"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

sabato 22 febbraio 2014

Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag, Metropoli d'Asia

  Il Naga è un'entità presente già presso i culti animisti pre-buddisti ed è raffigurato come un serpente a sette o a nove teste, rappresenta le forze oscure dell'universo, ma non solo: è un elemento dell'acqua che ne definisce la forza nutriente e, al contempo, quella distruttrice. In un certo senso è il protagonista di questo libro, che dà il via all'intrecciarsi degli eventi (apparendo in sogno) e li conclude sommergendo tutto e tutti e dispensando morte, distruzione e tragedia, ma nel libro, così come nelle credenze, è una presenza carsica che scorre invisibile sotto lo strato ordinato della narrazione e solo ogni tanto lascia emergere il capo (o i capi, sette o nove che siano) inquietante. Allora, Don è un monaco che, in seguito ad un sogno sinistro avente per protagonista appunto il Naga, lascia i voti e torna nella metropoli dalla quale era fuggito anni prima dopo aver ucciso accidentalmente un bambino. Marisa è una star, l'attrice dalla bellezza divina che tutto il paese conosce e idolatra, la bellezza pura in cui ogni ragazza thalinadese si rispecchia, e si trova ad una svolta della sua carriera: prima di scivolare in ruoli di secondo piano e sempre più marginali decide di reinventarsi produttrice. Arun è un pittore, un artista tormentato che rifugge il mondo nella stessa misura in cui non riesce a comprenderlo. Questi tre personaggi sono, senza saperlo, comunque non fino in fondo e certamente non tutti (l'unico che lo sospetta è Don, grazie al suo sogno), sono, dicevo, in balìa delle forze del Naga. Neppure noi lettori ce ne rendiamo conto e, se anche arriviamo a sospettarlo, comunque ce ne dimentichiamo presto grazie alla maestria ed alla misura con cui Bunnag segue e centellina le storie dei tre personaggi e l'intreccio che, poco alla volta, viene intricandosi. I tre s'incontrano al funerale di un sinistro e ambiguo personaggio pubblico, Pi O, il re dell'industria del divertimento (leggi:sesso), che in modi differenti ha toccato ognuna delle loro vite. L'opinione pubblica è divisa tra chi lo ritiene un uomo di successo e un buon datore di lavoro per i suoi dipendenti e chi lo vede come un semplice lenone senza scrupoli che sfrutta i corpi di chi lavora per lui per arricchirsi. I tre diventeranno amici, uniti da un terzo personaggio che evito di menzionare per non svelare troppo della trama, e si troveranno a fare i conti con il proprio passato e i propri demoni, aiutandosi l'un l'altro, fino a quando il Naga non deciderà di riemergere del tutto, mettendo a soqquadro l'intera Bangkok, e dando così un nuovo ordine alla realtà ed alle loro vite. Per quanto possa apparire scontato, il pregio principale della scrittura di Bunnag è la misura (in fondo è quanto ci si aspetta da uno scrittore orientale, almeno secondo i nostri pregiudizi, in questo caso positivi), il ritmo apparentemente piano secondo il quale fa muovere i personaggi, svela poco alla volta le loro storie senza peraltro mai scivolare nella tensione tipica dei thriller, ma senza neppure permettere che l'attenzione del lettore possa patire delle cadute. I personaggi sono ben delineati, apparentemente senza sforzo, nelle vicende e nelle psicologie che li caratterizzano, e Bangkok, la grande metropoli poggiata su paludi ancestrali che non aspettano altro che tornare ad imporre la loro presenza selvatica sulla modernità, svolge un ruolo anch'essa di coprotagonista, fungendo di volta in volta da specchio per gli stati d'animo di Don, Marisa e Arun, alternando sprazzi di lusso e modernità ad abissi di sfavillante povertà che, come le paludi, pare essere sempre sul punto di prendere il sopravvento e cannibalizzare ogni cosa in un'orgia di fame e malattia. I miasmi. L'inedia. L'ingiustizia sociale. Il kharma che tutto avvolge, come una nebbia collosa, e tutto giustifica, nella sua logica inoppugnabile ma distorta. Bangkok è tutto questo, e altro ancora, è l'industria del sesso che si è incarnata nello spirito stesso della città, che è divenuta qualcosa di molto simile ad una filosofia di vita, ammorsata saldamente al kharma, alla quale le persone si aggrappano come ad un'ancora di salvezza. Ogni abitante cerca a suo modo di strapparsi via dal fango delle paludi, per poi finire con l'accettare con inclinazione tutta orientale (altro pregiudizio) il volere del fato, o del Naga, o semplicemente del kharma. La città è un continuo tendersi di braccia per trovare un appiglio, per tirarsi via, per vincere la fame, e nel contempo un'apparente immobilità dove l'atavico si muove a braccetto con l'ipermoderno. Bangkok è il pozzo nel quale ci si tuffa (per sopravvivere, per perdersi, per dimenticare e farsi dimenticare) e dal quale si tenta di fuggire in cerca delle uniche cose che la città non può dare: pace, e ordine. Il libro è davvero ben riuscito, e la bravura di Bunnag sta nel miscelare i vari dosaggi narrativi senza che il lettore abbia modo di rendersi conto della maestria che serve per ottenere un simile esempio di equilibrio. Non immaginatevi una tipica storia come i nostri pregiudizi (di nuovo) di farang potrebbero farci sospettare, tutta pause, tempi immobili e saggezza millenaria: qui i monaci hanno dubbi, un passato tragico e un futuro ignoto, gli artisti non seguono un ideale classico di bellezza da imitare il più possibile alla perfezione, ma si lasciano rodere dalle loro inquietudini e dalle imperfezioni, struggendosi perchè la propria arte sia capace di riportarle al pubblico, per poi mettere in dubbio che la loro stessa arte sia davvero importante, e le attrici hanno un'anima da salvare, un passato da nascondere o da mostrare, a seconda dei momenti, e un futuro incerto.

