"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

lunedì 9 luglio 2012

Acqua buia, di Joe R. Lansdale, Einaudi editore, Stile Libero

L'ultimo libro che ho letto di Joe R. Lansdale è stato Tramonto e polvere, un buon libro, ma non all'altezza de La sottile linea scura che, a sua volta, pur essendo un libro notevole e peraltro godevolissimo, non era all'altezza di Sotto gli occhi dell'alligatore (poi ristampato da Fanucci col titolo In fondo alla palude), a mio parere il suo miglior libro. Fino a questo Acqua buia. Prima, invece, sono uscite, per lo più per Fanucci, una serie di pubblicazioni di valore onestamente non eccelso, anche per generi di nicchia come il western o la fanstascienza. Tra l'altro anche Einaudi, di solito attenta alla qualità delle uscite, ha messo in commercio un paio di titoli di Lansdale che si possono tranquillamente rubricare come "senza infamia e senza lode". E' il problema degli scrittori di razza: se abituano bene il proprio pubblico, non possono far altro che lavorare sempre al massimo livello per non scontentarlo.Questo Acqua buia (titolo originale Edge of the dark water) non tradisce le attese: ci riporta nel Texas della Grande Depressione, dove razzismo, sessismo e violenza sono pane quotidiano, e dunque accettati come normale accessorio della vita, come un balzello da pagare per ottenere il diritto stesso ad essere vivi, per quanto tempo, poi, quello è tutto da vedere. Il Texas, e quel dato periodo della storia americana, sono il luogo ed il tempo prediletti da Lansdale per intrecciare le sue storie e, se è vero quanto sostiene Juan Rulfo, vale a dire che per raccontare una storia bisogna "creare" il personaggio, "creare" l'ambiente nel quale il personaggio si muove e "creare" il linguaggio attraverso cui il peronaggio si esprime, Lansdale è un vero maestro della narrazione, e il suo Texas, povero, poverissimo e crudele fino agli estremi, ma anche capace di un'ironia maschia e feroce, e gli anni della Grande Depressione, sono gli elementi fondamentali per ricreare un universo all'interno del quale il lettore si muove da subito con grande agilità. Lo stile è inconfondibile, ogni frase, ogni paragone porta in sè qualche elemento che caratterizza istntivamente i luoghi nei quali si svolge la storia; spesso si tratta di figure retoriche che utilizzano pietre di paragone basse, oggetti quotidiani, animali e piante, iperboli spesso volgari e sempre ironiche. I dialoghi sono al vetriolo e l'amalgama narrativo scorre in maniera estremamente piacevole, rimanendo però sempre dalle parti della Letteratura, senza mai scadere nella sciatteria. Ora veniamo ai personaggi. Acqua buia è un romanzo corale i cui protagonisti sono tre ragazzini e una donna, ma chi narra gli eventi è la voce di una sola di essi, Sue Ellen, un sedicenne bianca che vive lungo il fiume Sabine, povera in canna, con un padre con sinistre tendenze all'alcolismo, alla violenza ed alle molestie sessuali. La donna che si unisce all'avventura dei tre ragazzi è la madre di Sue Ellen, che vive chiusa nella sua stanza, lontana da tutto e da tutti, intossicata da certi toccasana che, per lei, altro non sono che droghe. Gli altri due protagonisti sono Jinx, una adolescente nera terribilmente sboccata e Terry, un ragazzino omosessuale dalla faccia d'angelo e dai modi stranamente garbati se si considera l'ambiente nel quale è costretto a vivere. Pescando col padre e con lo zio, Sue Ellen e il suo amico Terry incappano nel cadavere di una loro amica, May Linn, che affiora dalle aque buie del Sabine ormai gonfia e con le caviglie assicurate ad una vecchia macchina da cucire. May Linn era bella, vanitosa, consapevole e felice di essere bella, e nutriva il sogno di andare ad Hollywood a fare l'attrice, e non ne faceva segreto con nessuno. I tre amici, un po' per lealtà nei confronti dell'amica ed un po' per fuggire ad una realtà squallida che li schiaccia e rischia di renderli, col passare del tempo, dei personaggi abbrutiti come i loro genitori e come la maggior parte degli adulti del luogo, decidono di bruciare il corpo di May Linn e viaggiare fino ad Hollywood per poi disperderne le ceneri lungo le vie della Mecca del cinema. S'imbatteranno in una mappa, si approprieranno di soldi rubati, fuggiranno dalle loro vite con alle calcagna genitori (violenti, alcolizzati, maniaci), zii (violenti, alcolizzati, maniaci), un agente psicopatico ed un personaggio che, se esistesse davvero, non potrebbe essere altro che l'incarnazione stessa del male, Skunk, un nero enorme - puzzolente - che taglia le mani delle proprie vittime e gioca con loro prima di spedirle nell'aldilà. Come in ogni racconto di Lansdale, la distinzione tra bene e male è la vera protagonista delle sue storie, ed anche in questo caso il succo non cambia. Il punto di vista è quello di tre adolescenti disagiati, che oggi si direbbero borderline, che ribellandosi al brodo culturale nel quale sono immersi e cercando un altro orizzonte lungo il quale vivere danno il via ad un tipico romanzo di formazione e d'avventura in cui i temi tipici della fiaba e del mito sono perfettamente inseriti nei luoghi e nei tempi prediletti dall'autore. Quando finalmente giugneranno al termine del loro viaggio, niente sarà più come prima, e nessuno di loro sarà più lo stesso: il fiume Sabine li avrà cambiati. Avventura, riflessione sul bene e sul male, mostri da combattere e paure da vincere mescolati in un racconto che è un inno alla ferocia della vita, all'imbecillità che permea l'essere umano, specie se adulto, ed alla speranza di poter cambiare il proprio destino, anche nel Texas, anche durante la Grande Depressione, anche se si è neri, od omosessuali, o poveri in canna.
  Un Joe Lansdale finalmente di nuovo al massimo delle sue possibilità, ed è una bella notizia, e questo, se mi posso permettere di consigliarlo, è un libro da non perdere.

Joe Lansdale è nato il 28 ottobre 1951 a Gladewater, Texas.
Grande lettore, Lansdale è stato influenzato da Mark Twain, Edgar Rice Burroughs e Jack London, ma anche da scrittori di fantascienza come Ray Bradbury e Fredric Brown. E' un grande appassionato di fumetti, di B-movie e letteratura “pulp” (etichetta con la quale è sbarcato in Italia, paese che lo ha adottato e dove ha una nutrita schiera di fans). Ha svolto diversi lavori dal contadino al buttafuori in locali pubblici, dal bidello all'operaio in fabbrica. Nel gennaio del 1997 aprì una sua scuola di arti marziali, e il Lansdale’s Self-Defense Systems è uno stile riconosciuto a livello internazionale. Ha pubblicato:  Una stagione selvaggia (Savage Season, 1990), Einaudi; Mucho Mojo (Mucho Mojo, 1994), Bompiani riedito da Einaudi, Il mambo degli orsi (Two-Bear Mambo, 1995), Einaudi, Bad Chili (Bad Chili, 1997), Einaudi, Rumble Tumble (Rumble Tumble, 1998), Einaudi, Capitani oltraggiosi (Captains Outrageous (2001), Einaudi, Sotto un cielo cremisi (Vanilla ride) (2009), Fanucci, La notte del Drive-In (The Drive-In, 1988), Einaudi; Mondadori Urania n. 1214, Il giorno dei dinosauri (The Drive-In 2, 1989), Einaudi; Mondadori Urania n. 1224, La notte del drive-in 3, La gita per turisti, 2008, Einaudi, Atto d’amore (Act of Love, 1980), La morte ci sfida (Dead in the West, 1983),Il lato oscuro dell'anima (The Nightrunners, 1983), Texas Night Riders (1983), Il carro magico (Magic Wagon, 1986), Freddo a luglio (Cold in July, 1989), L’ultima caccia (The Boar, 1998), Fanucci, Fiamma fredda (Freezer Burn, 1999), I Neri Mondadori n. 1, riedito nel 2007 dalla Fanucci con il titolo “Freddo nell’anima”, Il valzer dell’orrore (Waltz of shadows, 1999, Fanucci), Blood Dance (2000), In fondo alla palude, Fanucci – premio Edgar Award 2001, L’anno dell’uragano (The Big Blow, 2000), Fanucci, Fuoco nella polvere (Zeppelins West, 2001) Fanucci, La sottile linea scura (A Fine Dark Line, 2002), Einaudi, Bubba Ho-Tep (Bubba Ho-Tep, 2003), Addictions-Magenes Editoriale, Tramonto e polvere (Sunset and Sawdust, 2004), Einaudi, Flaming London (2005), Echi perduti (Lost Echoes, 2006), Fanucci, The Shadows Kith and Kin (2007), God of the Razor (2007), La lunga strada della vendetta (Batman: Captured by the Engines), Edizioni BD, La ragazza dal cuore d’acciaio (Leather Maiden, 2007), Fanucci, Laggiù nel profondo (Way Down There, 2007) Edizioni BD, Cielo di Sabbia, Einaudi, eccetera eccetera eccetera.

  Allego il link del sito di Joe R. Lansdale: Qui.

