"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 31 dicembre 2015

La sfilata dell'amore, di Sergio Pitol, Gran Via edizioni, trad. di Stefania Marinoni

Nel 1973 il protagonista, Miguel Del Solar, storico, fresco autore del libro L'anno 1914, torna dall'Inghilterra e si trova di fronte al lussuoso Palazzo Minerva, colonia Roma, Città del Messico, dove ha abitato da bambino. Ed è il luogo (il palazzo Minerva appunto), rivissuto con gli occhi della memoria, che gli riporta alla mente un fatto di sangue accaduto nel lontano 1942. Una festa nell'alloggio di Delfina Uribe, donna sofisticata ed intellettuale, proprietaria di una rinomata galleria d'arte, maestra d'eleganza di quegli anni spudorati e sinistri che lanciano il nuovo Messico nella modernità cosmopolita e patinata che l'elite internazionale richiede come palcoscenico delle proprie vanità, si trasforma in tragedia: un ragazzo, Erich Maria Pistauer figlio adottivo del misterioso zio di Del Solar, Arnulfo Briones, viene ucciso in strada da un colpo di pistola. Assieme a Pistauer viene ferito gravemente anche il giovane figlio di Delfina, Ricardo, che di lì a poco morirà a causa delle conseguenze del ferimento, e Balmoràn, un sinistro giornalista. Ma, cosa accadde realmente quella sera? Il fiuto dello storico di Del Solar (che intanto comincia a farsi solleticare dall'idea di scrivere un altro libro, questa volta sul 1942, l'anno in cui il Messico entrò in guerra dichiarando guerra a Germania, Italia e Giappone) lo porta ad intuire che quella sera, per il breve tempo degli attimi della sparatoria, emerse in superficie un intricato mondo sotterraneo che avviluppava, soffocandola, la società dell'epoca, Ma cos'era realmente quell'insieme di interessi, passioni, odi e quant'altro che sfociò in un omicidio (e, forse, anche in uno successivo, quello di Arnulfo Briones, anni dopo) apparentemente senza motivo? E perchè gli inquilini dell'epoca paiono così reticenti a parlarne? Ognuno, sollecitato da Del Solar, si perde in ricostruzioni parziali e superficiali che fungono da espediente per parlare di sè, delle proprie glorie o delle proprie disgrazie, delle piccinerie che asfissiano il corso della storia (e, più in generale, della Storia). Immigrati europei che fuggono dalla guerra, tedeschi che non lasciano trapelare le loro simpatie politiche, intellettuali a la page, giornalisti paranoici, messicani altolocati che vivono gli ultimi fulgori del loro (ormai finto) benessere e figli di gente semplice che giunge ad occupare la nuova ribalta, odi, pregiudizi ed invidie. Il centro del maelstrom è forse un castrato dalla splendida voce che avrebbe incantato le platee di mezzomondo finendo poi in disgrazia per peccati indicibili? O i mille traffici misteriosi di Arnulfo Briones? Qualcuno voleva, per qualche interesse oscuro, affondare la famiglia Briones? O il bersaglio era la nuova moglie (tedesca) di Arnulfo? O forse il figlio di Delfina Uribe e, attraverso di lui, la stessa famiglia Uribe? Sono reali le recriminazioni della logorroica zia Eduviges o sono solo il frutto di una mente pettegola e limitata, ormai votata al decadimento? O hanno sostanza le allusioni velenose di Balmoràn? Del Solar passa da uno degli inquilini all'altro, più volte, scava con pazienza, sempre convinto che quell'episodio criminale nasconda qualcosa di più di un improvviso scatto di violenza insensata, immaginando che possa essere preso a simbolo di un'epoca ormai passata, ma ancora troppo vicina per essere scandagliata a fondo dalla lente della ricerca storica. Viene rimbalzato da una voce dissonante ad un'altra fuori dal coro e il mosaico che cerca di comporre non trova forma. Chi era Martinèz, il tirapiedi di Briones? Che ruolo aveva? E quali erano gli affari che costrinsero Briones ad una vita piena di segreti e ad una morte, forse, violenta? Pitol, con la sua affabulatoria maestria ci porta per mano tra le beghe di un condominio e, così facendo, ci apre uno squarcio sulla storia recente del Messico, ma solo per allusioni, per ipotesi, per ellissi; assieme a lui dobbiamo farci largo in un mare di punti di vista umani, troppo umani, tra versioni che sembrano avere come unica finalità quella di non portare mai alla verità.
  Le verità, specie quando troppo vicine nel tempo, sono parenti scomodi che si preferisce non mostrare in società, al massimo alludervi, per poi tornare a parlare di sè stessi.
  Pitol tesse un romanzo complesso e corale, intrigante, che porta il lettore da un inquilino all'altro per non portarlo (apparentemente) da nessuna parte.

  Il rischio di spaesamento lo corre in particolar modo il lettore italiano che, non conoscendo presumibilmente lo sfondo storico e politico del Messico dell'epoca, si trova a leggere un testo che continuamente vi allude. Il testo, nell'ottima traduzione di Stefania Marinoni, avrebbe dovuto essere arricchito da un apparato di note che chiarisse il contesto storico. Resta l'opera meritoria dell'editore Gran Via, che ha portato al lettore italiano un gioiello della letteratura messicana.

Sergio Pitol (1933) è uno dei principali scrittori messicani viventi. Sin dagli inizi ha affiancato all'attività letteraria la carriera diplomatica e l'attività di traduttore (Austen, Vittorini e Conrad tra gli altri). Dal suo esordio nel 1959 ha pubblicato venticinque opere di narrativa. In Italia sono stati tradotti: La vita coniugale e Il valzer di Mefisto, e La Divina.

domenica 13 dicembre 2015

Il cartello, di Don Winslow, Einaudi editore, trad. di Alfredo Colitto

Ottantamila vittime, e tutto ciò che abbiamo fatto è stato incoronare un altro re. E il nuovo re è il vecchio re.

  Torna Don Winslow e il suo Signore della frontiera, Art Keller, e le porte dell'inferno si spalancano per la seconda volta sul palcoscenico della (narco)follia umana. Dopo Il potere del cane la guerra alla droga torna ad essere la protagonista della narrazione dai toni secchi ed epici di Don Winslow e, ancora una volta, il risultato è un libro magnifico, disturbante, teso allo spasimo, violento, cupo ed adrenalinico, un romanzo di genere (un genere per certi versi creato dallo stesso Winslow) che però non si sottrae dal condurre i propri lettori ad una riflessione non tanto sulla sorte della guerra alla droga (che è quella di Don Chisciotte coi suoi mulini a vento) quanto sulla stessa natura umana. Art Keller è lontano, si occupa di curare le api in un convento e in cuor suo, se pensa a qualcosa, se immagina un futuro, lo immagina uguale a quel suo presente: immutabile, cadenzato, silenzioso e, soprattutto, pacifico. Il suo destino però è un altro. Adàn Barrera lo vuole morto, ha messo una taglia sulla sua testa, e così facendo lo richiama nel campo da gioco. Se ne Il potere del cane, Barrera traghettava il narcotraffico nell'era moderna,  impastandolo con l'economia legale fino a renderli indistinguibili l'uno dall'altra, ora deve riconquistare il suo posto all'interno del composito e movimentato puzzle di cartelli in lotta tra loro per tornare ad essere il Signore dei cieli o, per dirla all'italiana, il Capo dei capi. Ma negli anni trascorsi, il narcotraffico ha superato la modernità stessa e si è proiettato in un futuro che è a tutti gli effetti la peggior caricatura di medioevo possibile; Il Messico diventa così una sorta di Dune, un presente a tal punto folle da risultare fin troppo simile ad un futuro incarnato in una anarchia violenta e primitiva nella quale l'unica legge è quella della bruta sopraffazione. Ogni messicano sa che può morire di morte violenta in qualsiasi momento, senza alcun motivo apparente. O semplicemente senza alcun motivo effettivo. La guerra è dilagata e ha inglobato in sè ogni aspetto della società messicana, dalla sfera politica fino alla realtà dell''uomo comune. I narcos sono semidei cafoni e sociopatici che possono decidere della vita o della morte di chiunque, e come gli dei dell'antichità si sfidano per dimostrare l'un l'altro la propria onnipotenza. I Los Zetas passano da essere la milizia privata del Cartello del Golfo a vero e proprio cartello a sè, sparigliano le carte ed innalzano lo scontro ad un grado di barbarie mai visto. I morti si contano a decine al giorno, la tortura rappresenta un mezzo accettato per estorcere informazioni o anche solo per dimostrare la propria forza, per intimorire il nemico e la popolazione civile o, semplicemente, come sfogo di una perversione mentale che finisce con l'infettare collettivamente l'inconscio della nazione. La spirale di violenza si autoalimenta dei propri crimini generando nuovi criminali. L'uso politico della violenza e delle barbarie al servizio del commercio di droga che, col tempo, pur rimanendo il motore immobile che tutto muove, passa in secondo piano. Non è più solo questione di droga, è questione di potere in quanto tale. Si tratta di una guerra civile vera e propria che solo pochi individui hanno deciso di scatenare ma che tutti i messicani si trovano a combattere. Art Keller è mosso dalla sete di vendetta nei confronti del vecchio nemico di sempre Adan Barrera, ma col cambiare della alleanze e delle nuove priorità che, col mutare dello scenario politico, si vengono ad imporre, si troverà nella scomoda situazione di suo alleato. Juarez, centro della narrazione di Winslow, passata l'ondata di femminicidi, si trova ad essere sommersa da una realtà che pare essere fuggita direttamente dalla mente di un pazzo sanguinario: ormai le morti si ripetono incessantemente col passo funebre di una grigia normalità, il comando delle operazioni pare essere sfuggito di mano anche ai cartelli e gli omicidi che vengono commissionati alle gang locali non si capisce più da chi siano stati ordinati. I singoli sicarios, spesso giovani poco più che bambini, non capiscono per chi stanno lavorando, e al contempo non sanno da chi guardarsi le spalle. Non sapendo chi è il tuo capo e chi il tuo possibile assassino, si diffida di tutti e, spesso, si uccide tutti. La paranoia prende possesso di Juarez, di tutta la regione e delle menti dei suoi cittadini. Keller, osteggiato dalla polizia messicana corrotta, si dibatte in una corsa contro il tempo per uccidere Barrera, ma Los Zetas e la loro brutale follia omicida lo obbligano a cambiare, almeno temporaneamente, obiettivo. Vedrà morire giornalisti, donne, amici e si vedrà condannato a sopravvivere ad ognuno di loro. Si domanderà sempre più spesso se la guerra, quella guerra, ormai non lo abbia reso uguale ai narcos che combatte. Sull'impianto della reale storia recente della guerra al narcotraffico, il libro intesse la parabola umana di Art Keller e della sua utopica e sporca lotta contro i suoi personali mulini a vento, ma Il cartello è molto di più. Uno squarcio su un inferno reale, sulla pochezza di mezzi che l'umanità ha per opporsi a tale voragine, uno sguardo antipsicologico  e antisociologico sulla realtà messicana e sulle persone che quella realtà hanno creato ed imposto ad un intero paese. Il potere del cane e Il cartello sono l'Iliade e l'Odissea della guerra al narcotraffico e due opere imprescindibili della moderna letteratura e Winslow è il moderno Omero che canta una realtà fatta di dei sadici che al riparo dei loro personali monte Olimpo scatenano una carneficina dietro l'altra per soddisfare la vanità atavica di chi deve dimostrare di possedere il potere assoluto. La droga, che crea la ricchezza che tutto muove, diventa solo il mezzo per soddisfare tale vanità, e la violenza a sua volta il mezzo per ottenere la droga (o, per meglio dire, le plazas dalle quali farla transitare). I morti, innocenti o meno, non sono altro che i sacrifici che questi moderni dei sociopatici esigono come tributo alla loro follia. Perchè in Messico, perchè a Juarez? Perchè è il punto di incontro tra il paese che è il maggior consumatore mondiale di droga e il paese dal quale transita il maggior quantitativo di droga al mondo. Ormai la supplica Salvami dalla spada, dal potere del cane, non ha più senso. Nessuno è escluso, tutti sono coinvolti.

