"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 27 novembre 2014

Ballata per mia madre, di Juliàn Herbert, Gran Vìa edizioni

  La cavalcata un po' svitata e un po' disperata di una vita, di una donna, di una prostituta (anche se, a suo dire, di classe) e il finale, soprattutto il finale, la bellezza che svapora, il corpo che si svuota, si secca attorno alle ossa, si lascia erodere dalla malattia e lo sguardo (che poi è scrittura) di un figlio che la segue, l'accompagna, e la odia nella stessa misura in cui la ama. Un distacco lento ed impietoso di una madre (a sua volta figlia e vittima di un Messico eccessivo e violento) dal figlio e, soprattutto, di un figlio dalla madre. Questo, è un libro raro (non so se sia unico - in un certo senso dovrebbero esserlo tutti, e non lo sono - ma sicuramente raro lo è), poetico nel suo non esserlo affatto, narrato con una scrittura (che poi è sguardo) fantastica, fantasiosa e al contempo a tal punto precisa da rivelarsi, a tratti, chirurgica. Immagino sia biografia, o fantabiografia, o qualcosa del genere, ma onestamente non me ne frega niente, non mi ci metto neppure a cercare interviste in spagnolo per capire se si tratti della storia della morte della madre dello scrittore, semplicemente perchè non è importante. Il fatto essenziale è che, quando lo si legge, ci si convince che si tratta di un racconto biografico, e questo è quanto. Se di biografia si tratta, è impietosa, non maschera, non abbellisce, non trasfigura, non romanza, dice pane al pane e vino al vino, la mamma è la mamma, ma è anche una prostituta, una donna perennemente bambina in cerca di qualcosa in giro per il paese, di città in città, o forse in fuga dalla sua stessa infanzia ( e da chissà cos'altro, un insetto che cerca di fuggire sbattendo contro le pareti di vetro del bicchiere che lo intrappola. La struttura non è quella di un'indagine, non andiamo a ritroso alla ricerca di quel nucleo centrale che è stata la madre dell'autore, non cerchiamo come rabdomanti un episodio che l'ha trasformata nella puttana che era, non è questo il libro, e non vuole esserlo. Non importa sapere il perchè, il perchè dei tanti figli e degli altrettanti padri di quei figli, non importa tornare al momento in cui la ragazza che fu decise di mettere piede in un bordello, e il perchè, il quando, il dove, il nome del bordello, le luci soffuse che proiettavano o non proiettavano luci equivoche su un pavimento coperto di cicche e gusci di noccioline. In realtà non interessa nulla di tutto questo a Herbert. Il centro del libro è l'ossessione dell'autore di dire tutto, tutto raccontare, di non lasciare nulla di non detto, di non eviscerato: i suoi matrimoni, le storie passate e quella presente, i suoi figli già nati e quello in arrivo, la sua dipendenza da cocaina, il suo essere a tutti gli effetti un figlio di puttana, di esserlo sempre stato e di averlo marchiato sulla pelle e fin nell'anima, se fosse certo al cento per cento di averne una, il suo essere scrittore, il suo essere un pessimo padre, e l'aver patito la fame, l'essere stato un pacco sballottato di città in città a seguito di sua madre e dei suoi amori, delle sue follie, e dei suoi bordelli, le sue fantasie e le sue paure, la paura di passare da essere figlio di puttana ad essere puttana lui stesso. Dire tutto, trasferire tutto su carta, renderlo evidente, vivo, vero: il suo ultimo amore, la gravidanza della sua compagna, il figlio in arrivo, l'ennesimo ("n", in questo caso, è da intendersi uguale a tre), l'ospedale e le notti trascorse seduto accanto alla madre a scrivere di sè stesso seduto, in ospedale, a scrivere accanto alla madre. La scrittura (che poi è lo sguardo), l'ossessione per la scrittura, per lo stile, l'amore per le parole che, non viene mai detto, ma si percepisce che sono la mano che l'ha salvato: salvato da una vita anonima, forse misera, salvato dalla follia latente di essere il figlio di sua madre, che forse l'hanno salvato da un tentativo di suicidio e che, ora, in presa diretta, lo salvano da uno tsunami di dolore e risentimento, di amore ed incomprensione che accompagna la morte della madre. La scrittura è quella di un poeta (ed Hebert lo è), di un alchimista che gioca coi suoi amati elementi sapendo perfettamente l'effetto che otterrà ma che, al contempo, rimane egli stesso stupefatto dalle immagini e dalle sensazioni che gli escono dagli alambicchi, quasi in maniera involontaria. Non credo si possa spiegare un libro come questo, l'editrice mi aveva avvertito che si trattava di un libro particolare e, per fortuna, aveva ragione: è un'esperienza, da leggere, dura come un cubo di ghiaccio e perfettamente elegante, estemporanea ed unica come la struttura di un fiocco di neve.
Forse, a ben pensarci, questo libro è (anche) il tentativo impietoso di una famiglia che guarda sè stessa sgretolarsi e, forse, darsi un senso.

  Spero ardentemente che Gran Vìa si premuri di pubblicare altro, ed al più presto, di Juliàn Herbert: è un autore da seguire, e da coltivare.



Juliàn Herbert è nato ad Acapulco nel 1971. Poeta, scrittore, musicista, è uno dei più poliedrici esponenti culturali del suo Paese. Ha al suo attivo diversi libri di poesie, saggi, il romanzo Un mundo infiel del 2004 e la raccolta di racconti Cocaìna (manual de usario) del 2006, di cui Granta Italia ha pubblicato nel 2013 un racconto nel numero dedicato al tema delle "Dipendenze". Ballata per mia madre ha vinto nel 2011 ilPremio Jaèn de Novela Inedita e l'anno successivo il Premio de Novela Elena Poniatowska, diventando uno dei romanzi rivelazione della recente letteratura  messicana.

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