Poi ci sarebbe da parlare, e anche a lungo e possibilmente non a sproposito (cosa non sempre facile), della serie di Hap e Leonard, due fra i personaggi più riusciti ed assolutamente indimenticabili del giallo letterario degli ultimi anni (assieme all'ispettore Mendez di Gonzalez Ledesma), ma questo argomento sarà bene trattarlo in altro post.

domenica 24 giugno 2012

Respirazione artificiale, di Ricardo Piglia, Sur editore

Emilio Renzi scrive un libro, La prolissità del reale, che parla in maniera non troppo velata della sua famiglia. Suo zio, Marcelo Maggi, si riconosce in uno dei personaggi, e gli scrive. Gli racconta di ciò di cui si sta occupando in quel momento, della stesura, a sua volta, di un libro, un libro che parla di Enrique Ossorio e della sua vita. Si scrivono a lungo, si può dire che giungono a conoscersi attraverso le parole scritte, senza mai vedersi. Quando, infine, decidono d'incontrarsi, Maggi lo raggiunge, ma non lo trova; incontra, al suo posto, un suo amico, un emigrato polacco, tale Tardewsky, con cui parla lungo tutto una notte. Di cosa parlano? Di tutto. Parlano, a dir la verità, della vita di Tardewsky, di filosofia, di Wittgestein, di letteratura, parlano di Argentina, parlano di Kafka e di Hitler, e aspettano, fino a mattina. Con questo ho detto - più o meno - tutto, o buona parte del tutto, ma al contempo non ho tolto nulla al piacere che proverà chi si vorrà avventurare tra le pagine di questo capolavoro. E' lo stesso Piglia nell'introduzione, scritta appositamente per l'edizione italiana, che lo specifica: Solo nei film di Hollywood è sbagliato raccontare il soggetto; nei romanzi invece la trama è soltanto una guida, o meglio la mappa di un territorio che si va trasformando mano a mano che procediamo. Quando diciamo che non possiamo smettere di leggere un romanzo è perchè vogliamo continuare ad ascoltare la voce narrante. Ben oltre l'intrigo e le peripezie, c'è un tono, che definisce il modo in cui la storia si muove, fluisce. Non si tratta tanto dello stile - dell'eleganza nella disposizione delle parole - quanto della cadenza e dell'inensità della narrazione. In definitiva il tono determina la relazione emotiva che il narratore intrattiene con la storia che sta raccontando. E il tono, o il ritmo, di questo libro è qualcosa di assolutamente straordinario, costruito con peripezia certosina, con l'orecchio sempre teso  a verificare che il ritmo (non il ritmo di ciò che accade, cioè non solo, ma soprattutto il ritmo della singola frase e di come le singole frasi si sussegguono) sia perfetto, come se l'autore avesse lavorato su uno spartito piuttosto che su un testo letterario. Non posso spiegarlo meglio di così e, se dovessi fare degli esempi, finirei per citare buona parte del libro. Ma quest'attenzione alla forma (o ad una parte della forma, poi c'è lo stile, che è comunque sopraffino; uno per tutti, l'incipit: C'è una storia? Se una storia c'è, inizia tre anni fa.) non toglie nulla ai fatti, al piacere di avanzare nella lettura per scoprire ciò che viene dopo. In realtà non capita nulla, o quasi, ci troviamo di fronte a personaggi che raccontano di altri personaggi (che a volte raccontano di altri personaggi ancora) che raccontano di aver fatto, o visto, o detto. La narrazione passa sotto la lente di generi differenti: dall'epistolare, al thriller spionistico, al racconto storico, al romanzo filosofico, eppure ciò non appesantisce per nulla il romanzo, anzi, riesce nel miracolo di assimilare tutti questi generi in un'opera unica ed irripetibile. Piglia scrive Respirazione artificiale durante il periodo della dittatura in Argentina, e il tema (o uno dei temi) che tocca è chiaramente il riferimento alla situazione che il suo paese e Piglia stesso si trovavano a vivere in quel momento, eppure, quella vita vissuta, la possiamo leggere nel romanzo come se fosse rivisitata a freddo, attraverso il filtro di molti anni trascorsi, con la calma e la freddezza di chi ha ormai posto un certa distanza tra sè e i fatti narrati. E questo è un punto che entra a far parte di una delle tante ed interminabili discussione tra alcuni dei protagonisti del romanzo, una metanarrazione che, mentre parla di altro, spiega il significato di sè stessa. Un po' tutto il libro ha questa caratteristica (la definirei virtù), oltre a presagire diversi stilemi che saranno tipici dei grandi autori sudamericani che verranno in seguito, primo fra tutti Bolano (il gusto per la misura dello stile, i dialoghi, le storie che si aprono e chiudono senza per forza terminare, i personaggi persi nelle pieghe della grande Storia non meno che nelle loro personali ossessioni, emigranti cocciuti, poetici loro malgrado, la ricerca del Grande Male e di una sua spiegazione, ecc.). Un gande libro, molto ben tradotto da Gianni Guadalupi per la Sur, libro da leggere e da tenere sullo scaffale dei classici, e come tale, rileggerlo.

  Ricardo Piglia (Buenos Aires 1941), attualmente professore di Letteratura sudamericana alla Princeton University, è unanimemente considerato come uno dei più grandi scrittori argentini dei nostri tempi.
In Italia sono stati pubblicati Respirazione artificiale (Sella e Riva 1990, Sur 2012), Soldi bruciati (Guanda 2000 - Feltrinelli 2008) con il quale ha vinto il premio Planeta, romanzo poi adattato allo schermo cinematografico da Marcelo Pineyro, L'ultimo lettore (Feltrinelli, 2007) e Bersaglio notturno (Feltrinelli, 2011).

  Allego il link ad un interessante articolo su Kafka ed Hitler nel romanzo di Piglia. Consiglio però di leggerlo dopo aver letto il libro. Il link è qui.

  In più, da Archiviobolano, col quale ho l'onore di collaborare, allego una conversazione tra Bolano e Piglia, quo.

Qua, invece, il link ad una lunga ed interessante intervista a Ricardo Piglia, in spagnolo. 





venerdì 22 giugno 2012

Severina, di Rodrigo Rey Rosa, Feltrinelli editore

La fascetta che pubblicizza il libro riporta una frase di Bolano che ci fa sapere che, a suo parere (suo di Bolano), Rey Rosa è il miglior tessitore di storie, la stella più luminosa della sua generazione. A leggere questo libro, Severina, si ha tutti i diritti di dubitare delle parole del grande scrittore cileno. Mi spiego. Stiamo parlando di centodieci pagine che narrano la storia di una passione intrecciata ad una seconda passione. Libri e amore, o libri e Severina se può suonare meglio. Severina, la protagonista del romanzo (breve), è un topos letterario tipico della letteratura sudamericana (vedi Il tunnel o Sopra eroi e tombe di Sabato, La ragazza cattiva di Vargas Llosa, ecc.): la donna misteriosa, ammaliatrice suo malgrado, o forse grazie ad un sapiente e sottile uso delle sue arti seduttive. E' la femmina, così come l'immaginario sudamericano evidentemente la idealizza. Forse la idealizza così perchè in realtà la teme, non so. E' comunque una trasposizione a quelle latitudini del grande mistero della femminilità (non per niente i ritratti migliori in questo senso sono di autori uomini, cioè di coloro cui è giocoforza preclusa la comprensione dell'universo femminile), del mito indoueropeo della dea madre che sotto il sole accecante dei tropici acquista in sensualità e senso dell'ignoto, senza perlatro perdere un certo sottofondo di sacralità che rimane sfumato ma sempre presente. Il narratore è il proprietario di una libreria, diciamo pure di una piccola libreria di nicchia, per intenditori, almeno questo è ciò che cerca di essere. Severina è una ladra di libri, questo lo sappiamo fin da subito, e va a rubare nella libreria di cui sopra; ma chi è in realtà Severina? Possiamo immaginarla fisicamente, però perchè ruba libri? Per necessità, per sfrontatezza? Per cleptomania? Qual'è la sua storia? Da dove viene? Sta cercando di sedurre il narratore o lo usa a proprio piacimento? Chi è l'uomo che vive con lei? Cosa nasconde? Cosa nasconde l'uomo e cos anasconde lei, Severina? Nascondono davvero qualcosa? Questo è il nucleo della narrazione, lo sfarfallìo inafferrabbile del mistero. La donna è mistero. Appunto un topos della letteratura latina. Riuscirà il narratore a scoprire la verità? Riuscirà a fare sua l'enigmatica e sfuggente ladra di libri? Il libro, c'è da dirlo, è un buon libro, una lettura piacevole, ed è indubbiamente ben scritto e, per chi non avesse dimestichezza con le altre misteriose eroine della letteratura di quelle parti del mondo rimarrà indubbiamente scolpita nella memoria de lettore (comunque niente a che vedere, a mio parere, con l'Alejandra di Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato). Ciò che non riesce a dimostrare questa piccola perla è proprio ciò che sostiene Bolano nella fascetta allegata al libro, che davvero Rey Rosa sia la stella più luminosa ed il miglior tessitore di storie. Forse lo è anche, ma credo che questo possa essere verificato in qualche altro libro dell'autore guatemalteco. Indubbiamente la curiosità di cercare altre sue pubblicazioni e togliersi ogni dubbio, questo la libro la instilla.

Rodrigo Rey Rosa è nato in Guatemala nel 1958. Dopo aver abbandonato gli studi di medicina nel suo paese devastato dalla violenza, ha vissuto a New York e poi a Tangeri, in Marocco. Lì ha conosciuto Paul Bowles, del quale ha tradotto le tre prime opere. È autore di molti romanzi e raccolte di racconti e la sua opera è stata premiata nel 2004 con il Premio Nacional de Literatura de Guatemala Miguel Ángel Asturias.
In Italia ha pubblicato Quel che sognò Sebastian e Il tempo concesso con Mondadori, e Giungla di pietra per Cargo.



