tende a collocare la vittima – e l’innocente – al centro dell’intrigo. Una semplice ipotesi – paranoica – sulla storia del poliziesco.

Una domanda inevitabile, le piace la letteratura italiana e ha qualche autore preferito?

RP - Sí, naturalmente; dico sempre, per scherzo, che sono uno scrittore italo-argentino. Mio padre era italiano e per attiguità la mia letteratura ha vari padri di quest’origine: Pavese in primo luogo, ma anche autori che ammiro come Calvino, Bassani, Pasolini, Landolfi o Natalia Ginzburg. Alcuni libri scritti in italiano sono stati dei punti di riferimento per me, La cognizione del dolore di Gadda, con la sua localizzazione così vicina a noi argentini e il suo uso straordinario del linguaggio. Ammiro la grande tradizione della poesia italiana e ho sempre letto Montale, Ungaretti Quasimodo, Saba. La letteratura italiana forma parte della letteratura universale che è scritta in una sola lingua.

  

domenica 1 gennaio 2017

Un posto chiamato Oreja de perro, di Ivàn Thays, Fandango editore, trad. di Anna Mioni

  Il protagonista del romanzo è un giornalista in caduta libera, una caduta lenta e cadenzata che, passo dopo passo, lo porta ad arenarsi in una delle zone del Perù più povere e martoriate del paese, Oreja de Perro appunto, una enclave di violenza, povertà e coltivazione della coca nella quale negli anni '80 si è scatenata una vera e propria guerra civile tra terroristi e militari nella quale i campesinos e la popolazione civile si sono trovati presi nel mezzo, trucidati dagli uni in quanto sospettati di essere terroristi o amici di terroristi e dagli altri in quanto sospettati di essere spie dei militari, "borghesi" (per quanto assurdo potesse essere anche solo immaginarlo) o semplicemente non abbastanza rivoluzionari. A Oreja de Perro tutti aspettano l'arrivo del Cholo il presidente Toledo, la speranza tradita dell'intero Perù, il presidente andino, il presidente contadino, il presidente che si dice abbia speso il suo mandato più che altro a barcamenarsi tra uno scandalo e l'altro, tra donne e festini, alcool e quant'altro. I suoi ritardi agli appuntamenti ufficiali (la hora de Cabana) sono diventati prima barzellette e infine istituzionalizzati.
  Per la prima volta un presidente onorerà Oreja de Perro con la sua presenza.
  Ma Toledo, il presidente cholo, non arriva.

  La zona è pattugliata dall'esercito, un esercito formato da ragazzini indolenti, poveri e figli di poveri che la divisa e le armi in dotazione rendono improvvisamente pericolosi e arroganti, pronti ad esplodere in qualsiasi momento e per un nonnulla. Il paese è sospeso - in un certo senso come lo è sempre stato - in un tempo che non è quello presente, in uno spazio dimenticato da Dio e dagli uomini, ma ora trattiene il respiro perché l'arrivo del presidente sarà (potrebbe essere, dovrà essere) l'inizio di una nuova era: aiuti economici dal governo centrale e un nuovo volto da spendere se non col mondo, almeno col resto del Perù. Ma il Cholo non arriva, pare sia fermo a Huamanga, così dicono, ma non si sa, eppure tutti sanno che deve arrivare. Arriverà, per forza. Anche se La hora de Cabana comincia ad estendere il suo dominio su un tempo oggettivamente troppo lungo, come un elastico che viene tirato troppo, o una gomma da masticare. Ci sono i giornalisti, ci sono gli attivisti, gli antropologi, chi in trasferta da Lima chi locale, ci sono i militari fermi nelle strade di terra battuta, agli angoli delle case, ai crocevia, che fanno scattare le sicure, che mettono paura alla gente, tutti sospesi in attesa di un Godot andino che forse è perso in qualche orgia, aggrappato al suo status presidenziale per giustificare, anche a sé stesso, il ritardo perenne che ha nei confronti non solo del paese ma anche della realtà. Il protagonista - narratore - del libro, è un giornalista che vive a sua volta un tempo sospeso, incapace di vivere appieno il lutto per la morte del figlioletto e abbandonato dalla moglie con una lettera appena prima di partire per Oreja de perro. La sua realtà è fibrosa, lenta, incagliata in un presente che non riesce a decifrare, un presente che è intriso del dolore che la morte del figlio Paulo porta con sé. Dovrebbe scrivere sull'arrivo del presidente, che non arriva, e dovrebbe scrivere una lettera di risposta alla moglie, che non scrive. Prende appunti su un taccuino, incontra due possibili sviluppi futuri della sua vita incarnati in due donne, Jazmin e Maru. Ma una sembra emergere direttamente dal passato più oscuro del Perù, dal suo lato maledetto, porta in grembo un figlio ma anche sul nascituro si allungano ombre che hanno radici nella realtà di violenza e sopraffazione dal quale il paese fatica a riemergere, l'altra è forse troppo solare, troppo limena, è la possibilità del paese di essere altro da sé ma che, proprio per questo, pare fatta di materia inconsistente, come un ologramma, un utopia inarrivabile perché in fondo non si ha nemmeno la forza di prenderla seriamente in considerazione. Chi è così ingenuo da puntare ancora su un futuro solido, equilibrato, onesto, non violento? Il narratore e protagonista rimane intrappolato tra mondi e dimensioni diverse, quando misteriose quando silenziose: è una minaccia sorda quella che aleggia su tutto il libro, una minaccia e una consapevolezza. La consapevolezza del passato tragico (la guerra civile nel paese e la morte del figlio Paulo per il protagonista) e la minaccia di un futuro che non abbia la forza di essere diverso dal passato. Poi, il presidente finalmente arriva in paese, e l'azione diventa convulsa, caotica e, ancora una volta, violenta: il passato torna ad abitare il presente. Ancora morti, ancora violenza e vendette. Finalmente il tempo ricomincia a scorrere, ma non chiarisce nulla, se non l'impossibilità stessa a chiarirsi. Saranno ombre che non si dissipano a colonizzare la nuova realtà del protagonista, nuovi equilibri precari che non lasciano presagire alcuno spazio per un lieto fine. Quello che è fatto è fatto, le conseguenze hanno forma concreta, anche se in qualche maniera misteriosa e complicata.   E' un libro, Un posto chiamato Oreja de perro, lento e implacabile, che risponde all'urgenza di fare i conti col proprio passato e alla consapevole certezza di non essere in grado di fare i conti col proprio passato. Le porte aperte rimangono aperte, e ne aprono di nuove. I figli morti stanno da qualche parte inconosciuta ma non tornano ad incarnarsi in sé stessi, il vuoto creato permane, e permea, le fosse comuni traboccano, l'odio si aggira per i vicoli di terra battuta dei villaggi andini, per i campi, la si respira in quella porzione d'aria che si contendono le persone per respirare.


