"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 24 novembre 2013

La piramide, di Juan Villoro, Gran Vìa edizioni



  Finalmente, viene da dire. Nel senso che, finalmente, pare che l'editoria italiana si stia rendendo conto dell'esistenza (e della caratura) di Juan Villoro, ottimo scrittore messicano e premio Herralde nel 2004. Dopo I colpevoli (Cuec, 2009), Il libro selvaggio (Salani, 2010) e il recentissimo quanto breve Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie, 2013), Gran Vìa dà alle stampe questo "thriller tropical distopico", pubblicato lo scorso anno per Anagrama, che è stato finalista al Ròmulo Gallegos di quest'anno. In realtà non so se si possa definire thriller nè tantomeno distopico, ma tropicale sì, e forse, alla fine dei conti, è pure un thriller distopico, anche se in verità non dovrebbe fregare niente a nessuno di come catalogare un bel libro. La costa Messicana è ormai un susseguirsi di hotel vuoti ed in rovina, strutture orbate dalla furia delle tempeste tropicali e abitate da animali - e insettume vario - alquanto sgradevoli, altri continuano a rimanere aperti pur rimanendo vuoti, solo uno, a Kukulcan, fa soldi a palate, La piramide (ovvio riferimento, anche architettonico, alla piramide - o tempio - di Quetzalcóatl, il cui nome maya è, appunto, Kukulcan). Il visionario Mario Muller lo gestisce seguendo le sue intuizioni estreme e postmoderne, offrendo alla propria clientela un soggiorno a base di paura fittizia. Gran parte degli abitanti della cittadina lavora per la Piramide, se non come personale interno, come attori pagati per fingersi di volta in volta terroristi o narcotrafficanti. La paura diviene merce, la banalizzazione della paura, data in pasto a turisti affamati di emozioni (e forse un tantino imbecilli, o svitati: ma in fondo chi non lo è?) diviene mezzo di riscatto dalla povertà per gli indigeni, diretti discendenti dei Maya più visceralmente di quanto loro stessi non siano pronti a sospettare. Poi, l'inevitabile accade, tra tanti pericoli creati ad arte la vita vera s'insinua e con essa la morte, violenta, di un sub, Ginger Oldenville, che lavorava per l'hotel, trafitto alle spalle da una fiocina. Da qui parte la detection. La storia viene raccontata dal punto di vista di Antonio Gòngora, amico intimo di Mario Muller, col quale ha condiviso un passato da quasi rock star nella band heavy metal degli Extraditables, seguendo passo passo la solita storia di chi è arrivato quasi a poter toccare con mano la fama per poi piombare nell'oblio e nel disfacimento a base di droghe, eccessi e scelte sbagliate ed autodistruttive. Antonio Gòngora ha un dito in meno ad una mano, scoppiato via insieme ad un petardo, e si trascina dietro una gamba che è stata lesionata da ragazzino (ci sono diverse menomazioni nei personaggi di questo libro, fisiche e non solo, come se ognuno di loro, vivendo, avesse perso qua e là qualche pezzo) e la memoria che gira a vuoto almeno per un cinquanta per cento del suo passato (la percentuale, calcolata a spanne, è sua). Ora, la detection è sempre, negli autori di un certo livello, una scusa, di solito per affondare il bisturi nella società, o in certe parti di essa, per sezionare il nostro mondo e criticarlo senza dare troppo l'impressione di farlo, per trascinare l'interesse del lettore che, altrimenti, non durerebbe a lungo se gli si proponesse un saggio di critica sulle storture della società moderna. In questo caso, però, non è così, la Piramide è un mondo a sè stante, lontano dalla realtà e autoreferenziale anche se, scopriremo poco alla volta, non impermeabile ad essa, ma fino ad un certo punto è una piramide (l'architettura voluta da Muller è appunto quella di un piramide maya) chiusa in una bolla, che si bea di spaventi controllati ad arte da professionisti del settore. La morte del sub (e poi - anzi prima - di un altro sub suo amico, e forse amante) fa nascere delle incrinature lungo la superficie della bolla: da qui, la realtà prende a filtrare: interessi finanziari, centri decisionali e direttivi europei, narcotraffico, vendette cercate e vendette portate a termine, deliri, buona sorte di cui non ci si riesce a liberare, tumori all'ultimo stadio, boss sgozzati, cravatte colombiane, dipendenti messi a tacere e, dietro o, per meglio dire, "sopra" tutto questo, ad aleggiare come una nebbia malsana, le leggende e la storia maya che colorano ogni pagina di soffici deliri di morte e di sangue che pare scorrere in abbondanza più attorno alla