  Non sono le persone a governare il cartello, ma è il cartello a governare le persone.



Don Winslow (New York, 1953) è uno scrittore statunitense.
Viene considerato come uno degli autori più rappresentativi del poliziesco americano contemporaneo. È l'autore, tra gli altri, dei libri L'inverno di Frankie Machine e Il potere del cane, entrambi editi in Italia da Einaudi (collana Stile libero), rispettivamente nel 2008 e nel 2009.
Scrittore e regista teatrale e televisivo, nonché diverse volte attore e guida di safari, Winslow è stato anche un investigatore privato e consulente di studi legali ed assicurazioni. Vive in California, a San Diego, località in cui sono ambientati diversi suoi romanzi.
Ha esordito con il romanzo A Cool Breeze on the Underground, ancora inedito in Italia. Da The Death and Life of Bobby Z è stato tratto nel 2007 il film omonimo (uscito in Italia come Bobby Z, il signore della droga).
I diritti de L'inverno di Frankie Machine sono stati acquistati da Robert de Niro che ne trarrà un film, impersonandone il protagonista. Dal libro Le belve è stato tratto un film da Oliver Stone.

  Questo è il suo sito.

domenica 6 dicembre 2015

Honky Tonk Samurai, di Joe R. Lansdale, Einaudi editore, trad. di Luca Briasco

E' così che tutto comincia sempre: dal molto piccolo, diceva Egg Shen (interpretato da Victor Wong, in Grosso guaio a Chinatown). E in quest'ultima avventura di Hap Collins e Leonard Pine, tutto comincia da un evento apparentemente "molto piccolo": un padrone (pessimo) che picchia il proprio cane. Di fronte a una tale scena, Leonard non si trattiene e spedisce il padrone del cane all'ospedale. Il cane, ribattezzato Buffy, diventerà parte integrante dello strano nucleo famigliare di Hap (che nel corso del libro andrà aumentando). Intanto Marvin è divenuto capo della polizia di Laborde e ha ceduto la sua agenzia di investigazioni a Brett, la compagna di Hap, che ne aprofitta per lasciare il suo ultradecennale lavoro di infermiera. Fino a qui, appunto, è il "molto piccolo", che però non tarda a levitare e ad assumere, come sempre nelle avventure di Hap e Leonard, le dimensioni epiche di uno scontro tra bene (da poter scrivere, volendo, anche con la minuscola) e Male (irrevocabilmente con la maiuscola). Una anziana signora terribilmente sboccata ha assistito alla scena e ha registrato il pestaggio da parte di Leonard e con la registrazione si presenta all'agenzia investigativa chiedendo di indagare sulla scomparsa della nipote. Ovviamente, se Brett si rifiutasse di accettare l'incarico, il video finirebbe nelle mani della polizia e per Leonard si aprirebbero le porte della prigione. La nipote della vecchia signora si era da poco laureata in giornalismo e, non trovando lavoro nel campo dei suoi studi, aveva cominciato a lavorare in un autosalone di auto di lusso. Ad un certo punto però, era scomparsa nel nulla, non prima però di aver derubato la nonnina di soldi e titoli. A questo punto parrebbe ancora un'indagine semplice, qualcosa di "relativamente piccolo", ma in breve assumerà forme spaventose e difficilmente gestibili, al punto che per porre fine allo tsunami di violenza e delirio che si è riversato sulle vite dei protagonisti, occorrerà l'intervento di vecchi amici(-nemici) quali Jim Bobe Luke, l'investigatore cowboy, il giornalista sciupafemmine Cason Statler, la sexy assassina a pagamento Vanilla Ride e la new entry Booger.
  I morti abbonderanno, i cattivi saranno sempre più cattivi ed organizzati e i dilemmi di Hap lo tormenteranno ancora, e sempre di più: ha senso combattere la violenza con la violenza? Esiste ancora una differenza tra loro, i buoni, e i cattivi che combattono? Non sta forse diventando identico ai suoi nemici? E, anche se avesse ragione a fare quello che fa e ad essere quello che è, non è ormai troppo vecchio per continuare a condurre una vita di quel genere? Il tempo passa per tutti e, se l'ironia feroce * che sfreccia in ogni battuta dei protagonisti della serie non accenna a perdere il suo appeal (fino ad assurgere a vera e propria filosofia di vita), gli acciacchi però si fanno sentire, i dubbi aumentano con l'aumentare degli anni e, a volte il passato torna a presentare i suoi conti, in questo caso sotto le spoglie giovanili di una ragazza, Chance, che si presenta prima all'agenzia investigativa e poi alla porta di casa di Leonard, per conoscerlo. Quando finalmente riesce a parlargli, gli racconta che sua madre è morta, e lui è suo padre. Chance è la figlia che Hap non sapeva di avere, frutto di una vecchia relazione conclusasi perchè la sua compagna di allora era troppo dedita al bere; la figlia che pone Brett a dover guardare in faccia il frutto della propria maternità paragonandola con la nuova arrivata.

Chance, pensa Hap: un bel nome.

  E' ormai anche superfluo sottolineare come la serie di Lansdale demolisca - ghignando - buona parte dei miti americani: da quello della famiglia, a quello del successo a tutti i costi, alla superiorità razziale e/o sessuale. I problemi dell'America sono tutti interni, spazzatura umana che cresce e germoglia nel sottobosco di una società dove il benessere è l'unico metro di misura per giudicare un proprio simile e il modo in cui lo si raggiunge non è poi così importante. Leonard, è gay, è nero, ex soldato, privo di un'occupazione stabile. Hap è bianco, squattrinato, insicuro, privo di un'occupazione stabile. Sono moderni don Chisciotte, figli degli scarti sociali del maggior impero culturale sulla faccia della terra, l'incarnazione del fallimento del sogno americano. Sempre col sorriso (a volte sorriso amaro, a volte sghignazzo) sulle labbra. Lansdale usa gli strumenti che la cultura pop del suo paese gli ha somministrato a forti dosi per smontare quella stessa cultura che lo ha nutrito. Il suo è un progetto che parte dal basso, che nasce dalla letteratura popolare per rivolgersi a tutti, a chi quella letteratura consuma: violenza, sesso, armi, belle donne, battute veloci in pieno stile Die Hard o Arma Letale. La sua scrittura ha la velocità di un videogioco, la brutalità di un pugno nello stomaco e la schiettà volgarità di chi il politically correct non ha idea di dove stia di casa.

Un citazione particolare alla copertina - splendida - di Zerocalcare.

  *
  - Amore: quando le cose si mettono male diventa peggio che se ti pisciassero nella minestra

  - C'era un silenzio tale che avresti potuto sentire due tafani che scopavano

  - Cedette di botto, come il senso morale di un predicatore battista in uno strip club


Joe Lansdale è nato il 28 ottobre 1951 a Gladewater, Texas.
Grande lettore, Lansdale è stato influenzato da Mark Twain, Edgar Rice Burroughs e Jack London, ma anche da scrittori di fantascienza come Ray Bradbury e Fredric Brown. E' un grande appassionato di fumetti, di B-movie e letteratura “pulp” (etichetta con la quale è sbarcato in Italia, paese che lo ha adottato e dove ha una nutrita schiera di fans). Ha svolto diversi lavori dal contadino al buttafuori in locali pubblici, dal bidello all'operaio in fabbrica. Nel gennaio del 1997 aprì una sua scuola di arti marziali, e il Lansdale’s Self-Defense Systems è uno stile riconosciuto a livello internazionale. Ha pubblicato:  Una stagione selvaggia (Savage Season, 1990), Einaudi; Mucho Mojo (Mucho Mojo, 1994), Bompiani riedito da Einaudi, Il mambo degli orsi (Two-Bear Mambo, 1995), Einaudi, Bad Chili (Bad Chili, 1997), Einaudi, Rumble Tumble (Rumble Tumble, 1998), Einaudi, Capitani oltraggiosi (Captains Outrageous (2001), Einaudi, Sotto un cielo cremisi (Vanilla ride) (2009), Fanucci, La notte del Drive-In (The Drive-In, 1988), Einaudi; Mondadori Urania n. 1214, Il giorno dei dinosauri (The Drive-In 2, 1989), Einaudi; Mondadori Urania n. 1224, La notte del drive-in 3, La gita per turisti, 2008, Einaudi, Atto d’amore (Act of Love, 1980), La morte ci sfida (Dead in the West, 1983),Il lato oscuro dell'anima (The Nightrunners, 1983), Texas Night Riders (1983), Il carro magico (Magic Wagon, 1986), Freddo a luglio (Cold in July, 1989), L’ultima caccia (The Boar, 1998), Fanucci, Fiamma fredda (Freezer Burn, 1999), I Neri Mondadori n. 1, riedito nel 2007 dalla Fanucci con il titolo “Freddo nell’anima”, Il valzer dell’orrore (Waltz of shadows, 1999, Fanucci), Blood Dance (2000), In fondo alla palude, Fanucci – premio Edgar Award 2001, L’anno dell’uragano (The Big Blow, 2000), Fanucci, Fuoco nella polvere (Zeppelins West, 2001) Fanucci, La sottile linea scura (A Fine Dark Line, 2002), Einaudi, Bubba Ho-Tep (Bubba Ho-Tep, 2003), Addictions-Magenes Editoriale, Tramonto e polvere (Sunset and Sawdust, 2004), Einaudi, Flaming London (2005), Echi perduti (Lost Echoes, 2006), Fanucci, The Shadows Kith and Kin (2007), God of the Razor (2007), La lunga strada della vendetta (Batman: Captured by the Engines), Edizioni BD, La ragazza dal cuore d’acciaio (Leather Maiden, 2007), Fanucci, Laggiù nel profondo (Way Down There, 2007) Edizioni BD, Cielo di Sabbia, Einaudi, eccetera eccetera eccetera.



