"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

martedì 31 dicembre 2013

Le abitudini delle volpi, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

 Erlendur vive a Reykjavík, fa il poliziotto nella capitale, ha un matrimonio fallito alle spalle e due figli coi quali cerca di riconciliarsi dopo essere sparito dalle loro vite per diversi anni, dopo la separazione. La figlia è uscita da un lungo periodo in cui è stata una tossica di strada e il figlio è chiuso in sè stesso e rimane un mistero insondabile agli occhi del padre. Ha una compagna, Valgerdur, che forse lo ama e lo capisce o forse lo ama malgrado lo capisca.
  Erlendur è un uomo solitario, di poche parole e questa volta è lontano da Reykjavík, da solo, nei luoghi dove è stato bambino, dove la sua vita, in un certo senso, molto tempo fa, si è fermata. Quelli sono i luoghi in cui, durante una tormenta di neve, hanno rischiato di morire assiderati lui e suo padre, nella stessa tormenta che ha inghiottito il suo fratellino, Bergur, scomparso senza lasciar traccia di sè se non un'eredità di dolore muto, carico di silenzi e di sensi di colpa, che ha eroso la sua famiglia, portandola a cercare sollievo (e distanza, distanza dal dolore) a Sud, nella capitale, Reykjavík, la grande città che in quegli anni fungeva da calamita per tutti coloro che cercavano un lavoro o fuggivano da qualcosa.
Ha preso l'abitudine di tornarci, di tanto in tanto, e di trascorrere le gelide notti del nord dell'Islanda, da solo, nei ruderi della casa della sua infanzia. Seguendo un abitante del luogo, tale Boas, alla caccia alla volpe, s'imbatte in una delle sue ossessioni, un caso di scomparsa. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve negli stessi luoghi dove è sparito il suo fratellino Beggi, in una di quelle tormente nelle quali l'esitenza di Elrendur si è smarrita, o è rimasta congelata in qualche crepaccio, sepolta sotto metri di neve e di sensi di colpa. Nel 1942, in Gennaio, nel medesimo giorno e nel medesimo luogo in cui una colonna di militari inglesi si era fatta sorprendere dal mal tempo, scompare una donna che, a piedi, senza apparente motivo, voleva oltrepassare il passo nella brughiera e scollinare dall'altro versante per raggiungere la madre. I militari inglesi, soccorsi dagli abitanti del luogo, erano stati ritrovati tutti, i vivi e i morti, ma della donna, Matthildur, non si era trovata traccia, neppure negli anni successivi. La sua storia era divenuta una sorta di leggenda locale che la voleva tornata sotto sembianze di spettro a tormentare l'esistenza di Jakob, il marito, che avrebbe trovato la morte qualche anno dopo, durante una tempesta in mare. Erlendur, spinto dalla curiosità e dal parallelismo con la vicenda del fratellino, si incaponirà per giungere alla verità celata dietro gli anni trascorsi, i silenzi e dietro i pudori che hanno fino a quel momento coperto i reali termini della vicenda. Scoperchierà bare ed esistenze, risveglierà dolori e fantasmi, ma non arriverà a far pace con sè stesso nè a placare quel muto demone che lo divora giorno dopo a giorno, brandello dopo brandello. Anche se ogni libro della serie fa storia a sè, il ciclo di Elrendur va letto tutto, perchè solo l'insieme compone i reali parametri esistenziali entro cui si muove la vita del protagonista e la poetica (si, poetica, anche se parliamo di gialli) dell'autore. Solo avendo già letto gli altri si può aprezzare appieno quest'ultimo episodio che, pur nel presente, torna alle radici della vita del protagonista e lo mette faccia a faccia con la tragedia che lo ha segnato nell'infanzia, modifcandone il carattere e il suo approccio alla vita, e così facendo, come in una reazione a catena, siamo portati a credere che il fallimento del suo matrimonio, i suoi silenzi, il difficile rapporto coi figli, e quindi la vita stessa dei figli, il suo approccio al dolore e agli altri esseri umani, dipendano tutti, almeno in parte - in larga parte - da quell'episodio perso nella tormenta, nel passato, assieme a Beggi. Leggendo Indridason, si ha l'impressione confortevole di non essere soli davanti (o dentro) un libro, un libro giallo, ma di trovarci di fronte agli avvenimenti di un essere umano in carne ed ossa che non ha a che vedere con complotti millenari o con serial killer mefistofelici, che non ingolla alcool dalla mattina alla sera per lenire un dolore un po' troppo stereotipato per essere vero (spesso neppure verosimile), ma che affronta come può, spesso sbagliando (forse), il dolore di tutti i giorni, la difficoltà dei rapporti umani e dei sentimenti, l'assurdo e caparbio trascorrere del tempo che tutto travolge, lentamente, e ad ogni cosa rende una prospettiva infima, insignificante. Erlendur vive in un mondo dolente, grigio, dal quale si lascia trasportare perchè è egli stesso parte di quel dolore silenzioso e invisibile: oppone la resistenza che gli è consentita dal proprio codice morale e dal proprio ruolo di poliziotto, ma è una lotta persa in partenza dove bene e male si confondono spesso, dove chi commette il reato, a volte, è dalla parte della ragione ma non della legge, dove a volte i sentimenti che eruttano in un attimo nell'esistenza di una persona cambiano i destini di una e più vite. Questo episodio, in particolar modo, pur essendo un giallo nel più puro stile Indridason, quindi un giallo solido, scritto bene, è al contempo un romanzo sul tempo, sul suo incedere cieco, sul suo togliere significato e speranza, e sulla pochezza della vita umana, che si conta a consuntivo sulle date incise su una lapide, dove d'un tratto balza agli occhi come una vita lunga, novanta e più anni, sia alla fine una parentesi che si chiude in un cimitero, sotto qualche metro di terra, a marcire, come il ricordo si sbiadisce nella testa della gente. Ho parlato di poetica perchè i romanzi di Indridason, pur senza essere pretenziosi nello stile e nelle strutture (ma comunque lineari, chiari, accessibili e, nella loro semplicità, eleganti) sono indubbiamenti poetici: sono struggenti come solo sanno esserlo le esistenze comuni se solo ci si prende la briga di fermarsi ad osservarle, come fa Indridason, con distacco e partecipazione allo stesso momento.


Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde