Javier Cercas veste i panni di un
Cervantes titubante e ci racconta la storia di come il suo personale
Don Chisciotte lo abbia ossessionato a tal punto da portarlo a vincere le sue naturali reticenze e a narrarne le (dis)avventure. Il cavaliere errante in questione si chiama Enric Marco e nel 2005, ultraottantenne, viene scoperto dal mondo intero in flagranza di menzogna. Su cosa aveva mentito? All'incirca su tutto. Peggio, non solo su tutto ma, tra le altre cose, anche su un tema sul quale non è concesso mentire. Un tema sul quale non è perdonabile mentire: l'olocausto. Nel 2005 era l'attivissimo e caoticissimo presidente dell'associazione di ex deportati spagnoli
Amical de Mauthausen, in procinto di recarsi a Mauthausen per le celebrazioni del giorno della memoria, celebrazioni alle quali avrebbe preso parte per la prima volta un premier spagnolo, Zapatero, quando un oscuro storico,
Benito Bermejo, scopre la sua impostura: Enric Marco non è mai stato prigioniero del campo di concentramento di Flossenburg. Da quel momento crolla tutto: non solo la sua falsa identità di deportato ed oppositore del nazismo, ma anche quella di resistente antifranchista datosi alla macchia e, almeno in parte, in buona parte, il suo passato di anarchico libertario amico del leggendario
Buenaventura Durruti e di altri celebri anarchici spagnoli. Ogni cosa ora è in frantumi, e il botto è tremendo, una deflagrazione che supera i confini del mondo degli storici e dei sopravvissuti all'olocausto, supera quelli della Catalogna, della Spagna e diviene un caso internazionale. In generale il mondo lo condanna senza possibilità di redenzione, c'è addirittura chi gli augura il suicidio, unica via possibile per uscire da una situazione talmente enorme da suonare non solo mostruosa ma addirittura assurda. Enric Marco, però, nonostante l'età, a suo modo, affila le armi e combatte. Risponde a tutti, giornalisti e curiosi e a tutti spiega di aver sbagliato sì, ma fin di bene. In che senso? Nel senso che lui ha colmato un vuoto, in Spagna non c'era mai stata una particolare attenzione alle vittime della guerra, la Grande Guerra, la maggior parte di coloro che avevano patito nei campi nazisti o erano ormai morti o sufficentemente vecchi da non aver alcuna voglia di raccontare quell'incubo che ormai sembrava essere definitivamente lontano e superato. Enric Marco, nonostante la sua età, sprizzava energia come un ventenne, era dotato di una retorica fuori dal comune e sembrava non essere nato che per portare la testimonianza attiva e proattiva di un passato così oscuro e demoniaco. Ma, si domanda Cercas, chi è davvero Enric Marco? Cosa lo ha portato a mentire su quasi tutta la sua vita? Perchè a cinquant'anni suonati ha deciso di ricostruirsi un passato e, in un periodo dell'esitenza in cui è lecito prepararsi degnamente alla vecchiaia, ha premuto sull'acceleratore e ha finto di essere chi in realtà non era mai stato? Un picaro, una canaglia, un impostore, un eroe, uno scrittore che ha voluto vivere in prima persona i suoi romanzi, un uomo di buon cuore, un bambino in cerca di affetto, chi è Enric Marco? Javier Cercas, scrittore dalla penna finissima e dall'acume fuori dal comune, intellettuale di razza, si domanda se è giusto scrivere un libro su un impostore che cerca e ha sempre cercato la notorietà, se così facendo non gli si restituisca forse un favore, se non parlarne affatto non sia la scelta migliore, dimenticarlo, imporgli l'oblio come la peggior penitenza; poi, se scrivere un libro su di lui non sia, all'opposto, una condanna troppo grande per un uomo che, in fondo, non ha fatto del male a nessuno, che si è dato da fare prima come segretario della leggendaria
CNT (il sindacato anarchico in cui aveva militato l'altrettanto leggendario Buenaventura Durruti), poi come dirigente di una importante associazione di genitori ed infine come supremo rappresentante della già citata Amical de Mauthausen. Si può scrivere un libro di non finzione su un uomo che ha finto tutta la vita, la cui intera esistenza è stata una messincena? Si può perdonare di aver mentito su un argomento laicamente sacro come l'olocausto? Cercas compone un libro complesso, dal passo lento, tornando spesso sui medesimi argomenti, sui medesimi dubbi, reitera interi periodi, dà volutamente l'impressione di dimenticare di aver già ribadito certi concetti e vi torna sopra con il piglio del ricercatore che non si pone il problema dello stile e della solidità della composizione ma, anche questa tecnica (mascherata da mancanza mancanza di tecnica), a suo modo è una finzione. Il libro di Cercas infatti è calibratissimo, non una parola è scivolata per caso sul foglio: le ripetizioni ossessive, lo scavare nella biografia, il comporre scenari e prove sono aspetti saggistici perfettamente bilanciati da un'attenzione spasmodica (e prettamente narrativa) allo stile. E' un romanzo (e lo è a tutti gli effetti, perchè non è un saggio), ma è un romanzo di
non finzione. Non è giornalismo letterario bensì romanzo giornalistico. O qualcosa del genere. Un essere ibrido, una scommessa assurda che dà vita ad un'opera eccezionale.
