"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 14 dicembre 2012

punkZone, di Matteo Galiazzo, racconto apparso sul n°31 del Maltesenarrazioni, nel 2002



Guarda, qualcuno dei suoi clienti si ecciterebbe a vederla lottare con il cacciavite in mano contro questo tappo spugnoso di merda che si è formato dentro la tazza del suo water, si respirerebbe la puzza annaspando, gli scorrerebbe la saliva.
E' il terzo giorno che manca l'acqua. All'inizio non se n'è accorta e ha fatto la cacca, lo sciacquone vuoto, e tutto è rimasto lì. Allora butta un sacco di carta igienica per coprire la cacca. Ha due bottiglie di plastica da due litri piene d'acqua naturale, si fa gli spaghetti e li tira su con la forchetta anziché usare lo scolapasta, e butta l'acqua nella pentola nel cesso, ma il pastone di merda e carta rimane lì come un posto di blocco durante un'emergenza a filtrare lentamente l'acqua, la tazza si riempie quasi. Ecco, ma pensa sia solo una questione di minuti, di ore perché l'acqua torni.
Il problema è che lei qui ci lavora e questo appartamento ha solo tre stanze, il bagno non ha nessuna finestra, prende aria da una ventola che non ci si è mai creduto che funzioni, l'hanno messa più che altro per l'idea di aria che dà il rumore della ventola in sé, mi sa che non c'è nemmeno il buco da cui l'aria puzzona dovrebbe uscire, il bagno prende aria dalla camera da letto. Il letto è senza lenzuola di sopra.
Il suo è un bagno da puttana perché c'è una cosa che si chiama bidet, che serve alle puttane a lavarsi i due buchi, qua a Londra i bidet ci sono solo in alcuni di questi appartamenti di tre stanze a Soho, perché li hanno fatti apposta per le puttane.
Il primo giorno in fondo ci si può ancora stare. Basta tenere la porta del bagno chiusa, nessuno dei clienti dice niente, sparge un sacco di profumo e accende un sacco di incensi. Poi la sera fa di nuovo la cacca, e butta dell'altra carta. Si compra una cassa di acqua minerale frizzante. L'idea è che l'acqua frizzante apre la strada più facilmente nella merda, lei non sopporta l'acqua minerale se si tratta di berla, perché le bolle che esplodono le distruggono la lingua, ma ora pensare alle bolle di anidride carbonica che esplodono contro il tappo di merda e si aprono una via come tarli minatori le piace.
 Buttarla così nel cesso direttamente dalla bottiglia non fa niente, perché così non ha nessuna forza, nessuna rincorsa, si aggiunge all'altra acqua senza spostare niente, allora pensa di riempire il serbatoio dello sciacquone e poi di tirare la catena. Ma con quello che rimane nelle bottiglie lo sciacquone si riempie solo a metà, e poi l'acqua si sgasa un po' già nel travaso, poi tira la catena, ma è un getto di quelli deboli, come quando tiri l'acqua di nuovo mentre il serbatoio si sta ancora riempiendo, guarda per vedere l'effetto delle bollicine, quando l'acqua si calma si vedono infatti delle bollicine che si formano sulle pareti, ma sembrano lì per bellezza più che per distruggere il tappo di merda.
Quelli dell'acquedotto vengono, per loro è tutto a posto, il problema sta nella colonna del palazzo, il problema comincia dentro il palazzo, la pressione per loro fino a poco prima di entrare nel palazzo è a posto, ci deve pensare l'amministratore che ci deve essere una perdita da qualche parte, anche se acqua non se ne vede per niente.
Il secondo giorno la puzza di cacca si sente per forza.
Lei non può stare senza acqua, neanche poche ore, perché è nata sulla sponda destra del grande Niger.
Lei non usa lo spazzolino da denti, ma queste foglie di felce lunga.
La vicina di sopra, che anche lei fa la puttana e anche a lei manca l'acqua, perché manca in tutta la colonna, dice che agli uomini piace la puzza di cacca, e che non ci sono problemi a continuare a lavorare, anzi.
  Allora giù in strada infatti gli uomini le passano davanti e lei dice 'Vuoi sentire la puzza della mia merda?' e parecchi vogliono, si vede che la cosa li interessa. Poi però quando sentono veramente la puzza dopo un po' non gli interessa più in maniera così importante. Più che la puzza di merda a loro piace l'idea di lei che dice Vuoi sentire la puzza della mia merda, ma poi nessuno ha ad esempio il coraggio di aprire la porta del bagno, perché già da chiusa e con la ventola per sempre accesa traspira un sacco di puzza, che poi non è una puzza esotica, ma è la stessa dei cessi degli autogrill, ma molto più forte.
Le donne inglesi hanno bisogno del rossetto perché sono pallide, lei si morde le labbra e così basta. Intorno agli occhi occorre bruciare petali di sambuca in un coccio di  ferro, e mescolarlo all'olio di palma. Occorre mangiare soprattutto pesce d'acqua dolce, che rende la pelle luminosa e solida, non piena di scarabei marroni come quella delle gambe delle inglesi.
Il terzo giorno l'acqua non torna, e lei pensa, butto tantissima carta, poi spingo con le mani finché la cacca e la carta non se ne vanno lontano, poi butto altra carta e spingo, così la carta spinge via la cacca e rimane solo la carta, e a poco a poco la carta che si accumula di qua deve diventare sempre più pulita e non puzzolente. Ma le cose poi a farle non vanno così, perché la carta si scioglie all'istante appena tocca l'acqua e forma un pastone che si mescola alla cacca, quando vede che occorre spingere via la merda a pugni e quella ritorna da tutti i lati si scoraggia. E vai, per lavarsi la mano dalla merda via mezzo litro di acqua minerale e decilitri di profumo.
E' contenta di abitare a Soho e di fare la puttana, ha questo appartamento di trenta metri quadrati. Sul retro del vicolo c'è un altro vicolo, dove i retri degli appartamenti delle puttane si guardano, e tutte le puttane la sera dopo aver fatto la lavatrice stendono i loro vestiti colorati ad asciugare e si raccontano le cose, e si chiamano puttana e dicono che i pappa sono come i poliziotti che quando c'è bisogno di loro stanno sempre da un'altra parte, poi arrivano quando c'è da prendere i soldi.
Poi vengono delle donne inglesi, sposate, e chiedono prima dei consigli sul rossetto, o che crede per la pelle usiamo, o sulle cose per i capelli, poi ci chiedono cos'è che piace di più agli uomini e com'è che si fa a farlo.
E poi chiedono come si fa a fare finta, e cosa bisogna dire mentre lo stanno facendo, lei dice che bisogna fare dei versi che non hanno senso ma che sono intonati come una domanda, poi mentre si vede che i maschi stanno finendo bisogna fare dei versi che non hanno senso ma che sono intonati come una risposta.
Alla televisione c'è un'intervista a un chitarrista famoso inglese, dice che gli sembra strano di essere pagato per una cosa così, che lui la farebbe comunque. Ecco, pensa, ecco.
A volte si accorge che si sta toccando le tette, senza motivo, non capisce, credo perché c'è gente che paga per farlo e lei può farlo gratis, perché le da fastidio sprecare le cose.
Uno pensa che solo gli uomini brutti vanno con le battone, invece vengono da lei anche uomini belli, dev'essere una cosa come come il taxi, che uno a volte lo prende anche se ha la patente e la macchina. E' bello vederli arrivare con i soldi, è bello essere pagate, è bello che ti dicano senza dirtelo che vali più di quei soldi che ti stanno dando, è bello quando scelgono te tra tutte le altre, è bello che succeda più o meno ogni ora tutti i giorni.
I cattolici non le piacciono perché di solito vengono un po' di volte poi ti vogliono sposare. Lei non si vuole mica sposare.
C'è un uomo che la paga per vederla andare in giro nuda per casa a cercare zanzare e a schiacciarle contro le pareti. A certi uomini piace guardare mentre mangia dei dolci che portano loro, li ha fatti la moglie. Certi uomini vogliono sentirla canticchiare, come se fosse sovrapensiero sotto la doccia. Alcuni la pagano per guardarla mentre lava i piatti scalza. Alcuni la pagano perché lei faccia finta di non sapere fare l'amore, e deve sembrare imbranata.
Alcuni la pagano per fare finta di riparare la guarnizione del lavandino. Si deve mettere una tuta sporca, e maneggiare delle chiavi inglesi sotto il lavello della cucina. Alcuni la pagano per guardarla mentre si schiaccia dei brufoli.
Alcuni si eccitano mentre si fa il nodo alla cravatta, mentre guarda dei film porno, loro stanno dietro il televisore e guardano lei, mentre rutta dopo aver bevuto la birra, mentre guida una carriola con la sabbia dentro,  mentre col cappello da vigile scrive su un taccuino, mentre fa le bolle col chewingum, mentre legge le istruzioni sulla confezione di un cibo da fare al microonde e poi lo prepara, mentre dice delle bestemmie complicate, mentre olia un fucile da caccia, mentre fuma un sigaro, mentre gioca a golf, mentre legge delle poesie che loro hanno scritto, mentre segue le trasmissioni di calcio alla tv.
Uno di loro la paga per guardarla mentre scrive sul suo computer portatile. Lei le prime volte schiaccia dei tasti a caso, ma lui dice che così non funziona, che si vede che fa finta, che anche dal suono dei tasti si capisce che è distratta. Allora le porta delle cose da copiare. Poi porta dei libri e dei cd-rom e le dice che deve installare Linux sul portatile. Cercando di installarlo si vede che è concentrata, perché è una cosa complicata, e lui è contento, anche se poi lei gli distrugge la tabella delle partizioni e si deve riformattare l'hard disk perdendo tutti i dati. Questo tizio è un cattolico, e infatti lei si aspetta che da un momento all'altro le chieda di sposarlo e di smetterla di fare la puttana, lo sa che tra qualche giorno glielo chiede, perché i cattolici è più forte di loro.
Queste case sono fatte così, che dai tubi dell'acqua e del gas si sente tutto da un appartamento all'altro, specialmente da un piano all'altro, perché i tubi viaggiano per o più in verticale. Allora se appoggi l'orecchio sul tubo senti tutto quello che succede sotto, e siccome qua sono tutte puttane, di solito si sente gente che sta scopando, e donne che gridano per finta a voce molto alta, e ogni tanto qualche cliente che grida per davvero. E il punto dove si sentono meglio i tubi è la tazza del cesso, forse perché ha proprio quella forma ad anfiteatro che amplifica il suono. C'è un suo cliente che si mette sempre lì ad ascoltare, passa delle mezzore con tutta la faccia quasi dentro la tazza per sentire meglio, non gli interessa che lei possa gridare in quello stesso modo che lui sta sentendo, a lui piace sentire attraverso i tubi, poi quando lo fanno lei non deve fare nessun rumore, forse perché lui sta ancora cercando di ascoltare i tubi.
Adesso lei ha paura che arrivi proprio questo qui perché non saprebbe cosa dirgli che il suo cesso è impraticabile. Chiede lo stato di emergenza. Ce n'è uno che la paga se lui resta di là in cucina e lei va nell'altra camera e muove il letto con le mani in modo che cigoli.
Quando alla fine riesce a installare Linux il ragazzo cattolico le lascia il suo portatile, e le da dei compiti da fare mentre lui non c'è, pagandola per il tempo che ci mette, praticamente deve fare degli script con il linguaggio della shell. Lui dice che si diverte a pensare a lei che fa gli scriptini mentre lui non c'è.