domenica 27 maggio 2012

Missing, di Alberto Fuguet, La Nuova Frontiera edizioni

La prima volta che ho avuto tra le mani questo libro mi trovavo ad Arequipa, Perù, in una piccola ed elegante libreria del centro storico, in cui il proprietario, un distinto signore di mezz'età, faceva quello che ci si aspetta da qualsiasi proprietario di libreria, vale a dire che se ne stava seduto a leggere. Non conoscevo l'autore e non avevo mai sentito parlare di questo suo libro in particolare, Missing (trad. Chiara Muzzi). Aveva richiamato la mia attenzione un richiamo a Bolano. Si trattava di un stralcio di Fogwill che sosteneva di intravedere nel libro qualcosa del miglior Bolano. Poi, la trama. Una scomparsa, qualcuno che si era perduto. E poi ancora il fatto che si trattasse di non fiction novel, vale a dire una storia vera. Però non lo comprai. Non so esattamente perchè. Uno dei motivi era che dovevamo proseguire il viaggio (Canon del Colca, Puno, Cusco, Macchu Picchu) e non volevo occupare posto nei bagagli che preferivo riservare a souvenir ed ammenicoli vari. Ma immagino che non si sia trattato solo di quello, però mi segnai il titolo e l'autore. Poi, ovviamente, li persi: titolo, autore e casa editrice. Tornato in Italia mi sono messo alla ricerca su internet. Poi, Venerdì, mi è caduto l'occhio in libreria, e tra la sera stessa e la giornata di Sabato, l'ho letto tutto. E' uno di quei libri, non molti per la verità, che non andrebbe nè spiegato, nè sviscerato, ma semplicemente consigliato. Consigliato spassionatamente. Alberto Fuguet è uno scrittore e regista cileno, curatore della raccolta McOndo, con la quale ha rotto coi canoni del tradizionale realismo-magico sud americano, e il libro parla di lui. E' lui che ci parla ed è lui che, parlando di suo zio Carlos, parla di sè stesso, della sua vita sospesa tra Cile e Stati Uniti, e della sua famiglia in bilico non solo tra questi due paesi, ma tra una fitta ragnatela di incomprensioni, rancori, slanci più o meno folli, fallimenti e successi. L'impianto dovrebbe essere quello di una detection. Alberto decide di mettersi in cerca di suo zio, scomparso da diversi anni senza lasciar traccia di sè. All'interno della famiglia, Carlos, col tempo, è diventato un argomento non proprio taciuto ma comunque solo bisbigliato, e ovviamente ha creato una serie di leggende velate da un alone di mistero e di maledettismo. Per Alberto, quasi a sua insaputa, è diventato un'ossessione che si riverbera sulla sua opera, a volte in modo piuttosto esplicito, altre in forma più nascosta. Così comincia la storia. Ma Missing è un'opera di notevole valore e dunque non si limita a darci quello che ci aspettiamo. Come ogni grande libro ci trascina poco alla volta in territori che non avevamo preventivato, senza per questo tradire le attese. Ogni libro è un viaggio. Ogni grande libro è un viaggio che ad un certo punto modifica il suo percorso, senza chiedere permesso, prende strade inaspettate, ci mostra scorci sconosciuti, si espande e contrae a suo piacimento e, quando infine giungiamo a destinazione, ci rendiamo conto che la parte più bella, indimenticabile, sono state proprio le deviazioni. E ogni grande libro poi è un viaggio che parla di noi. Di una parte di noi, o di più parti di noi. Ho amato questo libro e non vedo l'ora di dimenticarlo per poterlo leggere da capo. Parla della violenza sottesa nelle famiglie, del ricatto dell'amore, di qualsiasi amore, del bisogno di perdersi per poi magari ritrovarsi ma anche no, anche solo della necessità salvifica di tagliare i ponti per poter rendersi liberi e raminghi, per non morire. Non prima del tempo. Parla di quella parte oscura e dolente che è in ognuno di noi. E' una sorta di cavalcata selvaggia nel cuore oscuro del sogno americano, anche se non è una cavalcata nè tantomeno selvaggia, quantomeno non nel ritmo. Si tratta più di un blues. Ognuno troverà qualche pezzo di sè. Ogni lettore verrà messo faccia a faccia con qualcuna delle sue paure più radicate. Perchè si è perso Carlos? Era vivo o morto? Girava per gli Stati Uniti ammazzando bambini? Perchè la sua famiglia non lo ha più cercato? E perchè quando l'autore ha deciso di mettersi sulle sue tracce l'ha trovato subito, quasi senza sforzo?
  Un libro magnifico scritto da un autore di talento fuori dalla media cui, spero vivamente, venga tradotta al più presto in Italia il resto della sua opera. Un merito ulteriore della casa editrice La Nuova Frontiera che continua a portare in Italia autori latini estremamente interessanti e che, a volte, incappa in opere magnifiche come questa.

Alberto Fuguet è nato nel 1964 in Cile, è cresciuto in California, e ora vive e lavora a Santiago del Cile. Romanziere, regista e sceneggiatore è salito alla ribalta nel 1996 con l'antologia McOndo che, oltre a selezionare le nuove voci della letteratura latinoamericana, ha dato il via all'omonimo movimento letterario che ha rotto con la lunga stagione del realismo magico, proponendo un'apertura ai nuovi linguaggi dei mass media e alla modernità urbana delle megalopoli sudamericane.Il Time e la CNN lo hanno collocato tra le 50 personalità più influenti del Sud America e la rivista Newsweek, nel 2002, gli ha dedicato la copertina come icona della nuova letteratura latinoamericana.

lunedì 2 aprile 2012

Volti nella folla, di Valeria Luiselli, La nuova frontiera editore

Se tralasciamo la copertina, è davvero un bel libro. Poi ci sarebbe da chiedersi perchè mai il titolo originale "Los ingràvidos" sia diventato "Volti nella folla". Ingràvidos significa senza peso ed è un preciso riferimento ad uno stato (o ad una sensazione) in cui si trova a vivere uno dei protagonisti, Gilberto Owen, che con l'avanzare dello sfacelo della sua vita ingrassa indecentemente, fino ad avere il seno, come le donne, ma che contemporaneamente diminuisce di peso. E' assurdo, ma è così, e non è l'unica cosa assurda in questo libro. I protagonisti principali, cioè colei che scrive e, appunto, Gilberto Owen, poeta messicano defunto nel 1952, si rincorrono e intrecciano le loro esistenze seguendo percorsi che si burlano delle normali logiche temporali. Hanno vissuto nella stessa città, a poca distanza l'uno dall'altra, ma in periodi differenti, eppure, quando la scrittrice viene a conoscenza di questo fatto scatena qualcosa che pare affastellare i piani temporali l'uno sull'altro e porta i protagonisti a compiere gesti, a seguire pensieri che sono già stato compiuti e pensati dall'altro, in passato, o saranno compiuti e pensati in futuro, tali e quali. La scrittrice ci racconta di sè stessa che sta scrivendo il libro che stiamo leggendo, della difficoltà a ritagliarsi il tempo necessario per scrivere, tempo che deve giocoforza sottrarre ai figli ed al marito. Poi sentiamo le voci della sua famiglia, del bambino medio e della neonata, e la voce del marito che commenta i brani del libro che gli riesce di sbirciare. Veniamo a conoscenza dei suoi dubbi e delle sue perplessità nello scoprire una parte della vita della moglie che, evidentemente, ignorava, o conosceva per sommi capi, quella parte di vita in cui lui non c'era ancora e in cui lei era un'altra lei e non sua moglie. Il libro racconta degli anni in cui la protagonista viveva in un'altra città, quando lavorava in una piccola casa editrice ed era una giovane donna con gambe sode e ben disegnate, la seguiamo nelle sue amicizie confuse, nelle sue relazioni strambe, nel sesso vissuto con leggerezza e disimpegno, e nel suo lavoro alla casa editrice. Sentiamo la voce del bambino medio, le risposte della madre e, talvolta, del padre. Poi, con l'aprirsi del varco temporale, la narrazione comincia a confondersi e rimbalziamo allegramente da un tempo ad un altro con estrema scioltezza, troviamo una pianta morta che ha un ruolo nella vita di Owen e l'avrà nella vita della protagonista. Poi i fili s'ingarbugliano e tutti i rapporti che legano i protagonisti al loro mondo perdono i loro contorni normali e la vita (le loro vite parallele) diventa un susseguirsi di casi e di stazioni della metropolitana e di persone che diventano fantasmi e fantasmi che compaiono riflessi nei finestrini dei treni, di scrittori famosi (Garcia Lorca, Ezra Pound), di mariti che vanno e vengono, forse solo nella narrazione o forse nella vita reale. E' un florilegio di metanarrazioni, di piani che si sovrappongono e, a volte, si sfiorano senza mai incontrarsi realmente, di persone che sono personaggi e personaggi che scompaiono fino a svanire, ed altri che ingrassano poco alla volta che perdono peso. Diciamoci la verità, tenere insieme tutti questi frammenti non è un compito facile e verso i tre quarti del libro si ha la sensazione che il bandolo della matassa sia sfuggito di mano all'autrice, ma in realtà importa poco. Il vero collante della narrazione è lo stile, fresco, aereo. Ricercato senza essere pesante e senza neppure avere l'aria di esserlo, mai, in nessun caso. E' la voce dell'autrice che irretisce e nel giro di poche righe riesce a rendere se non proprio credibile comunque assolutamente godibile qualsiasi follia le passi per la testa di darci a bere. I dialoghi col bambino medio (specie all'inizio, poi vanno un po' standardizzandosi) e quelli col marito sono come delle squarci che si aprono all'improvviso e ci portano direttamente nella vita della protagonista dandoci però l'impressione di trovarci a sbirciare alla finestra dell'autrice, Valeria Luiselli. L'impressione è di trovarsi di fronte ad un reale promessa della letteratura, e non solo sudamericana, e che la stessa storia (o non storia) raccontata da un altro scrittore sarebbe naufragata in un disastro pretenzioso e noioso e, addirittura, un po' banaluccio. Gilberto Owen non pare essere uno di quegli eroi della letteratura dall'appeal magnetico, al contrario, e lo stratagemma di usare autori reali per rendere letteraria la propria opera è qualcosa che riesce alla perfezione solo a Bolano (che non a caso è citato nel testo: " E' lo scrittore morto con più amici vivi") ed a pochi altri, e l'intrecciarsi dei piani temporali che entrano in collisione tra loro è già molto sfruttata, forse più nel cinema che nella letteratura, ma comunque non è certo una novità. Rimane una capacità di scrittura che s'indovina straordinaria (ben riportata dalla traduzione di Elisa Tramontin) e che rende questo libro una lettura indispensabile (e piacevolissima).
  Ai suoi prossimi libri il compito di confermarla come un'autrice di spessore internazionale.