Allego il link del sito di Joe R. Lansdale: Qui.
  Qui e Qui i link ai precedente romanzi di Lansdale recensiti in questo blog

lunedì 16 novembre 2015

Duffy, di Dan Kavanagh, Einaudi editore, trad. di Norman Gobetti

  Il fatto che Dan Kavanagh non esista e in realtà dietro questo nome de plume si nasconda Julian Barnes non è una questione di poco conto. Al contrario, è il principale motivo d'attrazione di questo giallo godibilissimo.  Mi spiego meglio: il libro è esile, e non parlo soltanto del numero di pagine. La storia, in mano a qualsiasi altro scrittore privo del talento di Barnes sarebbe esploso in qualcosa di pulp, o di noir, o in un voluminoso best seller cupo e ossessivo. O, molto probabilmente, lo avreste trovato in vendita in edicola accoppiato a qualche giornale di bassissima lega. Per buona sorte del lettore, questi pericoli con Barnes non si corrono.
  Dunque: un tipo alto ed esageratamente loquace, al limite della logorrea, e il compare basso e silenzioso, entrano con l'inganno in casa di Mr McKechnie, gli arrostiscono il gatto e incidono uno sfregio sulla spalla della moglie. Mr McKechnie, piccolo imprenditore di Soho - un ufficio sgangherato e due magazzini - che si occupa di import export di maschere di King Kong e, forse, di ben altro, comincia a ricevere telefonate da un certo Mr Salvatore che, molto elegantemente, lo taglieggia, seppur per importi piuttosto bassi. C'è da precisare che siamo negli anni 70: quindi, niente smartphone, niente computer nè social network e neppure pornografia online alla portata di tutti. Poi: Mr Salvatore non esiste o, per meglio dire, non esiste più, è il nome di un noto criminale di Soho morto da qualche anno; e ancora: la polizia sembra fottersene altamente delle denunce del povero Mr McKechnie che si trova obbligato a rivolgersi ad un professionista privato del settore, un private eye. Duffy, un investigatore privato buttato fuori dalla polizia quattro anni prima dopo aver lavorato proprio nel commissiriato di riferimento del caso McKechnie. Buttato fuori per una brutta storia. Sorpreso a fare sesso con un  minore. Da qui in avanti l'intreccio si avviluppa intorno al quartiere a luci rosse, a puttane (Renèe che, a parte i capelli, il vestito, la pelliccia e lo stivale, aveva dei problemi anche seri, e non ragionava male), a papponi, poliziotti corrotti, cinema a luci rossi (ecco gli anni 70, allora c'erano ancora i cinema a luci rosse), a boss che pensano a sè stessi come ad imprenditori rampanti e parlano come lord forbiti, e scagnozzi disperatamente stupidi, centri massaggi equivoci e peepshow. Spingersi oltre nello svelare la storia non è possibile senza oltrepassare il limite dello spoiler, oltrechè del buongusto. La trama è, appunto, esile, al punto dal rasentare la fragilità. In realtà questo libro, che è il primo di una serie scritta sotto lo pseudonimo di Dan Kavanagh (seguiranno:Fiddle City, Putting the Boot In, Going to the Dogs), pare essere un sottile e gradevole esercizio di stile durante il quale il lettore viene introdotto alla conoscenza del protagonista, Duffy. Integerrimo ma non al punto da non capire la corruzione che impera nelle forze di polizia, dotato di un understatement tipicamente anglosassone (d'altronde come buona parte dei personaggi di questo libro), bisessuale esplicito (intendo: se non proprio dichiarato comunque non nascosto), poliziotto incastrato, obbligato a sbarcare il lunario come esperto di sicurezza, in bilico nel suo rapporto (moolto aperto) con la sua ex, Carol, Duffy è l'anima stessa del romanzo. Orecchino, blujeans e capelli a cresta, Duffy riesce nel miracolo di non scadere nella caricatura di sè stesso, di non scivolare mai fino in fondo nella banalità della trama: la cavalca, elegantemente, grazie allo stile sopraffino ed allo humor tutto inglese di Barnes.
Non è psichedelico come il pynchoniano Vizio di forma, nè imbolsito come Lionel Asbo, di Martin Amis. E' un'opera fragile, da maneggiare con cura, da gustarsi nella sua precarietà. Da sorseggiare in attesa dei libri successivi della serie di Duffy.

 Dan Kavanagh in realtà non esiste, ma la sua biografia si: è nato nella contea di Sligo nel 1946. Dopo un'adolescenza di assenze ingiustificate a scuola, sesso libero e piccoli furti, a diciassette anni se n'è andato di casa per imbarcarsi come mozzo su una petroliera liberiana. Montato su un'altra nave a Montevideo, ha girato per tutte le Americhe svolgendo i lavori più disparati: lo stuntman nei rodei, il cameriere su pattini a rotelle in un drive-in di Tucscon, il buttafuori in un licale gay di San Francisco. Al momento è impegnato a Londra in attività lavorative che preferisve non specificare, e vive a North Islington. Il suo alter ego letterario è Julian Barnes.
 

lunedì 26 ottobre 2015

Ogni giorno è per il ladro, di Teju Cole, Einaudi editore, trad.di Gioia Guerzoni

 Teju Cole, dopo la morte del padre, ha abbandonato il proprio paese per andare a studiare medicina negli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle l'unico mondo da lui conosciuto fino a quel momento. Forse non lo si nota, non subito quantomeno, ma il libro parla di codici. Codici acquisiti, codici atavici, codici dimenticati, codici ritrovati e di nuovo abbandonati. E soprattutto parla dell'identità di un uomo quando perde i suoi codici originari, e di quando li ritrova. In questo senso diventa interessante seguire il viaggio di un nigeriano in Nigeria. Con quali occhi rivede il proprio paese natale? Attraverso quali codici lo interpreta? Teju Cole scrive un personale diario del ritorno che in qualche maniera, tra le righe, diviene un diario universale di chi si è allontanato da qualcosa e decide, coscientemente, di farvi ritorno.
La Nigeria è un paese perennemente sull'orlo del caos, forse anche oltre quella bordatura che separa il primo dal terzo mondo, l'ordine e la logica dalla magia e dalla follia urbana. Non solo follia, ma pure dal sopruso, dalla violenza, dalla superstizione, dalla corruzione. Eppure, si ripete spesso il protagonista, guardandosi attorno, un po' sconcertato e un po' sconsolato, eppure la Nigeria, a sentire le classifiche che qualcuno stila (a ragion veduta s'immagina), è il paese al mondo dove la gente è più felice. Non il paese più felice del mondo: il paese al mondo dove la gente è più felice: c'è differenza. Ma come si può essere felici in posto dove un ragazzino che tenta uno scippo al mercato viene linciato e bruciato vivo dalla gente accorsa sul posto? L'occhio di Cole pencola tra la sconforto nel registrare l'apatia e la brutalità nelle quali è invischiato il paese, e Lagos in particolare, e la ricerca insopprimibile di particolari nei quali riporre una speranza di rinascita. Il futuro. La corruzione è un preciso dato di fatto, accettato e, entro certi limiti, anche compreso: si può rubare, sempre se non si esagera. Ognuno ha il diritto di pretendere dal prossimo una (sorta di) tassa di ridistribuzione della ricchezza, o quantomeno così è come se la raccontano laggiù. Laggiù, nell'Africa, a Lagos, in Nigeria, in quel paese che Cole non riconosce fino in fondo forse perchè, a scapito dell'attuale sviluppo economico legato alle attività delle multinazionali del petrolio, rimane uguale a sè stesso, troppo identico ai propri difetti nei quali continua a specchiarsi. Il passo narrativo è lento, ponderato, ma in fondo lieve. L'attenzione è per i particolari, per quei particolari che provocano nel protagonista uno smottamento interno. Le fotografie in bianco e nero (dell'autore) che puntellano il testo testimoniano la distanza tra Cole e il paese nel quale è tornato. Testimoniano la necessità di fissare l'attimo, il particolare, il non detto o il non compreso. Fotografare per tornarci sopra, in un secondo momento, a studiarne i codici da decifrare. Torniamo ai codici. Quelli originali (etnici, quasi tribali; forse senza quasi) su cui la cultura nordamericana ha sovrascritto i propri, ora tornano a galla o, per meglio dire, studiano sè stessi in attesa di capire se davvero tornino a galla. Il perenne ritorno di chi se n'è andato quasi all'improvviso, quasi di soppiatto, prendendo tutti alla sprovvista, il ritorno di chi già sa che ancora una volta se ne andrà e che, alle domande che gli vengono rivolte, se pensa un giorno di tornare, se pensa di ripercorrere i suoi passi e aiutare il paese nella sua perenne, infinita corsa verso la modernità, non sa cosa rispondere. La famiglia, il caldo, le credenze magiche ed assurde, la mancanza di ciò che da altre parti nel mondo viene dato per scontato, la capacità di ridere anche delle tragedie (soprattutto delle tragedie), l'accettazione della realtà così com'è, perchè un'altra realtà è possibile solo in un altro posto. Le librerie sfornite, la scarsa se non nulla attenzione a qualsiasi forma di pratica culturale, l'abitudine alla violenza, al taglieggio, la costante sensazione di trovarsi a rischio, sul limitare di un baratro, senza peraltro farci caso. Tutto contribuisce a formare un puzzle che si compone nel medesimo istante tra le mani dell'autore e sotto gli occhi del lettore. Ogni giorno è per il ladro (ma uno è per il padrone) è un libro di passaggio, un meccanismo che s'inceppa e riflette su sè stesso e sul proprio incepparsi. L'esule o, in questo caso, l'espatriato può mantenere nei confronti del paese abbandonato due diversi atteggiamenti: rimpiangerlo ed idealizzarlo, o screditarlo e dimenticarlo. Cole riesce a non sposare nessuna delle due opzioni ma si dibatte tra esse mettendo a nudo la propria impotenza. E' Lagos che lo comanda, è la Nigeria che comanda in Nigeria e Cole è un burattino nelle sue mani: non può far altro che guardarsi attorno, e dentro, e raccontarci cosa voglia dire essere un uomo senza più codici. O con troppi codici.