Ce ne sono certi che la pagano e poi si va semplicemente in giro a fare dei giri a piedi, magari vedono un vestito in una vetrina e vogliono che lei se lo provi, ogni tanto ne comprano uno e glielo regalano, loro vogliono solo guardarla, poi si siedono da qualche parte a bere qualcosa, loro vogliono solo guardarla mentre beve qualcosa, perché è bella, perché non c'è niente di più leggero di guardare.
Vanno a fare un giro e lui le dice che si ecciterebbe molto se lei entrasse in quell'ufficio, lei entra e in effetti la segretaria dice che la stava aspettando. La fanno entrare nella stanza di uno con una grande pancia che la fa sedere e le fa delle domande su linux e sul linguaggio della shell, per vedere quanto ne sa, e lei ormai ne sa abbastanza. Il tizio con la pancia le chiede di fare uno script. Lei lo fa. L'uomo con la pancia le offre un lavoro come assistente amministratore di rete, fuori il ragazzo cattolico la aspetta sorridendo, i cattolici pur di sposarti e farti cambiare lavoro, è più forte di loro.
Da tre giorni ogni volta che torna a casa spera di sentire il rumore di qualcosa che sgocciola, entra, va lentamente verso il rubinetto del lavello della cucina, ma già si vede che non è tornata, perché quello quando c'è l'acqua sgocciola sempre anche se stringi forte il rubinetto.
Ha dimenticato di comprare l'acqua minerale. Tra poco dovrà fare di nuovo la cacca.

Esce per la scale e se ne sale sul tetto con un secchio di quelli da pulire per terra. Spalanca la porta del tetto e i piccioni volano via. Qua sopra ci sono tutti i serbatoi delle colonne. Sono come delle grandi vasche da bagno però con il coperchio sopra, e delle pietre e del fil di ferro che li tengono tappati, perché non voli via tutto quando c'è vento. Quello della sua colonna è vuoto. Ci batte per sentire che suono fanno e rimbombano, uno rimbomba un po' meno, ci guarda dentro da una fessura, ma non si vede niente. Toglie il fil di ferro e le pietre, sposta il coperchio. Acqua. Lei ha bisogno di acqua dolce perché è nata sulle sponde del Niger. Tira via il coperchio. E' sera, non si vede niente. L'acqua è trasparente, se non ci batte le luce sopra non si vede mica. Butta il secchio dentro la vasca e sente pluf. Pesca, lo tira su. Pesa. C'è dentro qualcosa, sembra uno straccio, ma è un piccione morto. Lo ributta dentro, pesca di nuovo, stavolta è solo acqua. Porta giù il secchio per le scale, vuole tirare tante di quelle secchiate nel cesso finché la merda non se ne va del tutto. La prima volta cade per le scale, il secchio si rovescia e tutta l'acqua va giù per i gradini e per la fessura tra le due rampe. Ritorna su col secchio vuoto. Ripesca il piccione morto, svuota il secchio per terra, ne pesca un altro, lo butta fuori, e ne pesca un altro. Riesce a fare tre viaggi dal tetto al suo appartamento, butta i tre secchi pieni dentro la tazza, l'acqua però non va giù, e l'acqua del terzo secchio straripa fuori, l'acqua dentro la tazza è giallastra, galleggiano le solite nuvolette di carta igienica. Usa il secchio per scolare una parte dell'acqua nel bidet. Ci vorrebbe una di quelle ventose sturalavandini per scuotere il tappo, ma lei non ce l'ha, oppure l'acido muriatico, ma lei non ce l'ha. L'unica cosa che ha è un cacciavite a stella, che ha usato per aprire il computer del cattolico e montargli il masterizzatore. L'unica cosa è affondare la mani nel cesso e pungolare il tappo a colpi di cacciavite.
A volte non deve fare niente, ci sono certi che si eccitano semplicemente così, che la pagano semplicemente per poterla pagare.


 Matteo Galiazzo è nato a Padova nel 1970 e vive a Genova. È autore della raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi 1997) e dei romanzi Cargo (Einaudi 1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi 2002). Suoi racconti sono usciti nelle antologie Gioventù cannibale e Anticorpi (Einaudi 1996 e 1997) e nella rivista «Maltese narrazioni», di cui è tra gli animatori. Quest'anno è tornato in libreria con la raccolta Sinapsi, opere postume di un autore ancora in vita, per Indiana editore. 




Il curatore di questo blog ci tiene a ringraziare di tutto cuore Matteo Galiazzo per averci fatto l'onore di concederci la pubblicazione di questo suo racconto che, come specificato nel titolo, non potete trovare nella raccolta Sinapsi (editore Indiana) nè in nessun altro libro, ma solo nel numero 31 della gloriosa rivista il Maltese narrazioni, edita nel 2002.
  Questo blog sarà sempre ben lieto di pubblicare altri racconti e articoli di Matteo e, in generale, tutti i racconti di qualità, anche di altri autori, soprattutto se inediti o comunque irreperibili.
  Grazie Matteo.

domenica 2 dicembre 2012

Cronache dal continente che non c'è, di Alma Guillermoprieto, La Nuova Frontiera edizioni

