1977-2017:
questo è l'arco temporale entro il quale si inscrive la parabola di uno dei
casi editoriali più singolari della letteratura fantastica nostrana. Le
venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria, viene pubblicato nel 1977
(il primo Gennaio) dalle Edizioni Il Formichiere. Quarant'anni dopo, quando
ormai quasi nessuno, se non pochi estimatori, conservavano il ricordo del
passaggio editoriale del libro, la casa editrice americana Norton, lo
ripubblica, riportandolo alla luce dopo un oblio lungo abbastanza da averlo
fatto dimenticare ai più. Ora, preso atto del luogo comune che certe opere fanno
giri immensi e poi ritornano, il libro torna a disposizione del suo paese
d'origine e del suo primo pubblico naturale grazie all'editore Frassinelli. Per
quelle strane circostanze che non esiteremmo a definire casualità, il libro
racconta la storia di un anonimo ricercatore/investigatore che, dieci anni dopo
i fatti, torna ad indagare sulle venti giornate che (appunto dieci anni prima)
avevano sconvolto la città di Torino con un susseguirsi di eventi assurdi ed
inspiegabili, nonché feroci e grotteschi, tutti apparentemente legati alla
nascita di una misteriosa biblioteca cittadina, per poi essere rapidamente
cancellati quasi del tutto dalla memoria collettiva.
Tutto poteva avere accesso alla Biblioteca: prodotti
gracili o innaturalmente
rigonfi... Capolavori capitati per caso... Manoscritti le
cui prime
cento pagine non rivelavano alcuna anomalia, e poi a poco
a poco
franavano verso abissi di follia senza fondo... Altri
invece concepiti
con puro spirito di cattiveria... La casistica era
infinita...Il frequentatore
tipico della Biblioteca era un individuo timido,
desideroso
di approfondire la propria solitudine e di farla
pesare al massimo sugli altri.
La Biblioteca, creata e propugnata da un esercito silenzioso
di giovani azzimati e fin troppo ordinati per non risultare oltremodo
inquietanti (un po' troppo simili a quelle falangi di ragazzi neofascisti che
in quegli anni si scontrava a Palazzo Nuovo coi coetanei di sinistra), è un
social network ante litteram: uno spazio dove viene raccolto qualsiasi scritto
il comune cittadino voglia depositarvi, rendendolo accessibile alla lettura di
chiunque sia interessato a leggerlo e, insieme allo scritto, consegnando alla
pubblica consultazione i dati anagrafici dell'autore (identità, residenza). Manoscritti
che, a poco a poco, franavano verso abissi di follia senza fondo, concepiti con
puro spirito di cattiveria. Questo, viene lasciato intendere, è il centro
focale del maelstrom nel quale la città, dieci anni prima, è stata risucchiata,
in abissi di follia, appunto, senza fondo. Ma, come spesso
avviene nel corso del romanzo, come regola tecnica, più di ciò che si dice
abbonda quanto rimane non espresso. Il non detto è quell'alito del maligno
lasciato a vibrare a mezz'aria che infesta la città e che spaventa oltremodo in
quanto lascia le cause, e i mandanti, nell'ombra, un'ombra tanto fitta da
lasciare nel dubbio che cause e mandanti esistano davvero e non siano altro che
un riverbero del buio nel buio. Non verremo a sapere chi siano i giovani
eleganti e per bene, agghindati, che hanno creato la Biblioteca, né da dove
arrivino e in quale oscuro piano si collochi l'esistenza inquietante della
Biblioteca: sappiamo solo che c'erano, e che sono stati loro. Come sia
collegata la Biblioteca all'epidemia di insonnia che, in quelle terribili venti
giornate (in quelle sulfuree e deliranti venti notti), aveva portato
decine di cittadini in giro per le strade notturne in stato catatonico come
squadre di zombie idioti scollegati tra loro, anche questo rimane avvolto da
una nebbia che, pur non facendo parte del panorama cittadino torinese, è parte
integrante del racconto. Ogni cosa, la narrazione stessa, stilisticamente
sobria e controllata, è intrisa di nebbia che più che nascondere, confonde. Lo
sforzo del narratore e protagonista di riportare ordine nella memoria sbiadita
degli eventi di dieci anni prima viene reso vano dalla nebbia nella quale lo
avviluppano le testimonianze che di poco alla volta raccoglie. Urla inumane che
squarciano la notte, esseri enormi, statuari, che usano gli esseri umani come
clave in un gioco violento apparentemente senza senso, gruppi di insonni che
vagano per la città che, sovranamente, rimane spettatrice della follia nella
quale è scivolata, quasi che quella follia, pur latente, fosse parte integrante
dell'urbe e del suo tessuto sociale, una zona atavica e primitiva attentamente
occultata allo sguardo dall'immagine di città industriale, città laboratorio,
città operaia. Ma quell'ondata improvvisa di "Male" - ondata che si
sviluppa, s'inalbera in un picco violento e poi repentinamente scema - è
qualcosa di incomprensibile, forse di parallelo alla realtà stessa, ed è per
questo che la razionalità con la quale il protagonista cerca di indagare si
incaglia ben presto in quella nebbia di cui sopra, che è un sostanziale sonno
della mente. Sono forze "altre" che si sono svegliate, hanno fatto il
diavolo a quattro, e poi sono tornate da dove sono venute. Ma: da dove sono
venute? Chi o cosa le risvegliate? Qual'era la logica della loro azione?