  Spero che la casa editrice, Metropoli d'Asia, prosegua nel tradurre l'opera di Tew Bunnag, un autore che vale sicuramente la pena di seguire. A questo proposito vi consiglio di andare qui a leggere un interessante articolo di Tommaso Pincio su Bunnag.


Tew Bunnag: Personaggio poliedrico e cosmopolita, Tew Bunnag è nato a Bangkok nel 1947 da una nobile famiglia thailandese. Autore di saggi sul Tai Chi Chuan e di racconti, con Il viaggio del Naga firma il suo primo romanzo, già tradotto in Spagna e pubblicato negli Stati Uniti.

martedì 18 febbraio 2014

Le attenuanti sentimentali, di Antonio Pascale, Einaudi editore

Pagina 4: << ... non dico che devi inventare chissà che, ma concedi almeno al lettore un piccolo appiglio narrativo, ..., cioè o sei un autore con i coglioni, davanti al quale uno alza le mani e dice: fai di me quello che vuoi, oppure non ci rompere le palle e scrivi una trama.. >>
Pagina 12: << Poi un giorno incontro una mia amica francese,Veronique, che mi dice: - Fai otoficsiòn - Autofiction -... In Francia è un genere conclamato. Non c'è nulla di strano... ora tutto è pubblico. Chi ti accusa di essere ombelicale lo fa, in genere da un blog, nel quale racconta la sua giornata. Il gioco è proprio questo, dare intensità a fatti minimi... >>. Ammettiamolo, non si può dire che Pascale non ami giocare a carte scoperte, questo gli va riconosciuto. Nel senso: una trama, manco a parlarne - solo la scusa di un documentario sui sentimenti che gli salta in testa, e attorno a cui gira quella fragilissima non-costruzione che l'autore mette in piedi - e con questo il lettore s'è bell'e che scordato il suo sacrosanto appiglio narrativo di cui sopra; "essere un autore coi coglioni che ti prende e ti porta ad arrenderti", onestamente, neppure, quantomeno non in questo libro. E allora ecco che arriva l'otoficsiòn a far quadrare il cerchio. Dare intensità ai fatti minimi, parlare di sè, guardarsi l'ombelico ma, per non risultare eccessivi, prendere un minimo di distanza da sè stessi attraverso un uso salvifico dell'ironia. Dunque, Pascale è il protagonista del racconto, Pascale che sono sei anni che non gli riesce di scrivere un libro e così si lascia vivere, analizzando questo suo lasciarsi vivere, che poi è vita a sua volta, la sua vita - sua di lui Pascale personaggio e probabilmente sua di lui Pascale scrittore (almeno così siamo portati a credere) - e che immagina di vincere l'empasse del blocco dello scrittore con questa benedetta storia del documentario sui sentimenti. Ma noi, da pagina 12, sappiamo già che ci troviamo in piena otoficsiòn, e quindi siamo pienamente coscienti di che gioco (ci) sta giocando: vale a dire, metanarrativa pura e semplice. Spiegato questo, bisogna ammettere che non è affatto male questo Le attenuanti sentimentali: un po' Woody Allen (le nevrosi), un po' Paolo Nori (certi modi di dire colloquiali, l'uso dell'ironia, pur se di stampo diverso: Nori, ironia emiliana, Pascale romanesco-partenopea), in certi casi quasi un po' Vonnegut o Galiazzo (nelle tirate di stampo scientifico: il solare, i cibi biologici, i termovalorizzatori, ecc.). Tutti i miei "un po'" sono da intendersi come complimenti, anche se personalmente continuo a preferire Woody Allen, o Nori, o Vonnegut o Galiazzo. Quindi, dicevamo, siamo dalle parti della metanarrativa e dell'autofiction e, giocoforza, non possiamo che trovarci di fronte ad un racconto ombelicale (appunto, come anticipato da Pascale stesso, a mettere le mani avanti), autoreferenziale, biografico, documentaristico e, forse, mocumentaristico. Può piacere o non piacere, ma comunque è dichiarato subito, chiaro e tondo. E spiega anche perchè non può far altrimenti, perchè non ha più senso scrivere libri in tre atti, con una trama, dei personaggi inventati e via discorrendo, ma questo lo lascio dire a Pascale, nel libro, che sa argomentarlo meglio di me. Detto questo, possiamo riassumere dicendo che è un libro che parla di un uomo sposato, con due figli, un intellettuale, insonne, nevrotico, forse in crisi con sè stesso o forse con la società ma sicuramente (almeno in parte, e a mio parere in larga parte) compiaciuto di questa sua crisi, che gira per Roma, incontra gente, di solito intellettuali