  Non avevo idea di chi fosse Alma Guillermoprieto, forse anche per questo si è rivelata una sorpresa piacevolissima, perchè non mi aspettavo nulla da questo suo libro di reportage, ma, anche se avessi avuto delle aspettative al riguardo, posso affermare che non sarebbero comunque state tradite. Desde el paìs de nunca jamàs. E' il titolo originale di questa raccolta di cronicas, tradotto dall'inglese e pubblicato in Italia da LaNuovaFrontiera editore. In effetti c'è qualcosa che non torna. Tradotto dall'inglese. Alma Guillermoprieto è nata a Città del Messico (la data non è importante per una signora, è sufficiente il luogo di nascita), ma in giovane età emigra negli Stati Uniti per studiare danza, diventa ballerina professionista poi, forse avendo l'intuizione di trovarsi nella posizione ideale per spiegare agli americani il sud e centro america, comincia a collaborare con The Guardian, The Washington Post, Newsweek, The New Yorker e The New York Review of Book e come per incanto si trasforma da ballerina professionista a giornalista di razza. Nel 1982 si reca in Salvador a documentare i massacri della guerra civile, rischia la vita e denuncia al mondo le barbarie che venivano celate all'interno del paese centramericano. Le prime tre cronicas presenti in questa raccolta, più la quinta, Commento, trattano di questa guerra, aprendo le danze con un vero e proprio pugno allo stomaco: l'immagine degli avvoltoi che s'ingrassano coi cadaveri gettati a mucchi, come cataste di stracci, su un'ampia spianata di roccia vulcanica di El Playòn. Leggendo questi articoli non si può fare a meno di notare lo sforzo dell'autrice di farsi mezzo di comunicazione vero e proprio tra il contenuto dei reoprtage e il pubblico americano, il tentativo di riportare una brutalità talmente incomprensibile da poterla (volerla) facilmente scambiare per fantasia o, come minimo, come un'esagerazione forzata della realtà. E' nelle righe più esplicitamente rivolte al suo pubblico di lettori che la Guillermoprieto lascia cadere quelle che, ad un prima lettura, possono non apparire neppure delle accuse, ma che in realtà lo sono eccome, verso gli Usa ed il loro irresponsabile coinvolgimento nella guerra civile salvadorena. Lo stile limpido e la grazia che formano parte della caratteristica prosa della Guillermoprieto le permettono di dire qualsiasi cosa, a chiunque, senza mai scivolare nella retorica o nell'urlo disperato (magari giustificato) e sguaiato. Poi nel racconto Menudo prendiamo fiato e scopriamo le origine da boy band di Ricky Martin e la follia delle giovani fans latinoamericane. C'immergiamo poi nella demenziale e sanguinaria rivoluzione del movimento comunista peruviano Sendero Luminoso e del suo indiscusso lìder, Abimael Guzmàn, colui che pensava a sè stesso come la quarta spada del comunismo mondiale e che, partendo da una giusta lotta contro la discriminazione dei campesinos andini, finì per mettere a ferro e fuoco un intero paese e per compiere vere e proprie carneficine sugli stessi campesinos che avrebbe dovuto difendere. Rimaniamo come intontiti a scoprire tutti i retroscena legati all'impeachment del presidente brasiliano Collor de Mello e delle implicazioni sociali e culturali delle telenovelas brasiliane. Seguiamo il premio nobel Vargas Llosa (quello che sarebbe poi diventato premio nobel per la letteratura nel 2010) nella sua campagna elettorale per la presidenza del Perù conclusasi con la sconfitta ad opera dell'allora semisconosciuto Alberto Fujimori. Altre tre cronicas indagano la nuova realtà di Cuba, dalla visita papale di Giovanni Paolo II in avanti: Fidel, la caduta del regime sovietico e le sue ripercussioni sull'isola, le contraddizioni tra il credo ormai solo di facciata del regime e la realtà attuale fatta di turismo, povertà e prostituzione. Poi, un'analisi approfondita e sottilmente acuta del mito di Eva Peròn. I cadaveri di ragazze abbandonati ai lmiti del deserto che circonda Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, l'ombra del narcotraffico, della polizia corrotta e del narcosatanismo. L'emancipazione delle cholas boliviane sul ring della lotta libera - la lucha libre - di derivazione messicana. E infine il culto demenziale eppure incredibilmente sentito della Santa muerte, in Messico, nel suo Messico, nel quartiere di Tepito, a Ciudad de Mexico, la città di nascita della Guillermoprieto. Questo libro è un viaggio per molti versi tragico e per altri un po' assurdo, si ha l'impressione di viaggiare in un mondo inventato da un cantastorie ubriaco e con tendenze sadiche, eppure il viaggio, per quanto strano e angosciante ha in sè la magia dell'affabulazione. La caratteristica straordinaria di questa "giornalista ballerina" è che riesce ad unire la rigorosa professionalità della reportera di razza, certe intuizioni e spunti (caratteristici di una sensibilità fuori dal comune) che le permettono di entrare a fondo nell'analisi delle realtà che descrive, un pizzico di ironia che la circonfonde di un minimo di distacco di stampo anglosassone e che rende la narrazione appetibile anche (se non soprattutto) ad un pubblico occidentale, e uno stile che unisce l'essenzialità nordamericana con l'affabulazione tipica dei grandi narratori latini. Ne nasce una serie di immagini forti e ben delineate che si condensano in una fotogafia in movimento del "continente che non c'è", di quel latinoamerica che è molto di più dell'immagine esotica e stereotipata che se ne ha in occidente. Una fotografia a tratti terribile e, in certi casi, anche divertente, comunque sempre folle, talmente folle da far pensare che si stia parlando di un posto che non c'è.

 

  Alma Guillermoprieto, messicana di nascita, si trasferisce giovanissima a New York per diventare una ballerina. Fino al 1973, la sua vita è completamente assorbita dallo studio della danza: una vita isolata, dice Alma, chiusa in un mondo soffocante. Dal 1973 in poi, decisa a uscire dal suo guscio, scopre la passione giornalistica e comincia a collaborare con il Guardian, spostandosi più tardi al Washington post e infine al New Yorker: da quel momento, la sua vita sarà dedicata a raccontare il mondo latinoamericano ai nordamericani. I suoi articoli sono “cronicas”, resoconti dei fatti che si ispirano direttamente ai dispacci dei conquistadores spagnoli: immediatezza cronachistica e immedesimazione dei fatti, è questa la cifra stilistica della scuola sudamericana.
L’America latina è sempre stata vista come un paesede nunca jamas”, un paese “lontano lontano”, un luogo da favola, tanto affascinante quanto sconosciuto.“El pais del nunca jamas” è il libro che raccoglie i reportage sudamericani di Alma Guillermoprieto dagli anni ’80 agli anni 2000.

lunedì 19 novembre 2012

Sinpasi, di Matteo Galiazzo, Indiana editore

Sinapsi è una raccolta di racconti, ventidue per l'esattezza, pubblicati per riviste indipendenti (Il Maltese narrazioni, sopra tutti), siti internet e piccoli editori, più l'inedito assoluto Minimal House - (N.B: correzione avvenuta in seguito all'appunto dell'autore. Prima, per un mio errore avevo postato quanto segue: più l'inedito assoluto Sottosviluppo, scritto a quattro mani con Marco Drago (ma che fine ha fatto Marco Drago?)) -. Ora viene il bello: cosa dire al riguardo? Che era tempo che aspettavamo una raccolta di questa levatura, e che ne vorremmo rivedere a breve un'altra (speranza vana, temo)? Si, possiamo tranquillamente sottoscrivere queste affermazioni, ma non basta. Poi? Qual'è il filo conduttore che unisce i vari racconti del libro e in qualche maniera li compatta e li definisce? Difficile dirlo. Non impossibile, ma difficile. Proviamo. Punto uno, lo stile: lo stile di Matteo Galiazzo è sempre diverso da sè stesso (o quasi sempre, in realtà si potrebbero riunire i singoli racconti in gruppi, a seconda dello stile usato), ma in qualche maniera rimane sempre il medesimo. Quantomeno è sempre riconoscibile. Se leggo un racconto di Galiazzo, lo riconosco, anche se non viene esplicitato l'autore. E' uno stile personale, affabulatorio, a tratti ipnotico (una forma di ipnotismo non basata comunque sul semplice ritmo): uno stile che mescola un irrispettoso senso per la frase, un parlato giovanilistico (anche se spesso si ha la sensazione che si tratti di una caricatura di slang giovanile piuttosto che di slang vero e proprio), una passione per la manualistica alla portata di tutti e un'ironia fuori dal comune, a tratti sottile ma spesso al limite del non senso (e a volte anche al di là del limite). Non ci sono altri scrittori che scrivono come lui, se è questo che vi domandate. Punto due, i contenuti: e qui ci troviamo a vagare nell'iperspazio, in una dimensione inesplorata, specie in Italia. I contenuti sono: tutti, semplicemente. Esempi: abbiamo un traduttore di Bantù che si scambia e-mail con tale PreteGianni (seguiranno sinistri riti ancestrali legati al sangue ed al ferro), un  ragazzo che lecca il deodorante dalle ascelle di una tale Ombretta (con esiti allucinanti), un'ombra che fluttua nuda nello spazio, un pittore cieco, il racconto a metà tra full monty (alla genovese) e un racconto di lupi mannari raccontato dal punto di vista di una forma tumorale, famiglie rovinate da mollette a forma di caimano (con finale su rotaie), un video che si evince hard dai movimenti dei piedi dei protagonisti, una sfida al limite del metafisico tra un fotografo ed un cecchino, un racconto nel quale i personaggi sono consapevoli della loro natura di personaggi e come tali si rivolgono all'autore (qui, a mio avviso, siamo dalle parti del colpo di genio), una nonna in crisi d'astinenza da telenovelas, un docente universitario ostaggio in un consolato italiano in sud america, una madre di famiglia che scappa di casa con il topo che l'aveva infestata (la casa, non la madre di famiglia), un fotografo innamorato di una cliente, un bambino in viaggio dal Perù (punto d'origine: Desaguadero) a Genova in cerca della madre, un gruppo di traslocatori in attesa di venir pagati, una lettera di addio ad un fidanzato ed ex socio d'affari, una brutta storia di mummie, un naufrago in un armadio che scopre sconvolgenti verità sulle operaie cinesi, un delirante omaggio alle (pseudo)ricostruzioni storiche e linguistiche dei film di Brancaleone, due sicari con velleità turistiche che inseguono due fuggitivi con velleità altrettanto turistiche, una ragazza grassissima ed il suo ragazzo italoamericano di nome Ben Altro, un fax che scava nei controsensi dell'amore. E' sufficiente? Non credo. C'è, nei racconti di Galiazzo, qualcos'altro, qualcosa di difficilmente definibile che sta prima e al contempo oltre la normale idea di letteratura. E' letteratura essendo qualcos'altro, non so se si possa definirla in maniera diversa ( forse si, ma io non ne sono in grado). E' come partire per un viaggio, con un biglietto con su stampata una certa destinazione e poi ritrovarsi in tutt'altro posto, nel bel mezzo di situazioni inimmaginate ed inimmaginabili prima di partire, a volte senza neppure arrivare da nessuna parte, solo godendosi il folle piacere di perdersi nel delirio del viaggio (e guardandosi godere di questo piacere). E' un tour operator dell'assurdo, Galiazzo, e la sua arte è una particolare forma di letteratura che non saprei come chiamare. Torniamo punto e a capo: era tanto che aspettavamo una raccolta come questa, si, e ora che sappiamo che esistono oggetti letterari non identificati di questo tipo, ne aspettiamo altri, assolutamente si.
  Ora, sapendo che l'autore si è in pratica ritirato dal mondo della scrittura (vedi l'interessante intervista a termine del volume "Un pensionato che guarda i cantieri"), la paura è che ci toccherà aspettare a lungo.
  Intanto, inviando una mail alla casa editrice, si possono ricevere altri racconti in formato e-book (è già qualcosa).

  Già che ci troviamo dalle parti della follia, un sogno: potere ospitare su questo blog un racconto di Galiazzo.



 Matteo Galiazzo è nato a Padova nel 1970 e vive a Genova. È autore della raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi 1997) e dei romanzi Cargo (Einaudi 1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi 2002). Suoi racconti sono usciti nelle antologie Gioventù cannibale e Anticorpi (Einaudi 1996 e 1997) e nella rivista «Maltese narrazioni», di cui è tra gli animatori. Quest'anno è tornato in libreria con la raccolta Sinapsi, opere postume di un autore ancora in vita, per Indiana editore.

domenica 28 ottobre 2012

Limonov, di Emmanuel Carrère, Adelphi editore

Chi sia Limonov, in Italia lo scopriamo solo ora, con questo libro di Emmanuel Carrère, pubblicato da Adelphi, che annuncia, con questo titolo, di dare il via alla pubblicazione dell'opera dello scrittore francese. Rimane inspiegabile come Einaudi, che ha pubblicato gli utlimi cinque libri di Carrère, sia riuscita nel colpo di genio di lasciarselo portare via da una concorrente come Adelphi. Carrère non è uno scrittore come tanti, non è giallista, un noirista, uno sfornatore di best seller internazionali, è molto di più. A ben vedere, non ce ne sono poi tantissimi come lui, adesso, nel panorama lettario internazionale. Carrère sa unire lo stile a trame insolite, non di rado inquietanti, sempre entro strutture eleganti e, talvolta, insolite. Per questo era inevitabile che Limonov, il personaggio Limonov, lo scrittore Limonov, il fascista Limonov, lo sbandato Limonov, il nazbol Limonov (e potremmo andare avanti così a lungo), per questo, dicevo, era inevitabile che Limonov divenisse il centro dell'attenzione dello scrittore francese, perchè si tratta di un personaggio dalla biografia a tal punto rara da poterla sospettare inventata. E' nato in Unione Sovietica, sotto il pugno del regime comunista, povero, come tutti all'epoca sotto quel regime, affascinato dal crimine, dai criminali e dal loro codice di comportamento. Ha vissuto lo smantellamento di quella realtà che per molti era identificata come Il regno del male come un forma infima di tradimento. Si è posto da solo contro il mondo, contro la sua epoca, contro i politici della sua epoca e contro gli intellettuali della sua epoca. Ha odiato molto, tutto, o quasi tutto, ha ritenuto per un certo tempo di dimostrare la sua virilità nella scrittura, ed è divenuto non una stella di prima grandezza, ma un punto di riferimento per la scena underground sovietica prima, e russa dopo. E' fuggito (per così dire) negli Stati Uniti, ha amato donne che lo hanno tradito e abbandonato, ha vagato per le strade, ha praticato il sesso più scadente ed autopunitivo che potesse procurarsi, è rinato in Francia come scrittore a la page, è tornato in Russia quando ormai il Regime Rosso era solo un ricordo e, in parte, un rimpianto (per la verità sempre più prepotente), ha vissuto il periodo del Caos Totale sotto l'alcolico Boris Eltsin, si è dato alla politica, ha fondato un movimento, poi un partito, è finito in carcere, ne è uscito, ha continuato ad essere lasciato dalle sue donne (anche se qualcuna, le più giovani, le ha lasciate lui), ha sofferto, soffre ancora, invecchia senza apparentemente invecchiare (non più di tanto), e guarda ancora avanti, con la testa alta, in cerca di un futuro che certifichi in maniera definitiva il suo passaggio su questa terra, o che lo deponga definitivamente in un placido lago di oblio. La parte meno presentabile della sua biografia, il colpo di fulmine coi cetnici serbi durante la guerra della ex Yugoslavia. Per il resto, vitalismo imperante ed eslposivo, cadute, rinascite, ricadute, ulteriori rinascite, sofferenze indicibili, e slanci impetuosi. Questa è la caratteristica che più pare affascinare Carrère, la capacità di Limonov di rimanere sè stesso sempre, di crollare fino allo sfinimento e, sempre, rinascere dalle sue stesse ceneri. E' l'immagine di una corsa continua, senza fiato, forse senza nemmeno molto discernimento, senza paura tranne, alla fine, la lieve impressione di aver sbagliato tutto, o quasi, di aver scelto una strada che non porta con sè un significato. Il problema di tutti, da sempre, vivere senza sapere il perchè. Negli interstizi che rimangono, talvolta, in questa folle corsa, Carrère incastona la storia recente dell'ex Unione Sovietica, i cambiamenti - che poi più che cambiamenti sono stravolgimenti veri e propri - che sono ondate che spazzano via la vita di innumerevoli individui travolti dalla Storia, resi niente, insignificanti, denudati di tutto ciò che hanno, beni materiali (pochi) e illusioni morali e politiche. E' la fotografia, questo Limonov di Carrère, di uno tsunami che scuote il pianeta, cancella intere geografie e annulla individui su individui, ed è la fotografia al contempo di come un uomo, Limonov appunto, sia riuscito a rimanerne a galla, bevendo tanta acqua, certo, salata per di più, rischiando spesso di annegare, ma sempre riuscendo a riguadagnare la superficie, e in un angolo di questa immagine - mossa - scorgiamo il profilo dello stesso Carrère, che spia Limonov arrancare tra le acque, che lo osserva dal suo punto di vista privilegiato di borghese benestante, culturalmente elevato al di sopra della massa di un Europa (quella francese) borghese e benestante.



