"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 22 febbraio 2015

Il fuggiasco di Xiamen, di Oliver August, Adelphi editore

Il titolo originale è Inside the Red Mansion, che non ha nulla a che vedere con quello italiano, Il fuggiasco di Xiamen. Il sogno della Residenza Rossa è uno dei quattro romanzi considerati i grandi classici della letteratura cinese, scritto da Cao Xuequin e pubblicato soltanto nel 1792, a trent'anni dalla morte del suo autore. Lai Changxing invece è il fuggiasco del titolo italiano, e Xiamen è la città dalla quale è fuggito, una città costiera (nella provincia di Fujian, di fronte all'isola di Taiwan) che è una delle zone che il governo centrale cinese ha destinato ad un esperimento di liberismo spinto. In pratica è una sorta di porto franco dove bene o male è concesso tutto, o quasi, in barba a Mao e ai suoi insegnamenti. La gente delle campagne vi si riversa a migliaia ogni giorno, tutti con la prospettiva di un futuro migliore, se non per sè, almeno per i propri figli. I palazzi sorgono da un giorno all'altro e l'aspetto dei quartieri viene stravolto di mese in mese. I grattacieli hanno nomi esotici (per noi, ovviamente), e crescono come funghi. Gli operai muoiono sulle impalcature grazie ad un'assenza quasi demenziale di standard di sicurezza, ma i milionari si moltiplicano a vista d'occhio ed hanno standard di vita extralusso. Chi è più in basso nella scala sociale, si lambicca il cervello per comprendere i segreti di chi ce l'ha fatta ed imitarli. Ognuno si dà da fare convinto che il proprio turno verso la ricchezza sia il prossimo. E Lai Changxing è uno che ce l'ha fatta, che il proprio turno l'ha strappato al destino e se l'è portato a casa e, nel giro di pochi decenni da campagnolo analfabeta diventa uno dei personaggi più in vista della nuova Cina e il "mammasantissima" di Xiamen. Tutti sanno chi è, tutti dicono di averlo incontrato almeno una volta, o di averlo visto, e tutti hanno degli aneddoti su di lui, leggende che lo ritraggono nei panni di munifico e onnipotente imprenditore, il cosiddetto Nuovo Che Avanza In Stile Cinese. Soldi, auto, belle donne, concubine, un palazzo, La Residenza Rossa appunto (nome che l'analfabeta Changxing mutua dal classico della letteratura), dove i funzionari di partito ed i militari possono dedicarsi ai piaceri della carne in santa pace, secondo il più classico dei luoghi comuni dei ricchi e potenti: le donne sono il miglior modo per ungere gli ingranaggi della burocrazia. Non si fanno affari senza donne di mezzo. Oliver August, giovane reporter mandato in Cina dal Times perchè è l'unico che si fa avanti per ricoprire il ruolo di inviato nel paese dove non tramonta mai il sole, e non perchè affascinato dalla cultura orientale nè da altro, ma semplicemente per prendere le distanze da una vita e da un lavoro che in quel momento stavano languendo in un brodo tiepido di tranquillità borghese che cominciava ad inquietarlo. August scopre presto Xiamen, vi si trasferisce per diversi mesi l'anno e vi s'immerge, immigrato come il resto della città. A Xiamen tutti sono immigrati da altri posti, di solito dalle campagne e da altre province, parlano altri dialetti, non conoscono la città e non appena si abituano all'aspetto del proprio quartiere questo cambia repentinamente. Tutti sono sradicati, tutti si reinventano. Xiamen è un (non) luogo dove tutto è possibile, dove ognuno può decidere chi essere e per quanto tempo. A Xiamen non si parla d'altro che di Lai Changxing, e August non può fare a meno che lasciarsi affascinare dalla sua figura che poco alla volta diventa la chiave privilegiata dell'autore per capire e raccontare la nuova Cina, l'accelerazione impressionante di una cultura che ha sempre fatto dell'impassibilità e dell'immobilismo una virtù e che, con il comunismo del Grande Padre Mao, si era disegnata come una struttura perfetta dove tutto doveva funzionare e quindi funzionava, a prescindere da quello che realmente accadeva, al suo interno ed al di fuori di essa. Morto Mao, Deng Xiaoping, lancia il proprio paese verso il futuro e, considerata la risposta che ne riceve, viene da pensare che il paese non aspettasse altro. Come se avesse trattenuto il fiato per tutta l'epoca maoista e all'improvviso, finalmente, potesse immettere aria nuova nei polomoni per mettersi a correre. La ricerca di Lai Changxing da parte dell'autore diventa così il tentativo del lettore di capire un paese che in generale non conosce, o conosce ben poco, secondo pregiudizi ormai sorpassati, ma al contempo fa nascere una domanda (molte in realtà): Lai è un abile imprenditore spregiudicato (in un paese dove il capitalismo non esiste, se non come "capitalismo di stato") o un comune delinquente? E quel nucleo oscuro che è l'immensa macchina politica che dal Politburo scende giù fino agli oscuri burocrati di partito che ruolo svolge in questa storia e, più in generale, nell'attuale stagione politico-economica della Cina? Lai ha davvero corrotto tutti, dai militari ai funzionari, fino ai politici di primo rango del Politburo? E poteva fare altrimenti? Chi ha usato chi? Ed è vero che il governo, non solo lo ha tollerato, ma lo ha sostenuto fino al momento di entrare nel OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) per poi, non solo abbandonarlo, ma per finire col dargli la caccia fino a scovarlo in Canada? Cos'è la Cina oggi? Ha il volto di Lai Changxing o dei membri del Politburo? O forse delle maitresse dei nightclub, o magari delle adolescenti di campagna che si fanno quattro giorni di viaggio per arrivare a Xiamen e dedicare la loro giovane bellezza a soddisfare i desideri dei nuovi ricchi? Oggi, in Cina, chi conta realmente, i politici (che si arrangiano prendendo metodicamente mazzette per svolgere il proprio lavoro) o gli imprenditori (che le mazzette le allungano per poter far si che la macchina burocratica, lentamente, si muova e permetta loro di portare avanti i propri progetti)? Il governo sembra essere un'entità oscura che tutto sà, ma che più di tanto non s'intromette con la vita reale del proprio paese, un'entità che sopravvive a sè stessa essendo conscia che l'immenso paese che dovrebbe guidare ha bisogno di tempo per cambiare definitivamente senza collassare su sè stesso. Così, interviene di tanto in tanto, per far si che il caos della modernità non sia completamente senza una guida, ed è quando la mano del governo si muove che le regole non scritte all'improvviso cambiano e gli eroi d'un tratto diventano fuggiaschi.