o qualcosa di molto simile o, per dirla alla Oscar Wilde, gente che si atteggia come se lo fosse (il libro, la vita che viene narrata, è molto radical chic, tipico di quella sinistra un filo snob che è sempre convinta di essere dalla parte giusta delle cose e Pascale, essendone cosciente, a volte ne prende le distanze, con ironia e apprezzabile senso autocritico), parla con loro, gli amici intellettuali, coi figli, a volte, abbastanza di rado, con la moglie Daniela, e cerca distrattamente e anche abbastanza svogliatamente di mettere insieme il materiale per il famoso documentario, sui sentimenti appunto, come già si è detto, e oltre il materiale, che forse nella sua testa abbonda, ricerca un metodo per metterlo in ordine, dargli delle priorità e degli incasellamenti ben precisi (intento che, si capisce fin dall'inizio, rimane sulla carta, del libro, e nella testa, del protagonista). Pascale (personaggio) è un flaneur che seguiamo nelle sue elucubrazioni cervellotiche, nelle sue notti insonni, nei suoi tentativi di spiegare agli altri e a sè stesso ciò che gli passa per la testa, e che lì, nella sua testa, finisce per dare una struttura al mondo, una struttura che però, forse, alla fin fine, non riesce a convincerlo fino in fondo. Forse non convince fino in fondo neppure noi, ma non credo sia questo il punto, convincere, quanto piuttosto porsi le domande, lasciare da parte (quantomeno provarci) l'ossessione della felicità e mettere in primo piano il pensiero, l'intelligenza, l'analisi. In tutto questo, con una scrittura piacevolmente affabulatoria, Pascale riesce nell'intento (sempre che lo abbia avuto, ma penso di sì) di procedere lieve, magari un po' troppo ombelicale, vero (tra l'altro, giusto per concludere il cerchio metanarrativo di cui sopra, notate l'ironia: lo dice uno che scrive queste cose su un blog, come predetto a pagina 12 del libro), ma per fortuna senza mai prendersi troppo sul serio, e comunque mai fino in fondo. Come avrete capito è un libro etereo, forse addirittura nebuloso se capite cosa intendo, basato su fondamenta fragili, quasi inesistenti, è una passeggiata in compagnia di un amico un tantino logorroico (e nevrotico, e fissato) che racconta, e racconta, e racconta, e a volte fa un po' un mescolone, mette insieme fatti e ragionamenti, e sprazzi di sincerità assoluta (o è solo presunta e in realtà si tratta di fiction?...), e ci porta in giro, ci racconta dei suoi amici, della sua famiglia, del suo essere padre, della figlia che dice troppe parolacce, del figlio che pare vivere solo ed esclusivamente per la maggica Roma e, a volte, ci scodella delle riflessioni che ci lasciano lì, perplessi, perchè sono questioni sulle quali avevamo ragionato anche noi, ma che pensate da noi non sembravano avere lo stesso peso, nè la stessa profondità. E se a volte i dialoghi e le riflessioni sui sentimenti (al contrario delle parti sul biologico e sull'agroalimentare che ho trovato notevoli) scadono un po' nel banaluccio (d'altronde, cosa si può dire sui sentimenti che non sia già stato detto? Il sentimento è, per sua natura, oscenamente banale) nelle ultime pagine si aprono degli scorci di riflessioni più profonde che sfiorano il filosofico quando non il poetico.
E' il primo libro che leggo di Pascale, non credo sarà l'ultimo.
E concludo con una riflessione personale: l'autore ripete più volte quanto spesso gli venga riconosciuta la capacità di indovinare degli splendidi titoli per i suoi libri. Sarà che io ho gusti strani, ma a me i suoi titoli (La città distratta, La manutenzione degli affetti, Passa la bellezza (bleah!)) non piacciono per nulla, neppure questo, troppo stucchevoli, versioni elevate di Và dove ti porta il cuore. Se mi fossi fermato al titolo avrei immaginato un libro completamente diverso e non lo avrei mai comprato. Le attenuanti sentimentali: mi sarei aspettato uno di quei romanzi su coppie trenta-quarantenni, benestanti, in crisi: tradimenti, ripensamenti, grandi pippe sul significato dell'amore, dei sentimenti, del sesso, del matrimonio, della famiglia, del libero amore e cose così. Poteva anche esserlo, ma per fortuna è solo otoficsiòn, dà risalto ai fatti minimi, ci porta in giro per Roma, con sè, nella sua vita, punto.