Diplomato all'Istituto di Studi Politici di Parigi.
È il figlio di Louis Carrère e della sovietologa e accademica Hélène Carrère d'Encausse, e fratello di Nathalie Carrère e Marina Carrère d'Encausse.
I suoi esordi sono stati nella critica cineatografica, per Positif e Télérama. Il suo primo libro, Werner Herzog, è stato pubblicato nel 1982. Il suo esordio come romanziere risale al 1983: è L'amico del giaguaro, pubblicato da Flammarion. Il successivo, invece, è stato pubblicato da POL, editore con il quale da allora non ha più interrotto i rapporti.
Sceneggiatore e regista, nel 2005 ha tratto un film da un suo romanzo degli anni ottanta, Baffi. 
  In Italia sono stati pubblicati: Bravura (Marcos y Marcos, 1984), Baffi (Theoria, 1986), Fuori Tiro (Theoria 1988), Io sono vivo e voi siete morti (Theoria, 1995) La settimana bianca (Einaudi 1995), L'avversario (Einaudi, 2000), Facciamo un gioco (Einaudi, 2002), La vita come un romanzo russo (Einaudi 2007), Vite che non sono la mia (Einaudi 2009). E' anche sceneggiatore.
  Ho letto Baffi (credo oggi sia difficilmente rintracciabile), Io sono vivo e voi siete morti (idem), La settimana bianca e L'avversario: sono tutti notevoli ma, sugli altri, a mio parere spiccano Io sono vivo e voi siete morti, biografia amorevole di Philip Kindred Dick e L'avversario.

martedì 23 ottobre 2012

Cargo, di Matteo Galiazzo, Einaudi editore

Questo libro è stato pubblicato nel 1999, lo scorso millennio, dalla casa editrice di Via Biancamano. Cosa sia questo libro, non lo so. Questo libro, Cargo, è stato scritto da Matteo Galiazzo. Un amico dell'autore l'ha definito "una onesta truffa affabulatoria", e penso che avesse ragione, ma rimane il fatto che è una definizione perfettamente centrata che però non ci permette di avanzare sulla strada del chiarimento nemmeno di un passo. Cioè, cos'è questo libro, Cargo? Questo libro Cargo di Matteo Galiazzo. Potremmo dire che una definizione vera e propria non esiste ma che ci possiamo avvicinare poco alla volta, e sempre di più, alla natura del libro, ma che ogni volta che ci avviciniamo ad una descrizione il più completa e corretta possibile, l'oggetto stesso della nostra ricerca diviene impercettibilmente più lontano. Ci avviciniamo ma non possiamo raggiungerlo: lo spazio che intercorre tra la definizione dell'oggetto e l'oggetto stesso, poco alla volta che lo percorriamo, si divide in un numero infinito di spazi minori che, in quanto infiniti, non ci permetteranno mai di raggiungere il termine del percorso. Ecco, le parole comprese tra "Potremmo" e "percorso", quelle in corsivo per intenderci, sono quanto di più vicino può esserci ad una descrizione del libro Cargo, di Matteo Galiazzo. Nel 1996 Galiazzo esordisce con un racconto (uno dei migliori, se non il migliore) nell'antologia Gioventù cannibale (immagino sia inutile spiegare cosa sia stata e, soprattutto, cos'abbia significato per lo svecchiamento della letteratura italiana questa raccolta), nel 1997 pubblica per Einaudi la raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte, poi viene Cargo nel 1999, poi Il mondo è posteggiato in discesa nel 2002, poi più niente. E mica non è morto, Galiazzo. Si è laureato, ha trovato lavoro, dice ha altro da fare. Vabbè. Torniamo a Cargo: Cargo di Matteo Galiazzo è un paradosso, anzi, è una serie infnita ed intrecciata di paradossi e sproloqui scientifici o pseudo tali, è un insieme di pensieri, di ragionamenti posti sotto forma di storie abbozzate che non appena vengono accennate si perdono in mille rivoli lontani. E' un calice di intelligenza viva che trabocca, che non si prende sul serio, che quando finge di raccontarci una storia già mette in chiaro (o comunque lascia intendere) che si tratta di una scusa, anche mal posta all'interlocutore (cioè al lettore), per fare quattro chiacchiere in totale relax, come si può fare tra amici. Tra amici che si stimano, che amano ascoltarsi ragionare per tirare a far serata. Ci sono diverse linee narrative, ma spesso non ci si accorge neppure che lo siano: paiono correre si binari paralleli ma lontani, poi si intrecciano, quasi loro malgrado, di malavoglia, e solo per strizzare l'occhio al lettore e dargli un contentino. Volevi un finale? Eccotelo servito. ma non è un finale, non ci sono finali perchè in un certo senso non c'è un inizio, non ci sono incipit: è come se aprendo il libro entrassimo in una stanza a discorso già iniziato e alla fine venissimo gentilmente messi alla porta quando ancora non s'è terminato di ragionare. Che dire? C'è Alfio, che è un investigatore privato, che pedina una ragazza per conto di un amico che ne è il fidanzato, o che sostiene di essere il fidanzato, ma la ragazza pedinata (la presunta fidanzata) non lo conosce. C'è un miliardario che ha fatto fortuna con delle idee assurde sugli imballaggi, la cui moglie viene rapita per evitare che lui possa portare a termine una scalata d'acquisizione ad una società in mano alla mafia. La moglie del miliardario diventa, da rapita, una scrittrice famosa di best seller (due, best seller: "Dalla grotta" e "Dalla grotta2"). In un universo parallelo i libri si tengono in tubetti e due carcerati confrontano le loro vite in cella. Uno di loro ha il sistema simpatico in panne e deve gestire tutti i movimenti involontari del corpo (battito cardiaco respirazione, ecc) in maniera consapevole. Si parla delle Terre della bassa natalità dove è così raro riuscire a concepire che non approfittare di qualsiasi occasione per congiungersi carnalmente con chiccessia è un reato. Letteralmente. Si parla della legge dell'acceleratore, che tutto regola, nel mondo, e nell'universo, in un modo o nell'altro, in una sua declinazione o in un altra. Si parla dell'economia che alla fine si può riassumere nell'espressione "spremere sangue dalle rape". Cargo di Matteo Galiazzo è come sentire parlare Margherita Hack sotto acido, che spiega l'universo e tutto il resto, in maniera sbilenca, confusa e terribilmente divertente; come seguire i ragionamenti di un ubriaco che sa di essere ubriaco. Cargo è tutto questo e anche altro ma, come spiegato qualche riga più sopra, è un paradosso perchè c'è, esiste, ma non è raggiungibile, Cargo è una terra dell'utopia che possiamo solo scorgere all'orizzonte. Non è facile da spiegare, non è mai facile, ma in questo caso è meno facile del solito. A mio avviso questo libro è un capolavoro. I testi di Galiazzo, che siano romanzi (due, se consideriamo questo, Cargo, un romanzo) o racconti, hanno la caratteristica delle cose di qualità: il tempo non li invecchia. Al contrario, leggendoli, è come se fosse il tempo a riavvolgersi su sè stesso e tornare a quegli anni di fine millennio. Galiazzo è scomparso, letterariamente parlando, dieci anni fa, ed è diventato una sorta di Saliger italiano (scusate la banalità), ma per certi versi è meglio di Salinger, è più visionario: è più Vonnegut ad esempio. Lo sarebbe se volesse esserlo, o se gli interessasse esserlo. Il problema è che da dieci anni a questa parte pare non avere neppure interesse ad essere Matteo Galiazzo, letterariamente parlando. Il problema non è suo, immagino che abbia di meglio da fare; il problema è nostro che siamo costretti a rileggere i suoi pochi libri pubblicati e a sentirci orfani dei suoi paradossi, delle sue follie, della sua mostruosa capacità affabulatoria, e a rimanere in attesa. In verità quest'anno la casa editrice Indiana ha dato alle stampe una raccolta di racconti titolata Sinapsi ("opere postume di un autore ancora in vita"), che riunisce testi già pubblicati in rete o su riviste letterarie (menzione speciale a Il maltese narrazioni), tranne, mi pare, un inedito. E' incredibile pensare che una casa editrice minore sia riuscita in questa operazione e che Einaudi, che all'epoca dimostrò fiuto e coraggio nello scoprire e pubblicare Galiazzo, non si sia neppure posta il problema di riportarlo nelle librerie. Cargo attualmente è difficilmente reperibile (chissà che Einaudi non si decida a ripubblicarlo), ma se vi capita di incapparvi in qualche bancarella o remainder non lasciatevelo sfuggire.

 Matteo Galiazzo è nato a Padova nel 1970 e vive a Genova. È autore della raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi 1997) e dei romanzi Cargo (Einaudi 1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi 2002). Suoi racconti sono usciti nelle antologie Gioventù cannibale e Anticorpi (Einaudi 1996 e 1997) e nella rivista «Maltese narrazioni», di cui è tra gli animatori. Quest'anno è tornato in libreria con la raccolta Sinapsi, opere postume di un autore ancora in vita, per Indiana editore.



