"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 3 febbraio 2019

Il silenzio della collina, di Alessandro Perissinotto, Mondadori editore


  Domenico Boschis, attore televisivo di (una certa fama) nazional popolare quale interprete di un medico in una soap opera (o qualche cosa del genere), torna nelle Langhe, sua terra natale, per assistere il padre morente.
  Il padre, allettato, ha un tumore che gli corrode il cervello e che non gli permette di parlare chiaramente, se non a sprazzi e a costo di una fatica per lui quasi proibitiva. Il ritorno al paese d'origine, oltre che ad accompagnarlo nel suo ultimo viaggio, è innanzitutto l'occasione di seppellire le proverbiali asce di guerra e fare pace col proprio padre e, così facendo, col proprio passato e, non ultimo, con sé stesso. Il rapporto di Domenico col genitore, ci rendiamo conto da subito, non è mai stato buono e, anzi, non è mai stato nemmeno un rapporto. Non un rapporto padre e figlio. Deciso a stare lontano dal lavoro fino a quando suo padre sarà vivo, si trasferisce nell'unico posto nel quale era deciso a non entrare, la casa paterna, la casa della sua infanzia. E sarà proprio la casa che lo aiuterà a trovare la soluzione, o almeno una possibile risposta, ai misteri dai quali si troverà presto invischiato. Incontrerà quelli che erano stati i suoi amici fraterni quando erano bambini (quei due bambini che suo padre non voleva assolutamente che lui frequentasse), misurerà lo spazio che il tempo ha interposto tra loro per separarli e troverà il modo per annullarlo, e scoprirà Fenoglio, lo scrittore che come nessuno aveva saputo descrivere quella terra così aspra e dal quale si era sempre tenuto sdegonasamente (prudenzialmente) lontano.
Ma capita qualcosa, apparentemente di poco conto, qualcosa che è la crepa invisibile che sarà destinata a far crollare la diga: il padre, smozzicando parole come può, comincia a far riferimento a una ragazza. Ma di che ragazza parla? Chi è questa ragazza? Domenico stuzzica la crepa e, ovviamente, sarà lui a causare il crollo della diga, e sarà così che alla fine salverà sé stesso e, forse, anche il padre, o quantomeno la sua anima immortale, o qualcosa del genere. Questa, a grandi linee, la trama: un classico intreccio che il lettore ben riconosce e immediatamente sa incasellare in una grata interpretativa neppure troppo audace: il ritorno alla terra d'origine del protagonista che, così facendo si troverà di fronte il proprio passato e non potrà suggire all'esigenza, finalmente, di farvi i conti. Un particolare (di gusto postmoderno), pur non essendo una novità assoluta, permette a Perissinotto di alzare il tiro ed elevare la posta in gioco: Domenico è un personaggio di fantasia, non esiste (anche se potrebbe), né i suoi amici  e nemmeno suo padre, e via discorrendo, ma la ragazza sì. O, per meglio dire, è esistita. Ad un certo punto vengono fatti il suo nome e cognome, e basta una veloce ricerca su google per verificare che la ragazza, un tempo, è esistita, è nata, ha vissuto, ed è morta. Il centro del maelstrom sta proprio nel modo in cui è morta, e per mano di chi. Domenico, attraverso suo padre, è il bisturi che và ad incidere il tessuto di cronaca della vicenda e v'incista la trama di fantasia. Ma, a ben vedere, l'innesto della fiction su un fatto reale di cronaca nera (che primeggia con l'affaire Dutroux) è a sua volta la chiave di lettura che porta ad un messaggio. Perissonotto in questo è  molto esplicito, vuole che il messaggio arrivi forte e chiaro: la violenza sulle donne, i femminicidi, il senso del possesso dell'uomo nei confronti del sesso femminile, possesso e disprezzo. In un certo senso, è così che Domenico è venuto al mondo, attraverso un atto di prepotenza, l'arrogarsi il diritto al possesso di un uomo (che sarebbe diventato suo padre) incapace di elevarsi di un solo dito rispetto al rango animale. E questo messaggio, encomiabile e più che condivisibile, anzi, importante, a ben vedere, è solo una delle anime del libro, quella appunto più evidente. Ma l'anima più profonda del racconto viene condivisa con lo scrittore per tanto tempo tenuto lontano da Domenico, Fenoglio, l'uomo delle Langhe, colui che ci ha raccontato il partigiano Johnny, lo scrittore della Malora. E buona parte del centro gravitazionale del libro ruota attorno alla Malora, ed è un continuo rimbalzo tra il mondo del libro di Fenoglio e quello attuale. L'anima nera della Langa e quella turistica odierna. Ed è il presente che, fatto sconvolgente per Domenico, ha relegato