  Segnalo, è molto interessante sentire lo stesso Pascale che spiega questo libro dialogando con la sua editor, Angela Rastelli, anticipandolo a Anteprime 2013 a Pietrasanta. Lo potete trovare qui.

Antonio Pascale, nato a Napoli nel 1966, ha pubblicato La città distratta (Edizioni l'Ancora, 1999 ed Einaudi, 2001), ripubblicato, con l'aggiunta di nuovi capitoli, nel 2009 da Einaudi Stile libero con il titolo Ritorno alla città distratta; La manutenzione degli affetti («L'Arcipelago Einaudi», 2003 e, accresciuto di tre racconti, «ET Scrittori», 2006); Passa la bellezza (Einaudi, 2005); Scienza e sentimento (Vele 2008); Tre terzi, con Diego De Silva e Valeria Parrella (Einaudi, 2009); Le attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013). È fra gli autori di Scena padre (Einaudi 2013). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in «Lo Straniero» e «Nuovi Argomenti». Un suo racconto compare nell'antologia Disertori («Stile Libero»). Collabora con «Il Mattino», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera» e «il Post». È stato l'«intellettuale di servizio» delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi.

venerdì 14 febbraio 2014

Condominio r39, di Fabio Deotto, Einaudi editore

Via, cominciamo. " La mattina di venerdì 22 marzo è una mattina qualsiasi, alle 22.47 (ma, è mattina o notte??) da una palazzina della semimperiferia milanese vengono estratte cinque persone in coma e un ragazzo di ventisei anni in stato confusionale.". Messa così, ci si aspetterebbe (quantomeno) una discreta figata. Il classico giallo ambientato in un condominio, che poi non è altro (oltre che essere un vero e proprio sottogenere) che un amplimento del (iper)classico giallo "della stanza chiusa". In quarta di copertina però si fa riferimento a Ballard e a Polansky (chissà poi perchè non a Roland Topor che è l'autore del libro, magnifico, da cui Polansky ha tratto il film L'inquilino del terzo piano) e a questo punto si ha il dubbio (quasi una lieve vertigine) piacevole, di trovarsi di fronte ad uno di quei rari libri che hanno il coraggio di prendere un genere e portarlo a sfondare i propri limiti naturali, sfociando in quel territorio che è proprio degli incubi, dei deliri e delle paranoie. Un condominio, una costruzione salda, imponente, un fuori, una facciata, e un dentro, scuro e labirintico. Vite serrate in cubi di cemento che confinano senza mai sfiorarsi se non superficialmente, calma apparente sotto la quale cova altro, qualcosa di malato, di folle, sinistro. La notte, sogni che s'incrociano, intrappolati tra le mura degli appartmenti, che vagano per i corridoi, che si muovono su e giù per i cavi dell'ascensore. Ripostigli umidi, sottoscala dimenticati e vecchi delitti che aspettano di venire a galla. La follia che serpeggia all'interno delle mura esattamente come alberga nel chiuso di una scatola cranica. Bene, tutto questo, scordatevelo. Se L'inquilino del terzo piano, il capolavoro di Topor, è un meccanismo perfetto racchiuso in sole 159 pagine di prosa allucinata e disturbante, un viaggio kafkiano nell'incubo grigio di un mondo al suo epilogo, e se Il condomino (192 pagine) o Un gioco da bambini (92 pagine), entrambi di Ballard, sono dei bisturi che scorrono nel ventre malato della società moderna, quasi dei saggi sociologici, dove, sotto una patina di normalità e di modernità, affiorano mostri atavici che emergono dal nostro passato bestiale, questo Condominio r39 è un guazzabuglio di ben 442 pagine (che paiono non finire mai), ridondante, privo di ritmo, che non sà decidersi se essere un giallo, un mistery, o un thriller ellroyano con tanto di poliziotti brutti, sporchi, cattivi e tossici, un gioco ad incastro alla Black dog (titolo originale, molto più appropriato: Tesseract) di Alex Garland, o una sorta di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, di Gadda. Vuole essere tutto, troppo, senza riuscirvi. La psicologia dei personaggi è unidimensionale, qualcosa di molto simile a quella dei personaggi dei cartoni animati: sono delle figurine ritagliate grossolanamente da mille altri romanzi, film o fumetti: il poliziotto (Pallino??) dalla coscienza sporca, dalla vita famigliare a pezzi, in perenne contrasto con sè stesso, grigio, triste e distaccato dal mondo. La mamma single troppo apprensiva. La ballerina da nightclub dalla vita marginale (anche se è difficile dirlo con certezza, dal momento che Sara è davvero un personaggio solamente appena abbozzato). I giovani tossici e vampiristi, fuori di testa, sballati fino all'inverosimile, sciroccati che più sciroccati non si può. Il vecchio professore, solo, burbero, immerso nelle sue peronali elucubrazioni-ossessioni che, solamente, sa condividere con un bambino il quale, ovviamente, non lo può capire. L ex 'attrice sinistrorsa di talento ormai fuori dal giro, dipinta come pazza dai giornali di gossip e in preda a despressioni e manie persecutorie. L'imprenditore arricchito, volgare, violento, abbronzato, grasso, porcino e sgraziato che crede di poter comprare tutto e tutti con la sola forza del denaro sonante. E via discorrendo. I bambini parlano, si muovono e seguono logiche assolutamente adulte, solo