Teju Cole, scrittore, storico dell'arte e fotografo, è cresciuto in Nigeria e vive a Brooklyn. Città aperta, il suo primo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 2013, ha vinto il PEN/Hemingway Award, il New York City Book Award for Fiction e il Rosenthal Award, ed è risultato finalista al National Book Critics Circle Award, il New York Public Library Young Lions Award, e l'Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Inoltre, è stato giudicato uno dei migliori libri dell'anno da più di venti testate, fra le quali «The New Yorker», «The Atlantic», «The Economist», «The Daily Beast», «The New Republic», «Los Angeles Times», «Salon», «Slate», «New York magazine» e «Kirkus Reviews». Nel 2014, sempre per Einaudi, è uscito Ogni giorno è per il ladro.

domenica 18 ottobre 2015

Teoria delle ombre, di Paolo Maurensig, Adelphi editore

  Morire soffocato da un pezzo di carne con un cappotto indosso nella propria stanza di hotel, non è il destino che si può aspettare il campione del mondo di scacchi, un genio assoluto, conosciuto per il suo stile d'attacco e per le sue costruzioni complesse. In effetti, per Alekhine, quarto campione del mondo di scacchi ancora in carica al momento del decesso, sarebbe una morte a tal punto banale dallo sfiorare il ridicolo. Ma il narratore di Teoria delle ombre, che potrebbe essere o non essere lo stesso autore (o un personaggio che incarna le ipotesi dello stesso Maurensig), si reca in Portogallo per reperire notizie di prima mano su quella che, per lui, è una fine poco chiara (nè banale nè ridicola), una versione ufficiale dietro la quale si nasconde altro. La ricostruzione degli ultimi giorni trascorsi da Alekhine all'Hotel do Parque, di Estoril, fino alla notte tra il 23 ed il 24 Marzo 1946, che occupa buona parte del libro, è dichiaratamente una ricostruzione romanzesca, ipotetica. Ovviamente, nella versione immaginata da Maurensig (e quindi dal suo narratore), la morte per asfissia è solamente la versione ufficiale di comodo. La verità è altra. Inquietante, complessa, segreta. Possiamo non svelarla, anche se è facile immaginarla, ma non è importante. Per quanto sia costruito come un giallo elegante che gioca con la storia dichiarando esplicitamente il proprio intento romanzesco, Teoria delle ombre non è un giallo. Si legge come tale, ma non lo è. Maurensig è uno scrittore attento, dallo stile elegante, trattenuto, classico, che costruisce una struttura dall'impianto solido, che si autogiustifica, al solo fine di raccontare qualcosa di più di una detection che non sarebbe in grado di portare fino in fondo sul piano reale. Quindi non è un giallo e non è neppure un saggio giornalistico sulla morte (e sui misteri che questa porta con sè) di un grande scacchista. La biografia di Alekhine lo vede passare attraverso la Russia zarista, quella Sovietica, la Francia e la Germania nazista, sempre con una scacchiera in mano come sua unica bussola. Quanto sia stato anticomunista e quanto filonazista non è ben chiaro, e su questa opacità Maurensig immagina il conflitto interiore di un uomo perennemente in bilico tra poli opposti: alcolismo e lucidità geniale, megalomania e insicurezze umane (vedi il suo attaccamento feticista al vaso avuto in dono dallo Zar in persona), fama e solitudine, ricchezza e mancanza assoluta di denaro. L'Hotel do Parque è l'immenso palcoscenico, tetro e vuoto nell'inverno portoghese, nel quale Alekhine si aggira in attesa che la sua carriera ricominci. Il titolo di campione del mondo è sempre nelle sue mani, ma non gioca ad alti livelli da troppo tempo (da qui l'insicurezza che apre brecce nella sua megalomania), si sta separando dall'ennesima moglie (tutte più anziane di lui, forse nessuna amata veramente), non ha una lira (l'Hotel è pagato da altri) e trascorre il tempo in attesa che la vita abbia uno scarto e ricominci a scorrere, chiamandolo a recitare il ruolo da protagonista che gli compete. La tragica parentesi della grande guerra si è chiusa e il mondo sta prendendo le misure ad una nuova realtà, sullo scacchiere mondiale si sta schierando un rinnovato assetto geopolitico, la guerra fredda sta ponendo le proprie basi per occupare gli anni a venire e l'Europa è un enorme cantiere in cui chi non è morto si dà da fare per trovare un proprio posto nella ricostruzione e, spesso, per far dimenticare chi è stato e cosa ha fatto negli anni del conflitto. Le tensioni si spostano dai campi di battaglia agli scenari politici e alle strutture segrete di intelligence che si occupano di decidere quali saranno le prime mosse sulle quali giocare il nuovo futuro. Si costruisce su macerie, in un immenso camposanto. Mentre l'Europa brulica di spinte ricostruttrici e di un'energia convulsa e caotica, Alekhine rimane bloccato in una immobile attesa di qualcosa che gli permetta di riempirsi le tasche e di riprendere il corso della sua vita. Ed è in quell'hotel vuoto che Alekhine, proprio quando pare che il futuro reclami nuovamente la sua presenza, si trova ad affrontare i fantasmi del suo passato. Le accuse di antisemitismo e filonazismo, di aver trovato riparo e aiuto presso gerarchi del regime di Hitler, di aver scritto articoli che avrebbero diviso il mondo degli scacchi tra ariani ed ebrei, di non aver usato la sua fama per salvare colleghi scacchisti ebrei. Ma è stato davvero connivente e sostenitore del regime nazista, o semplicemente è stato un uomo e uno scacchista - uno dei più grandi di tutti i tempi - che si è trovato a barcamenarsi tra i marosi della storia. E' stato (quasi) un mostro, o semplicemente un uomo come tanti, incapace di eroismi, disposto a scendere a compromessi pur di salva(guarda)re sè stesso e la sua passione. E' vero che l'unica cosa che ha contato nella sua vita sono stati gli scacchi e che tutto quello che ha fatto, le scelte compiute, le svolte intraprese, tutto nella sua esistenza è stato in funzione di quei pezzi da muovere come un orchestra sul quadrato di una schacchiera? E quindi, è morto per morte accidentale, banale, ridicola, beffarda come spesso è la morte, o qualcuno ha deciso per lui il termine della sua esistenza? Le ombre che tormentano i suoi ultimi giorni sono reali, come ce le propone in effetti il narratore, o non sono altro che i simboli di una lotta interiore di un uomo incapace tanto di raggiungere il proprio futuro quanto di fare i conti col proprio passato?
  Quello che resta, di quest'ultimo libro di Maurensig, è la solitudine di un uomo perso in sè stesso, dei suoi passi per i corridoi vuoti di un grand hotel all'estremo confine dell'Europa, di un mondo, quello degli scacchi, il suo, al quale si è votato totalmente e che, ad un certo punto, è parso non contare più nulla, o troppo poco, ma che da lì in avanti sarebbe divenuto un'arma essenziale della guerra fredda, un uomo quasi sicuramente antisemita, forse filonazista, un campione del mondo. Un uomo che, al di fuori della scacchiera, non riesce più a reggere il confronto con sè stesso e con le proprie azioni.

  Il mondo degli scacchi ed i suoi protagonisti ancora una volta si dimostrano materiale narrativo ideale per Maurensig, anche se la struttura del libro, il suo oscillare apparentemente tra giallo e ricerca, pur in un suo formale equilibrio, toglie alla materia narrata la grandiosità tragica di cui avrebbe potuto ammantarsi. E' come se il coltello non affondasse mai nella ferita ma la slabbrasse appena per mostrarla in tutta la sua deforme bellezza.

So cosa non è (un giallo, un saggio storico, un indagine), ma quello che è (la tragedia dell'uomo di fronte a sè stesso ed alla propria coscienza) non lo è fino in fondo.


Nato a Gorizia nel 1943, Paolo Maurensig, dopo aver compiuto gli studi classici, si trasferisce a Milano, dove inizia a lavorare nel campo dell'editoria. Parallelamente coltiva la sua passione per la scrittura, pubblicando alcuni libri di racconti (I saggi fiori, All'insegna del Cigno, Ippocampo - Milano). Il successo arriva con  la Variante di Luneburg, (Adelphi 1993) il quale si rivela  il caso letterario dell'anno.
Seguono, per i tipi della Mondadori, Canone Inverso (1996), da cui è stato tratto l'omonimo un film diretto da Ricky Tognazzi, L'ombra e la meridiana, Venere Lesa (1998), L'uomo scarlatto (2001) e Il guardiano dei sogni (2003), la novella gotica: Vukovlad, il signore dei lupi (Mondadori 2006) e Gli amanti fiamminghi (Mondadori, 2007).
Per i tipi della Morganti editrice ha pubblicato di recente La Tempesta, il mistero di Giorgione e il romanzo: L'oro degli immortali. Nel 2012 sono usciti due libri: il breve saggio intitolato Il Golf e l'arte di orientarsi con il naso (Mondadori) e L'ultima traversa. (Barbera Editore). Sempre per Mondadori, è l'ultimo romanzo storico L'Arcangelo degli Scacchi.
   


domenica 11 ottobre 2015

Una domenica pomeriggio, di Roberto Arlt, Sur Editore, trad. di Raul Schenardi

  I personaggi a cui Roberto Arlt dona voce e nobiltà (e che nobiltà!) letteraria sono alla continua ricerca di un perchè, una scusa che giustifichi la loro abiezione. Sprofondano, e sono abitati da una febbre a tratti petulante di raccontare questo loro sprofondare. Ricordano i morti di Spoon River che assediano Lee Masters perchè questi ne racconti il passaggio sulla terra; ma i personaggi di Arlt sono vivi, almeno in apparenza. Sono uomini e donne impantanati in un apatia che offusca loro i sentimenti e i ragionamenti, che li rende lamentosi ed autoassolutori. Sanno cosa sono, vale a dire rifiuti della società, e non fanno nulla per negarlo, ma si incaponiscono nel voler spiegare al mondo come sono diventati quello che sono. E' il caso del primo racconto, Il gobbetto, in cui il protagonista mette le mani avanti e ammette di essere sprofondato (l'uso di questo verbo è ossessivo nei primi due racconti) in un abisso oscuro, ma ne ricerca la responsabilità in Rigoletto, il gobbo del titolo. Ci troviamo di fronte ad un "lui è peggio di me": se il narratore è quello che è (un omicida) la colpa è di Rigoletto, che è (appunto) peggio di lui (..."era l'essere più sfacciato della sua specie"). Il fatto di averlo infine strangolato, il gobbetto impertinente, passa distrattamente in secondo piano. Non viene nascosto l'omocidio, ma rimane relegato a ruolo di semplice particolare moralmente giustificabile e, quindi, automaticamente giustificato. Il punto di vista narrativo ovviamente è (deve esserlo) sempre interno: la storia la veniamo a conoscere direttamente dalla voce del narratore, sentiamo solo il suo punto di vista, e non potrebbe essere altrimenti: l'effetto straniante, urticante, a tratti nauseante deriva esattamente dalla sproporzione inscritta tra la profondità degli abissi narrati e la svogliatezza apatica con la quale, in prima persona, sono descritti.


  Ne Le Belve, il secondo racconto, il narratore parla ad una donna che, immagiamo, lo ha ferito in passato; è lei la destinataria assente del monologo a cui viene raccontato il mondo fetido e perverso nel quale lo ha fatto precipitare: il bar, Ambos Mundos, Unghia d'oro, il Bamboccio, l'Orologiaio, Tacuara, Guillermito, Cipriano: ladri, delinquenti, truffatori, omicidi e stupratori di minorenni che riescono ad intenerirsi al ricordo delle proprie atrocità. Anche qui, il racconto non è altro che un'istantanea, una descrizione patologica del sub-mondo del bar e dei suoi frequentatori, i loro silenzi, le smorfie, la noia, la mancanza di morale, la violenza, le loro donne, che poi sono quelle che li mantengono, prostituendosi, e che si beccano le loro botte, per noia.