  Valeria Luiselli nasce nel 1983 a Città del Messico. Collabora col New York Times, Letras Libres, Etiqueta Negra e Internazionale- Nel 2010 pubblica la raccolta di saggi Papeles Falsos, considerato uno dei migliori libri dell'anno. Los Ingràvidos è il suo primo libro ed è in corso di traduzione nelle maggiori lingue europee.

venerdì 23 marzo 2012

Stella distante, di Roberto Bolano, sellerio editore


Questo libro è, per citare una frase del libro stesso, una sorta di "ultima trasmissione dal pianeta dei mostri". A questo punto c'è da chiedersi chi sono (o cosa sono) i mostri, quantomeno quelli che si muovono all'interno del libro stesso. Sono gli stessi che si muovono, vivono, respirano e, vivaddio, muoiono, nel mondo reale. I mostri (al plurale) sono Carlos Wieder, e dico i mostri perchè Carlos Wieder non è un semplice individuo, e neppure si limita ad essere solo un mostro, Carlos Wieder è molti mostri insieme. E nel contempo è un individuo, nel senso che è un uomo in carne ed ossa e, addirittura, è un artista, e sappiamo che per Bolano l'artista (lo scrittore) è "quasi una persona", o "non proprio una persona". Comunque non proprio una persona normale. Un mostro. Un monstruo. Se nella realtà non è mai vissuto un uomo di nome Carlos Wieder con le caratteristiche e la biografia che si possono evincere dal libro, poco importa, perchè ne sono vissuti altri, molti. E ne nascono (e muoiono) in continuazione, come nascono e muoiono in continuazione gli esponenti di qualsiasi specie. I mostri non sono altro che una sottogruppo della razza uomo. Tutta la narrazione è una detection alla ricerca di Carlos Wieder, ma in realtà è qualcosa di molto più profondo e terribile. E' lo sforzo sovrumano e contemporaneamente totalmente umano di comprendere cosa sia Carlos Wieder. E' un artista che scrive poesie nel cielo? O è un torturatore ed assassino sotto la dittatura di Pinochet? Un fotografo pazzo? Un cameraman di snuff movie? Un poeta nazi-fascista avanguardista? La voce narrante del libro lo ha conosciuto ad un seminario di poesia, in gioventù, ed allora era una specie di playboy ed un ipotetico poeta che si faceva chiamare Alberto Ruiz Tagle, poi però, in seguito al colpo di stato in Cile, ne perde le tracce. In seguito sembra ricomparire, ma con un altro nome, cioè nei panni appunto di Carlos Wieder, ma rimane sempre una sorta di spettro imprendibile, lontano, dai contorni sfumati, un ombra riflessa in uno specchio deformante che si percepisce in lontananza e che proietta sè stessa su situazioni e realtà sinistre. Sinistre e grottesche. Sinistre, grottesche ed oscene. Ma Carlos Wieder, il poeta-aviatore, è davvero Alberto Ruiz Tagle? Il narratore impiegherà una vita (o poco meno) per scoprirlo, per rendersi conto alla fine che la risposta non sarà ciò che lo potrà portare a soddisfare le sue domande. Perchè quelle rimangono. Chi sono i mostri, da dove nascono? Dove svaniscono ad un certo punto? Perchè esistono, i mostri? Rodrigo Fresàn, in un articolo in cui parla dell'amico Bolano (vedi qui) lo definisce come " l'uomo che scrisse di loro (dei mostri) come se li osservasse dalla parte opposta di un microscopio o di un telescopio", e questa è la sensazione che si ha leggendo questo breve capolavoro, di trovarsi dalla parte opposta di un miscroscpio, o di un telescopio, noi stessi intenti ad inseguire un ombra in giro per il mondo ed attraverso gli anni, per poi scoprire che, anche qual'ora la raggiungessimo, si tratterebbe sempre e solo di un'ombra. Il corpo che proietta quell'ombra rimane, sempre e comunque, inconoscibile, misterioso e pericoloso, immerso in quel "territorio del pericolo" che è la letteratura almeno quanto lo è la vita. Il corpo che proietta quel'ombra (Carlos Wieder) e mille altre, è il male, lo stesso che si muove e fa muovere l'intero romanzo 2666, e che si sposta per il globo come una tempesta, dal Cile all'Europa, dai cieli sudamericani alle piccole riviste d'avanguardia poetica dell'Europa, dai set di snuff movie, ai circoli di militari golpisti, e che aleggia su ogni singola parola del libro come un morbo sinistro e, contemporaneamente, come un impossibile punto interrogativo. Come dire, l'ultima trasmissione dal pianeta dei mostri.

  Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare qui. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.

sabato 18 febbraio 2012

I giardini di Kensington, di Rodrigo Fresàn, Mondadori editore

Tutti i bambini, tranne uno, crescono. Questo è quanto sostiene la prima immortale frase di Peter Pan (Peter e Wendy), di Matthew Barrie, ma quando ciò avviene, ammonisce Fresàn, è una catastrofe. Il libro racconta due storie che si svolgono su due linee temporali differenti e che hanno come punto d'unione, appunto, Peter Pan. La prima linea, narrata dall'autore di libri per l'infanzia Peter Hook, racconta la sua storia, i suoi genitori hippie "al revés" nella swinging London, e la morte del fratello e, sempre rivolgendosi ad una terza persona, Keiko Kai, che poco alla volta giungeremo a capire chi sia. La seconda linea narrativa, sempre raccontata dalla voce di Peter Hook, è più o meno la biografia di Matthew Barrie, lo strambo e geniale inventore di Peter Pan; dico più o meno perchè è una sorta di biografia romanzata e come ogni biografia romanzata è molto più avvincente ed anche più approfondita di una normale biografia.Come Hook anche Barrie ha perso un fratello in tenera età e come Hook è stato irrimediabilmente segnato da questa tragedia, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, è questa morte prematura che spinge Barrie al suo amore esagerato (e anche un filo morboso) per i bambini, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, a questo fatto bisogna far risalire la ferrea ed esplicita volontà di Barrie di non crescere, di creare un punto di contatto tra la Neverland da lui creata - cattedrale assoluta della fantasia di ogni tempo - e la grigia realtà che spetta in sorte a noi tutti. Questo punto di contatto è rappresentato dai Giardini di Kensington, che sono quel luogo reale dove l'autore concreta le sue fantasie e dove egli stesso pare trovare una sorta di porta che gli permette di fuggire a prendere appunti per i suoi libri in un universo parallelo a misura di bambino. E' nei Giardini di Kensington (dove si trova la statua a Peter Pan) che Barry incontra Silvya Llewellyn Davies e i suoi figli, che diverranno la principale fonte ispiratrice su cui modellare la sua creatura immortale. Peter Hook ha inventato (ed è diventato famoso grazie a) Jim Yang, un bambino che salta da un punto all'altro del tempo inforcando un cronocicletta, ma fin dall'inizio pare prendere le distanze dalla sua creatura così come in un certo qual modo anche dalla sua stessa vita, come se Jim Yang fosse per lui una maledizione. Al contrario di quanto viene specificato in quarta di copertina, non è vero che Peter Hook, con la scusa di parlarci di Barrie e Peter Pan, ci racconta soprattutto la sua storia: è vero piuttosto il contrario. Il centro del libro non è la linea temporale in cui si svolge la storia di Peter Hook, dall'infanzia fino al presente (è una sorta di rincorsa, la sua, per fare in tempo a raggiungere il presente, e raccontarlo), ma la storia di Barrie, la sua vita, ciò che di lui non può essere raccontato in una biografia attraverso dati certi ma che può essere indovinato, il suo attaccamento all'infanzia ed ai bambini LLewellyn Davies, alla nascita di Peter Pan ed al ruolo sempre più preminente che avrà nella sua vita, fino ad oscurarlo e a sbattergli in faccia quelle questioni dalle quali Barrie stesso fuggiva. Una vita passata a fuggire. Trascorsa a crearsi alibi sufficienti per fuggire in santa pace, sotto gli occhi di tutti. Con gli applausi di tutti. E fino ad un certo punto il gioco funziona. Fino a quando la vita e le sue regole non vengono a presentare il conto. Ed è una carneficina. In pochi anni muoiono tutti, o quasi. La madre di Barrie, la sorella, il padre dei lost boys Llewellyn Davies, Arthur, la madre, Silvya, poi giunge la guerra e quelli che erano diventati i suoi bambini sono chiamati sotto le armi, e addio fantasia. Sembra quasi che la prima guerra mondiale sia sorta come sinistra risposta all'universo che Barrie stava creando col suo Peter Pan, per mettere un freno a quel mondo di fantasia giocosa che, come un gorgo, stava risucchiando la vita reale. E' questo il punto centrale del romanzo, il cardine, il momento cruciale in cui i marchingegni del palcoscenico s'inceppano e quella che sembrava una fuga perfetta si arresta, nel modo più brutale. Barrie invecchia, nonostante i suoi sforzi, nonostante cerchi di non pensarci, invecchia. Le sue famiglie, quelle che gli sono toccate in sorte e quelle che si è creato, vengono decimate, le persone scompaiono come dinosauri, e i bambini, quelli che erano il suo elisir di lunga vita, diventano grandi, maturano, cambiano, non vogliono più giocare, si sposano e prendono il volo, combattono in guerra, muoiono e si dimenticano di quel bambino strano, l'unico che non cresce, che rimane, solo, sullo Scoglio degli Abbandonati, a Neverland, in attesa che qualcuno vada a salvarlo, a concedergli il giusto riposo.
  Il libro - magnifico - riflette sul rapporto tra lo scrittore e la sua opera, tra l'individuo e la vita, e lo fa prendendo come territorio di studio l'esistenza speciale di un uomo ed uno scrittore specialissimo, una sorta di rock star del suo tempo rimasto schiacciato dalla fama della sua creazione. A suo modo, un eroe - o antieroe - pop, un genio assoluto a cui, come a tutti i geni, la realtà andava stretta.
  E ogni definizione o etichetta che si voglia attribuire a questo libro, potete stare certi che gli andrà stretta, perchè è qualcosa di diverso. Da cosa? Più o meno da tutto.
  Così come Fresàn non è, come recita la copertina, un Borges pop (Fresàn è Fresàn). Non ha nulla a che vedere con Borges, ma proprio nulla, a parte il fatto di essere argentino.