Oliver August è corrispondente del Times e di numerose altre testate, fra cui The Wall Street Journal, Financial Times e The Washington Post. Dopo sette anni trascorsi in Cina, attualmente risiede e lavora in Medio Oriente. Il fuggiasco di Xiamen è apparso per la prima volta nel 2007

sabato 7 febbraio 2015

Alla conquista di Lhasa, di Peter Hopkirk, Adelphi editore

Quando l'India era una colonia britannica gli Inglesi si presero un bello spavento. Causa di questo spavento era la Russia zarista (prima, e sovietica poi) che avanzava in Asia al ritmo di conquista di 150 chilometri al giorno. La paura (comprensibile) degli inglesi era che una volta occupata buona parte dell'Asia, o tutta, l'orso russo, si sarebbe avventato sul Tibet (formalmente sotto il controllo cinese) e da lì non avrebbe avuto nulla di meglio da fare, a quel punto, che gettarsi alla conquista dell'India. Detto in soldoni, questo è il Grande Gioco, lo sfondo storico del Kim di Ruyard Kipling e l'argomento dell'omonimo libro di Hopkirk, Il grande gioco appunto, in Italia edito da Adelphi, così come questo Alla conquista di Lhasa. Il Tibet è un'altipiano quasi irraggiungibile e incredibilmente inospitale che, dal settecento, aveva deciso di dare le spalle al mondo e di chiudersi in sè stesso. Questa chiusura, in buon parte subìta anche dai cinesi che, all'epoca, erano solo formalmente a comando del Tibet ma che in realtà se ne disinteressavano quanto più possibile, fu causa di un delizioso fraintendimento: ognuna delle potenze che considerava il Tibet come strategico riteneva che il Tibet stesso avesse stretto alleanze con una delle altre potenze concorrenti: Inghilterra, Russia e Cina. Da qui la necessità inderogabile di giungere nella capitale, Lhasa, la Città proibita, e farsi un'idea di come stavano realmente le cose. Il problema era che il Tibet era impermeabile al resto del mondo. Non accettava stranieri, in special modo occidentali. In primo luogo il territorio era la prima e principale barriera che respingeva chiunque volesse penetrare in Tibet senza essere preparato ad affrontare una sorta di inferno naturale, e in seguito, chi, armato di coraggio e fibra fuori del comune, riusciva a superare gli ostacoli del territorio e del clima, si trovava al cospetto dei rappresentanti del governo tibetano che - terrorizzati dall'idea che una potenza straniera potesse non solo invaderli, ma anche sostituire il loro credo religioso (che era anche credo politico: i lama avevano autorità spirituale e temporale, ed erano loro, con a capo il Dalai Lama, a governare politicamente il Tibet) con una religione aliena alla loro realtà - gli si paravano di fronte lasciando loro la scelta se tornare da dove erano venuti o venire arrestati e sottoposti all'implacabile giudizio che attendeva gli stranieri illegalmente intrufolatisi nel paese. Le pene, a detta del vero, erano piuttosto pesanti e rispecchiavano più il medioevo nel quale il Tibet si ostinava a vivere che non l'immagine spirituale e pacifista che ne abbiamo oggi (bruciare gli occhi, spezzare le ossa, venire gettati in celle malsane a vita, venir chiusi, legati mani e piedi in sacchi e gettati vivi nei fiumi, erano tutte applicazioni pratiche della legge che il Dalai