Un posto chiamato "oreja de perro" (orecchio di cane) si trova nella provincia di La Mar, in una zona compresa tra Ayacucho e Huamanga, nella regione del Vrae (Valle de los rios Apurimac y Ene): si tratta di una zona molto povera, dedita per lo più alla coltivazione della coca (terra di cocaleros dunque), quasi fosse realmente un orecchio reciso dal resto del corpo, e lontano mille miglia dal cuore del cane, Lima, immaginata ed odiata come solo qualcosa di lontano e alieno può esserlo. Un altro pianeta, un'altra dimensione, un'altra umanità. La zona di Ayacucho e Huamanga è stato il centro (universitario in particolar modo) dal quale è nato il terrorismo rosso degli anni '80 di Sendero Luminoso (all'università di san Cristobàl di Huamanga e Ayacucho insegnò filosofia il delirante leader maoista di SL Abimael Guzman); inoltre la regione cosiddetta del Vrae è stata la regione nella quale i terroristi si rifugiarono quando ormai la loro rivoluzione venne sconfitta dallo stato e dove, ancora oggi, pare si nascondano terroristi latitanti.

     Fare i conti col proprio passato è materia di ogni letteratura, e in Perù il passato più gravoso è quello legato al terrorismo, un epoca nella quale la popolazione civile si è trovata schiacciata tra due follie, quella maoista integralista rivoluzionaria di SL e quella violenta e burocratica di uno stato che ha demandato ad un esercito impreparato la sola risposta alla violenza terroristica. Tutti, dai campesinos agli abitanti della capitale, potevano perdere la vita da un momento all'altro, o in quanto vittime collaterali di qualche attentato, o perchè scambiati dagli uni per terroristi e dagli altri per borghesi. In Perù, fare i conti col terrorismo è una necessità del paese: da Il caporale Lituma sulle ande, di Vargas Llosa, a I delitti della settimana santa, di Santiago Roncagliolo, a La hora azul di Alonso Cueto) tutti hanno sentito la necessità di prendere le misure a quella parte della storia recente così assurda e violenta. Thays lo fa con lo sguardo dolente di un viaggiatore perso tra dimensioni che non sa far proprie né abitare, dimensioni che si sfiorano senza interagire, che si scontrano e si allontanano, dimensioni dolenti, devastate, assurde, abitate da quei cani che assurgono a simbolo stesso del Perù, presenze silenziose, affamate (Los perros hambrientos, di Ciro Alegrìa), calciati, uccisi, appesi ai pali della luce e resi simbolo dalla follia maoista di Sendero Luminoso eppure sempre legati a quei poveri lembi della loro esistenza, sempre pervicacemente aggrappati al loro semplice illogico esistere.

Taci, taci, animale feroce,
tanto Dio non sente la tua voce.


Iván Thays (Lima, 1968) è uno degli autori peruviani più interessanti degli ultimi anni. Ha vinto nel 2000 il premio giornalistico Príncipe Claus per i suoi contributi. Ha diretto per sette anni il programma televisivo Vano Oficio su libri e letteratura e ha un seguitissimo blog di cultura, Moleskine Literario. Scrittore di racconti, romanzi, professore universitario, ha dedicato la sua vita alla letteratura, una vocazione che nel suo caso è insieme “una passione e una missione”. Con questo romanzo è stato finalista del prestigioso Premio Herralde.