"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 30 agosto 2015

Lascia stare la gallina, di Daniele Rielli (Quit the Doner), Bompiani editore

  Nello scarto inciso tra la generazione di Rosario Petrachi (il padre, sindacalista) e Salvatore Petrachi (il figlio, faccendiere criminale) sta tutta la storia recente d'Italia. Questo libro, a suo modo perfetto, risponde alle domande che continuano a ronzare nelle orecchie di quella parte del paese che, ancora, non si vergogna di avere una coscienza: come siamo arrivati fino a qui? Come è stato possibile? Cosa ci hanno fatto per farci diventare quello che siamo oggi?
Per definire il romanzo di Rielli è necessario utilizzare il titolo di un altro libro, appena uscito, di Maurizio Maggiani: Il romanzo della nazione. Lascia stare la gallina è, nonostante il titolo "Cochirenatesco", la storia tragica (pur se raccontata con stile disincantato, quasi drammaticamente leggero) degli ultimi decenni italiani, è la cronistoria di come una società sostanzialmente sana (pur con i suoi atavici difetti) si sia corrotta da sola.
  
 C'è gente che pagherebbe pur di vendersi (Victor Hugo)

  L'operazione che mette in campo Rielli è ambiziosa, letterariamente molto rischiosa, ma gli riesce alla perfezione. Il nuovo Salento turistico-affaristico-edonistico si è sovrapposto a quello rurale e arretrato, lasciandone però emergere vecchi campanilismi (verso i baresi, i napulicchi, i polentoni), razzismi (verso gli albanegri) e sessismi atavici (la vittima è donna, le altre, quasi tutte, vivono in uno stereotipo: o madri e donne di casa o prostitute), è questo Salento il microcosmo che viene messo sotto la lente d'ingrandimento per studiarne le dinamiche che in realtà sono quelle che hanno stritolato il paese a livello nazionale. Ma il romanzo non si ferma qui, non si limita a riprodurre su carta uno schema, con agili flashback ci mostra il passato (la manifattura tabacchi, l'attività sindacale, l'infanzia del protagonista compresa la gallina del titolo) e lascia che il lettore non solo metta a fuoco lo scarto tra il prima ed il poi (il presente) ma che isoli e definisca quali sono stati i prodromi che hanno dato il via all'attivarsi di un meccanismo di potere corruttivo che ci ha condotti fino ai giorni nostri. Se Salvatore Petrachi è il simbolo dell'ultima generazione che ha pagato (caro) pur di vendersi, il Salento lo è di quell'Italia che, nel suo volontario scadere a semplice divertimentificio da paese dei balocchi, ha venduto non solo sè stessa ma al contempo il futuro dei propri cittadini. Lascia stare la gallina insinua uno sguardo chirurgico e scanzonato dietro le quinte del sistema di potere e corruzione mafioso o paramafioso che si è impossessato della vita pubblica del paese. 

  Agosto 2011. Martina Scalzi, giovane turista in vacanza in Salento, viene trovata morta tra le dune del campeggio nel quale trascorreva le vacanze assieme ad alcune amiche. Della sua morte viene immediatamente incolpato un altro ragazzo, il ventiduenne Marco De Sanctis, figlio della Bologna bene. Qui sta l'inghippo che mette in moto il meccanismo narrativo: il pollo da sacrificare proviene da una famiglia che ha i mezzi per reagire. L'avvocato della famiglia De Sanctis incarica l'ex poliziotto corrotto Salvatore Petrachi, attualmente imprenditore rampante nel campo della sicurezza privata e criminale a tempo pieno, di indagare alla ricerca di prove che scagionino il suo cliente. De Sanctis è il colpevole ideale, è l'ultimo ad essere stato visto con la vittima, con la quale tra l'altro ha consumato un rapporto sessuale poco prima che questa venisse uccisa, quando è stato fermato dalle forze dell'ordine se ne stava andando dal campeggio in anticipo rispetto alla data prevista e infine è stato trovato in possesso di un certo quantitativo di marijuana. Però non è stato lui ad uccidere Martina. Il testimone che giura di averli visti litigare, mente. Perchè? Chi protegge? Totò Petrachi comincia a darsi da fare, fa domande, mette il naso in giro e, poco alla volta, il delitto da cui è nata l'indagine e quindi la narrazione, finisce col diventare un semplice riferimento di fondo. Le piste che segue, che a volte non portano a niente, aprono scenari che svelano il mondo (il mondo di mezzo) che stà al di là delle quinte da Bel Paese che tutti ammirano e con le quali tutti si crogiolano. Sesso, corruzione, mafia nostrana e albanese, politica, malaffare, traffico d'armi, di droga, il salvataggio posticcio della locale manifattura tabacchi (operazione che ricorda moolto da vicino l'affaire Alitalia), imprenditoria di facciata che in realtà nasconde attività illegali (Il Saraceno, il ristorante alla moda di proprietà di Petrachi - socio occulto - e di Adamo Greco, suo amico e cumpa' d'infanzia), servizi segreti, razzismo (che solo il comune terreno criminale stempera), prostituzione di alto livello, orgie e ammazzatine varie. Ancora più sullo sfondo, ma come amor che move il sole e l'altre stelle, lo scenario politco nazionale, a Roma. Il presidente regna ancora ma ormai il suo declino è evidente a tutti e il crollo è già deciso, di conseguenza nelle province dell'impero tutta una serie di sommovimenti di assestamento preparano le realtà politiche locali al nuovo scenario che di lì a poco rimodellerà il paese. Ogni periodo di cambiamento e di crisi è un momento che apre nuove possibilità agli occhi dell'imprenditore capace, e Totò Petrachi, a suo modo, lo è: approfitterà delle rivoluzioni in atto per ritagliarsi il suo angolo di paradiso nel Salento che conta.