 Rodrigo Fresàn è un autore da noi inspiegabilmente poco conosciuto. Argentino di nascita, vive a Barcellona, dove lavora come giornalista e dove dirige la collana Roja y Negra, nella editorial Mondadori. Da noi sono stati tradotti, I giardini di Kensington (per Mondadori) e Esperanto (per Einaudi).
E' uno dei grandi autori contemporanei della narrativa sudamericana. Vale la pena di imparare lo spagnolo solo per leggerlo.

mercoledì 15 febbraio 2012

Suicidi in capo al mondo, di Leila Guerriero, Marcos y Marcos edizioni

  In Argentina, dove si svolgono i fatti narrati, ci sono due Las Heras, una si trova nella regione di Mendoza, contingua alla capitale provinciale la Gran Mendoza, ed è una città di 180.000 abitanti, l'altra - quella di cui si parla in questo libro d'inchiesta, si trova in Patagonia, che già sarebbe a dire in culo al mondo - è un piccolo centro abitato nato e cresciuto attorno ad industrie di estrazione petrolifera. Esaurito il boom, si è ritrovato svuotato dal suo interno, visitato solo da un vento sabbioso ed ininterrotto e i suoi abitanti sono rimasti inchiodati alla sensazione precisa e lancinante di essere soli ed irrilevanti, lontani da tutto e da tutti, e da tutto e tutti guardati come una razza particolare, una razza bastarda. Leila Guerriero è una giornalista, nata a Junìn e dai diciotto anni residente a Buenos Aires, dove lavora come cronista. Come tutti, non ha mai sentito parlare di Las Heras, perchè Las Heras è come se non esistesse, nè per l'Argentina nè per il mondo, fino a quando non compare una notizia sui giornali nazionali legata al piccolo centro patagonico: un'ondata di suicidi senza precendenti. Da qui comincia un'investigazione sul Grande Nulla, sul Vuoto teso ad unire le industrie di estrazione petrolifera ed il centro abitato che ospita chi in quelle industrie si abbrutisce consumandosi, giorno dopo giorno, per portare a casa il pane. Vale a dire persone che sono giunte a Las Heras da ogni dove nei periodi di massima crescita economica e che, una volta sgonfiatasi la bolla dei sogni, si ritrovano in culo al mondo appunto, sferzati dal vento, privi di sogni, di spazi, di senso della comunità o anche solo della famiglia (di una famiglia normale), abbandonati a sè stessi e con la certezza che qualunque cosa possa capitare loro, non interesserà a nessuno. Non è Ciudad Juarez, è Las Heras. All'apparenza non è il nostro personale inferno sulla terra, come Bolano definisce Ciudad Juarez, ma solo un posto dimenticato da Dio abitato da grandi lavoratori. Ma questa è solo l'immagine con cui la città si mostra al mondo, quello stesso mondo che se ne strafotte non solo dell'immagine di Las Heras quanto della città stessa e di coloro che la abitano. La protagonista, Leila Guerriero, si reca sul posto, si aggira per la cittadina spinta dal vento e, digrignando la sabbia che le invade la bocca, si sposta da una persona ad un'altra, da un sopravissuto ad un altro, da un nucleo famigliare ad un altro e con tutti parla o, per meglio dire, tutti ascolta, e ci riporta le voci che si giustappongono a comporre una sorta di  Spoon River sudamericana. Chi parla in questo caso sono i vivi, quelli che sono restati e che si dibattono tra domande che non riescono a trovare risposta, ma la sensazione è la stessa. Un paese fantasma, come la Comala del Pedro Paramo, abitata da fantasmi le cui voci diventano sussurri erosi dal vento. All'inizio ci sono giovani - perchè sono quasi tutti giovani, e giovanissimi - che si sono tolti la vita, chi sparandosi chi appendendosi ad una trave, e c'è l'incredulità, perchè nessuno all'apparenza aveva motivi per farla finita: allora le voci popolari mettono in piedi altre voci, voci che parlano di una setta, di una lista di questa setta dove sarebbero stati indicati i nomi dei suicidi e le date nelle quali avrebbero dovuto dire addio al mondo, voci che parlano degli indios morti che si aggirano per la città e reclamano nuovi morti, ma questo, appunto, è l'inizio, la mitologia che l'essere umano crea per spiegare ciò che apparentemente una spiegazione non ha. La protagonista passa di casa in casa e ascolta i racconti e i ricordi delle madri, delle sorelle, dei fratelli e degli amici dei morti (dei padri, quasi mai, non ci sono quasi mai i padri) ed è allora che dallo sfondo emerge poco alla volta un'immagine diversa, fatta di ragazze madri, ragazzine madri e, non di rado, di bambine madri, di ragazze, ragazzine e bambine violentate, di padri assenti, spesso giovani anch'essi, che prendono il volo e di loro non se ne sa più nulla, di nuovi patrigni maneschi, di violenze fisiche e psicologiche accettate e narrate quasi come se si trattasse di un destino ineluttabile e, quindi, in qualche modo giusto. Una realtà messa insieme nei bordelli, dove le donne smettono di essere tali e diventano carne in vendita, nelle case dove le donne smettono di essere tali e diventano semplicemente una proprietà privata dell'uomo, dove le figlie non è bene che studino, dove, anche se fosse accettata l'idea che una figlia femmina possa voler studiare, le distanze dalla prima università sono più simili a quelle tra due pianeti che tra due città. Una realtà dove l'alcool s'impasta con la fatica del lavoro, dove oltre all'impianto petrolifero, alla casa ed al bordello non c'è nulla, neppure una piazza dove trovarsi, dove parlarsi, dove imparare a gestire la rabbia, la differenza di idee, la gelosia, l'amore, la frustrazione. Ed è qui, poco alla volta, testimonianza dopo testimonianza, in maniera quasi sommessa, che le ipotesi della setta e degli indios morti sfumano e si fa prepotente un'altra realtà, più banale ma anche più terribile. La solitudine, la consapevolezza della solitudine non scelta ma subita, l'abbandono dei sogni, il senso di inadeguatezza mascherato da orgoglio di una diversità che pare congenita ma è geografica. Lo sgretolarsi del senso comune, dei legami famigliari, di un centro (uno specchio) nel quale potersi riconoscere. Tutto ciò, Leila Guerriero, lascia che filtri a noi poco alla volta, con un timbro elegante e perseverante, lascia che la sua voce letteraria consumi le nostre certezze, come il vento che imperversa notte e giorno a Las Heras, e ci lascia infine di fronte al grande Nulla, o al grande Vuoto, che è esattamente quello che deve fare la grande letteratura: porci in piedi ad affrontare il drago. La letteratura, diceva Bolano, è un lavoro pericoloso, è quella cosa che si pianta "nel territorio del rischio". In questo senso Suicidi in capo al mondo non è solo non-fiction-novel nella scia di Truman Capote, Thomas Wolfe, Rodolofo Walsh o Sergio Saviane, ma vera letteratura giornalistica, letteratura a tutto tondo.

Uscito nel 2007, è ancora prenotabile su IBS.

 Leila Guerriero nasce a Junín, in provincia di Buenos Aires, nel febbraio 1967. A diciotto anni si trasferisce a Buenos Aires, dove si laurea in Scienze del territorio coltivando in parallelo studi letterari e filosofici. Nel 1991 esordisce come giornalista scrivendo per il quotidiano argentino «Pagina/12».
Si dedica alla ricerca sul campo, appassionandosi al giornalismo di inchiesta e approfondimento.
Nel 1996 entra in pianta stabile nella “Revista” del quotidiano «La Nación» e pubblica con Alfaguara la biografia della regista argentina María Luisa Bemberg per l’antologia Mujeres argentinas.
Dal 2000 si moltiplicano le collaborazioni con giornali e riviste di vari paesi dell’America Latina e con «El País» spagnolo. Con Suicidi in capo al mondo, il suo primo libro, è entrata nelle classifiche dei best seller in America Latina. Los suicidas del fin del mundo lo pubblica nel 2005, e nel 2009 pubblica Frutos Extranos, non tradotto in Italia.

  Qui potete trovare la pagina di MarcosYMarcos in cui è postato questa recensione

martedì 31 gennaio 2012

I dispiaceri del vero poliziotto, Roberto Bolano, Adelphi editore

  Non sono d'accordo, non è un romanzo dannato (nè tantomeno indiavolato, a seconda delle traduzioni che sono state fatte. La traduzione corretta comunque è indemoniato) e il lettore non è il poliziotto affranto del titolo. Dev'essere destino che non sia mai d'accordo con le affermazioni di Bolano circa le sue opere, così come non lo ero quando deprecava Il Terzo Reich  ("una vera merda"), a mio parere un libro magnifico. Ho atteso allo spasimo questo libro che - ci tengo a precisare, perchè in altri blog ho letto che è l'ultimo titolo di Bolano che ci aspetta - non sarà l'ultimo inedito, in quanto deve ancora essere tradotta in Italia la raccolta di racconti El secreto del Mal e quella di poesie La universidad desconocida, l'ho cercato disperatamente in lingua originale per poterlo leggere quanto prima, ma devo essere sincero, sono rimasto deluso. Non tanto - non mi capita mai con Bolano - ma un po' deluso si. Abbastanza. In questo I dispiaceri del vero poliziotto ritroviamo Amalfitano e sua figlia Rosa, scopriamo qualcosa di lui, della sua vita a Barcellona, del suo lavoro  di professore universitario (dei suoi colleghi e, soprattutto, dei suoi studenti) e della sua "fuga" dalla città catalana per evitare una cacciata con ignominia causa le sue spericolate e un po' disperate (o forse no) frequentazioni sessuali. Lo vediamo giungere come un esiliato a Santa Teresa, che sulle prime non prelude nulla di quello che è realmente - un anticamera, o forse il salotto o la camera da letto, o il balcone stesso dell'inferno -, solo una città al confine del mondo, al sud di nessun nord come direbbe Bukowski. Lo spiamo prendere le misure al luogo, alla gente, all'università, alle sue nuove frequentazioini sessuali, lo seguiamo aggirarsi per i vicoli vecchi di Santa Teresa (pagine veramente notevoli, soprattutto in lingua originale, capaci di scavare nella povertà, nell'immediatezza, nei chiaroscuri e nella precarietà di quei vicoli che sono e non sono i vicoli di Genova, di Napoli, di Barcellona, di Lima, di Calcutta, di Rio) e leggiamo la sua corrispondenza lievemente straziata e sempre sporcata da uno scarto di tempo o di senso di troppo, col poeta Padilla, suo amante catalano e prima causa del licenziamento forzato dall'Università di Barcellona.
La scrittura è sempre di un livello elevatissimo e certe descrizioni di luoghi o di momenti estremamente azzeccate, ma la storia s'interrompe mentre ci chiediamo cosa succederà e, al contempo, cosa già sta succedendo. Non lo sapremo mai. La seconda parte è terribile: una serie di riassunti dei romanzi di Arcimboldi, un elenco di nemici di Arcimboldi, appunti da lezioni, questionari ed elencazioni varie. Poi, finalmente, si giunge alla terza parte, Assassini de Sonora, e finalmente la storia torna a scorrere, o forse comincia a scorrere realmente per la prima volta, anche se il balzo temporale è al revés, indietro nel tempo. E seguiamo le avventure di Pancho Monje e Pedro Negrete, storie che s'intrecciano tra loro e con quella di Amalfitano, cominciamo a vedere (o forse ad indovinare) i primi sviluppi, il contorcersi delle storie e dei personaggi su loro stessi, sulle proprie ossessioni e sui propri destini più o meno sfacciati, maledetti, e casuali. Spacciati. Poi finisce. Il fatto che termini senza una fine non è una colpa dell'autore e non è neppure il limite del libro, magari può essere letto come un marchio di fabbrica. La questione è che è squilibrato nel complesso. La parte centrale (io vi ho visto un divisione tripartita, ma i capitoli sono cinque), quella su Arcimboldi, è sicuramente figlia dell'amore dell'autore per le avanguardie e dello sperimentalismo, ma è pure terribilmente pesante e sproporzionata rispetto al resto dell'intreccio ed alla lunghezza stessa del libro. Mi spiego. Si ha la sensazione che se l'autore avesse potuto lavorarci sopra e licenziare il testo terminato, la parte arcimboldiana sarebbe stata della lunghezza e del peso corretto rispetto ad un libro più ampio, di un respiro maggiore, con un intreccio magari non terminato ma lasciato a sospendere nel vuoto ad uno stadio più avanzato, più complesso. Voglio dire che il fatto che sia un libro non terminato lo si sente non tanto dal finale quanto dal complesso della storia e dalla sproporzione delle sue parti.
  Per questo non lo considero tra le opere maggiori nè tra le migliori di Bolano, anche se rimane il fatto che la stragrande maggioranza degli scrittori viventi (e morenti, morti e moribondi) darebbe il braccio sinistro (i mancini) e alcuni quello destro pur di saper scrivere come lui.
  Penso che, comunque, sia un libro adatto a quanti già stimano Bolano, a chi già lo conosce e lo ama, anche perchè potrà scorgervi qua e là sviluppi e personaggi magari solo abbozzati ma già conosciuti in 2666 - questo sì un capolavoro, il capolavoro di Bolano -, in Stella distante, Chiamate telefoniche e I detective selvaggi; chi dovesse cominciare con questo libro ad accostarsi al mondo assoluto e dissoluto, e caotico, dell'autore cileno, temo che avrebbe difficoltà a trovare gli stimoli per affrontare il resto della sua opera. E sarebbe il peccato più grande.