il fatto di cronaca che vede protagonista "la ragazza" in quel territorio nebbioso nel quale la memoria comune sfuma nell'oblio. Nessuno in paese vuole ricordare quei fatti e, quindi, semplicemente, non li ricorda. E' la nuova Langa che non fa i conti col proprio passato, che si pasce in un presente cool, ricco, inserito nella rete infinita del mondo. E' la Langa che ha imposto i propri ritmi e i propri valori al mondo che abita (o quantomeno si illude di averlo fatto, e finge di crederci). Ma non c'è, nel libro, un presente vergognoso nascosto sotto la patina di perbenismo, non è lo scavo impietoso dietro la maschera della provincia ricca (o povera, fa lo stesso) e perbenista. O, per meglio dire, ci sarà pure, in fondo Perissinotto alla fine lo lascia intendere, ma non è quello che interessa. Lo scontro è tra passato e presente e, se il presente è affrescato con tratti lievi, accennati, dati dall'agire di Domenico nella terra della sua infanzia, e dai racconti e spiegazioni di chi quella terra ancora (e da sempre) la vive e da essa non si è mai allontanato, il passato è il vero centro del quadro. Pur non essendoci (è passato, non può ovviamente essere presente, scusate il gioco di parole) è il passato che cattura l'interesse e l'immaginazione del lettore, ed è su quell'obiettivo che Perissinotto si pone a duellare con Fenoglio. E' l'anima nera delle Langhe l'oggetto che viene sezionato, quella vita contadina che, lontana da ogni mitizzazione contemporanea, era fatica inumana, e brutalità animale, era senso del possesso estremo al punto da portare a reificare il proprio prossimo. E' tutto uno spaccarsi la schiena per possedere qualcosa, di solito un pezzo di terra, una casa, un campo, degli alberi. Ed è il possesso la parola chiave di tutto il romanzo. Ammazzarsi di fatica per possedere qualcosa di giorno e poi giocarsi tutto alle carte la sera. I campi, il gioco, il vino, le botte, non c'è altro, nessuna pietà, questo era il mondo dei vecchi. E nel confronto il presente non ne esce poi neppure tanto male. I personaggi sembrano essere perennemente posseduti da qualcosa che incombe su di loro e al contempo li abita, lo spirito del luogo, la cultura contadina, un moto di sopraffazione, quasi una necessità di brutalità e, al contempo, di fatalità, si è vivi o morti per un caso, è la terra che lo decide, sono i campi che ti permettono di mangiare o, se sono capricciosi, ti condannano alla fame, l'uomo è una comparsa in quel mondo, un attore passivo che ha continuamente presente la propria infinitesimale irrilevanza nei confronti del paesaggio. Fatalità e possesso, brutalità subita (dalla natura, dai campi, dall'esistenza) e restituita (sugli esseri più deboli), e il gioco a ricordare che tutta quella commedia volgare e violenta è, in fondo, appunto, un gioco: o comunque è retta dalle regole dell'azzardo. E da qui, il bisogno di rischiare tutto a carte. Più desidero qualcosa, più cerco di perderlo. Se la possibilità di possedere qualcosa è remota e la si paga con enormi fatiche, quella di perdere tutto è altissima, ed è stretta in un mazzo di carte, in una mano al tavolo da gioco (ma non immaginatevi casinò e croupier, bastano le cucine fumose delle cascine o le "crote" del paese).  Rendere oggetto ogni aspetto della realtà, ogni essere vivente, che sia un pollo, il cane, o la propria moglie, questa pare essere l'unica ossessione che ha abitato Le Langhe da tempi immenori. Ed è da quella cultura che nasce la tragedia che è lo sfondo (e al contempo il protagonista silenzioso) del racconto dell'autore piemontese. Fenoglio dunque, e Perissinotto, che si scrutano, si annusano, e entrambi compongono un ritratto verista (quasi "nudista) di quel mondo che pare essersi dissolto all'orizzonte, quel mondo che è importante ricordare proprio perchè tutti lo vogliono dimenticare. In fondo, non siamo mai stati innocenti.

Alessandro Perissinotto (Torino, 1964) è uno scrittore, un traduttore e un insegnante. Laureatosi in Lettere, nel 1997 esordisce con il suo primo poliziesco "L’anno che uccisero Rosetta" (Sellerio) ambientato in uno sperduto paese piemontese negli anni ’60. Seguono "La canzone di Colombano" e "Treno 801" sempre editi da Sellerio. Nel 2004 pubblica con Rizzoli "Al mio giudice" con cui vince il Premio Grinzane Cavour 2005 per la Narrativa Italiana, il Premio via Po 2005 e il Premio Chianti 2005-2006. Tra le sue opere successive ricordiamo " Una piccola storia ignobile" (Rizzoli), "La società dell’indagine" (Bompiani) e " Semina il vento" (Piemme).