A ben vedere, non sappiamo niente. Il non detto,
appunto, che la fa da padrone, che lascia senza punti di riferimento,
interdetti, spaesati e spaventati. Non ci sono risposte. Ci sono fatti, eventi,
tanto surreali quanto brutali, che si scatenano, che svaniscono, che tutti
cercano di dimenticare e che il protagonista cercherà di comprendere per poi,
infine, come tutti, rifuggirne, in cerca di salvezza, di razionalità, di sanità
mentale.
La parabola editoriale del libro e quella umana del
suo autore (un genio a suo modo capace di una notevole dote di anticipazione
sui tempi ma spesso preda di stati psicotici alimentati dall’alcol e dal
ricorso smodato all’Halcion) è illustrata dall'ebook di Giovanni
Arduino, Il diavolo è nei dettagli,
che potete scaricare Qui. Vi si racconta la storia delle ricerche svolte da
Arduino dal momento in cui riceve l'incarico di scrivere un libro sulla vicenda
de Le venti giornate di Torino, la sua ricerca di testimonianze di amici e
parenti di De Maria e, soprattutto, la fitta rete di coincidenze (conoscenze,
frequentazioni di posti e persone e via discorrendo) all'interno della quale si
rende conto di essersi trovato fin dall'inizio, da quei lontani anni settanta
nei quali l'idea del romanzo prende vita nella mente del suo autore, quasi come
un monumento al centro della sua piazza.
<<Mio padre è morto mezzo barbone, tutto matto,
alcolizzato, e distrutto dall'Halciòn >>,
mi spiazza Corallina con un'espressione serena.
Il libro, ben accolto negli Stati Uniti, elogiato da Jeff
Vandermeer (l'autore della trilogia dell'Area X), è una scoperta tout court anche da
noi, e non delude il lettore; attraversato da un'inquietudine sottile e
vibratile, riesce in poche pagine a scivolare velocemente e con passo cadenzato
ma mai lento in uno stato paranoide nel quale ogni avvenimento diviene
credibile proprio in quanto non lo è. La parentesi delle lettere che giungono
al protagonista è addirittura delirante. La storia, che s'inscrive in quel
filone del racconto del terrore che percepisce la minaccia in una dimensione
(parallela, sovrapposta, tangenziale) altra rispetto a quella della realtà, ha
il merito di far sì che il lettore percepisca quasi fisicamente la presenza
impalpabile di tale dimensione. Nel suo genere, si tratta indubbiamente di una
gemma, un piccolo capolavoro che, alla luce anche del maledettismo nel quale ha
vissuto il suo autore, si fatica a comprendere come sia stato possibile che
abbia dovuto attendere quarant'anni per essere riconosciuto come tale. Questo,
forse, è il mistero reale de Le venti giornate di Torino.
Giorgio De Maria è nato nel 1924 a Torino.
È stato critico teatrale per “L’Unità” torinese dal 1958 al 1965. Nel 1958 ha
fatto parte con Liberovici, Straniero, Calvino, Fortini e Amodei del gruppo
“Cantacronache” per il rinnovamento della canzone italiana. Ha pubblicato, tra
l’altro, Le canzoni della cattiva
coscienza (1964, in collaborazione con Eco, Straniero,
Liberovici e Jona); i romanzi I
trasgressionisti (1968), I dorsi dei bufali (1973), La morte segreta di Josif Giugasvili
(1976). Le venti giornate di Torino fu
pubblicato nel 1977. Dopo una vita di genio e sregolatezza, di anni di concerti
per piano interrotti da una bizzarra malattia alle mani, di impieghi
dirigenziali prima alla FIAT e poi alla RAI, di amicizie importanti (Umberto
Eco, Italo Calvino, Elémire Zolla), di critica teatrale, di scrittura a ritmi
serrati, d’insegnamento in istituti di periferia, di anticlericalismo spinto
all’eccesso e poi rimpiazzato dal fanatismo religioso, di stati psicotici
alimentati dall’alcol e dal ricorso smodato all’Halcion, Giorgio De Maria ed è
morto nel 2009 (*)
La foto di Giorgio De Maria qui sopra è tratta dalla pagina
facebook della figlia Corallina.
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