Ne Le Belve, il secondo racconto, il narratore parla ad una donna che, immagiamo, lo ha ferito in passato; è lei la destinataria assente del monologo a cui viene raccontato il mondo fetido e perverso nel quale lo ha fatto precipitare: il bar, Ambos Mundos, Unghia d'oro, il Bamboccio, l'Orologiaio, Tacuara, Guillermito, Cipriano: ladri, delinquenti, truffatori, omicidi e stupratori di minorenni che riescono ad intenerirsi al ricordo delle proprie atrocità. Anche qui, il racconto non è altro che un'istantanea, una descrizione patologica del sub-mondo del bar e dei suoi frequentatori, i loro silenzi, le smorfie, la noia, la mancanza di morale, la violenza, le loro donne, che poi sono quelle che li mantengono, prostituendosi, e che si beccano le loro botte, per noia.
... l'Orologiaio fa spallucce, sorride penosamente e dopo aver rimuginato a lungo la risposta dice: << Che ne so io. Sarà perchè mi annoio. >>
Chi racconta, ancora una volta, non nega di aver toccato il fondo, sa distinguere in sè e negli altri frequentatori del bar la propria natura di belve, ma a giustificazione chiama sempre in causa una serie di motivazioni patetiche ed assurde a tal punto da rischiare di sembrare verosimili: il dolore, inflittogli dalla donna alla quale racconta la sua vita attuale, e una sensibilità (la sua) sovradimensionata rispetto alla realtà abietta nella quale è scivolato. Un micro cosmo sub-umano nel quale il ricordo di uno stupro lascia trasognati a riassaporarne, nella memoria, il piacere; in cui gli uomini si eccitano e (forse) si inorgogliscono ad accompagnare le proprie donne a battere sulla strada ("All'improvviso ci passa per la testa un timore: <<Oggi la sbattono dentro di sicuro>>, o << Sarà l'ultima volta che la vedo?>>); nel quale il bar è un acquario pieno di pesci sonnolenti e pericolosi che, quando non si scannano tra di loro, si iniebetiscono a guardare fuori quel mondo di persone normali che proprio non riescono a capire.
... e ci entrano negli occhi tenebre che nemmeno le strade più buie hanno nelle loro profondità melmose, mentre dietro la spessa vetrata che dà sulla strada passano donne oneste che passeggiano a braccetto di uomini onesti.
Lo scarto più evidente rispetto alla struttura tipicamente Arltiana della narrazione come espediente (una scusa) per descrivere un mondo di reietti e (all'interno della narrazione) della ricerca di una scusa per giusticare la propria presenza in quello stesso mondo (o abisso, o universo parallelo) lo si ha nell'ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, Una domenica pomeriggio. Qui non ci troviamo immersi nei meandri della piccola malavita bonaerense, non per forza quantomeno, ma seguiamo il girovagare ozioso di Eugenio Karl, il protagonista, un tipo strambo che stila presagi a seconda delle palpitazioni del suo cuore. Eugenio incontra una donna bionda, che gli sorride, Leonilda, la moglie di un suo amico. Questa lo invita in casa a bere un thè, anche se suo marito non c'è, anzi, proprio perchè suo marito non c'è. Arlt viviseziona magistralmente il desiderio dei due, la danza che si instaura tra le remore e gli strappi in avanti dei due possibili amanti. Rifiuti, dinieghi, nuove proposte, ogni passo in avanti è un passo verso il precipizio dal quale non si torna indietro, la colpa percepita nell'aria elettrica come un corpo solido, o solidificantesi, e il desiderio insopprimibile, il piacere della colpa, del proibito, del sacrificare amicizia e amore coniugale sull'altare della lussuria. Ma quando Leonilda finirà col tirarsi indietro, il mancato piacere del sesso proibito porterà Eugenio Karl a sostituirlo con un altro tipo di piacere, più sottile, più cinico. A suo modo più perverso. In un dialogo perfetto nel suo crudele scavo psicologico, Karl scaverà nella donna fino a portarne alla luce gli intimi recessi di abbandono, di lussuria, sospirata e non consumata, la sua natura di donna infelice incapace di allungare la mano a prendersi una parentesi di soddisfazione, di rivalsa sulla mediocrità tediosa della vita: qualcosa di cui potersi almeno, dopo, pentire. In questo racconto, così differente dagli altri due, Arlt si mostra più complesso, capace di finezze che i protagonisti dei suoi altri racconti non gli permettevano, troppo occupati a giustifcare sè stessi e le proprie abiezioni. Qui non c'è uno sprofondo, è piuttosto una danza, un tango crudele che termina senza essere stato ballato, sull'impiantito ligneo della sala da ballo risuona soltanto ciò che non si può vedere, i sentimenti, le paure, l'ansia, l'eccitazione che sale e che si trasforma in bisturi psicologico (il dialogo, magistrale). Questo è infatti l'unico racconto in cui il narratore è terzo rispetto ai personaggi ed ai fatti narrati.