sono più bassi e non guidano la macchina. L'ispettore, come più o meno tutti i personaggi, fa cose assolutamente assurde, vaga nel vuoto e nei suoi mal di stomaco fino a che, finalmente a cena fuori con la moglie in crisi, non ha un'illuminazione, l'unica parvenza di una sua capacità investigativa in cui incappiamo in tutto il libro, e quando finalmente ha più o meno chiaro in testa cosa diavolo è successo in quella casa (perchè alla fine le storie di questo genere, che partono dal finale e si sviluppano in "montaggio alternato", sono sostanzialmente questo: ricostruire cosa diavolo è successo), permette tranquillamente che il cattivo di turno rapisca un bambino innocente sotto i suoi occhi (a dir la verità sarebbe più corretto dire che guarda il rapimento del bambino, che avrebbe potuto sventare senza troppa difficoltà, senza muovere un dito) senza alcuna motivazione logica se non il fatto che lui è fatto così, lascia che le cose avvengano e poi ci piange sopra. I giovani vampiristi più che cattivi sono degli emeriti idioti in preda ad una perenne nebbia di droghe che offusca loro qualsiasi tipo di pensiero anche solo lontamente razionale. I personaggi - tutti i personaggi - all'incirca si equivalgono, sono amorfi - a parte un paio un po' più sinistri degli altri e che paiono in un perenne stato euforico da piccole pesti che si sono spinte un po' troppo oltre - si muovono come fumetti su uno sfondo di cartone, non hanno una propria anima, scimmiottano degli stereotipi e hanno l'unica funzione di far muovere il meccanismo narrativo, meccanismo non eccelso a dir la verità. Nonostante la loro natura di semplici componenti meccaniscinstiche della narrazione, ai personaggi l'autore si incaponisce a voler dare, se non un minimo di profondità psicologica (forse ci prova, non saprei, ma sicuramente non ci riesce) almeno un passato alle spalle, aprendo di tanto in tanto squarci chirurgici sulla loro storia che nel migliore dei casi suonano inutili (e quindi ulteriori dilungamenti) e quando va male sono talmente fuori luogo da risultare assurdi. In questo senso, mi viene da pensare: se la psicologia non è necessaria ad un certo tipo di narrazione, perchè mettercela a tutti i costi? Barry Gifford dimostra brillantemente che si può raccontare una storia lasciando che i protagonisti non siano altro che esseri semplici sospesi ai propri istinti ed ai propri deliri senza bisogno di sondarne le anime (forse, nei libri di Gifford, i personaggi neppure ce l'hanno un'anima). Poi, continuiamo: in certi casi pare che manchi una pura e semplice logica dei fatti (ad esempio come quando i due bambini chiusi in una cella frigorifera cercano delle armi per difendersi dall'ultimo intruso e, invece di armarsi del coltello che sappiamo essere in quella stanza, usano dei salami congelati!) e in altri le scelte stilistiche sono come minimo opinabili come certe frasette poste a fine capitolo che sembrano voler a tutti i costi esplicitare una morale ben chiara o un certo senso poetico del momento appena descritto (i cosiddetti ghirigori). Capita spesso che i personaggi (troppi, a mio giudizio, e non tutti necessari, a volte si tende a confonderli) siano raccontati in certi loro gesti o atteggiamenti che forse potrebbero anche trovare una loro logica ma che non vengono per nulla preparati nella narrazione precedente, lasciando così nel lettore una sensazione di assurda estemporaneità. A pensarci bene, sono tutti difetti che trovano una loro spiegazione se consideriamo che l'autore è alla sua prima prova narrativa, ma che la perdono subito quando soppesiamo l'oggetto Condominio r39 e prendiamo atto che non è il faldone di un dattiloscritto che un giovane scrittore si porta appresso per farlo leggere ad amici e conoscenti ma che è un libro in brossura pubblicato da una major editoriale, gloriosa e conosciuta per essere un marchio di qualità, quale la Einaudi. La domanda che non ci si può esimere dal porsi leggendo il libro é se le case editrici utilizzino ancora gli editor, perchè l'impressione è quella di un dattiloscritto portato in casa editrice, stampato e mandato direttamente in libreria, esponendo così un giovane autore ad ogni tipo di rovescio critico (quale è, me ne rendo conto, il post che state leggendo). In realtà il libro, che potrebbe tranquillamente essere sfrondato di qualche centinaio di pagine guadagnandone in leggibilità e snellezza, verso la fine trova una sua seppur abboracciata ricomposizione, e nelle pagine in cui il professor Eugemini spiega alla figlia la sua visione della meccanica della vita, la spirale evolutiva e quella controevolutiva (questo è il vero centro del romanzo, troppo isolato in un'unico dialogo, ma comunque il vero motivo per cui l'intera storia viene raccontata) finalmente si toccano pagine di qualità (e il nucleo dei concetti espressi avrebbe meritato un diverso spazio e un approfondimento sicuramente più intenso, diluito sapientemente nel corso della narrazione), in cui la Weltanschauung del personaggio sposa (con tutta probabilità) quella dell'autore in una spiegazione logica, motivata e profonda, a prescindere da quanto possa suonare poco piacevole e politically uncorrect.