Piramide che all'interno di essa. Ho impiegato un po' di tempo a capire quale fosse l'elemento di questo romanzo che lo rende diverso da ogni altro libro del genere (comunità chiusa, delitto, realtà che tracima e squassa la comunità all'inizio apparentemente perfetta: esempio cinematografico, il primo che mi viene in mente, uno tra i tanti: The village), perchè in realtà molti aspetti della narrazione sono piuttosto classici (la storia della band, le droghe e tutta la peridizione che si portano dietro - che ricorda molto da vicino Un bravo ragazzo, di Javier Gutierrez -, l'hotel, il tropico bollente, pieno di zanzare e seducente, una certa tensione sessuale lasciata ad aleggiare quasi fosse una minaccia, i gringos, il Messico come luogo per ricominciare, come un'eutanasia per occidentali, ecc.). Dando per scontato lo stile, sicuramente alto, non tipicamente latinoamericano, ma neppure un'imitazione sgraziata dello stile da hardboiled nordamericano, c'è un altro aspetto che in qualche misura sovverte lo scenario per certi versi quasi stereotipato: qui il Messico è il rifugio non tanto di yankees in fuga da sè stessi (lo è, anche, ma non solo), ma di messicani in rotta col proprio passato e, soprattutto, il punto di vista è quello di Antonio Gòngora, un messicano, non già un gringo come nei romanzi di Kent Harrington (uno tra i tanti, giusto per fare un esempio), qui il passato del luogo non tanto aleggia sulle teste di protagonisti che lo subiscono, venendo da una cultura altra, ma scorre a livello del terreno, sotto la pelle della gente, che sono cuochi, elettricisti, camerieri, ma paiono sovrani maya. Il punto di vista narrativo insomma, viene totalmente sovvertito (ma con grazia, ce ne si rende conto a fatica, e dopo un po' di tempo: ad esempio bisogna far attenzione, tendere l'orecchio, per comprendere quanto suoni strana la parabola di una statunitense senza permesso di soggiorno che vive nel terrore di essere ricacciata nel proprio paese), ma non solo. Gli investigatori sono elementi di contorno, un po' corrotti, non tanto ma giusto un poco, come tutti, un po' stampalati, senza mai diventare caricature vere e proprie. Le indagini in qualche maniera sembra vadano avanti da sè, come se facessero parte di un meccanismo che, una volta innestato, diviene ieneludibile nelle sue conseguenze e, poco alla volta, travolge tutto e tutti. E i protagonisti. Sembrano portatori ognuno di un tassello diverso di un unico incomprensibile ed assurdo passato che, ricomposto, non prefigura nulla di buono - la Piramide, il presente, è appunto solo una bolla che finirà per scoppiare lanciando il suo contenuto in mille direzioni diverse -, e l'unico personaggio che suo malgrado si scoprirà con un futuro di fronte sarà proprio il narratore, Gòngora, che se lo ritroverà come ultimo cervellotico, e per certi versi disperato, regalo del proprio amico Mario Muller. Un mondo di finzione che, quando va in pezzi (e va in pezzi nell'assurdo tentativo di presevare sè stesso, tentativo che, paradossalmente, ne decreterà la fine), si scopre ad avere tutti i propri abitanti che vanno in pezzi a loro volta, forse essendolo stati da sempre. Tutto questo equilibrio precario viene tenuto insieme da uno stile asciutto, ironico, distaccato, per certi versi molto poco sudamericano, ma che mai scimmiotta i maestri statunitensi del genere: l'ironia per quanto amara è sempre lieve, i pensieri di Gòngora che fanno da contrappunto non sbilanciano mai i toni della narrazione, e il fraseggiare paradossale quello sì è un marchio di fabbrica tipicamente latino. Il risultato è davvero notevole, un gioco di equilibri sempre a rischio di cadere in qualche luogo comune o in caratterizzazioni banali, ma che mai scade in un risultato meno che apprezzabile. Forse non è un thriller distopico, ci sta, non chiedetemi cosa sia se non un ottimo libro.




Juan Villoro nasce a Città del Messico nel 1956. Scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore, Villoro è per la sua traiettoria letteraria uno dei più conosciuti e apprezzati esponenti della cultura ispanica. Tra i testi pubblicati in Italia si ricordano: I colpevoli (Cuec 2009), Il libro selvaggio (Salani 2010), Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie 2013), mentre presso gran vía nel 2008 è apparso un suo racconto nella raccolta En la frontera. Con La Piramide, Juan Villoro è stato finalista al prestigioso Premio Rómulo Gallegos 2013.

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