Arlt è Buenos Aires, è l'altra faccia di Buenos Aires, quella oscura, impresentabile, è il cantore dei cattivi sentimenti, delle perversioni che abitano un universo parallelo, dei delinquenti, dei vinti, delle puttane, di un mondo dove la violenza è l'unico linguaggio che riesce ad accompagnarsi a quello universale del silenzio minaccioso, degli sguardi in tralice, del sentimentalismo stucchevole che mescola stupri e Gardel, quel mondo DeAndreiano (o anche tipico, tra gli altri, di Nelson Algren, di Hubert Selby Jr o di Bukowsky) che nessuno vuole prendersi la briga di vedere, dove infilzare ad un tavolo la mano della propria donna non merita neppure il tempo di un dubbio. La vita vera (o fasulla, dipende) è quella incomprensibile che scorre al di là delle vetrate dei postriboli, dove uomini e donne oneste camminano mano nella mano, ma è appunto un mondo altro, alieno, le cui regole e i cui simboli non sono altro che messaggi non decrittabili che provengono da un altro universo.
Arlt è grottesco, spietato, ironico, urticante. E assolutamente indispensabile.
Penso che è triste non sapere chi ammazzare
Roberto Arlt nasce a Buenos Aires nel 1900. Figlio di immigrati europei (il padre prussiano, severissimo), fin da bambino si ribella alla rigida educazione familiare. A sedici anni lascia i genitori e vive senza fissa dimora per le strade di Buenos Aires. Lavora come meccanico, imbianchino, operaio portuale, commesso e intanto studia da autodidatta. Poi comincia a collaborare a qualche giornale e infine diventa giornalista a tempo pieno. Il suo primo romanzo, El juguete rabioso (Il giocattolo rabbioso) esce nel 1926 ed è la storia più o meno autobiografica della sua adolescenza nella caotica e affascinante Buenos Aires dei primi anni Venti. Tre anni dopo, Los siete locos (I sette pazzi) viene esaltato da alcuni come un capolavoro, ma anche bollato da altri come «scritto male». Nel 1931 esce il sequel del romanzo precedente, che ne completa le vicende: Los lanzallamas (I lanciafiamme). Ma il suo libro più fortunato è Aguafuertas porteñas (Acqueforti di Buenos Aires), del 1933, ritratti di Buenos Aires usciti inizialmente in una popolarissima rubrica che Arlt teneva sul quotidiano «El Mundo». Come giornalista viene inviato in Brasile e in Spagna (durante la guerra civile). Muore a Buenos Aires nel 1942, per un infarto.
Ho scelto questo libro per iniziare a conoscere Arlt, ma non mi è piaciuto per niente. Ho trovato un po' meglio degli altri due solo il terzo racconto, che a quanto leggo dal tuo commento è il meno arltiano, quindi credo non sia un bene.
RispondiEliminaCredo comunque che proverò altro perché voglio capirlo meglio.
Arlt non è facilmente digeribile, comunque non da tutti. Come ho scritto è: grottesco, spietato, ironico, urticante. Algren, che ritengo sia inseribile nella stessa sua poetica, in quanto nordamericana, è più lineare e asciutto: diciamo che è spietato e urticante ma non grottesco e ironico. E questo lo rende più facilmente apprezzabile. Arlt va letto anche considerando il periodo in cui scriveva, e che si poneva come alternativa alla letteratura borgesiana. Per quel che mi riguarda, ogni volta che leggo Arlt, vengo preso da un senso di nausea, e in questo senso non lo considero una lettura piacevole. Ma non posso non ritenerlo assolutamente indispensabile. Proprio per la crudeltà con cui va a scavare nel sostrato bestiale della natura umana.
RispondiEliminaGrazie per il tuo commento.
Ciao,
Alla prossima