"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

mercoledì 26 marzo 2014

Hawthorn & Child, di Keith Ridgway, Castelvecchi editore

  Hawthorn e Child sono due agenti in servizio a Londra, uno è gay, l'altro no, uno è nero (se ho capito bene, ma non ci giurerei), l'altro no. Quello gay dev'essere il nero (sempre che uno dei due sia nero), l'altro ha una faccia da bambinone. Hawthorn è nero e omosessuale e cucina delle ottime uova e pane tostato per colazione, Child (nomen omen) è quello con la faccia da bambino. Giusto per fare un po' di chiarezza e sgombrare il campo da dubbi. Lavorano in coppia, a Londra, hanno delle vite più o meno private, più o meno insignificanti. Nel loro lavoro ne vedono di tutti i colori, nelle loro vite si lamentano che non capita mai niente, ma non è che proprio se ne lamentino, più che altro ne prendono atto. Quasi ne sono stupiti, nella stessa misura in cui non riescono più a stupirsi della realtà violenta ed assurda che li circonda. A volerla dire tutta, pur essendo la violenza una costante delle situazioni sulle quali si trovano ad indagare, è il senso dell'assurdo insito in quelle stesse situazioni (e che da esse straborda, o esonda, vedete voi) che salta più agli occhi del lettore. E qui sta la chiave della magia ipnotica di questo libro: i gialli o i thriller o i noir convenzionali cui siamo abituati strabordano (o esondano, vedete voi) di violenza, spesso gratuita, quasi sempre mostrata con il compiacimento di un anatomopatologo un po' folle, ma la coerenza interna è la regola principe perchè il meccanismo della narrazione funzioni. Ordine-delitto (e quindi caos)-indagine-ordine ristabilito (cioè soluzione del delitto). Se qualcuno viene ammazzato, poco alla volta scopriamo chi è stato ad uccidere la vittima, in che modo, quando e, soprattutto, perchè. Per quanto le modalità e le motivazioni possano essere poco chiare o magari addirittura deliranti, la logica interna deve spiccare. E' la logica interna che fornisce la verosimiglianza e la solidità a tutta la baracca (leggi:struttura narrativa). In questo libro di Ridgway, la logica interna va bellamente a farsi fottere o, per essere più precisi, non c'è. La narrazione comincia con un colpo di pistola sparato su un passante da un macchina, probabilmente una macchina vecchia, o forse verde, ma più probabilmente vecchia, con dei predellini. Hawtohorn e Child indagano. Ascoltano i testimoni, interrogano la vittima, ripercorrono la strada dov'è stato esploso lo sparo, visionano filmati di videocamere. Ma poi tutto cambia, li ritroviamo alle costole di un malavitoso mingherlino (tale Mishazzo) che pare invischiato in una compravendita di macchine rubate e in una miriade di altre attività illecite, seguiamo le farneticazioni di un tizio che si crede Gesù ed è l'inquilino dello stabile di proprietà del mafioso, viviamo un parallelismo inquietante tra un'orgia gay in una sauna e gli scontri tra polizia e manifestanti durante una manifestazione di piazza. Un uomo scompare dal posto di lavoro e quando torna non è più lo stesso, con in mano un dattiloscritto su una presunta società segreta di lupi che si spartirebbe il controllo su Londra in accordo con pochi uomini al corrente della realtà delle cose, un racconto che potrebbe (o forse no) interessare una casa editrice e che probabilmente non è altro che un'allegoria (o forse no) di una società segreta dedita alla malavita che avrebbe le mani sulla città (forse la stessa società cui è a capo il malavitoso Mishazzo?). Un arbitro internazionale che vede fantasmi anche sui campi di calcio e che non ha mai lasciato trapelare nulla pubblicamente circa la propria omosessualità. Una ragazzina sveglia che si inizia alla vita, all'arte ed al sesso, e una donna che era stata una ragazza intelligentissima, poi bruciatasi con la droga, ripulitasi e che, ora, si suicida secondo modalità sconvolgenti che, forse, contengono al loro interno un messaggio cifrato (ma quale messaggio e rivolto a chi?). Ve lo anticipo, sempre per quella faccenda dello sgombrare il campo da malintesi e false attese: non scopriremo mai chi ha sparato dalla macchina in corsa, forse vecchia o forse verde, non sapremo mai se Mishazzo verrà fermato o proseguirà imperterrito nei suoi loschi traffici, non scopriremo nulla se non delle interconnessioni (sinapsi narrative) su casi apparentemente slegati, punti di contatto tra personaggi, casi, vite private, ma niente di più. E questi benedetti punti di contatto li troveremo (o crederemo di trovarli) perchè il cervello umano non può accettare l'idea del caos fine a sè stesso. Se s'imbatte in una serie di puntini su un foglio deve per forza trovare il modo di unirli e, una volta uniti, cercare di vedervi uno schema, o un'immagine che risalti, qualcosa che dia senso al caos di quei puntini sparsi in giro casualmente. Piaccia o non piaccia, è così che funziona. Ridgway, così come David Lynch nel cinema (è incredibile quanta influenza abbia l'opera di Lynch sulla moderna letteratura), ci offre un viaggio onirico (forse onirico proprio in quanto direttamente realistico o, per dirla diversamente, anatomopatologicamente realistico) tra i pezzi di un puzzle, senza mai neppure provare a metterli in ordine, ben sapendo che sarà la brama naturale del lettore a cercare a tutti i costi un incastro, per quanto forzoso ed azzardato possa infine risultare. Ovviamente parte del gioco sta nel fatto di non specificare se le tessere appartengano o meno tutte quante allo stesso puzzle, se sono cioè destinate fin dall'inizio a comporre un unico disegno oppure no. Ma questo è secondario quando il risultato è un viaggio straniante in segmenti di realtà sottile che normalmente (proprio perchè siamo sempre legati alla normale logica causa-effetto) ci è preclusa. Un viaggio in questo caso, nel caso di questo Hawthorn & Child, molto ben scritto da Ridgway che è un maestro nel prenderci per mano e condurci a fare quei quattro passi nel mistero di cui a volte abbiamo un così disperato bisogno (sia noi che Hawthorn e Child):
 