  Aspetto la traduzione de Il segreto del male. Alcuni racconti sono al livello dei suoi migliori e la raccolta in sé è di sicuro valore.

 Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare qui. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.

sabato 28 gennaio 2012

I malcontenti, di Paolo Nori; Einaudi editore

Quando ho avuto tra le mani questo libro di Paolo Nori, un paio di giorni fa, mi sono detto che l'avrei recensito quanto prima, e mi era sembrata una bella idea, nuova, come se fosse il primo libro di Nori che leggevo, poi mi sono domandato perchè mai non ne avessi recensito uno suo prima, dal momento che li ho letti (quasi) tutti.
Non ho una risposta. Solo, mi sono ricordato di come sono incappato la prima volta in un suo libro, Mi compro una gilera. Mi era piaciuto il titolo e la copertina, la foto in copertina, che era quella di sua figlia, personaggio che torna spesso nei suoi libri nei panni de l'Irma. Poi da lì in avanti non mi sono più fermato. Mi sono chiesto il perchè. Non lo so. Non so neppure perchè mi è piaciuto questo libro, I malconenti. Vedo di spiegarmi. Se lo leggi per la prima volta, Nori (qualsiasi cosa di Nori), le prime righe ti domandi se questo è scemo o cosa, se ti sta prendendo per il culo o cosa, perchè lo stile è incredibilmente discorsivo, ma non nel senso che fila via liscio, non solo in questo senso, quanto piuttosto perchè è un parlato che nessuno aveva osato proporre in testi letterari, con frasi smozzicate, interruzioni, salti logici, errori sintattici e via discorrendo. Provate a registrarvi quando parlate e poi sbobinate il tutto su carta e potrete rendervi conto di ciò che intendo. Ovviamente poi capisci che quel caos di stampo prettamente orale è stato usato dall'autore in maniera programmatica, in realtà creando un finto caos che dopo un po' (poco per la verità) crea un ritmo tutto suo e ti entra sottopelle. Da quel punto in avanti non hai modo di mollare il testo. Immagino per via del fatto che è un po' come avere l'autore, Nori Paolo, che è lì con te nella stanza e ti parla, ti racconta le sue cose, ti racconta com'è stato quando ha pubblicato il suo primo libro, come sono i suoi amici, com'è la vita a Parma o a Bologna, cosa ha detto o fatto l'Irma, com'è stato trascorrere diverso tempo in un reparto grandi ustionati, in ospedale. Immagino che ci sia chi lo ama follemente e chi lo odia visceralmente: io mi iscrivo al primo gruppo. Un'altra caretteristica sono le trame, che non ci sono, quasi, o quantomeno sono così semplici - fragili verrebbe da dire - che vengono quasi nascoste dai personaggi che popolano il suo universo, personaggi caserecci che, se non sono strambi di propria natura, vengono comunque descritti dall'autore da un punto di vista obliquo, dove le stranezze balzano subito all'occhio e si pongono immediatamente all'attenzione dell'autore e quindi del lettore. E un po' tutto il mondo che Nori descrive nella sua produzione è caratterizzato da questa dicotomia, da un lato è incredibilmente routinario, è esattamente il mondo che conosciamo tutti noi ogni giorno, il panettiere, la mamma, l'amico, il gatto, il datore di lavoro, il fratello, l'amica, il tizio in autobus, il collega, il proprietario del pub, dall'altro è sempre visto e raccontato con uno sguardo puro, un po' singolare, come se il mondo il protagonista lo vedesse per la prima volta, come se tutto quanto fosse visto con gli occhi di una bambina di quattro anni, l'Irma, anche quando in realtà non è l'Irma a parlare. Addirittura anche nei libri in cui l'Irma non era ancora venuta al mondo il protagonista (di solito Learco Ferrari) vive e si nutre di quello sguardo. Il risultato è straniante: ironico, comico a volte, spiazzante e, in certi casi, anche un filo malinconico. Come in questo caso, ne I malcontenti. E' la storia di una coppia (in un'età che fa si che oggi venga definita giovane coppia) che si lascia. Noi la seguiamo nelle sue vicissitudini un po' giornaliere un po' assurde, dal piano di sotto, dall'alloggio di sotto, dove vive il protagonista, che li conosce in quanto nuovi inquilini, entra in contatto con loro in qualità di vicino di casa e, poco alla volta, diventa amico, confidente, collaboratore suo malgrado in progetti assurdi, fino a quando, semplicemente, senza nessun rumore, si lasciano, senza scene madri indiavolate, piatti che volano, recriminazioni, porte che sbattono e via discorrendo. Questa è la storia. La posso riassumere perchè non è un mistero la storia in sè, non è un giallo il cui finale dev'essere preservato, quello che importa è altro, come quasi sempre nei libri e nella vita. E' lo stesso Nori che spiega che questo libro gli porta alla memoria un film di Lubitsch in cui la trama (un uomo innamorato di una donna scomparsa, a cena con un amico, si rende conto che la donna che ama è la moglie dell'amico) viene riportata dai commenti che giungono dalla cucina: dal cuoco, dal cameriere e dal maggiordomo. Penso che questo libro sia esattamente la cucina del film di Lubitsch.
  Qui cambiano i nomi, l'Irma è Una bambina di quattro anni, Paolo Nori-Learco Ferrari è Bernardo (anche detto Bernardo Provenzano) e le città in cui si muovono i protagonisti hanno nomi tedeschi, e non solo le città. C'è Francesco, che l'hanno rovinato gli psichiatri (da non perdere, per motivi differenti e opposti, la sua autobiografia registrata e le interviste a cui lo sottoponeva il protagonista)
  La giovane coppia è composta da Nina e Giovanni. Poi c'è Quello delle scarpe.
  E scoprirete che cos'è (cos'è stato e cosa invece doveva essere) il Festival dei Malcontenti.

Paolo Nori è nato a Parma nel 1963. Ha pubblicato:

 La meravigliosa utilità del filo a piombo (2011), I malcontenti (2010), A Bologna le bici erano come i cani (Ciclopolis) (2010), Le cose non sono le cose (2009), L'accalappiacani. Settemestrale di letteratura comparata al nulla: 4 (2009), Pancetta (Universale economica) (2008), Mi compro una Gilera (I narratori) (2008), Baltica 9. Guida ai misteri d'oriente (Contromano) (2008), I libri devono essere magri (2008), Pubblici discorsi (Compagnia Extra) (2008), Siam poi gente delicata. Bologna Parma, novanta chilometri (Contromano) (2007), Tre discorsi in anticipo e uno in ritardo. Su Calatrava, su Cechov, sulle scimmie, sulla canzone popolare (Narrativa) (2007), La vergogna delle scarpe nuove (Narratori italiani) (2007), Noi la farem vendetta (I narratori) (2007), Le cose non sono le cose (Fernandel) (2006), Storia della Russia e dell'Italia (LDM. Libri di merda) (2006), I quattro cani di Pavlov (2006), Ente nazionale della cinematografia popolare (I narratori) (2005), Pancetta (I narratori) (2004), Learco. In un'ora, nove romanzi in musica con Learco Ferrari, in un'ora. Con CD Audio (Plurale immaginario) (2004), Gli scarti (Super universale economica) (2003), Si chiama Francesca, questo romanzo (Einaudi. Stile libero) (2002), Grandi ustionati (Einaudi. Stile libero) (2001), Diavoli (Einaudi. Stile libero) (2001), Spinoza (Einaudi. Stile libero) (2000), Bassotuba non c'è (Vox) (2000), Bassotuba non c'è (Einaudi. Stile libero) (2000)

sabato 21 gennaio 2012

Godzilla en Mexico, poesia di Rodrigo Fresàn, in Mantra, editoriàl Mondadori

Atiende esto, hijo mio: las bombas caìan
sobre Ciudad de México
pero nadie se daba cuenta.
El aire llevò el veneno a través
de las calles y ventanas abiertas.
Tù acababas de comer y veìas en la tele
los dibujos animados.
Yo leìa en la habitaciòn de al lado
cuando supe que ìbamos a morir.
Pese el mareo y las nàuseas me arrastré
hasta el comedor y te encontré en el suelo.
Nos abrazamos. Me preguntaste qué pasaba
y yo no te dije que estàbamos en el programa de la muerte
sino que ìbamos a iniciar un viaje,
uno màs, juntos, y que no tuvieras miedo.
Al marcharse, la muerte ni siquiera
nos cerrò los ojos.
Qué somos? Me preguntaste una semana o un
ano después,
hormigas, abejas, cifras equivocadas
en la gran sopa podrida del azar?
Somos seres humanos, hijo mìo, casi pàjaros,
hèroes pùblicos y secretos.