  Rielli, già Quit the Doner (Quitaly, Indiana Editore), ha al suo arco talmente tanti talenti narrativi da lasciare inizialmente l'impressione di esagerare nel farne sfoggio. Con questo libro scrive la storia del suo paese, e lo fa senza mai spostare l'attenzione dalla godibilità della trama, dipinge personaggi credibili e disegna con attenzione lo schema preciso di come entità politica, imprenditoriale, malavitosa e giornalistica collaborino al fine di controllare la realtà di un territorio (e qui si dimostra anche gionalista di razza) . Nessuno nel libro è totalmente buono, e anche chi è cattivo tout court non risulta comunque una semplice immagine bidimensionale da fumetto, ogni personaggio ha una sua profondità e una passato che lo ha costruito. Lo stile è straripante, vulcanico, ironico e moltiplica i punti di vista della storia fancendo di questo Lascia stare la gallina un romanzo corale. Moltiplica i registri, fa ampio uso del parlato dialettale, inserisce articoli giornalistici, sa quando alzare il piede dall'acceleratore e quando invece pigiarlo fino in fondo. L'uso dell'ironia non svaluta mai la brutalità degli eventi ma, semmai, come la colonna sonora in Arancia meccanica, la rende più spaesante. Il male non è un'entità che entra nel corpo di una persona e la possiede, bensì la risultante di innumerevoli scelte sia di natura politica e sociale che di natura più strettamente personale, e come tale non contamina un solo individuo ma l'intera società (per questo un romanzo corale).

  Non so se Rielli sia effetivamente l'Irvine Welsh italiano (io penso di si), se la sua produzione letteraria futura confermerà questo giudizio (e quanto sarà difficile confermare una qualità e complessità come quella di quest'opera prima!), indubbiamente è la novità più straordinaria capitata alla letteratura italiana negli ultimi anni.

  Unica, minima, pecca: sappiamo perchè Martina Scalzi è morta (e ovviamente qui non lo svelo) ma, considerando che ogni piega narrativa è stata svicerata e portata a suo termine, ci si sarebbe aspettati che anche questo aspetto venisse appronfondito e spiegato a fondo (avrebbe avuto un certo potenziale narrativo da dispiegare). 


Daniele Rielli (Quit the Doner) è nato nel 1982. Realizza reportage narrativi per “Il Venerdì di Repubblica”, “Internazionale” e “Riders”. Scrive storie per la televisione e il teatro. Laureato in filosofia, ha collaborato anche con “Vice” e “Linkiesta” diventando uno degli autori più noti di long-form journalism italiano. Nel 2013 ha vinto il Mia Award per il miglior articolo italiano e nel 2014 ha pubblicato con Indiana Editore Quitaly, raccolta dei suoi reportage. I suoi lavori sono riuniti su www.quitthedoner.com, uno dei siti autoriali più seguiti d’Italia.