Fabio Deotto è nato a Vimercate (MB) nel 1982. Laureato in Biotecnologie, scrive articoli, interviste e approfondimenti a sfondo scientifico e musicale per numerose riviste nazionali. Condominio R39 , pubblicato da Einaudi Stile Libero nel 2014, è il suo primo romanzo.

domenica 2 febbraio 2014

Si sente? Tre discorsi su Auschwitz, di Paolo Nori, Marcos y Marcos edizioni

  Chi sia Paolo Nori non c'è bisogno di stare a specificarlo, però credo sia utile enucleare una linea di demarcazione tra la sua opera narrativa e la saggistica che poi, direi, può rientrare tutta, o quasi, sotto il titolo generico di "discorsi", dal momento che buona parte della saggistica pubblicata è la stesura dei suoi discorsi pubblici tenuti in differenti occasioni. Siccome, dicevo, è utile concentrarsi sulla linea che divide un genere dall'altro (i "discorsi" dalle "storie"), qui va sottolineato come questo confine in realtà è un po' come se non esistesse. Nel senso: esiste, ma è mobile, una sorta di muro di gomma nel quale narrativa e saggistica si compenetrano a vicenda (soprattutto i "discorsi" fanno ampio uso e di stile e di brani dei testi tratti dai romanzi), si sostengono a vicenda e finiscono per divenire qualcosa di molto simile gli uni agli altri. Ma non solo. Non è tanto una questione di similitudine quanto piuttosto che, insieme, formano un corpus unico estremamente coeso, dove lo stile sicuramente è il trait d'union, dove gli argomenti che sottendono le "storie" vengono poi sviscerati nei "discorsi" e, nei "discorsi", fanno riferimento più che esplicito alle "storie" (i brani citati di cui sopra). Poi c'è un altro aspetto da prendere in considerazione, oltre l'autoreferenzialità (sia stilistica che tematica) dell'autore: vale a dire l'universo noriano di riferimento: l'Emilia e la Russia, il suo viaggio in Russia, il suo lavoro di traduttore, sua figlia Irma, la mamma di Irma, Francesca, Charms, Chlebnikov, le sue gatte (belle), il suo essere anarchico, suo padre che faceva il muratore ed è morto di tumore, Basilicanova, Parma, Bologna, i modi di dire emiliani (fiondare, ad esempio, al posto di fottere, o trombare, o scopare), la Achmatova e via discorrendo. Spesso, nei suoi "discorsi", che parlino del rapporto tra noi e i governi o di letteratura russa o dell'olocausto, ritroviamo gli stessi esempi, le stesse citazioni, il suo tipico e apparente divagare, svagato e ironico (testardo, come a dire: io sono questo qui, se vi sta bene, sono così, altrimenti potete pure smettere di leggere e fare qualcos'altro di più utile all'umanità), spesso, a ripensarci, una volta letti, a tornarci indietro con la mente si fa fatica a distinguere uno dall'altro. Perchè sono così coesi appunto. I romanzi sono pieni di autobiografismo (anche se rimangono romanzi e non autobiografie, ovviamente), il suo stile è un coacervo di parlato e modi dire e volontarie sgrammaticature (più che altro di-sintassature, se così si può dire), e i suoi discorsi sono colmi dei suoi romanzi che a loro volta rimandano nei concetti e nel "sentito" ai temi dei discorsi. E via discorrendo. Questo per dire che Si sente? è un volumetto pubblicato dalla Marcos y Marcos nel quale si raccolgono tre discorsi di Paolo Nori tenuti a Cracovia durante la manifestazione "Un treno