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Ascolta questo, figlio mio: le bombe cadevano
su Città del Messico
ma nessuno ci faceva caso.
L'aria portò il veleno attraverso
le vie e le finestre aperte.
Tu finivi di mangiare e guardavi i cartoni animati
alla televisione.
Io leggevo nella stanza accanto
quando seppi che saremmo morti.
Nonostante il capogiro e le nausee mi trascinai
fino alla sala da pranzo e ti trovai sul pavimento.
Ci siamo abbracciati. Mi domandasti cosa stava succendendo
e io non ti dissi che ci trovavamo nel programma della morte
ma che stavamo per iniziare un viaggio,
uno in più, assieme, e che non avessi paura.
Partendo, la morte neppure
ci chiuse gli occhi.
Chi siamo? mi domandasti una settimana o un
anno dopo,
formiche, api, somme sbagliate
nella gran zuppa marcia del caso?
Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli,
eroi pubblici e segreti.

La poesia qui tradotta ha come titolo Godzilla en Mexico, e fa parte del libro Mantra, di Rodrigo Fresàn, un autore da noi inspiegabilmente poco conosciuto. Argentino di nascita, vive a Barcellona, dove lavora come giornalista e dove dirige la collana Roja y Negra, nella editorial Mondadori. Da noi sono stati tradotti, I giardini di Kensington (per Mondadori) e Esperanto (per Einaudi).
E' uno dei grandi autori contemporanei della narrativa sudamericana. Vale la pena di imparare lo spagnolo solo per leggerlo.
... In speranzosa attesa che qualche editore lungimirante si decida a tradurre tutta la sua opera (Mantra è comunque imprescindibile). 



domenica 18 dicembre 2011

L'occhio dello zar, di Sam Eastland, il Saggiatore edizioni

Con questo romanzo, estremamente ben documentato da un punto di vista storico, ci è dato sbirciare dall'interno cosa sia stata la rivoluzione bolscevica in Russia. Non uno sguardo partecipato e sanguigno, la condanna per le atrocità commesse o l'euforia per un'utopia messa in piedi nel mondo reale non si percepiscono, se non eventualmente come sfondo, quasi si trattasse di sussurri lontani, ma in realtà lasciano sempre il dubbio che si tratti più di opinioni del lettore che non di indicazioni lasciate a bella posta dall'autore. E forse è così. Ci troviamo più che altro di fronte allo sguardo di uno storico che, introiettata la freddezza dei paesaggi siberiani, ci descrive passo passo cos'è avvenuto sul palcoscenico della storia e, soprattutto, cosa è avvenuto dietro i pesanti tendaggi che spesso celano le infinite storie che compongono la Storia. Uno storico, uno scienziato sotto acido, verrebbe da dire riferendosi a Sam Eastland, l'autore di questo perfetto giallo storico, se non fosse che verrebbe da pensare ad una sorta di Irvine Welsh: niente di più lontano. Sam Eastland compone un romanzo convenzionale nella forma, avvalendosi di una scrittura impeccabile ma sostanzialmente piatta, in tutto e per tutto al servizio della storia che racconta. La stessa scansione dei capitoli che rimbalzano tra passato e presente è quanto di più banale ci si può aspettare da un meccanismo narrativo. La definizione di storico (o scienziato) sotto acido va riferita al complesso del libro. La ricerca storica è inappuntabile e viene fatta attanagliare al plot narrativo come un abito che gli calza dannatamente bene. Ci lasciamo trascinare da una detecion story e nel contempo ci muoviamo all'interno dei corridoi enormi della Grande Storia. Attenzione, per quei corridoi così austeri ci permettiamo di addentrarci con leggerezza, senza la pesante consapevolezza che il luogo richiederebbe. Spero di aver reso l'idea.
Pekkala, dunque. Il protagonista di questa storia ha un nome improbabile, Pekkala appunto, almeno alle orecchie di un non finlandese, perchè è proprio dalla Finlandia che questi arriva, quando ancora la Finlandia era territorio della Grande Madre Russia. Viene mandato dal padre - che lo aveva destinato secondo i suoi progetti a proseguire la sinistra attività di famiglia, un'impresa di pompe funebri - a Pietrogrado, per entrare a far parte della Legione Finlandese dello Zar, il più alto onore che un padre (finlandese) potesse sperare per il proprio figlio (finlandese). Qui Pekkala viene preso a ben volere dallo Zar Nicola II, che per lui inventa una carica mai esistita prima e che lo pone, nei suoi doveri di responsabile della sicurezza dello zar, al di sopra dello zar stesso. Presto dimostra le sue capacità investigative al limite del paranormale, prima tra tutte la sua prodigiosa memoria, e diviene famoso nella cerchia dello corte e agli occhi del popolo come l'Occhio di smeraldo. Detta così suona un po' come una stronzata, del tipo All'inseguimento della pietra verde, ma nel romanzo giuro che funziona. Comunque, il soprannome in effetti non è il punto del forte del libro, siamo d'accordo. Via, riprendiamo: con lo scatenarsi della Rivoluzione d'Ottobre, Pekkala viene incarcerato ed interrogato dal nuovo sistema di potere, i Rossi, e spedito in Siberia a spezzarsi la schiena aspettando di essere liberato dalla morte. Invece, anni dopo, il presente storico del libro, a richiamarlo alla vita libera un giovane ufficiale dell'esercito sovietico, Kirov, un cuoco... anzi, uno chef strappato alla cucina dalle improrogabili necessità della rivoluzione. Il compagno Stalin in persona gli promette la libertà se metterà le sue doti di investigatore al servizio del popolo e del Soviet per scoprire se, effettivamente, i Romanov (vale a dire i suoi vecchi datori di lavoro) siano stati effettivamente uccisi, e dove siano stati seppelliti. Da qui in poi si sviluppa una trama interessante, storicamente credibile, ben scritta, con stile asciutto e preciso, una storia solida, appassionante e ricca sia di colpi di scena che di paesaggi ed atmosfere nelle quali non siamo abitutati a muoverci, neppure con la fantasia e che però fanno parte dell'inconscio collettivo. Quella zona dell'inconscio collettivo che ne è la periferia: lande fredde e messe un po' al bando dal baluginìo delle fantasie moderne, tutte improntate a serial killer americani, metropoli, complotti mondiali e bellone ipersexy sempre sull'orlo dell'orgasmo. Per questo, per la sua natura periferica, questa parte di inconscio collettivo riveste un fascino assolutamente speciale. Uomini venuti dal freddo, paesaggi lunari, città coperte di neve e ghiaccio, villaggi dimenticati da Dio e coperti dal fango e dalla fame, uniformi severe di imperi scomparsi e simboli che, dal presente del romanzo, assugeranno in fretta agli onori della cronaca mondiale. Falci, martelli, finti villaggi perfetti per ingannare l'occhio di chi guarda. Donne che aspettano il proprio uomo, o forse no.
Potrebbe essere un romanzo ottocentesco, o un saggio storico, e invece è un perfetto giallo che si fa divorare dal lettore. E Pekkala, protagonista algido e appassionante al contempo, non ci resta che seguirlo nella seconda puntata pubblicata in Italia sempre da Il Saggiatore: Bara rossa.

  La cosa migliore che si può dire di Sam Eastland, è che è uno pseudonimo. Dovrebbe essere un autore inglese che vive negli Stati Uniti, questo è quanto si sa di lui. Non ho trovato foto sue, e quindi qui accanto, nell'ovvia impossibilità di postare una foto di Pekkala, ho scelto di mostrare una foto dello zar Nicola II e della sua famiglia.
  Mi stupisco che non sia ancora stato tratto un film da questo libro.