  Non ho mai letto Tolstoj, né Pasolini, né Salinger, né Hesse, non ho mai letto Pirandello, non ho mai letto Hemingway, Kerouac, Proust, Hugo, non ho mai letto Fenoglio, né Primo Levi, né Carver, né Conrad. Pensate a un autore che ritenete imprescindibile: molto probabilmente io non ne ho letto nemmeno una riga. Attualmente il libro piú bello che ho letto in vita mià è Gödel, Escher, Bach, un'eterna ghirlanda brillante di Douglas Hofstadter. Non è una cosa solo mia: ho scoperto che molti lo considerano il libro piú bello che abbiano letto in vita loro. A volte quando sono in libreria mi metto vicino allo scaffale dove c'è Hofstadter, e spesso passa qualcuno che dice a qualcun altro: « Vedi? Quello è il libro piú bello che abbia mai letto».
Nella mia personale classifica dei libri piú belli, anche nelle posizioni successive non ci sono testi di letteratura:
Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond, La realtà inventata a cura di Paul Watzlawick, Dio e la nuova fisica di Paul Davies, e altre robe cosí.
Nella letteratura ho sempre cercato piú o meno le stesse cose, romanzi in cui storia e ambientazione fossero un pretesto per pagine manualistiche che illustrassero tecniche, tecnologie, mestieri, o visioni extraumane. Ecco, mi piacciono i libri che spostano il genere umano dal centro del pensiero.
Insomma, sono stato un lettore di letteratura soprattutto a causa della mia pigrizia, perché i romanzi fino a una certa età erano piú invitanti dei manuali e dei saggi, tutto andava giú piú facilmente. Perché leggere un noioso manuale di procedure di volo quando invece puoi prendere una copia di
Staccando l'ombra da terra di Daniele Del Giudice?
La cosa strana a questo punto è che io mi sia messo a scrivere narrativa, dato che della narrativa mi interessano questi aspetti piuttosto marginali. Perché, mi potrebbe chiedere uno, perché ti sei messo a scrivere racconti e romanzi e non manuali di questo e di quello? Perché a pochi è consentito scrivere un manuale. A chiunque, invece, è consentito scrivere un romanzo, non ci sono controlli cosí severi. Allora eccomi qua.

Matteo Galiazzo

mercoledì 3 ottobre 2012

Sotto questo sole tremendo, di Carlos Busqued, Atmosphere libri

  Cominciamo: squilla il telefono e Cetarti viene a sapere che sua madre è morta, ammazzata, e suo fratello pure, e così il convivente della madre, di cui Cetarti ignorava l'esistenza: tipico caso di omicidio-suicidio. Prima di rivolgere contro di sè l'arma, l'omicida, s'era tolto la dentiera, dopodichè s'era sparato un colpo in testa. Cetarti prende atto della nuova situazione che gli si pone di fronte e torna a concentrarsi su un documentario sulla pesca dei calamari giganti. Poi: Cetarti si mette in viaggio e giunge nel Chaco, a Lapachito, l'ultima residenza della madre e del fratello (residenza di cui lui non sapeva nulla), e si incontra con Duarte, curatore delle ultime volontà, amico ed ex commilitone (avevano militato nell'aeronautica insieme) dell'omicida-suicida, visiona le foto della strage, entra nella casa dove sono stati trovati i cadaveri e si mette d'accordo con Duarte per scucire un po' di soldi all'assicurazione del convivente della madre. Poi, più o meno, succede di tutto e niente, al contempo. Vengono fumate un numero imprecisato e comunque mostruosamente alto di canne, la televisione è - quasi - costantemente accesa su canali che trasmettono documentari di ogni tipo, facciamo conoscenza di uno scimunito di nome Danielito, figlio del morto, e amico piuttosto inconsapevole (a tal punto inconsapevole da esserne complice) di Duarte, vediamo morire la madre di Danielito e Danielito gettarne le ceneri nella tazza del cesso, incappiamo in una quantità di animali ed insetti più o meno ripugnanti che per lo più fanno una brutta fine, seguiamo Duarte rapire persone per poi chiederne il riscatto, disseppelliamo il cadavere di un bambino di nome Danielito, ammiriamo Cetarti spendere le proprie giornate ciondolando davanti al televisore, rubricando immondizia (unico lascito del fratello), studiando una specie di salamandra d'acqua dolce e nutrendosi di cibo spazzatura. Dicono che sia la fine del mondo, questo libro, la quintessenza della novela negra, e Busqued che sia una sorta di fenomeno. Non so. L'unico fatto incontestabile è che ci troviamo immersi in un mondo di squallidi perversi (perversi lunatici!, ma non picari), addirittura inconsapevoli della propria infima bassezza, persone (se così si possono definire) incapaci di porsi un orizzonte più ampio di uno spinello, un documentario alla tv (puntualmente frainteso), e un fascio di pesos che li porti fino al giorno dopo, totalmente anaffettivi, inadatti a qualsiasi livello di empatia. L'attenzione morbosa, lenta, tipica degli sballati, ai particolari più insignificanti e un certo sadismo nei confronti di animali ed insetti (ma pure di persone, anche se si tratta di un sadismo involontario e, soprattutto, inconsapevole) rende i personaggi del romanzo dei serial killer in nuce. E' come se fossimo noi a seguire un documentario alla televisione, un documentario lento ed incoerente su rifiuti umani che, poco alla volta, passo dopo passo, si muovono verso un futuro da assassini psicopatici e il particolare terribile che salta agli occhi di noi spettatori è che non c'è nulla di strano, nulla di grandioso nè di malvagio in questo percorso da larva a farfalla omicida. Solo squallore. Il livello di vita psichica ed interiore dei personaggi non è superiore a quella di un calamaro gigante o di uno dei tanti insetti ripugnanti che circolano per il romanzo, al punto che una vera differenza tra le due categorie sembra non esserci. Si muovono in mezzo ai rifiuti senza una vera motivazione che non sia la soddisfazione delle necessità primarie, cibo e droghe sostanzialmente (nel caso in questione le droghe sono da considerarsi giocoforza necessità primarie), non arrivano da nessuna parte e non vanno da nessuna parte, forse vorrebbero partire, ma non possono, non sanno dove nè come e, casomai uno di loro riuscisse a raggiungere il Brasile (terra nè immaginata nè sognata, solo che "ci vanno tutti") il suo problema principale sarebbe avere la tv via cavo in camera. La pornografia come oggetto di studio dell'elasticità del corpo umano, i documentari come tentativo (miseramente fallito) di elevere la propria capacità di attenzione, la morte come scocciatura o come risorsa per mettere insieme due soldi. Esseri che si muovono incorentemente all'interno di un giardino, di un acquario, di un quartiere o di una città o, infine, in quell'enorme scatola aperta che è l'Argentina. A rimettere un po' di ordine in tutto questo caos primordiale ci penserà una mucca, "con un'aria pacifica e leggermente incuriosita", e al proposito non dico una parola di più. In effetti è un noir o novela negra che dir si voglia, ma non c'è tensione, al massimo una certa sensazione di ribrezzo, non c'è disvelamento nè ricerca, non c'è sesso se non visionato su videocassette pornografiche, in realtà non c'è niente, forse, una certa dose di ironia triste insita nella idiozia connaturata nei personaggi. E' come se ci trovassimo di fronte ad un prodotto pulp scaduto, fuori tempo massimo, anni dopo la fine ufficiale del periodo d'oro del pulp. Se mi ricorda qualcosa - ma stiamo parlando di un ricordo sbiadito, come un riflesso che mi giunge alla vista dopo essere rimbalzato su un numero imprecisato ed alto di specchi sporchi e, taluni, rotti - posso dire che mi riporta alla mente Bestie, di Magnus Mills, più che altro per il vuoto assoluto che permea dall'interno i protagonisti, ma Mills era un'altra cosa. Che poi l'intera storia di Sotto questo sole tremendo possa essere letta come una metafora delle recente storia argentina (Duarte e il morto erano piloti militari, il muro elettrificato della casa del fratello di Cetarti, il rapimento di persone innocenti) mi pare onestamente una forzatura.
  La cosa assolutamente fuori dalla norma, e con questo intendo dire "superiore alla norma", è la copertina di Francesco Sanesi: se la fissate bene, potete indovinare già tutto ciò che troverete nel resto del romanzo.