<< A noi non succede mai niente, Child. >>
<< No. Mai niente.>>
pag.246


 

Keith Ridgway è nato a Dublino nel 1965. È autore dei romanzi The Long Falling, The Parts e Animals, della raccolta di racconti Standard Time e della novella Horses. I suoi libri hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Prix Femina Étranger in Francia e il Rooney Prize for Irish Literature. Un capitolo di Hawthorn & Child è apparso nel 2011 sul «New Yorker». Dopo aver vissuto per undici anni a Londra, ora risiede nuovamente in Irlanda.
 

martedì 11 marzo 2014

Il nono cerchio, di Ignacio Padilla, Giunti editore

  L'Himalaya, e una grotta che non è solo una grotta ma un abisso. Un abisso che è, o potrebbe essere, l'inferno in terra, in senso letterale, con tanto di gironi (i cerchi appunto) e lo Stige; con Satana e le sue ali come vele nere, enormi, tese, ad attendere, sul fondo (forse il centro stesso della terra), i malaugurati idioti che si scegliessero la sventura di addentrarcisi (inabissarcisi). Ma non è popriamente di questo che parla il libro, anche ma non solo. Racconta delle spedizioni che si sono succedute, una dopo l'altra, sventura dopo sventura, tragedia dopo tragedia, gettandosi alla cieca nella ricerca, assurda, del fondo da raggiungere. Letteralmente, toccare il fondo. La brama, la sete di conoscenza, la volontà sorda di sapere ad ogni costo, per forza, per il piacere di conoscere, per la fama che ne consegue, per il potere che dalla fama direttamente discende. La sete di conoscenza dell'uomo - del singolo - e il folle desiderio di potere dello stato: da queste due diverse e complementari volontà nascono le spedizioni dirette alla Grotta del Toscano (così chiamata in quanto la Grotta dovrebbe essere l'inferno, il Toscano è Dante, il cantore del naturale alloggio di Satana). Tutto comincia in un presente in cui una spedizione di documentaristi decide di utilizzare alcuni giorni inoperosi per intervistare degli sherpa himalayani. Registrano otto ore di filmato con Pasang Nuru, leggendario sherpa ormai vecchio che racconta, dal principio, la storia delle spedizioni alla Grotta del Toscano, spedizioni alle quali lui, scettico e distaccato (di uno scetticismo tutto orientale, che sà di saggezza suo malgrado), ha partecipato e per le quali diviene presto un elemento indispensabile. Scende nell'abisso una prima spedizione ruritana, ed è un disastro, un frate cattolico, e non fa ritorno, una spedizione italiana di fascisti in cerca di gloria per il regime, poi un folle solitario dedito al travestitismo ed in infine la spedizione, apparentemente vittoriosa (l'unica), di cinesi, che torna in patria con in dono l'onore imperituro da deporre ai piedi di Mao (il popolo è il corpo, Mao la testa). Ma ogni spedizione porta in sè il suo mistero, le sue morti non spiegate e date in pasto al mondo come prova dell'eroismo delle proprie genti, le vite inghiottite dall'abisso, le macchine fotografiche trovate dalle spedizioni successive, una scarpa da donna abbandonata sul declivio per l'inferno, un cadavere intravisto in un punto in cui non dovrebbe trovarsi, una grotta che, man mano che s'inabissa, sprofonda nel gelo, un fondo di ghiaccio che pare sciogliersi nel tempo. E poi, una falsa Timbuctù in nord Africa, un rullino per il quale è lecito uccidere, cinesi in fuga dal regime, nani (assassini) e un gigante (assassino), scalatori leggendari, best seller che mentono sui fatti e libri di memorie neppure pubblicati, arti portati via dalla cancrena, e sherpa sventrati. E ancora: Reali Società di Esploratori e confraternite leggendarie (la confraternita di Zenda), stati inesistenti (il regno di Ruritania), opossum che si illuminano al buio, avventurieri