   ... l'Orologiaio fa spallucce, sorride penosamente e dopo aver rimuginato a lungo la risposta dice: << Che ne so io. Sarà perchè mi annoio. >>

 Chi racconta, ancora una volta, non nega di aver toccato il fondo, sa distinguere in sè e negli altri frequentatori del bar la propria natura di belve, ma a giustificazione chiama sempre in causa una serie di motivazioni patetiche ed assurde a tal punto da rischiare di sembrare verosimili: il dolore, inflittogli dalla donna alla quale racconta la sua vita attuale, e una sensibilità (la sua) sovradimensionata rispetto alla realtà abietta nella quale è scivolato. Un micro cosmo sub-umano nel quale il ricordo di uno stupro lascia trasognati a riassaporarne, nella memoria, il piacere; in cui gli uomini si eccitano e (forse) si inorgogliscono ad accompagnare le proprie donne a battere sulla strada ("All'improvviso ci passa per la testa un timore: <<Oggi la sbattono dentro di sicuro>>, o << Sarà l'ultima volta che la vedo?>>); nel quale il bar è un acquario pieno di pesci sonnolenti e pericolosi che, quando non si scannano tra di loro, si iniebetiscono a guardare fuori quel mondo di persone normali che proprio non riescono a capire.

... e ci entrano negli occhi tenebre che nemmeno le strade più buie hanno nelle loro profondità melmose, mentre dietro la spessa vetrata che dà sulla strada passano donne oneste che passeggiano a braccetto di uomini onesti. 



  Lo scarto più evidente rispetto alla struttura tipicamente Arltiana della narrazione come espediente (una scusa) per descrivere un mondo di reietti e (all'interno della narrazione) della ricerca di una scusa per giusticare la propria presenza in quello stesso mondo (o abisso, o universo parallelo) lo si ha nell'ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, Una domenica pomeriggio. Qui non ci troviamo immersi nei meandri della piccola malavita bonaerense, non per forza quantomeno, ma seguiamo il girovagare ozioso di Eugenio Karl, il protagonista, un tipo strambo che stila presagi a seconda delle palpitazioni del suo cuore. Eugenio incontra una donna bionda, che gli sorride, Leonilda, la moglie di un suo amico. Questa lo invita in casa a bere un thè, anche se suo marito non c'è, anzi, proprio perchè suo marito non c'è. Arlt viviseziona magistralmente il desiderio dei due, la danza che si instaura tra le remore e gli strappi in avanti dei due possibili amanti. Rifiuti, dinieghi, nuove proposte, ogni passo in avanti è un passo verso il precipizio dal quale non si torna indietro, la colpa percepita nell'aria elettrica come un corpo solido, o solidificantesi, e il desiderio insopprimibile, il piacere della colpa, del proibito, del sacrificare amicizia e amore coniugale sull'altare della lussuria. Ma quando Leonilda finirà col tirarsi indietro, il mancato piacere del sesso proibito porterà Eugenio Karl a sostituirlo con un altro tipo di piacere, più sottile, più cinico. A suo modo più perverso. In un dialogo perfetto nel suo crudele scavo psicologico, Karl scaverà nella donna fino a portarne alla luce gli intimi recessi di abbandono, di lussuria, sospirata e non consumata, la sua natura di donna infelice incapace di allungare la mano a prendersi una parentesi di soddisfazione, di rivalsa sulla mediocrità tediosa della vita: qualcosa di cui potersi almeno, dopo, pentire. In questo racconto, così differente dagli altri due, Arlt si mostra più complesso, capace di finezze che i protagonisti dei suoi altri racconti non gli permettevano, troppo occupati a giustifcare sè stessi e le proprie abiezioni. Qui non c'è uno sprofondo, è piuttosto una danza, un tango crudele che termina senza essere stato ballato, sull'impiantito ligneo della sala da ballo risuona soltanto ciò che non si può vedere, i sentimenti, le paure, l'ansia, l'eccitazione che sale e che si trasforma in bisturi psicologico (il dialogo, magistrale). Questo è infatti l'unico racconto in cui il narratore è terzo rispetto ai personaggi ed ai fatti narrati. 

   Arlt è Buenos Aires, è l'altra faccia di Buenos Aires, quella oscura, impresentabile, è il cantore dei cattivi sentimenti, delle perversioni che abitano un universo parallelo, dei delinquenti, dei vinti, delle puttane, di un mondo dove la violenza è l'unico linguaggio che riesce ad accompagnarsi a quello universale del silenzio minaccioso, degli sguardi in tralice, del sentimentalismo stucchevole che mescola stupri e Gardel, quel mondo DeAndreiano (o anche tipico, tra gli altri, di Nelson Algren, di Hubert Selby Jr o di Bukowsky) che nessuno vuole prendersi la briga di vedere, dove infilzare ad un tavolo la mano della propria donna non merita neppure il tempo di un dubbio. La vita vera (o fasulla, dipende) è quella incomprensibile che scorre al di là delle vetrate dei postriboli, dove uomini e donne oneste camminano mano nella mano, ma è appunto un mondo altro, alieno, le cui regole e i cui simboli non sono altro che messaggi non decrittabili che provengono da un altro universo.

Arlt è grottesco, spietato, ironico, urticante. E assolutamente indispensabile.

Penso che è triste non sapere chi ammazzare


Roberto Arlt nasce a Buenos Aires nel 1900. Figlio di immigrati europei (il padre prussiano, severissimo), fin da bambino si ribella alla rigida educazione familiare. A sedici anni lascia i genitori e vive senza fissa dimora per le strade di Buenos Aires. Lavora come meccanico, imbianchino, operaio portuale, commesso e intanto studia da autodidatta. Poi comincia a collaborare a qualche giornale e infine diventa giornalista a tempo pieno. Il suo primo romanzo, El juguete rabioso (Il giocattolo rabbioso) esce nel 1926 ed è la storia più o meno autobiografica della sua adolescenza nella caotica e affascinante Buenos Aires dei primi anni Venti. Tre anni dopo, Los siete locos (I sette pazzi) viene esaltato da alcuni come un capolavoro, ma anche bollato da altri come «scritto male». Nel 1931 esce il sequel del romanzo precedente, che ne completa le vicende: Los lanzallamas (I lanciafiamme). Ma il suo libro più fortunato è Aguafuertas porteñas (Acqueforti di Buenos Aires), del 1933, ritratti di Buenos Aires usciti inizialmente in una popolarissima rubrica che Arlt teneva sul quotidiano «El Mundo». Come giornalista viene inviato in Brasile e in Spagna (durante la guerra civile). Muore a Buenos Aires nel 1942, per un infarto.

domenica 4 ottobre 2015

Il principio del piacere, di José Emilio Pacheco, Edizioni Sur, trad. di Raul Schenardi

  Nel racconto che dà il titolo al libro, Il principio del piacere, un ragazzino si innamora per la prima volta, e lo fa abbandonandosi al delirio del sentimento. Durante i mesi di delirio amoroso, nei quali deve fare i conti con la realtà che la sua amata, Ana Luisa, non è il ritratto della virtù e che nasconde qualcosa (qualcosa di oscuro, di misterioso, di sporco), il protagonista scopre una nuova porzione di realtà, che non immaginava: la vita del padre, le sue zone d'ombra, l'equilibrio non poi così saldo sul quale si regge la sua famiglia (e il mondo intero), il dolore immenso che scaturisce dal sentirsi traditi, il senso ineffabile e disorientante di cospirazione che vive ogni innamorato, le sparizioni di Ana Luisa, i suoi silenzi, le allusioni a qualcosa di terribile che non si capisce cosa sia ma che c'è. Tutto complotta perchè venga scagliato in un folle vortice dal quale uscirà diverso. Più adulto. Disilluso. Frastornato e suonato come un pugile: con addosso una sensazione di irrealtà, come se fosse stato fregato ad un gioco che, a sentire gli adulti, avrebbe dovuto essere divertente.

  se questa che sto vivendo, come dice la mamma, è la tappa più felice della vita, chissà come saranno le altre, cazzo. (pag.53)

  Il mistero in questo racconto non ha nulla di soprannatuale ma è una vertigine tutta umana, inesorabilmente umana, una strada che non si può evitare di percorrere e che si sà già dove condurrà, in un vicolo oscuro.
  La festa selvaggia è un racconto dello scrittore Andrés Quintana, un racconto buttato giù di getto dopo anni di inattività letteraria e che viene rifiutato da una rivista (finanziata dagli yankees) che ancora deve vedere la luce. In un Messico sul quale piove la brama di supremazia culturale nordamericana, dove è il capitalismo ad ammantare, mercificandolo, ogni aspetto dell'esistenza, sarà proprio Quintana a scomparire agli occhi della realtà e a scivolare nella follia del suo stesso racconto.
Ex compagni di scuola che scompaiono, letteralmente, alla memoria del mondo (Langerhaus). Transatlantici che solcano non solo gli oceani ma anche il tempo (Cuando salì de la Habana, vàlgame Dìos). Donne che si rovinano la vita ad invidiare la bellezza delle amiche (L'artiglio). Bambini che scompaiono nel nulla sotto gli occhi della madre (Tenga, si distragga). La realtà di Pacheco si deforma in maniera silenziosa, elegante, senza che si verifichi mai uno strappo vero e proprio, è piuttosto un traslare in una dimensione parallela che si sovrappone alla nostra e la rende improvvisamente incomprensibile. Ma è la nostra stessa realtà ad essere in fondo incomprensibile, misteriosa e disturbante (vedi Il principio del piacere e L'artiglio): non è forse l'innamoramento una dimensione diversa da quella in cui viviamo normalmente che si impadronisce di chi la vive e lo centrifuga fino a lasciarlo privo di punti di riferimento? Non è lo scorrere del tempo (e i suoi effetti sul reale) un meccanismo che, a rifletterci, è mostruoso, incomprensibile, avvilente?

  L'eccezionalità di Pacheco, nei suoi racconti, consiste nello spostare l'elemento perturbante da esterno all'esistenza (come ad esempio nei racconti gotici), ad interno ad essa, per finire poi con l'essere l'esistenza stessa. La vita umana è dunque già di per sè incomprensibile, perturbante appunto, e non c'è differenza reale nel trovarsi ad affrontare lo spirito di un morto, la sparizione di un amico o il naturale passaggio all'età adulta. Ogni cosa, nell'opera di Pacheco, è in frantumi, e danza, una danza elegante, soffice ma che ha nel suo stesso volteggiare un alito di follia che la rende sgraziata, fuori tempo. E allora, perchè danzare?  Perchè proseguire a giocare quel gioco che doveva essere divertente e che invece porta inevitabilmente al fallimento?
   Un malinconico sbigottimento è la sola risposta che l'uomo può avanzare come pretesa di fronte ad un mondo incomprensibile e sordo ad ogni pretesa di comprensione.

Questi sei racconti pubblicati per la prima volta in Messico nel 1972, che vengono normalmente catalogati come racconti del mistero, confermano che è l'intera poetica di Pacheco ad essere legata al lato misterioso dell'esistenza. Qualsiasi tentativo di volerne contenere gli orizzonti all'interno di generi o scuole non ha senso: l'opera di Pacheco è grande letteratura. Punto.

 Da leggere assolutamente, del maestro messicano: Il vento distante e Le battaglie nel deserto.

José Emilio Pacheco (1939-2014) è stato un poeta, saggista e narratore messicano tra i più noti e amati. Ha pubblicato circa trenta libri di poesia, e selezionatissime opere di narrativa, che gli hanno valso i maggiori riconoscimenti letterari, fra cui il premio Cervantes nel 2009.
  In Italia è uscito Il vento distante, presso Sur Editore editore, La poesia nella speranza, presso Bulzoni

lunedì 28 settembre 2015

Avventure di un romanziere atonale, di Alberto Laiseca, Arcoiris edizioni, trad. di Loris Tassi

  Alberto Laiseca è un folle, l'enfant terrible della letteratura argentina, un rabdomante di storie, atmosfere, neologismi, un irregolare per eccellenza: un eccentrico. Il suo modo di avanzare nella narrazione pare essere un flusso continuo di invenzioni, narrative e stilistiche, quasi il suo narrare fosse un fenomeno di scrittura automatica, un'iperbole continua che supera regolarmente sè stessa con quella successiva. Non è che non parli della realtà, tutt'altro, descrive anzi il sostrato primigenio delle realtà che racconta (nel caso di Avventure di un romanziere atonale si tratta di una satira verso il mondo dell'arte e dell'editoria nel primo racconto che dà il titolo al libro, e di una sarcastica critica dell'essere umano e della Storia nel secondo racconto), ma la realtà, secondo Laiseca, per poterla vedere come realmente è, ha bisogno di essere spogliata.

"Una mujer vestida es una mujer abstracta" ("una donna vestita è una donna astratta")

Per spogliare la realtà, bisogna forzarla, leggerla sotto la lente deformante della caricatura, slabbrarne le bordature fino a farla fuoriuscire, fino a farla colare su un piano narrativo caricaturale e caotico che, in un certo senso, finisce col violentarla. Se la realtà indossa una maschera (o più maschere), allora compito dell'autore è strappargliela, con ferocia quando fosse il caso (e per Laiseca è sempre il caso), col ghigno sardonico di chi sa che la parodia dei generi è la chiave più salda per forzare una narrazione che altrimenti si limiterebbe a descrivere la superficie delle cose. 
Lo scrittore deve dare un nome alla realtà, deve scavarla fino a farne emergere lo scheletro primordiale, anche a costo di reinventarla (vedi i numerosi neologismi, la magistrale miscellanea di epoche - e non solo epoche - che confluiscono in L'epopea di re Teobaldo, il secondo racconto del libro).

"... La semantica composta dal seme delle lettere che si combinano per far germinare nuove sillabe destinate a dare il nome a tutti gli oggetti del cosmo, compito, questo, che gli Dei assegnarono agli uomini al principio del mondo..."

  Il romanziere, l'amico Coco Pico della Mirandola, Dona Clota e l'editore Ferochi, sono i quattro personaggi che bastano a Laiseca per creare la sarabanda del primo racconto che compone questo Avventure di un romanziere atonale. Il romanziere del titolo è uno sfigato, "un maledetto idiota che non sapeva che i libri si devono solo scrivere, non vivere", che affitta una stanza (in precedenza adibito a gabinetto o, per essere più chiari: a cesso) presso la pensione di Dona Clota (dalla incommensurabile e regale crocchia di capelli: "di certo era venuta al mondo prima la crocchia e poi lei"). Per vivere fa le pulizie - e non nel senso che lavora come sicario ma che lavora per una impresa di pulizie -, è destinato allo squallore di un fallimento che dal piano pratico si riversa inevitabilmente su quello onotologico (e viceversa), fino a quando un amico, Coco Pico della Mirandola, non intercede per lui presso l'editore Ferochi, in fase autopunitiva e alla perenne ricerca di un tracollo finanziario e/o psicologico per espiare il suo passato (recente e remoto) di perfetto stronzo. Il romanziere è la feroce caricatura dello scrittore (prima aspirante e poi affermato), ed è infatti catalogato come "maledetto idiota", che però si crede - passivamente - un genio. Ferochi, quella dell'editore, che si dice "stufo dei geni: ci servono scrittori che sappiano scrivere", ma che poi fa fortuna pubblicando un romanziere che, pur non essendo un genio, anzi, essendo un maledetto idiota, viene inteso dal mondo proprio come summa del genio contemporaneo. Ci penserà il mondo a inghiottire ogni cellula di queste avventure e a porre fine alla follia che le guidava.

  L'epopea di Re Teobaldo, il secondo racconto, è la lucidissima follia di chi ha capito cosa sia la vita umana sul pianeta terra e non ha timore a spiattellarlo in faccia al suo pubblico. Il periodo storico inizialmente pare essere compreso in una parentesi tra il 1000 e il 1.300 a.C., ma nel giro di qualche riga spuntano prima i treni, poi dinosauri, usati come armi da guerra (gli pterodattili al posto dei droni), poi tecnologie e riferimenti novecenteschi, una Russia musulmana, vengono citate armi di fantasia e non (superfrecce, fuochi greci, lanciafiamme, tigrizannute abbattimura, rettili da labirinto); ad un certo punto i due schieramenti che si affrontano vengono follemente descritti come due squadre di calcio, con tanto di spostamenti sulle ali e chi più ne ha più ne metta. Si apre poi un excursus sulla setta degli hasassini (da cui il termine "assassino"), discepoli di Hasan Tymosenko, il Vecchio della Montagna, adepti il cui credo prevede che il mondo sia uno schifo, che non esista nulla di sacro, e che quindi debba essere spazzato via con ogni tipo di violenza e nefandezza. La Guerra di Teobaldo contro la Russia (una Russia arabeggiante retta da Saladino) diventa presto una parodia che mescola le guerre atomiche ipotizzate da Zecharia Sitchin nei suoi libri pseudoscientifici, le partite di calcio, le reali guerre storiche, seppur di epoche diverse, e certi scenari post apocalittici alla Dune. Il risultato: un ritratto delirante ma tragicamente preciso della natura umana e della sua storia su questa terra. La guerra immaginata da Laiseca, diventa una summa di tutte le guerre passate presenti e future - comprese quelle di fantasia - in tutti gli angoli del mondo. La guerra di Teobaldo é la caricatura di ogni guerra, di tutte le guerre, di qualsiasi guerra. Il delirio si concreta ulteriormente dal momento che la lucida follia del racconto si riversa sulle strutture narrative e sugli stili impiegati dall'autore. Mi spiego: l'impressione è che Laiseca parta a briglia sciolta, da una frase che gli suona bene e lo ispira, senza che per forza abbia un senso particolare, e su quella ne inanella altre, accostandole per (diciamo così) gemmazione spontanea: a quel punto la storia si crea da sola, come appunto in un esperimento di scrittura automatica. Storia grottesca, ironica, selvaggia, delirante, violenta, comica. Personaggi folli, crudeli, in mondi frenetici, picari, degenerati, violenti, immorali. Poco alla volta che però il racconto prende forma tra le mani dell'autore, quasi suo malgrado, è l'autore stesso che deve seguirla a perdifiato, per non farsi disarcionare, e adatta stili e strutture a quanto di volta in volta si compatta progredendo nella narrazione. Una narrazione quasi involontaria, forse inconscia, che inventa un mondo che a sua volta modella la storia che si sta formando. E' come assistere ad un'eruzione vulcanica ed al conseguente modificarsi del paesaggio, tutto in presa diretta.
  L'autore è al contempo esterno (quanto più non si potrebbe) ed interno (anche qui, quanto più non si potrebbe) al suo narrare. L'autore è il ghigno feroce di chi, unico, ha il coraggio di guardare in faccia la realtà per quello che è, e non ne soccombe.
  Laiseca è unico nel suo genere, un po' genio, un po' pazzo, eccentrico, inimitabile.

 Alberto Laiseca, scrittore argentino, nasce a Rosario nel 1941. Trascorre la sua infanzia a Camilo Aldao, tra le province di Cordoba e Santa Fe. Dopo aver svolto diversi lavori, pubblica nel 1976 il suo primo libro Su turno para morir. Aventuras de un novelista atonal è il suo secondo libro, del 1982. Seguiranno: Matando enanos a garrotazos, Poemas chinos (1987), La hija de Kheops (1989), La mujer en la muralla (1990), Por favor ¡plágienme! (1991), El jardín de las máquinas parlantes (1993), Los sorias (1998) considerato il suo capolavoro, un libro-mostro di 1.300 pagine,  El gusano máximo de la vida misma (1999), Gracias Chanchúbelo (2000), En sueños he llorado (2001), Las aventuras del profesor Eusebio Filigranati (2003), Sí, soy mala poeta pero... (2003), Las cuatro Torres de Babel (2004), El Artista (2010), Cuentos Completos (2011), Manual Sadomasoporno (2011), Beber en rojo (Drácula) (2012), iluSORIAS (2013) e La puerta del viento (2014). Stimato, tra gli altri, da mostri sacri della letteratura argentina quali Cesar Aira, Ricardo Piglia e Rodolfo Fogwill, è considerato l'erede dell'antiborges per eccellenza: Roberto Arlt.