Classe 1970, Carlos Busqued (è il signore ritratto qui accanto, anche se nella foto assomiglia terribimente a Maurizio Landini) ha fatto parlare di sé con Sotto questo sole tremendo, sua opera prima. Blogger, collaboratore di piccole e strane riviste, Busqued scrive con una prosa che ha permesso alla stampa di avvicinarlo a Raymond Carver. Ma non è il caso di aspettarsi uno stile minimalista. Al contrario, Busqued usa un linguaggio turpe, grasso, che va dritto al cuore dell'espressione, senza fronzoli e senza troppe inutili spiegazioni, retto da una struttura narrativa più che solida, che non toglie il fiato dal collo del lettore. Sotto questo sole tremendo è stato già pubblicato in Germania e Francia. Il suo blog lo potete trovare qui: borderlinecarlito.

domenica 30 settembre 2012

Hell's angels, di Hunter S. Thompson, Baldini e Castoldi Dalai editore

  Si muovono in gruppo o, per meglio dire, in branco. Il loro leggendario capo - per usare le parole dello stesso Thompson: il loro Lider maximo -, Ralph <<Sonny>> Barger, è un semplice magazziniere. Le ragazze, vale a dire le "loro" ragazze, "se ne stanno tranquille in gruppo, indossando pantaloni a zampa, fazzoletti, camicie smanicate, maglioni, con stivali ed occhiali scuri; hanno reggiseni a balconcino e rossetti brillanti, e l'espressione vuota e diffidente di anime opache diventate nervose e cattive per aver accumulato troppa amara saggezza in pochissimi anni". Siamo a metà degli anni '60 e loro sono gli Hell's angels, gli angeli dell'inferno, e le cronache dei giornali del 1965-1966 sono piene zeppe delle loro "gesta" belluine: risse, incendi, devastazioni, stupri di gruppo, uso ed abuso di alcolici e droghe. Odiano la polizia e qualsiasi forma di autorità costituita ma flirtano con il credo nazista, e come i tre moschettieri sono uno per tutti e tutti per uno, senza far domande, senza porsi troppi perchè. Se uno ha dei problemi con un Angel, allora ha problemi con tutti gli Angels. Quando si muovono in sella alle loro Harley Davidson sembrano uno sciame ordinato di enormi cavallette meccaniche, o un esercito postmoderno di rombanti selvaggi con barba lunga e braccia tatuate. Il loro simbolo, un teschio con un casco alato. L'america intera, borghese e benpensante, ne è terrorizzata, e Hunter S. Thompson, l'inventore del Gonzo Journalism, ci si butta a capofitto. Non si limita a scrivere su di loro, a raccogliere informazioni ma, secondo il suo stile, li incontra, entra in confidenza con loro, diventa loro amico (per quel che è possibile dirsi amico di un esercito di animali), si compra una moto e li segue in giro per i loro raduni, si ubriaca con loro, e mette insieme questo libro che è uno dei capisaldi della letteratura giornalistica del '900. Le domande sono evidenti, tutta l'America se le pone angosciata in quei lontani anni '60: chi sono questi Hell's angels, da dove vengono, cosa vogliono, quali sono i loro obiettivi? Thompson non ci fornisce solo le risposte (o piuttosto le sue risposte), ma ci conduce insieme a lui, in sella alla sua moto comprata per l'occasione, durante le sue serate all'El Adobe con gli Angels, o ai loro raduni ed alle loro feste, a rischiare le botte (fino, all fine dei giochi, a prenderle per davvero) per cercarle, queste risposte, per strappargliele di bocca quando sono troppo ubriachi o sfatti anche solo per rendersi conto che sarebbe meglio tenere la bocca chiusa, o quando sono divenuti talmente vanitosi da comprare i giornali solo per cercare qualche articolo che parli di loro. Quello che scopriremo (e soprattutto quello che scoprirà l'America dell'epoca) non è ciò che ci aspettavamo. Per esempio, ci imbatteremo in una stampa che parla del fenomeno Hell's angels senza conoscerlo e a tal punto spaventata da esso da tenersene ben alla larga, finendo così per descrivere all'americano medio un qualcosa che è più orribile ed al contempo più affascinante di ciò che emerge dalla cruda e semplice realtà dei fatti. Ma quali sono questi fatti? Sono realmente degli stupratori di gruppo? Forse si e forse no, ma nei casi verificati da Thompson gli Angels vengono sempre prosciolti perchè, di solito, si tratta di sesso di gruppo, magari selvaggio, magari perverso, ma comunque consenziente. Le violenze? Ci sono, e in gran misura, gli Angels non rifuggono la violenza (la violenza è parte integrante della loro estetica), ma spesso si tratta di risposte a provocazioni (o a ciò che gli Angels intendono come provocazioni, normalmente in senso estensivo), anche se non sempre. Poi, hanno strane abitudini: sono capaci di distruggere un bar, di farlo a pezzi, ma prima di uscire pagano i loro conti fino all'ultimo centesimo. A volte hanno famiglia, moglie e figli. Se la cavano con lavori saltuari o stagionali e con i sussidi di disoccupazione. Ma, alla fine, cosa vogliono relamente questa sorta di Unni su due ruote? Sicuramente non ciò che la gente immagina che vogliano. Ad esempio, non vogliono ciò che vuole il movimento Hippie dell'epoca, non cercano la pace, se la ridono del credo della non-violenza, non inseguono un altro mondo (magari lo vorrebbero anche, ma non hanno i mezzi culturali per saperlo immaginare) nè utopie di alcun genere, non pretendono che gli U.S.A. si ritirino dal Vietnam, non hanno interesse alcuno per gli obiettivi per cui si battono i comunisti (una società più giusta, ad esempio) perchè essi stessi sono fortemente anticomunisti (forse senza neppure sapere bene il perchè), anche se nella sostanza delle cose spesso vivono come una sorta di comune portata all'eccesso. Forse neppure sanno cosa desiderano, questo fino almeno a quando i media non fanno di loro delle star: allora comprendono (o forse non lo comprendono neppure ma si comportano comunque di conseguenza) che ciò che vogliono è la fama, sono i titoli sui giornali, sono le interviste, e sono i soldi. La fama, in qualche modo, arriva, la fama a cui puntano loro, e che si meritano, quella di terribili fuorilegge, nulla di più, ma i soldi no. Quelli non arriveranno mai, non hanno idea di come fare ad attrarli, e dunque continuano a guadagnarsi una modesta pagnotta come meccanici, magazzinieri, lavoratori stagionali, spiantati di ogni genere che non hanno un futuro e che sanno perfettamente che un futuro non l'avranno mai. Soprattutto hanno accettato la loro condizione di esclusi e hanno reagito di conseguenza. Sono tagliati fuori dalla società del benessere e per questo decidono di apparire agli occhi dell'americano medio esattamente come l'americano medio li vuole vedere: brutti, sporchi, porci (depravati, libidinosi e soprattutto violentatori) e cattivi. Sono punk prima che nascano i punk, ma punk feticisti delle motociclette e non della musica (o rumore che dir si voglia), sono figli di perdenti e perdenti essi stessi, il sottoprodotto del sottoproletariato americano che non ha nessun intenzione di muovere un solo muscolo per cambiare il proprio status. L'America non riesce a renderli parte del Grande Sogno a Stelle e Strisce e quindi ha bisogno (un bisogno disperato e incoerente) di vederli come esseri indegni di questo sogno: la responsabilità se non ne fanno parte non può essere del sistema America (società, economia, valori, media, ecc.), deve per forza essere colpa loro. E questo è il dono che gli Angels portano al proprio paese, una scusa per continuare a credere di essere perfetto o, quantomeno, nel giusto. E' colpa loro, tutta colpa loro e di nessun altro: sono dei loser, dei perdenti che non avranno neppure diritto ad essere cantati da un Bruce Springsteen qualsiasi nè di venir immortalati nei libri di qualche Nelson Algren, o John Steinbeck (che in realtà ha il tempo di vederli ma che sarebbe morto di lì a poco) o Ernest Hemingway. Sono troppo cattivi, non hanno ideali, sono selvaggi, puzzano, hanno barbe e capelli lunghi, non hanno sogni, non hanno nulla da portare in pegno al futuro, non sanno come cambiare la realtà in cui si trovano a vivere e se lo sapessero non avrebbero idea della direzione in cui incanalare il corso delle cose. Trattano le donne come oggetti, sono lontani anni luce dal movimento femminista di quegli anni, e coi figli dei fiori hanno in comune solo la passione per le droghe, ma senza pretese trascendentali, non credono che sballarsi li conduca sulla soglia della percezione di un altro mondo, è solo che a loro piace sballarsi, così come adorano sbronzarsi, e gettarsi nelle risse, andare in giro sventolando svastiche e sfoggiando elmetti nazisti, terrorizzando la gente. Amano spaventare la Brava Gente della Nazione, per loro è come mettere in piedi uno spettacolo: l'America ha drammaticamente bisogno di aver paura di qualcuno o di qualcosa, e gli Angels sono esattamente quello che l'America cerca. Nient'altro però. Niente di più.
  E se Algren e Hemingway non scriveranno mai un solo racconto su di loro, allora è Hunter S. Thompson che si prende la responsabilità di farlo, nel suo solito stile, personalissimo, scanzonato e pungente come pochi. Ironico ma al contempo capace di analisi che, al giorno d'oggi, a decenni di distanza, paiono più azzeccate che mai.