sabato 8 agosto 2015

La morte del prossimo, di Luigi Zoja, Einaudi editore

                                           
Diceva Marcello Marchesi: Nessuno si è mai ammazzato perché non riusciva ad amare il prossimo suo come sè stesso. Prima che un signore passato alla storia come Gesù il Cristo lo postulasse, nessuno aveva mai neppure pensato che avesse senso perdere tempo a formulare un pensiero simile. All'epoca, oltre che rivoluzionario, doveva suonare parecchio bislacco: non solo il crisitanesimo pretendeva che si amasse Dio (richiesta data per scontata da qualsiasi religione, la conditio sine qua non) ma addirittura che si amasse il prossimo, e per di più come sè stessi. Era folle. Poi nella storia della filosofia si fece largo un tale di nome Nietzche (che nel corso della sua vita segni di follia (e di ippofilia) li dimostrò per davvero) che per la prima volta da che il mondo aveva preso a girare su sè stesso se ne venne fuori col (dato di)fatto che Dio era morto. Da lì in avanti rimase solo il prossimo, inteso come umano, come umanità: l'uomo avrebbe dovuto prendere atto che la storia del pensiero, non ultimo l'illuminismo e lo scientismo, lo obbligavano ad accollarsi tutte le responsabilità dello stare al mondo. Dio non aveva più voce in capitolo. Un'alluvione era un'alluvione e una pestilenza una pestilenza, non erano castighi inviati da nessuno, bisognava rimboccarsi le maniche, mettere in sicurezza le città e pensare a lavarsi un po' più spesso. Il rapporto, un tempo esclusivamente verticale (verso Dio), col cristianesimo era divenuto una croce (verso Dio in senso verticale, e verso il prossimo in senso orizzontale) e dopo Nietsche si era parificato in senso unicamente (e tragicamente) orizzontale. Volendo, si può citare anche Woody Allen quando puntualizzava: Dio è morto, Marx è morto, e anch'io non mi sento tanto bene. E il saggio di Zoja, in un certo senso, proprio questo analizza: dopo la morte di Dio, la morte del prossimo (che sia Marx o il sottoscritto poco importa). Ed essendo Zoja, lo fa portandoci per mano, con semplicità, ma stando ben attento a farci compiere tutti i passi necessari per ripercorrere il tragitto lungo il quale qualcosa abbiamo smarrito. Presso quali crocicchi abbiamo intrapreso una strada piuttosto che un'altra e dove queste deviazioni ci hanno infine condotto? Le ideologie e le rivoluzioni culturali, ad esempio, puntando sul concetto di solidarietà hanno aperto la porta al desiderio individuale che, ovviamente, si è fatto largo a gomitate e della solidarietà se n'è fatto un baffo; laddove il sogno era quello di un mondo dove tutti fossero uguali nella diversità, si è trasformato in un mondo in cui tutti si uniformano a desiderare le stesse cose e sono disposti a mettersi in competizione per ottenerle. Lo spazio del desiderio ha fagocitato l'utopia, "l'uomo-essere desiderante" ha spazzato via quello sociale. Quando il prossimo ancora c'è è divenuto un concorrente, qualcuno a cui non posso chiedere aiuto o confidarmi ma da cui mi devo guardare se non voglio soccombere (a volte per davvero, più spesso simbolicamente). L'individualismo esisteva già in nuce nella rivoluzione dei figli dei fiori, ed ha finito per trasformarsi subdolamente nel primo baluardo dell'attuale società iperconsumistica. La società iperconsumistica, da parte sua, una volta plasmato il cittadino a sua immagine e somiglianza (non più semplice "essere desiderante" bensì brutalmente "consumatore") lo ha ingabbiato, gli ha levato i diritti (vedi l'attuale mondo del lavoro), e gli ha messo in mano uno strumento ulteriore per alienarlo definitivamente, isolarlo da chi ci è vicino (il prossimo appunto) e dargli l'illusione di essere in contatto (in connessione) con il resto del mondo: lo smartphone. L'uomo, solo, in mezzo alla folla era già stato postulato, ma avevamo scordato di mettergli in mano un cellulare connesso ad internet. Ci troviamo nella stessa stanza, in silenzio, ognuno con gli occhi ammorsati allo schermo del telefonino, a far scorrere i post di facebook, abbiamo amici che non conosciamo, e ignoriamo le persone che ci stanno accanto, che possiamo toccare, con le quali possiamo interagire. Si tratta di un mutamento antropologico vero e proprio e, forse, si tratta del cambiamento che si è manifestato nella maniera più repentina in assoluto nel corso della storia. Non abbiamo più una comunità di riferimento di persone in carne ed ossa, bensì mille community formate da persone di cui ignoriamo l'aspetto, il nome e spesso anche il sesso. Ovviamente Zoja, come detto, approfondisce da par suo tutti gli aspetti e gli snodi storici e culturali che hanno portato allo stato attuale delle cose - all'homosmartphone -, analizza, domanda, s'immerge in profondità e ne riemerge con all'amo una serie di prove che, senza il suo occhio di esperto, non saremmo probabilmente mai stati in grado di mettere insieme. La morte del prossimo è un libricino tanto snello ed agile alla lettura quanto imprescindibile per chi sente la necessità di fermare per un attimo la giostra e scendere a ragionare sul presente. Chi siamo, dove andiamo, cosa siamo diventati e infine dove diavolo siamo diretti. Zoja, psicanalista di fama mondiale, divulgatore di livello finissimo e al contempo alla portata del grande pubblico, autore, tra gli altri, dello splendido saggio "Paranoia, la follia che fa la storia" (per Bollati Borignhieri: non consigliato, di più!), come sempre sa parlare al lettore comune, prenderlo per mano e condurlo con passo sicuro lungo le delizie del ragionamento.
Di Zoja, per inciso, andrebbe letto tutto.
Dio è morto, Marx è morto ma Zoja è in piena salute.