  Avventure di un romanziere atonale, è in vendita sul sito di edizioni Arcoiris: qui e può anche essere prenotato nelle librerie. Attualmente è l'unico libro di Laiseca tradotto in Italia: dallo stesso editore sono previste altre due traduzioni (che aspettiamo con ansia) per il prossimo anno. 

lunedì 14 settembre 2015

L'impostore, di Javier Cercas, Guanda editore, trad. di Bruno Arpaia

Javier Cercas veste i panni di un Cervantes titubante e ci racconta la storia di come il suo personale Don Chisciotte lo abbia ossessionato a tal punto da portarlo a vincere le sue naturali reticenze e a narrarne le (dis)avventure. Il cavaliere errante in questione si chiama Enric Marco e nel 2005, ultraottantenne, viene scoperto dal mondo intero in flagranza di menzogna. Su cosa aveva mentito? All'incirca su tutto. Peggio, non solo su tutto ma, tra le altre cose, anche su un tema sul quale non è concesso mentire. Un tema sul quale non è perdonabile mentire: l'olocausto. Nel 2005 era l'attivissimo e caoticissimo presidente dell'associazione di ex deportati spagnoli Amical de Mauthausen, in procinto di recarsi a Mauthausen per le celebrazioni del giorno della memoria, celebrazioni alle quali avrebbe preso parte per la prima volta un premier spagnolo, Zapatero, quando un oscuro storico, Benito Bermejo, scopre la sua impostura: Enric Marco non è mai stato prigioniero del campo di concentramento di Flossenburg. Da quel momento crolla tutto: non solo la sua falsa identità di deportato ed oppositore del nazismo, ma anche quella di resistente antifranchista datosi alla macchia e, almeno in parte, in buona parte, il suo passato di anarchico libertario amico del leggendario Buenaventura Durruti e di altri celebri anarchici spagnoli. Ogni cosa ora è in frantumi, e il botto è tremendo, una deflagrazione che supera i confini del mondo degli storici e dei sopravvissuti all'olocausto, supera quelli della Catalogna, della Spagna e diviene un caso internazionale. In generale il mondo lo condanna senza possibilità di redenzione, c'è addirittura chi gli augura il suicidio, unica via possibile per uscire da una situazione talmente enorme da suonare non solo mostruosa ma addirittura assurda. Enric Marco, però, nonostante l'età, a suo modo, affila le armi e combatte. Risponde a tutti, giornalisti e curiosi e a tutti spiega di aver sbagliato sì, ma fin di bene. In che senso? Nel senso che lui ha colmato un vuoto, in Spagna non c'era mai stata una particolare attenzione alle vittime della guerra, la Grande Guerra, la maggior parte di coloro che avevano patito nei campi nazisti o erano ormai morti o sufficentemente vecchi da non aver alcuna voglia di raccontare quell'incubo che ormai sembrava essere definitivamente lontano e superato. Enric Marco, nonostante la sua età, sprizzava energia come un ventenne, era dotato di una retorica fuori dal comune e sembrava non essere nato che per portare la testimonianza attiva e proattiva di un passato così oscuro e demoniaco. Ma, si domanda Cercas, chi è davvero Enric Marco? Cosa lo ha portato a mentire su quasi tutta la sua vita? Perchè a cinquant'anni suonati ha deciso di ricostruirsi un passato e, in un periodo dell'esitenza in cui è lecito prepararsi degnamente alla vecchiaia, ha premuto sull'acceleratore e ha finto di essere chi in realtà non era mai stato? Un picaro, una canaglia, un impostore, un eroe, uno scrittore che ha voluto vivere in prima persona i suoi romanzi, un uomo di buon cuore, un bambino in cerca di affetto, chi è Enric Marco? Javier Cercas, scrittore dalla penna finissima e dall'acume fuori dal comune, intellettuale di razza, si domanda se è giusto scrivere un libro su un impostore che cerca e ha sempre cercato la notorietà, se così facendo non gli si restituisca forse un favore, se non parlarne affatto non sia la scelta migliore, dimenticarlo, imporgli l'oblio come la peggior penitenza; poi, se scrivere un libro su di lui non sia, all'opposto, una condanna troppo grande per un uomo che, in fondo, non ha fatto del male a nessuno, che si è dato da fare prima come segretario della leggendaria CNT (il sindacato anarchico in cui aveva militato l'altrettanto leggendario Buenaventura Durruti), poi come dirigente di una importante associazione di genitori ed infine come supremo rappresentante della già citata Amical de Mauthausen. Si può scrivere un libro di non finzione su un uomo che ha finto tutta la vita, la cui intera esistenza è stata una messincena? Si può perdonare di aver mentito su un argomento laicamente sacro come l'olocausto? Cercas compone un libro complesso, dal passo lento, tornando spesso sui medesimi argomenti, sui medesimi dubbi, reitera interi periodi, dà volutamente l'impressione di dimenticare di aver già ribadito certi concetti e vi torna sopra con il piglio del ricercatore che non si pone il problema dello stile e della solidità della composizione ma, anche questa tecnica (mascherata da mancanza mancanza di tecnica), a suo modo è una finzione. Il libro di Cercas infatti è calibratissimo, non una parola è scivolata per caso sul foglio: le ripetizioni ossessive, lo scavare nella biografia, il comporre scenari e prove sono aspetti saggistici perfettamente bilanciati da un'attenzione spasmodica (e prettamente narrativa) allo stile. E' un romanzo (e lo è a tutti gli effetti, perchè non è un saggio), ma è un romanzo di non finzione. Non è giornalismo letterario bensì romanzo giornalistico. O qualcosa del genere. Un essere ibrido, una scommessa assurda che dà vita ad un'opera eccezionale.

  Non è lo scrittore, in fondo, colpevole del medesimo peccato di Enric Marco? Non si nasconde forse dietro storie di fantasia, non ricopre un ruolo sociale riconosciuto che diviene la sua personale maschera? Cercas, spogliando (o cercando di spogliare) Marco di tutte le sue infinite maschere, non si spoglia giocoforza delle sue? Soprattutto, si può cercare di capire un uomo chiaramente colpevole senza cadere nel vizio umano, troppo umano, di giudicare? Cercas, lungo tutta la durata del libro non fa altro che domandarsi se stia condannando il suo protagonista o se lo stia in fondo assolvendo. Addirittura si pone il dubbio se, ponendolo di fronte alla realtà, non lo stia salvando. L'impostore è un libro di domande, un libro che più che seguire il ritmo del parlato segue quello del "ragionato", scala un abisso con la netta sensazione (e paura) di scoprire in cima (o in fondo) all'abisso uno specchio. Non è che ognuno di noi si possa riconoscere in Enric Marco, ovviamente e per fortuna, ma è vero che ognuno di noi ha corso quel rischio. In fondo, così come Genna ne La vita umana sul pianeta terra (e in Hitler) definisce Breivik come una non persona, come uno spazio vuoto da riempire, anche Cercas vede in Enric Marco un contenitore vuoto. E si è contenitori vuoti fino a quel dato momento in cui non si arriva a dire No. Fino a quel dato momento in cui non si decide di non stare più con la maggioranza ma di rimanere soli, a urlare il nostro No. Sono quei No che definiscono una persona, non solo rispetto agli altri, ma anche rispetto a sè stessa, restituendole consapevolezza. Alla fine, questo, è un libro sull'identità, sul terrore che abita chi questa identità cerca, chi questa identità non trova, e chi ha creduto di averla trovata e, d'un tratto, si pone il dubbio di essersi solamente illuso di averla trovata. E' un libro che scavando nel passato si pone il quesito più cruciale del nostro tempo ricco di realtà virtuale ma privo di ideologie e spesso pure di idee:

chi sono io?

  La risposta, se esiste, sta tutta in Cervantes, in quell'hidalgo posseduto da lucida follia che ad un certo punto della sua vita decide di essere qualcun altro, per poi tornare ad essere Alonso Quijano, e di questo morirne. Si muore, di realtà o di finzione ma si muore comunque, senza sapere chi si è stati o illudendosi di saperlo, e se in fondo Don Chisciotte alla fine rinsavisce, comunque è stato bello vederlo svalvolare in giro per la Mancha, è stato bello per noi ma, forse, viene da pensare, anche per lui. 

Javer Cercas è un collaboratore abituale dell'edizione catalana di "El País" e del supplemento del sabato e dal 1989 è docente di letteratura spagnola all'Università di Gerona.
Ha raggiunto il successo con Soldati di Salamina (Guanda 2002), che in Spagna è arrivato alla quindicesima edizione; Il movente (Guanda 2004); La velocità della luce (Guanda 2006); La donna del ritratto (Guanda 2008); Anatomia di un istante (Guanda 2010); Il nuovo inquilino (Guanda 2011).

domenica 30 agosto 2015

Lascia stare la gallina, di Daniele Rielli (Quit the Doner), Bompiani editore

  Nello scarto inciso tra la generazione di Rosario Petrachi (il padre, sindacalista) e Salvatore Petrachi (il figlio, faccendiere criminale) sta tutta la storia recente d'Italia. Questo libro, a suo modo perfetto, risponde alle domande che continuano a ronzare nelle orecchie di quella parte del paese che, ancora, non si vergogna di avere una coscienza: come siamo arrivati fino a qui? Come è stato possibile? Cosa ci hanno fatto per farci diventare quello che siamo oggi?
Per definire il romanzo di Rielli è necessario utilizzare il titolo di un altro libro, appena uscito, di Maurizio Maggiani: Il romanzo della nazione. Lascia stare la gallina è, nonostante il titolo "Cochirenatesco", la storia tragica (pur se raccontata con stile disincantato, quasi drammaticamente leggero) degli ultimi decenni italiani, è la cronistoria di come una società sostanzialmente sana (pur con i suoi atavici difetti) si sia corrotta da sola.
  
 C'è gente che pagherebbe pur di vendersi (Victor Hugo)

  L'operazione che mette in campo Rielli è ambiziosa, letterariamente molto rischiosa, ma gli riesce alla perfezione. Il nuovo Salento turistico-affaristico-edonistico si è sovrapposto a quello rurale e arretrato, lasciandone però emergere vecchi campanilismi (verso i baresi, i napulicchi, i polentoni), razzismi (verso gli albanegri) e sessismi atavici (la vittima è donna, le altre, quasi tutte, vivono in uno stereotipo: o madri e donne di casa o prostitute), è questo Salento il microcosmo che viene messo sotto la lente d'ingrandimento per studiarne le dinamiche che in realtà sono quelle che hanno stritolato il paese a livello nazionale. Ma il romanzo non si ferma qui, non si limita a riprodurre su carta uno schema, con agili flashback ci mostra il passato (la manifattura tabacchi, l'attività sindacale, l'infanzia del protagonista compresa la gallina del titolo) e lascia che il lettore non solo metta a fuoco lo scarto tra il prima ed il poi (il presente) ma che isoli e definisca quali sono stati i prodromi che hanno dato il via all'attivarsi di un meccanismo di potere corruttivo che ci ha condotti fino ai giorni nostri. Se Salvatore Petrachi è il simbolo dell'ultima generazione che ha pagato (caro) pur di vendersi, il Salento lo è di quell'Italia che, nel suo volontario scadere a semplice divertimentificio da paese dei balocchi, ha venduto non solo sè stessa ma al contempo il futuro dei propri cittadini. Lascia stare la gallina insinua uno sguardo chirurgico e scanzonato dietro le quinte del sistema di potere e corruzione mafioso o paramafioso che si è impossessato della vita pubblica del paese. 