che diventano leggende vendendo al mondo le loro menzogne, ed eroici avventurieri morti negli anfratti di quelle stesse menzogne. Il titolo originale del libro di Padilla, uscito nel 2006 in Messico (!), è La gruta del Toscano, ed è un fantastico omaggio alla letteratura fantastica, da Kipling a Conrad ai resoconti delle spedizioni di avventurieri e scopritori come Shackleton e Mallory, scritto magnificamente e magistralmente strutturato come una spy story nella quale, come in ogni spy story che si rispetti, nulla è come sembra, dove ogni certezza viene sapientemente costruita dall'autore con l'unico fine di smontarla pezzo per pezzo nei capitoli successivi. Il lettore viene lasciato a godersi un mondo che non c'è più, quello di inizio secolo scorso, quando le grandi esplorazioni erano ancora possibili, con pochi mezzi, molta fantasia e ancor più coraggio - quando non vera e propria avventatezza -, un mondo nel quale aveva ancora senso porsi il dilemma se davvero potesse esistere un inferno direttamente qui, sul piano della realtà, in Terra, lo stesso mondo d'altronde, in cui esimi studiosi sostenevano (e politici di regime davano loro follemente retta) la natura cava della terra, l'esistenza del Sacro Graal e di terre fantastiche come Shamballa, nonchè la presenza di Superiori Sconosciuti che da qualche immensa caverna sotterranea non meglio situata si divertivano a comandare il mondo intero e ad indirizzarlo verso un certo futuro piuttosto che un altro. Al contrario di quanto si è portati a credere leggendo la quarta di copertina, non esiste un protagonista vero e proprio, perchè non lo è Pasang Nuru, lo sherpa, e tantomento lo è il narratore, nè i protagonisti delle varie spedizioni e neppure il rullino misterioso. Forse, e sottolineo forse, protagonista di questa storia è la storia stessa, quel mondo vissuto da ossessioni ai limiti della follia, la brama assoluta di ricerca, la volontà cieca di sapere o, forse, protagonista è il mistero che fa nascere la voglia insopprimibile di conoscere.

  Una nota: non lasciatevi fuoriviare dal titolo e dai caratteri del titolo e dalla copertina (insomma dalla veste commerciale del libro) che vogliono a tutti i costi proporvi il libro quale prodotto new age o para-new age (come contrubuisce a fare la stessa impostazione della quarta di copertina che vuole vedere nello sherpa il protagonista, e narratore, orientale e saggio): nulla di tutto questo, per fortuna, Ignacio Padilla è un ottimo autore, capace di una scrittura chiara e complessa al contempo, che nulla ha a che vedere con profezie celestiniane varie. Se lo trovate, ve lo consiglio caldamente.

 
  Nato nel 1968 a Città del Messico, Ignacio Padilla si è laureato in Scienze della Comunicazione all’Università Iberoamericana, in Letteratura inglese a Edimburgo e in Letteratura spagnola a Salamanca. Ha trascorso due anni nello Swaziland, dove è stato condannato a morte con l’accusa di essere un terrorista: un’avventura che lo scrittore ha raccontato in Crónicas africanas.
Dal 2001 al 2003 è stato addetto culturale a Londra presso l’Ambasciata messicana. Nel 1996 ha firmato con Jorge Volpi e Eloy Urroz il celebre “manifesto del crack” per un rinnovamento della letteratura messicana.
È autore di saggi, di tre raccolte di racconti, di libri per bambini e di sette romanzi, uno dei quali, Amphitryon, è stato pubblicato in Italia da Fanucci nel 2000. I suoi libri sono stati tradotti in otto lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, come il Premio Nacional Juan Rulfo para Primera Novela (1994) e il Premio Primavera de Novela (2000).
In italiano sono usciti anche: Ombre senza nome (Fanucci, 2005) e L'ombra dell'eroe (Giunti, 2007)