Luigi Zoja, psicoanalista di fama mondiale, è stato presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e ha vinto due Gradiva Award. Fra i suoi libri: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), Storia dell'arroganza (2003), Giustizia e Bellezza (2007), La morte del prossimo (Einaudi, 2009) e In difesa della psicoanalisi (Einaudi 2013, con S. Argentieri, S. Bolognini e A. Di Ciaccia), Paranoia, la follia che fa la storia (2011 Bollati Boringhieri), Utopie minimaliste (2013 Chiarelettere)

domenica 2 agosto 2015

Il Pozzo, di Juan Carlos Onetti, EdizioniSur, trad. di Ilide Carmignani

  Eladio Linacero, giunto ai suoi quarant'anni, decide di scrivere le sue memorie perchè, non ricorda dove, ma ha letto che a quarant'anni un uomo deve comporre la sua biografia. Ecco, più o meno è tutto qui, in 57 pagine di letteratura al suo stadio più puro.
  Cos'ha da raccontarci Eladio Linacero? Perchè lui è certo di aver vissuto moltissime esperienze degne di essere raccontate (o, più che altro, dal suo punto di vista, ascoltate), anche se in effetti non andrà proprio così, per certi versi, ma in realtà invece sarà proprio quello che accadrà (poi mi spiego). lo ossessiona il ricordo di una ragazza, Ana Marìa, ricordo che chiama "della capanna dei tronchi", un ricordo che gli ritorna spesso addosso come fantasia, forse addirittura come alluncinazione: Ana Marìa che torna da lui nuda, e si stende su un letto di paglia. Ma ricordo e fantasia, pur non confondendosi, si sovrappongono, vengono a traslare di significato. Il ricordo non porta traccia di senso di colpa nè di drammaticità, è distaccato, come rivissuto da un io totalmente amorale. La fantasia invece soffre della frustazione propria di ogni fantasia, vale a dire la sua distanza dalla realtà. In un certo senso, si potrebbe riassumere: quello che è stato fatto non è importante, non lascia ferite nell'abito morale del senor Linacero, diventa rilevante quando si trasforma in fantasia e qui il segno lo incide nell'animo, perchè altro non resta se non il fantasticare. "Ho fatto, ma è come se non fosse mai successo", e poi, "vorrei ma non posso", ma con un passaggio ulteriore, mostruoso soprattutto per la naturalezza con la quale il narratore ce lo propone: il passaggio da reale a fantastico è sotteso da un desiderio sessuale totalmente amorale, se non propriamente immorale. E' contorto, capisco, ma in realtà, a leggerlo, risulta assolutamente chiaro, a tal punto da passare quasi inosservato. El senor Linacero però è convinto che questo ricordo (e la fantasia ad esso collegata) sia degno di essere raccontato e, soprattutto, ascoltato. Fa mostra di umiltà ma lascia intendere che ormai lui è uno che si occupa di scrittura (Niente di più lontano da me dell'idea di mostrare a Cordes che anch'io sapevo scrivere). Così scende nel pozzo dei suoi ricordi, nel nero umido che è stata la sua vita, e ne estrae altri, smozzicati, appena accennati: descrive un paesaggio che lascia per massima parte incompiuto e si perde nel valutare le reazioni di quelle poche persone a cui ha raccontato, in parte, le sue memorie in via di composizione: una puttana (Ester) e un poeta (Cordes). Sono fili che cominciano ad intrecciarsi e poi, ad un dato momento, si sfilacciano. E' una discesa nel pozzo di un uomo grigio, privo di obiettivi, sconfitto, amareggiato, disgustato da tutto fuorchè da sè stesso. Si sente superiore al mondo, ne vede le bassezze, le storture, le patisce sulla propria pelle, le rimira incise nella propria esistenza ma rimane però incapace di riconoscersi parte di quel mondo, pure lui basso e storto (moralmente parlando). Ora torno al (poi mi spiego) di cui sopra. La puttana ed il poeta non reagiscono, all'ascoltare le sue memorie, come Linacero si era aspettato, e quindi, il suo desiderio (vissuto fino a quel momento quasi come una certezza) ne risulta frustrato (una desillusiòn màs). E se rimaniamo a quanto racconta il narratore nel suo libricino di memorie, è vero: nessuno è interessato ad ascoltare la sua vita (quel puzzle smozzicato che Linacero ci presenta: il caos strutturale nel raccontare è specchio del disordine morale del narratore/protagonista). Ma a questo punto ci rendiamo conto di un altro piano, metanarrativo: ossia ci sono i lettori, quelli veri, non quelli fittizi interni al racconto, cioè ci siamo noi, e noi lo stiamo leggendo, e vorremmo anzi che continuasse con quel suo magmatico e parziale racconto di eventi ora immorali ora amorali, quel suo registrare il calore del giorno, i rumori della strada, le ciccione che lavano i panni, gli sfaccendati che fumano (come lui d'altronde: "io sono un uomo solitario che fuma in un punto qualsiasi della città"), il coro dei cani, il gallo che canta di tanto in tanto, a nord, a sud, in qualche posto sconosciuto, i fischi delle guardie che si ripetono sinuosi e muoiono.
  Eladio Linacero è un antieroe, come antieroi sono i protagonisti di tutti i libri di Onetti: è pessimista e cinico (nichilista, per certi versi simile all'Erdosain de I sette pazzi, di Arlt, ma privo dello slancio folle che questi proietta sul reale), vede l'essere umano per quello che è, una pozza maleodorante senza il benchè minimo senso, ma il suo stesso raccontarsi, il suo stesso elevarsi rispetto alla melma che lo disgusta, a sua volta disgusta i suoi lettori che non lo riconoscono migliore degli oggetti del suo disprezzo. Ma Onetti è Onetti, un gigante, e questi abissi (pozzi appunto) di pessimismo cosmico li rende con tratti stilistici inarrivabili: la poesia del vuoto la si potrebbe definire.

<< Un rumore breve, come uno stridio, mi fa guardare verso l'alto. Sono sicuro di scoprire una crepa nel punto esatto dove ha gridato la rondine. Inspiro la prima aria che annuncia l'alba fino a riempirmi i polmoni; c'è un'umidità fredda che mi sfiora la fronte alla finestra. Ma tutta quanta la notte, inafferrabile, tesa, sta allungando la sua anima fine e misteriosa nel filo d'acqua del rubinetto chiuso male, nel lavatoio di cemento del cortile.>>

  Aggiungo: in questa splendida e coraggiosa veste delle EdizioniSur, spicca la traduzione di Ilide Carmignani, nonchè l'introduzione di Juan José Saer.
  Una curiosità: Il pozzo è stato scritto da Onetti in un fine settimana, sotto l'influsso della mancanza di nicotina (aveva smesso di fumare).

 

Juan Carlos Onetti (1909-1994) uruguayano, ha ricevuto nel 1980 il Premio Cervantes, massimo riconoscimento della cultura ispanica, per la sua carriera letteraria. Fra le sue opere: Per questa notte (1943), La vita breve (1950), Il cantiere (1961), Lasciamo che parli il vento (1979).