  Di corollario a tutto ciò, una considerazione: diventa un'urgenza quella di avere in Italia una biografia di Hunter Thompson, non se ne può fare ancora a meno. Non per molto tempo. La speranza che nutro è che tra le carte lasciate da Thompson si trovi un'autobiografia, perchè Hunter S. Thompson raccontato da sè medesimo sarebbe il punto più alto del Gonzo Journalism ed al contempo il suo punto di fusione, di annullamento. Noi fans del genio irregolare di Thompson rimaniamo in attesa che venga tradotta tutta la sua opera, articoli ed inediti compresi, perchè la sua visione sbilenca e lucidissima è indispensabile per farci un'idea di questo guazzabuglio di fatti che la folla si ostina a chiamare realtà.

  

  Hunter Stockton Thompson (o Raoule Duke, o Dottor Gonzo) è nato nel Kentucky, il 18 luglio del 1939. Fece parte della Athenaeum Literary Association di Louisville, ma atti vandalici, lingua mai tenuta a freno e ubriachezza lo portarono ben presto a conoscere il carcere.
Questi problemi gli impedirono di laurearsi.
Prestò il servizio militare nell’aviazione militare in Texas e poi in Florida: scrisse di sport sotto pseudonimo per alcuni giornali interni alle basi di San Antonio e Pensacola. E' considerato l'inventore del cosiddetto Gonzo Journalism. In Italia sono stati pubblicati: Cronache del Rhum, Screwjack, Paura e disgusto a LAs Vegas, Meglio del Sesso, Hey Rube, Paura, disgusto e la grande pesca allo squalo. Hunter S. Thompson si è suicidato a 67 anni il 21 febbraio 2005 con un colpo d'arma da fuoco alla testa a Woody Creek in Colorado (in realtà la sua morta è avvolta dal mistero, pare che, scrivendo un libro sugli attentati dell'11 Settembre 2001 fosse incappato in documenti scottanti e che, una settimana prima, avesse previsto la sua morte: un approfondimento su questo aspetto lo potete trovare qui).

venerdì 21 settembre 2012

Segnali che precederanno la fine del mondo, di Yuri Herrera, La Nuova Frontiera editore

Gli Aztechi pensavano che l'aldilà fosse situato in un mondo che essi stessi chiamavano Mictlàn, il livello inferiore del mondo sotterraneo, sarebbe come dire gli inferi, il nostro inferno. Lo immaginavano a Nord, anche se all'epoca gli Stati Uniti non esistevano, ma forse nella loro immaginazione quella doveva essere una terra tanto maledetta quanto agognata già allora, o qualcosa di molto simile. Per raggiungerlo era necessario superare nove tappe, ovviamente costellate di pericoli e prove iniziatiche. In realtà, volendo trasporre la storia alle nostre latitudini, tutto ciò ricorda molto da vicino una certa Divina Commedia di un certo Dante, solo che qui non è lo stesso Dante che compie il viaggio, ma una ragazza, Makina, sveglia, seria e figlia dei suoi tempi e dei ricettacoli delle tradizioni passate, buone o cattive che siano, e non si smarrisce nel mezzo del cammino, ma sceglie deliberatamente, su richiesta di sua mamma Kora, di intraprendere la strada che la porterà a Nord, oltre i confini del suo mondo, si potrebbe dire "oltre le colonne d'Ercole", in realtà banalmente oltre la frontiera, in cerca non di una Beatrice qualsiasi, bensì di suo fratello che, come tanti, è partito anni prima tuffandosi nell'ignoto e non è più tornato. Makina non avrà con sè un Virgilio, bensì si farà aiutare dai potenti della Cittadina, gente poco raccomandabile, che potrebbero squartarla o violentarla con un solo sguardo di ghiaccio, ma che, o in cambio di favori (le fanno fare da corriere) o per vecchi debiti di riconoscenza con la madre, decidono di accordarle il proprio appoggio. Gente che parla poco, che vive nell'ombra e che non a tutti è dato vedere, persone, sempre che siano persone e non demoni, che mettono i brividi addosso al solo sentirne pronunciare i nomi. Makina si mette in cammino, attraversa tutti i nove capitoli che rappresentano le nove tappe per giungere all'estremo Nord. Ora, però, dirvi qui se troverà o meno il fratello e se, nel caso in cui lo trovasse, riuscirà a portarlo indietro, sarebbe come minimo crudele, perchè la storia è tutta qui. No, anzi, la storia è un'altra, altrimenti sarebbe come dire che l'essenza della Divina Commedia consiste nel sapere se Dante riesce o non riesce a riveder le stelle; la storia dovrebbe essere il viaggio, un viaggio iniziatico e di formazione: la faccenda del fratello però è l'unico snodo narrativo vero e proprio, per il resto non rimane nulla. Questo libro, che riesce nell'impressionante sconcerto di ridurre le 128 pagine de "La ballata del re di denari" (primo libro di Herrera e caso letterario internazionale) a 105 pagine, dovrebbe essere il secondo di un trilogia sul Messico, sulla frontiera, sul mondo dei narcotrafficanti o su tutti e tre assieme, e il filo rosso che li dovrebbe unire, oltre all'ambientazione "narcolatina" è lo stile minimista, a tratti poetico (un poesia naif), e la struttura tipica della fiaba. Se il connubio tra le argomentazioni terribili del mondo iperviolento dei narcotrafficanti e la struttura essenziale e facilmente comprensibile della favola è indubbiamente stata il primo motivo del successo di Herrera, tale connubio è in maniera altrettanto incontrovertibile il suo limite più grande. Se, come abbiamo detto, il centro del libro dovrebbe essere il viaggio (iniziatico, di formazione e via discorrendo), di questo viaggio rimane ben poco, quasi niente, non un cambiamento psicologico nella protagonista e non un arricchimento della storia. Resta la sensazione di aver sbirciato in sequenza una serie di immaginette bidimensionali che dovrebbero richiamare il lettore a realtà terribili ed angoscianti, ma che alla fine restano poco più che immaginette ben scritte che, tra l'altro, si reggono sulla presunta conoscenza del lettore della realtà che vogliono rappresentare, o attraverso altri libri (di altra caratura, Il potere del cane, Delirio, Ossa nel deserto, 2666, eccetera) e film, o attraverso le cronache dei giornali e della televisione, ma che da sole, se per assurdo il lettore ingnorasse l'esistenza di un mondo fatto di violenza e droga al confine tra Messico e Stati Uniti, non riescono a rappresentare nulla, se non la storia sconclusionata ed appena abbozzata di una ragazzina che si muove da un posto ad un altro in cerca di qualcuno.
 E' come trovarsi di fronte ad uno scheletro (o ad una lisca, volendo essere meno macabri), perfetto, bianchissimo, lucido, che però rimane ciò che è, uno scheletro (o una lisca). Possiamo stare lì fermi ad ammirarlo, ma se vogliamo sapere e capire chi è stato quello scheletro, il suo nome in vita, il sesso, la sua storia, dobbiamo distogliere lo sguardo ed andare a cercarci tutto questo da un'altra parte. Inquietante è come la critica internazionale riesca a creare dei fenomeni editoriali con in mano un pugno di sabbia: sembra che Herrera, con all'attivo 233 pagine pubblicate per un totale di due fiabe, sia diventato l'astro nascente della letteratura sudamericana nel mondo, letteratura sudamericana che per fortuna non ha bisogno di capicordata per farsi conoscere, dal momento che è in ottima salute e ben rappresentata da un numero impressionante di scrittori giovani e meno giovani che, di solito, hanno anche il coraggio di rischiare temi, strutture e linguaggi che nel resto del mondo è raro vedere ancora (quantomeno vederli pubblicati). Come ha fatto Yuri Herrera tra l'altro, che a mio avviso non è un narcoscrittore - sempre che ce ne siano e che questo termine significhi qualcosa - e non è neppure un grande scrittore, quanto piuttosto un buon artigiano che ha intrapreso una sua strada di sperimentazione, con i suoi limiti ed i suoi punti di forza, e come tale va letto.
  Non è un libro da scansare a tutti i costi, è un libro da prendere con le pinze, per evitare di ridurre Herrera ad una sorta di santino da baraccone tipo Coelho. Non credo che potrà scrivere tutta la vita utilizzando questo stilema delle narcofiabe, ma credo che dovrà giocoforza continuare sulla stessa rotta per il terzo libro della trilogia. Per questo aspetto il suo quarto libro. Magari si dimostrerà uno scrittore all'altezza e magari si potrà apprezzare qualcosa di più di quello scheletro (o lisca) così bianco (o bianca).



Yuri Herrera è nato ad Actopan, in Messico, nel 1970. Ha studiato Scienze Politiche in Messico e Letteratura negli Stati Uniti. Con il suo primo romanzo La ballata del re di denari ha vinto, nel 2003, il Premio Binacional de Novela "Border of words", e nel 2009 in Spagna il premio "Otras voces, otros ambitos", confermandosi come uno degli scrittori messicani più promettenti.