Non è lo scrittore, in fondo, colpevole del medesimo peccato di Enric Marco? Non si nasconde forse dietro storie di fantasia, non ricopre un ruolo sociale riconosciuto che diviene la sua personale maschera? Cercas, spogliando (o cercando di spogliare) Marco di tutte le sue infinite maschere, non si spoglia giocoforza delle sue? Soprattutto, si può cercare di capire un uomo chiaramente colpevole senza cadere nel vizio umano, troppo umano, di giudicare? Cercas, lungo tutta la durata del libro non fa altro che domandarsi se stia condannando il suo protagonista o se lo stia in fondo assolvendo. Addirittura si pone il dubbio se, ponendolo di fronte alla realtà, non lo stia salvando. L'impostore è un libro di domande, un libro che più che seguire il ritmo del parlato segue quello del "ragionato", scala un abisso con la netta sensazione (e paura) di scoprire in cima (o in fondo) all'abisso uno specchio. Non è che ognuno di noi si possa riconoscere in Enric Marco, ovviamente e per fortuna, ma è vero che ognuno di noi ha corso quel rischio. In fondo, così come Genna ne
La vita umana sul pianeta terra (e in Hitler) definisce Breivik come una non persona, come uno spazio vuoto da riempire, anche Cercas vede in Enric Marco un contenitore vuoto. E si è contenitori vuoti fino a quel dato momento in cui non si arriva a dire No. Fino a quel dato momento in cui non si decide di non stare più con la maggioranza ma di rimanere soli, a urlare il nostro No. Sono quei No che definiscono una persona, non solo rispetto agli altri, ma anche rispetto a sè stessa, restituendole consapevolezza. Alla fine, questo, è un libro sull'identità, sul terrore che abita chi questa identità cerca, chi questa identità non trova, e chi ha creduto di averla trovata e, d'un tratto, si pone il dubbio di essersi solamente illuso di averla trovata. E' un libro che scavando nel passato si pone il quesito più cruciale del nostro tempo ricco di realtà virtuale ma privo di ideologie e spesso pure di idee:
chi sono io?
La risposta, se esiste, sta tutta in Cervantes, in quell'hidalgo posseduto da lucida follia che ad un certo punto della sua vita decide di essere qualcun altro, per poi tornare ad essere Alonso Quijano, e di questo morirne. Si muore, di realtà o di finzione ma si muore comunque, senza sapere chi si è stati o illudendosi di saperlo, e se in fondo Don Chisciotte alla fine rinsavisce, comunque è stato bello vederlo svalvolare in giro per la Mancha, è stato bello per noi ma, forse, viene da pensare, anche per lui.
Javer Cercas è un collaboratore abituale dell'edizione catalana di "El País" e del
supplemento del sabato e dal 1989 è docente di letteratura spagnola
all'Università di Gerona.
Ha raggiunto il successo con
Soldati di Salamina (Guanda 2002), che in Spagna è arrivato alla quindicesima edizione;
Il movente (Guanda 2004);
La velocità della luce (Guanda 2006);
La donna del ritratto (Guanda 2008);
Anatomia di un istante (Guanda 2010);
Il nuovo inquilino (Guanda 2011).
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