per Auschwitz" (organizzata dalla fondazione Fossoli): Esattamente il contrario, nel 2009, Noi la farem vendetta, nel 2011, Birkenau nel 2013. I tre discorsi sono quanto non ti aspetteresti di sentire in un'occasione come il ricordo della tragedia della Shoah, almeno a prima vista. Lo stile di Nori è quello della divagazione, della ripetizione, del parlato apparentemente distratto e confuso, dei fili che si perdono dentro una parentesi all'interno della quale si apre una seconda parentesi e così via. Data la tragicità dell'argomento può essere un modo criticabile di esrpimersi, ma Nori è così. Se vi va, lo seguite, altrimenti liberi di fare altro. D'altronde, se ci si lascia trasportare dall'affabulazione un po' balbuziente dell'autore, dal suo argomentare come se si fosse tutti attorno ad una tavolata a ragionare in una taverna, se si mollano gli ormeggi e si decide che sì, alla fine dei conti, ci sta bene di seguirlo nei suoi sproloqui, siamo disposti a fidarci, ci rendiamo conto che poi proprio sproloqui non lo sono, affatto, che i suoi discorsi sembrano ripetersi da un libro all'altro ma poi, a tirar le somme, il significato di ognuno è differente dall'altro, ed è un significato profondo che difficilmente si può portare a galla, vien da pensare, in un modo diverso, più lineare e standard rispetto a quello colloquiale, quasi leggero, di Nori. In questo libro i tre discorsi parlano, rispettivamente: di eugenetica, di vendetta, e di bottoni (o di Birkenau, ma secondo la logica noriano è lo stesso, e vedrete che non ha tutti i torti), ma in realtà parlano tutti e tre in egual misura anche se con focus differenti di qualcosa di intangibile, di quegli slittamenti di senso che proviamo nella vita di tutti i giorni e che, a volte, non rendendocene conto, portano a mostruosità quali Auschwitz, o Birkenau. Parlano del perchè le opnioni ripetute da chi ci sta attorno finiscono per diventare nostre, anche se non ce ne rendiamo conto - nostro malgrado potremmo dire -, del perchè dei semplici bottoni possono essere la storia di una famiglia e del perchè vivere in un mondo già bello e costruito sulle opinioni e le battaglie di altri può essere (anzi, è) una disgrazia,  parla di come l'unica vera condanna per il comandante del campo di Auschwitz non potesse essere altro che essere sè stesso. Sè stesso e nient'altro. Essere quella cosa terribile lì, quell'essere osceno che è stato. Ci racconta di come il reiterarsi delle cose inevitabilmente porta con sè lo smarrimento del senso delle cose reiterate: ogni tanto dovremmo ricordarci che siamo vivi. Ogni tanto dovremmo vedere il mondo come dei deficenti, come se lo vedessimo per la prima volta, smontando in un sol colpo tutte quelle strutture (storture, a volte) mentali che distanziano inevitabilmente e definitivamente (tragicamente) il mondo degli adulti da quello dei bambini (che hanno il diritto di piangere, tra l'altro: chi leggerà il libro, capirà). Ogni tanto dovremmo essere fieri del nostro essere deficenti, del nostro pensare per conto nostro, del nostro amare i libri, di quel nostro inconsapevole essere sudditi fieri e felici di quell'impero che è la letteratura, dove sono i nostri autori preferiti a fare le leggi che seguiremo per tutta la vita, o per parte di essa.