Lama, il Dio-Re amatissimo in Tibet, rappresentava e gestiva). Detto questo, Alla conquista di Lhasa è il resoconto storicamente accurato e narrativamente appassionante dei ripetuti tentativi da parte degli occidentali (non solo inglesi per la verità) di raggiungere in segreto la Città proibita del Tibet, la mitica Lhasa. Scopriremo, leggendolo, un paese che pare essere un universo a parte, sporco, violento e inspiegabilmente allegro, per molti versi assurdo, dove i Dalai Lama che morivano avvelenati prima di raggiungere la maggiore età (per poter così governare) erano la maggioranza, dove i Lama, come rappresentanti di ogni classe di governo al mondo erano anche (non solo ovviamente) dei donnaioli privilegiati e spesso governanti intransigenti e bellicosi; un paese in cima al mondo che al mondo chiedeva semplicemente di essere lasciato in pace a vivere il medioevo che si era scelto e che, per cause geopolitiche che per molto tempo neppure riuscì a comprendere, al contrario si trovò a difendere con le unghie e con i denti il proprio assurdo isolamento, fino all'inevitabile capitolazione. Conosceremo personaggi tanto eroici quanto assurdi, indiani al soldo del governo inglese e avventurieri di ogni parte del globo, uomini e donne, bambini addirittura, folli e sognatori, cattolici ferventi in cerca di una terra da evangelizzare, medici, militari, aviatori e chi più ne ha più ne metta. Da un certo momento in poi il semplice dato geopolitico (capire cosa diavolo stava succedendo a Lhasa, e con chi si fosse schierato il Tibet: per la cronaca, con nessuno) passò in secondo piano e, semplicemente nacque "la febbre della conquista di Lhasa". Dal momento che nessun occidentale poteva metterci piede, e nessuno ve lo aveva mai messo fino ad allora, buona parte delle teste calde dell'occidente disposte a rischiare la vita o peggio, decisero che l'obiettivo stesso della loro vita era esattamente quello: essere ricordati come i primi ad entrare a Lhasa. Ecco, questo è un libro folle. E magnifico. Pur essendo un saggio storico, si legge come il più intrigante dei libri d'avventura, non si lascia mollare. Vorrei star qui a discettare di questioni politiche, storiche, strategiche e magari pure religiose e antropologiche (tutti aspetti che il libro tocca) e spiegarvi perchè questo libro sia una lettura imprescindibile per ogni intellettuale che si rispetti (e sarebbe anche un'osservazione giusta da parte mia), ma la verità è che è un libro bellissimo, interessante e, a tratti, divertente (lo stile ironico e distaccato dell'inglese Hopkirk in certi casi è impagabile), come un'istantanea della follia umana. E la follia è tragica e spassosa al contempo.

Peter Hopkirk: (15 Dicembre 1930 - 22 Agosto 2014) è stato un giornalista e saggista inglese.
Ha viaggiato per molti anni in molti posti, tra cui Russia, Asia Centrale, il Caucaso, India e Pakistan, Iran e Turchia orientale. Questi paesi sono il panorama dei suoi 6 libri pubblicati.
Prima di diventare autore a tempo pieno è stato reporter per la Independent Television News, corrispondente da New York per il Daily Express ed in seguito ha lavorato per quasi vent'anni a The Times, cinque come capo reporter e poi come specialista del Medio ed Estremo Oriente.