  Agosto 2011. Martina Scalzi, giovane turista in vacanza in Salento, viene trovata morta tra le dune del campeggio nel quale trascorreva le vacanze assieme ad alcune amiche. Della sua morte viene immediatamente incolpato un altro ragazzo, il ventiduenne Marco De Sanctis, figlio della Bologna bene. Qui sta l'inghippo che mette in moto il meccanismo narrativo: il pollo da sacrificare proviene da una famiglia che ha i mezzi per reagire. L'avvocato della famiglia De Sanctis incarica l'ex poliziotto corrotto Salvatore Petrachi, attualmente imprenditore rampante nel campo della sicurezza privata e criminale a tempo pieno, di indagare alla ricerca di prove che scagionino il suo cliente. De Sanctis è il colpevole ideale, è l'ultimo ad essere stato visto con la vittima, con la quale tra l'altro ha consumato un rapporto sessuale poco prima che questa venisse uccisa, quando è stato fermato dalle forze dell'ordine se ne stava andando dal campeggio in anticipo rispetto alla data prevista e infine è stato trovato in possesso di un certo quantitativo di marijuana. Però non è stato lui ad uccidere Martina. Il testimone che giura di averli visti litigare, mente. Perchè? Chi protegge? Totò Petrachi comincia a darsi da fare, fa domande, mette il naso in giro e, poco alla volta, il delitto da cui è nata l'indagine e quindi la narrazione, finisce col diventare un semplice riferimento di fondo. Le piste che segue, che a volte non portano a niente, aprono scenari che svelano il mondo (il mondo di mezzo) che stà al di là delle quinte da Bel Paese che tutti ammirano e con le quali tutti si crogiolano. Sesso, corruzione, mafia nostrana e albanese, politica, malaffare, traffico d'armi, di droga, il salvataggio posticcio della locale manifattura tabacchi (operazione che ricorda moolto da vicino l'affaire Alitalia), imprenditoria di facciata che in realtà nasconde attività illegali (Il Saraceno, il ristorante alla moda di proprietà di Petrachi - socio occulto - e di Adamo Greco, suo amico e cumpa' d'infanzia), servizi segreti, razzismo (che solo il comune terreno criminale stempera), prostituzione di alto livello, orgie e ammazzatine varie. Ancora più sullo sfondo, ma come amor che move il sole e l'altre stelle, lo scenario politco nazionale, a Roma. Il presidente regna ancora ma ormai il suo declino è evidente a tutti e il crollo è già deciso, di conseguenza nelle province dell'impero tutta una serie di sommovimenti di assestamento preparano le realtà politiche locali al nuovo scenario che di lì a poco rimodellerà il paese. Ogni periodo di cambiamento e di crisi è un momento che apre nuove possibilità agli occhi dell'imprenditore capace, e Totò Petrachi, a suo modo, lo è: approfitterà delle rivoluzioni in atto per ritagliarsi il suo angolo di paradiso nel Salento che conta.

  Rielli, già Quit the Doner (Quitaly, Indiana Editore), ha al suo arco talmente tanti talenti narrativi da lasciare inizialmente l'impressione di esagerare nel farne sfoggio. Con questo libro scrive la storia del suo paese, e lo fa senza mai spostare l'attenzione dalla godibilità della trama, dipinge personaggi credibili e disegna con attenzione lo schema preciso di come entità politica, imprenditoriale, malavitosa e giornalistica collaborino al fine di controllare la realtà di un territorio (e qui si dimostra anche gionalista di razza) . Nessuno nel libro è totalmente buono, e anche chi è cattivo tout court non risulta comunque una semplice immagine bidimensionale da fumetto, ogni personaggio ha una sua profondità e una passato che lo ha costruito. Lo stile è straripante, vulcanico, ironico e moltiplica i punti di vista della storia fancendo di questo Lascia stare la gallina un romanzo corale. Moltiplica i registri, fa ampio uso del parlato dialettale, inserisce articoli giornalistici, sa quando alzare il piede dall'acceleratore e quando invece pigiarlo fino in fondo. L'uso dell'ironia non svaluta mai la brutalità degli eventi ma, semmai, come la colonna sonora in Arancia meccanica, la rende più spaesante. Il male non è un'entità che entra nel corpo di una persona e la possiede, bensì la risultante di innumerevoli scelte sia di natura politica e sociale che di natura più strettamente personale, e come tale non contamina un solo individuo ma l'intera società (per questo un romanzo corale).

  Non so se Rielli sia effetivamente l'Irvine Welsh italiano (io penso di si), se la sua produzione letteraria futura confermerà questo giudizio (e quanto sarà difficile confermare una qualità e complessità come quella di quest'opera prima!), indubbiamente è la novità più straordinaria capitata alla letteratura italiana negli ultimi anni.

  Unica, minima, pecca: sappiamo perchè Martina Scalzi è morta (e ovviamente qui non lo svelo) ma, considerando che ogni piega narrativa è stata svicerata e portata a suo termine, ci si sarebbe aspettati che anche questo aspetto venisse appronfondito e spiegato a fondo (avrebbe avuto un certo potenziale narrativo da dispiegare). 


Daniele Rielli (Quit the Doner) è nato nel 1982. Realizza reportage narrativi per “Il Venerdì di Repubblica”, “Internazionale” e “Riders”. Scrive storie per la televisione e il teatro. Laureato in filosofia, ha collaborato anche con “Vice” e “Linkiesta” diventando uno degli autori più noti di long-form journalism italiano. Nel 2013 ha vinto il Mia Award per il miglior articolo italiano e nel 2014 ha pubblicato con Indiana Editore Quitaly, raccolta dei suoi reportage. I suoi lavori sono riuniti su www.quitthedoner.com, uno dei siti autoriali più seguiti d’Italia.

sabato 8 agosto 2015

La morte del prossimo, di Luigi Zoja, Einaudi editore

                                           
Diceva Marcello Marchesi: Nessuno si è mai ammazzato perché non riusciva ad amare il prossimo suo come sè stesso. Prima che un signore passato alla storia come Gesù il Cristo lo postulasse, nessuno aveva mai neppure pensato che avesse senso perdere tempo a formulare un pensiero simile. All'epoca, oltre che rivoluzionario, doveva suonare parecchio bislacco: non solo il crisitanesimo pretendeva che si amasse Dio (richiesta data per scontata da qualsiasi religione, la conditio sine qua non) ma addirittura che si amasse il prossimo, e per di più come sè stessi. Era folle. Poi nella storia della filosofia si fece largo un tale di nome Nietzche (che nel corso della sua vita segni di follia (e di ippofilia) li dimostrò per davvero) che per la prima volta da che il mondo aveva preso a girare su sè stesso se ne venne fuori col (dato di)fatto che Dio era morto. Da lì in avanti rimase solo il prossimo, inteso come umano, come umanità: l'uomo avrebbe dovuto prendere atto che la storia del pensiero, non ultimo l'illuminismo e lo scientismo, lo obbligavano ad accollarsi tutte le responsabilità dello stare al mondo. Dio non aveva più voce in capitolo. Un'alluvione era un'alluvione e una pestilenza una pestilenza, non erano castighi inviati da nessuno, bisognava rimboccarsi le maniche, mettere in sicurezza le città e pensare a lavarsi un po' più spesso. Il rapporto, un tempo esclusivamente verticale (verso Dio), col cristianesimo era divenuto una croce (verso Dio in senso verticale, e verso il prossimo in senso orizzontale) e dopo Nietsche si era parificato in senso unicamente (e tragicamente) orizzontale. Volendo, si può citare anche Woody Allen quando puntualizzava: Dio è morto, Marx è morto, e anch'io non mi sento tanto bene. E il saggio di Zoja, in un certo senso, proprio questo analizza: dopo la morte di Dio, la morte del prossimo (che sia Marx o il sottoscritto poco importa). Ed essendo Zoja, lo fa portandoci per mano, con semplicità, ma stando ben attento a farci compiere tutti i passi necessari per ripercorrere il tragitto lungo il quale qualcosa abbiamo smarrito. Presso quali crocicchi abbiamo intrapreso una strada piuttosto che un'altra e dove queste deviazioni ci hanno infine condotto? Le ideologie e le rivoluzioni culturali, ad esempio, puntando sul concetto di solidarietà hanno aperto la porta al desiderio individuale che, ovviamente, si è fatto largo a gomitate e della solidarietà se n'è fatto un baffo; laddove il sogno era quello di un mondo dove tutti fossero uguali nella diversità, si è trasformato in un mondo in cui tutti si uniformano a desiderare le stesse cose e sono disposti a mettersi in competizione per ottenerle. Lo spazio del desiderio ha fagocitato l'utopia, "l'uomo-essere desiderante" ha spazzato via quello sociale. Quando il prossimo ancora c'è è divenuto un concorrente, qualcuno a cui non posso chiedere aiuto o confidarmi ma da cui mi devo guardare se non voglio soccombere (a volte per davvero, più spesso simbolicamente). L'individualismo esisteva già in nuce nella rivoluzione dei figli dei fiori, ed ha finito per trasformarsi subdolamente nel primo baluardo dell'attuale società iperconsumistica. La società iperconsumistica, da parte sua, una volta plasmato il cittadino a sua immagine e somiglianza (non più semplice "essere desiderante" bensì brutalmente "consumatore") lo ha ingabbiato, gli ha levato i diritti (vedi l'attuale mondo del lavoro), e gli ha messo in mano uno strumento ulteriore per alienarlo definitivamente, isolarlo da chi ci è vicino (il prossimo appunto) e dargli l'illusione di essere in contatto (in connessione) con il resto del mondo: lo smartphone. L'uomo, solo, in mezzo alla folla era già stato postulato, ma avevamo scordato di mettergli in mano un cellulare connesso ad internet. Ci troviamo nella stessa stanza, in silenzio, ognuno con gli occhi ammorsati allo schermo del telefonino, a far scorrere i post di facebook, abbiamo amici che non conosciamo, e ignoriamo le persone che ci stanno accanto, che possiamo toccare, con le quali possiamo interagire. Si tratta di un mutamento antropologico vero e proprio e, forse, si tratta del cambiamento che si è manifestato nella maniera più repentina in assoluto nel corso della storia. Non abbiamo più una comunità di riferimento di persone in carne ed ossa, bensì mille community formate da persone di cui ignoriamo l'aspetto, il nome e spesso anche il sesso. Ovviamente Zoja, come detto, approfondisce da par suo tutti gli aspetti e gli snodi storici e culturali che hanno portato allo stato attuale delle cose - all'homosmartphone -, analizza, domanda, s'immerge in profondità e ne riemerge con all'amo una serie di prove che, senza il suo occhio di esperto, non saremmo probabilmente mai stati in grado di mettere insieme. La morte del prossimo è un libricino tanto snello ed agile alla lettura quanto imprescindibile per chi sente la necessità di fermare per un attimo la giostra e scendere a ragionare sul presente. Chi siamo, dove andiamo, cosa siamo diventati e infine dove diavolo siamo diretti. Zoja, psicanalista di fama mondiale, divulgatore di livello finissimo e al contempo alla portata del grande pubblico, autore, tra gli altri, dello splendido saggio "Paranoia, la follia che fa la storia" (per Bollati Borignhieri: non consigliato, di più!), come sempre sa parlare al lettore comune, prenderlo per mano e condurlo con passo sicuro lungo le delizie del ragionamento.
Di Zoja, per inciso, andrebbe letto tutto.
Dio è morto, Marx è morto ma Zoja è in piena salute.


Luigi Zoja, psicoanalista di fama mondiale, è stato presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e ha vinto due Gradiva Award. Fra i suoi libri: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), Storia dell'arroganza (2003), Giustizia e Bellezza (2007), La morte del prossimo (Einaudi, 2009) e In difesa della psicoanalisi (Einaudi 2013, con S. Argentieri, S. Bolognini e A. Di Ciaccia), Paranoia, la follia che fa la storia (2011 Bollati Boringhieri), Utopie minimaliste (2013 Chiarelettere)