  Paolo Nori è nato a Parma nel 1963. Ha pubblicato
  Le cose non sono le cose (Fernandel 1999, DeriveApprodi 2009), Bassotuba non c’è (DeriveApprodi 1999, Einaudi 2000, Feltrinelli 2009 e, in ebook, Sugaman 2013), Spinoza (Einaudi 2000), Diavoli (Einaudi 2001), Grandi ustionati (Einaudi 2001, Marcos y Marcos 2012 e, in audiliobro, Marcos y Marcos 2013), Si chiama Francesca, questo romanzo (Einaudi 2002, Marcos y Marcos 2011), Gli scarti (Feltrinelli 2003), Pancetta (Feltrinelli 2004), Learco. In un’ora, nove romanzi in musica con Learco Ferrari, in un’ora (con Fabio Bonvicini, audiolibro, Luca Sossella 2004), Ente nazionale della cinematografia popolare (Feltrinelli 2005) I quattro cani di Pavlov (Bompiani 2006), Noi la farem vendetta (Feltrinelli 2006), La vergogna delle scarpe nuove (Bompiani 2007), Siam poi gente delicata (Laterza 2007), Mi compro una Gilera (Feltrinelli 2008), Pubblici discorsi (Quodlibet 2008), Baltica 9 (Laterza 2008 – con Daniele Benati), I libri devono essere magri (illustrazioni di Giuliano Della Casa, Tre lune 2008),  Esattamente il contrario (illustrazioni di Fausto Gilberti, Drago Edizioni 2009), I malcontenti (Einaudi 2010), A Bologna le bici erano come i cani (Ediciclo 2010), La matematica è scolpita nel granito (Perda Sonadora 2010 e, in ebook, Sugaman 2010), La meravigliosa utilità del filo a piombo (Marcos y Marcos 2011), Presente (Einaudi 2012, insieme a Andrea Bajani, Michela Murgia e Giorgio Vasta), Tredici favole belle e una brutta (Rizzoli 2012, illustrazioni di Yocci), Garibaldi fu ferito. E noi? (Il Sole 24 ore 2012), La banda del formaggio (Marcos y Marcos 2013), La Svizzera (ilSaggiatore 2013), Mo mama. Da chi vogliamo essere governati (Chiarelettere 2013), Si sente? Tre discorsi su Auschwitz (Marcos y Marcos 2014).
Ha tradotto e curato l’antologia degli scritti di Daniil Charms Disastri (Einaudi 2003, Marcos y Marcos 2011), l’edizione dei classici di Feltrinelli di Un eroe dei nostri tempi di Lermontov, delle Umili prose di Puškin, delle Anime morte di Gogol’, di Padri e figli di Turgenev, di Oblomov, di Gončarov e della Morte di Ivan Il’ič, di Tolstoj, l’antologia di Velimir Chlebnikov 47 poesie facili e una difficile (Quodlibet), l’edizione, per Voland, di Chadži-Murat di Tolstoj e delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e è autore, insieme a Marco Raffaini, di una Storia della Russia e dell’Italia (Fernandel 2003).
Ha curato il numero di Panta Emilia fisica (Bompiani 2006), è stato tra i redattori del settemestrale di letteratura comparata al nulla L’accalappiacani (1-5, DeriveApprodi 2008-2010).
Ha scritto e interpretato la commedia Lunga, la strada, per la regia di Gigi Dall’Aglio (2007), nonché diversi spettacoli fondati sulla lettura (uno dei quali Learco, con Fabio Bonvicini, è diventato un cd audio per Luca Sossella editore, 2003), che sono andati in scena in diversi teatri italiani dal Teatro Argentina di Roma (con I Bogoncelli), al teatro Mercadante di Napoli (Lunga, la strada), al teatro Valli di Reggio Emilia (Quel canchero di Majakovskij, con Umberto Petrin), alle Papesse di Siena (Musica adeguata, con Marco Raffaini), al festival GNAM di Parma (I libri devono essere magri, con Giuliano Della Casa), alla Palazzina liberty di Milano (Noi e i governi, con le mondine di Novi).
Dal 2006 ha tenuto, prima a Reggio Emilia poi a Bologna, i corsi della scuola elementare di scrittura emiliana e della scuola media inferiore di scrittura emiliana e, all’Argentiera (SS), a Rimini, a Genova, a Paullo (MI), a Torino, a Milano, i corsi della scuola elementare di scrittura emiliana all’estero. Eccetera...