domenica 27 novembre 2011

I falsificatori / Gli illuminati, di Antoine Bello, Fazi editore

  Il romanzo incomincia con tale Gunnar Eriksson che assume tale Sliv Dartunghuver nella società di studi ambientali che dirige, a Reykjavìk. La società, è solo una copertura. I due personaggi ce li porteremo avanti per mille pagine, fino ad ora almeno, ignoro se sia previsto un terzo libro per poter assurgere al grado di trilogia, ma potrebbe benissimo essere. Ora, due personaggi maschili, e uno femminile, Lena Thorsen, di una bellezza algida e calcolatrice, in nord europa, a Reykjavìk. Non è un giallo nordico, per fortuna. E non è un noir nordico, sempre per fortuna. Apro una parentesi, quando parlo di romanzo mi riferisco ad entrambi i libri, vale a dire I falsificatori e Gli illuminati, perchè in realtà è esattamente ciò che sono, parti diverse di uno stesso romanzo, pubblicati in momenti diversi per ovvie ragioni commerciali. Sliv verrà convocato da Eriksson che gli proprorrà di entrare a far parte de CFR, vale a dire del Consorzio di Falsificazione della Realtà. Da qui in avanti incomincia la storia vera e propria, che in realtà non è importante, come quasi mai lo sono le storie in sè: ci saranno personaggi che si aggiungono, coppie che si formano, momenti di tensione, tentativi di comprendere sè stessi, pericoli veri o presunti per la propria o altrui incolumità e via discorrendo. Vale a dire ciò che ci si aspetta da un romanzo che possa avvincerci. C'è tutto. Tutto quanto diluito in mille pagine. La vita non come la conosciamo ma come vorremmo che fosse: interessante, avventurosa, sorprendente. Ciò che non è la nostra: noiosa, piatta, banale. Ma non è questo il centro pulsante della narrazione. Il punto di fuoco del romanzo è la capacità di mettere seriamente in dubbio il nostro modo di vedere il mondo. Se la cagnetta Layka non fosse mai stata spedita in orbita? Se Cristoforo Colombo non fosse lo scopritore del continente americano? Se. Se. Fino a qui, non ci troviamo di fronte ad una rivoluzione copernicana, in fondo internet è pieno di teorie del complotto o revisioniste. Esiste, in questo romanzo, un ulteriore slittamento di senso: se invece il complotto fosse stato applicato non a posteriori per mettere in dubbio una verità acclarata, bensì giorno per giorno per crearne di nuove che diverranno esse stesse verità ufficiali? Se il ritocco della realtà servisse a far emergere la verità di un avvenimento, altrimenti soffocato dalle varie cortine fumogene delle innumerevoli ragioni di stato (politiche, religiose, economiche e geopolitiche)? Chi è dunque che dà il senso con cui interpretare la realtà, e perchè? Quali sono i fini del CFR?  Che cos'è il CFR? Una multinazionale segreta della contraffazione, potrei definirla così, e credo che non sbaglierei di molto, sempre volendo ammettere di aver sbagliato. Sliv è uno scenarista, il migliore della sua generazione. Sceglie un argomento, decide come cambiarlo, individua i punti nodali sui quali è possibile ammorsare la nuova storia, e la cuce su misura. Gli scenari possono essere di piccola, media o enorme portata, e avere risvolti minimi o epocali. L'importante - l'essenziale direi - è che lo scenario sia perfetto, che non abbia punti deboli. Inattaccabile. Poi, al lavoro dello scenarista si somma quello del falsificatore. Lena Thorsen è una falsificatrice, la migliore della sua generazione. Il falsificatore studia lo scenario e verifica tutti i punti che necessitano di pezze d'appoggio reali. Inserisce falsi documenti negli archivi, procura testi inesistenti di bibliografie inesistenti. Redige certificati di nascita e morte. Modifica le dichiarazioni di personaggi storici creando falsi articoli di giornali, e via discorrendo. Gli scenaristi mettono insieme la storia, e quindi modificano il senso e la direzione della realtà, i falsficatori forniscono pezze d'appoggio affinchè la storia si trasformi in realtà. Il CFR ha antenne sparse per il mondo, le antenne sono le sedi, ogni sede ha una sua funzione specifica. Un'immensità di uomini e donne che hanno lavori di copertura ma che in realtà tramano per dare un senso alla vita. Quale senso, però? Sliv e Lena si scontreranno e si perderanno lungo tutto l'arco del romanzo (dei due libri, delle mille pagine), si attrarranno e si respingeranno, facendosi male e forse provocandone. Metteranno in piedi scenari e li renderanno reali. Sliv si costuirà una rete di poche ma salde amicizie, ma sempre, in fondo, rimarrà aleggiante la domanda di fondo. Qual'è la vera ragione d'esistere del CFR? La sua ragione sociale, diciamo. Il suo obiettivo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole fare del mondo? La risposta a questa domanda è il vero motore che regge e permette al romanzo di evolversi e di crescere per accumulazione. e quando finalmente ne saremmo messi a conoscenza, noi e Sliv, una vertigine ci riporterà alla domanda primigenia dello stare al mondo. Perchè? Perchè la guerra in Iraq? Il CFR vuole la guerra in Iraq, o la vuole ostacolare? Ha creato scientemente delle false prove per avallarla o qualcuno dal suo interno ha tradito? Il CFR è bene o è male?
  E' difficile definirlo, questo romanzo, perchè non è un giallo, non è una spy story, non è un romanzo main stream, forse (e sottolineo forse) lo si può considerare un romanzo di formazione. Potrebbe essere un romanzo filosofico, ma ha una struttura troppo commerciale per esserlo realmente, e una scrittura scorrevole ma piatta, priva di slanci. Però rimane imprescendibile ugualmente, al giorno d'oggi. E' una riflessione che unisce diversi generi su cosa sia la realtà e su cosa stia dietro di essa, sul significato che hanno le nostre vite e su quello che noi stessi decidiamo di porvi. La verità, intendo il concetto stesso di verità, invece viene scardinato nel breve volgere di poche pagine, e gettato alle ortiche come un qualcosa di vecchio e ormai inutilizzabile.

Antoine Bello, nato in Canada, cresciuto in Francia e ora residente negli Usa, è autore di Elogio del pezzo mancante, pubblicato in Italia da Bompiani.
  I falsificatori e Gli illuminati sono stati avvicinati alla poetica di Borges, ma non vi hanno nulla a che vedere.

lunedì 14 novembre 2011

La gamba sinistra di Joe Strummer, di Caryl Férey, e/o edizioni

  A McCash manca l'occhio destro, perso in un pub di Belfast, sfondato dal calcio di un fucile, ma questo è un avvenimento di molti anni prima, quando ancora credeva nell'Ira. Poi è finito in Francia e si è ritrovato a fare il poliziotto. Adesso, nel momento in cui facciamo la sua conoscenza, è steso su un lettino con un dottore che lo rimprovera per non aver mai pulito la sua protesi (l'occhio di vetro), e per non averla mai cambiata. McCash è scosso da dolori lancinanti che gli perforano la cavità oculare e gli strapazzano il cervello, la sua "bestia" personale. Da sotto la benda di cuoio nero gli sgorga liquido giallastro che non lascia intendere nulla di buono. McCash è stanco, rassegna le dimissioni ad un passo dalla pensione, ripensa amaramente alla moglie che lo ha abbandonato (con tutte le ragioni, tra l'altro). E' il classico tipo che, per noia o per destino, le donne le ha perdute. Come ogni noir che si rispetti sta raschiando il fondo dell'esistenza, con le unghie, quello strato putrido di sozzura che si accumula inevitabilmente col passare dei giorni, a voler vivere. Ed è ad un passo da premere il grilletto che spazzerà via ogni cosa, sozzura, esistenza e tutto il restante. Quando apre una busta. All'interno della busta c'è una lettera. La lettera lo mette al corrente di avere una figlia, Alice, una bambina speciale dice la lettera, che aggiunge che la madre della bambina, la scrivente, sta per morire di cancro, lasciando la bambina da sola nel mondo. Aggiunge dove trovarla, e lo prega di prendersene cura. Poco dopo essere giunto in incognito nel paese dove la bambina risiede presso una famiglia temporanea, McCash s'imbate nel cadavere di una bambina di poco più piccola di sua figlia, portata dal fiume, con un passamontagna rosso in testa. Caryl Férey pare sia uno dei nomi di punta del noir francese (polar), anche se qui da noi prima di questo libro è stato tradotto solamente Zulu, per la Mondadori (attualmente disponibile nella collana Piccola Biblioteca Mondadori). Ha vinto tutti i premi francesi dedicati alla letteratura noir. Eppure a me non sembra totalmente un noir, questo La gamba sinistra di Joe Strummer, anche se lo è, ma non a tutti gli effetti. Dopo il ritrovamento del cadavere della bambina ovviamente si innesca il meccanismo dell'indagine che andrà a scavare nelle miserie morali e nei vizi della provincia francese, come da copione. C'è poi anche uno spostamento di scena, in Marocco, secondo la lezione di Jean Christophe Grangé. Eppure non ha nulla del noir alla Derek Raymond, nè tantomeno di quello alla Izzo, come erroneamente rivendicato in ultima di copertina. Nonostante il protagonista sia un duro dal cuore tenero, provato (provatissimo!) dalla vita, sommerso dai rimorsi più che dai ricordi e sempre in cammino su quel terreno che divide la vita dalla non vita, nonostante dissemini la sua strada di morti senza darsi troppa pena, forse proprio perchè la distinzione tra morte e vita per lui non ha più un gran significato, nonostante la bontà umana non la s'intravveda neppure da lontano e il paesaggio sia quasi sempre scuro e piovoso, l'impressione che se ne ha è che non sia un noir. Intendo dire un noir per davvero. Il nucleo del male, non lo si sfiora mai. C'è il vizio, c'è la corruzione, c'è la violenza, ma il vero centro nero dell'esistenza pare non essere mai messo a fuoco. Alla fine, la causa della morte della bambina col passamontagna rosso e di tutte quelle che verrano in seguito a cascata si verificherà essere semplicemente grettezza, non però avulsa da un coacervo di sentimenti addirittura positivi seppur distorti.Il vizio e le perversioni di provincia (uguali identiche ai vizi ed alle perversioni delle metropoli), non sono altro che un'occasione, e non hanno nulla della grandezza del male, sono solo passatempi che aiutano a rimanere vivi, a vincere la noia, ad intessere relazioni di potere o ricattatorie. Il male vero, sarebbe a dire il mare di morti che ne consegue, compreso quella della bambina, è una sorta di danno collaterale non voluto e non previsto da nessuno dei protagonisti. Eppure questo libro è una lettura piacevole (e anche in questo non è un noir che, per sua stessa natura, è disturbante), scritto non in maniera eccelsa ma certamente trascinante, con un'ottima scansione delle scene ed un buon ritmo. Per dire, poi, quanto non sia noir, termina in un finale che potrebbe quasi essere una sorta di happy end.
  Un bel giallo, solido anche quando pare non esserlo, capace di trasciare il lettore nell'oscura provincia francese e nelle sue perversioni, seguendo un protagonista che è bidimnesionale al punto giusto per farci da Virgilio nel suo personale inferno.
  La sua qualità, dicevo, non si trova nella qualità della scrittura, buona ma non eccelsa, nè in altro che riesco ad indentificare, però lascia la voglia di correre a comprare Zulu, l'altro libro di Férey tradotto in italiano, quantomeno per cercare di capire dove risieda il quid che permette all'autore di immergerci nel suo mondo, anche se un po' sgangherato, e a non lasciarci andare fino all'ultima riga.







Carel Férey è nato nel 1967. Si è imposto all'attenzione del pubblico con Haka e Utu, due noir ambientati tra i Maori, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi, e con Zulu, pubblicato in Italia da Mondadori nella collana Strade Blu.