"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 5 gennaio 2018

Le cose che abbiamo perso nel fuoco, di Mariana Enriquez, Marsilio editore, trad. di Fabio Cremonesi

  Dopo essere stata portata in Italia da Caravan Edizioni (Quando parlavamo con i morti e Qualcuno cammina sulla tua tomba) Mariana Enriquez approda ad una major e giunge alle librerie italiane con questo gioiello pubblicato da Marsilio. Il racconto che dà il titolo alla raccolta era già stato pubblicato da Caravan in Quando parlavamo con i morti, all'epoca con la traduzione di Simona Cossentino e Serena Magi, mentre in questo libro tutte le traduzioni sono di Fabio Cremonesi. Gli altri racconti sono tutti inediti in Italia.
  Dicevamo, un gioiello. Il territorio nel quale si muove la Enriquez, com'è facile intuire dai titoli dei libri sopracitati, è quello della paura, una landa che oscilla tra orrore e terrore senza sostanzialmente mai sconfinare totalmente in nessuno dei due campi. E qui, nel suo essersi ricavata una spazio riconoscibile e assolutamente personale, sia nelle tematiche che nello stile, troviamo il valore assoluto di questa raccolta. Buenos Aires, i suoi sobborghi (come nella borgata dello splendido Sotto l'acqua nera), i suoi ex quartieri "bene" inglobati nella periferia che avanza (come ne Il bambino sporco, La casa di Adela) o quelli fintamente perfetti e lindi (Il cortile del vicino), sono il microcosmo che, di malavoglia, verrebbe da dire suo malgrado, trattiene l'orrore celandolo sotto una sottile coltre grigia di normalità, fino a quando la penna della Enriquez non comincia a scavare, anch'essa quasi suo malgrado, con l'apparente sciattezza con la quale si potrebbe raccontare una giornata al centro commerciale, e a portare a galla la piatta normalità di un orrore che non si comprende mai bene da dove arrivi. Lo sguardo è quello di chi cerca altro, sta pensando ad altro quando s'imbatte in una parentesi incomprensibile, in una porzione di realtà che, pur sotto gli occhi di tutti, nessuno voleva fermarsi a contemplare. Un bambino sporco, una ragazzina senza un braccio, un ragazzino che si seppellisce nella sua camera, la ragazza ustionata nella metropolitana, sono porte verso una porzione di realtà che si trova appena poco più in là dell'orizzonte ottico dell'uomo comune: basta poco, una distrazione rispetto alle rigide regole autoimposte della routine quotidiana e la realtà muta forma o, per meglio dire, si deforma, diviene inquietante, scivolosa, insicura, i parametri normali perdono valore, ciò che prima (apparentemente) era certo ora non lo è più. La vita narrata dall'autrice bonaerense è vista attraverso uno specchio deformante, ma è esattamente quella che conosciamo, piatta, insensibile: la realtà è un volto sfregiato che evita di guardarsi allo specchio e dimentica sè stesso. Buenos Aires dicevamo, è una città sorda, divisa in quartieri che sono universi a sè stanti, è come un animale enorme e sonnacchioso che non si occupa dei propri abitanti, eppure, in questi racconti, li connota allo spasimo. Prendiamo Sotto l'acqua nera: il racconto comincia agganciato alla cronaca, la polizia che sfrutta e uccide i bambini poveri delle borgate: questo è, apparentemente, l'orrore che ci verrà somministrato più o meno lentamente con l'avanzare della lettura. Non è così. Poco alla volta, senza quasi permettere al lettore di rendersene conto (e qui sta gran parte della grandezza della Enriquez, nella lievità dello sguardo, nella gradualità dei salti narrativi e dello stile) è la borgata a divenire la protagonista assoluta della narrazione, e dall'ufficio di un procuratore la scena si sposta in una periferia che ricorda da vicino le borgatacce pasoliniane, ma che in qualche maniera diviene un territorio a sè stante, una sorta di mondo a parte, una colonia selvaggia dove l'unico rappresentante del mondo civilizzato è un giovane prete che tenta di prendersi cura degli abitanti. La borgata, a questo punto, è già uno scenario lontano nello spazio e nel tempo, ha in sè le stigmate di una bolla di realtà chiusa in sè stessa, vicina alla grande città, ma da essa lontanissima. Gli echi del mondo arrivano distorti, veicolati dalle effigi del consumismo che, solo, riesce a far breccia in quell'avamposto del medioevo abbondanto a sè stesso ed ai propri istinti. Ma la borgata del racconto, è qualcosa di diverso, e di peggio, della borgata conosciuta dalla procuratrice, qualcosa è cambiato (lo accenna il poliziotto interrogato:

Magari bruciasse tutta quanta, quella borgata. O affogassero tutti. Le non ha idea di quello che succede là dentro. Non ha idea ), 

non c'è più solo povertà, violenza, inquinamento (le acque nere del Riachuelo del titolo), c'è dell'altro: una mancanza, una presenza pestilenziale, un odore che annuncia qualcosa che si è insinuato nella borgata e l'ha divelta dal suo interno. A questo punto, l'orrore iniziale, si è diluito in un orrore più grande, la morte del ragazzo affogato sotto le acque nere non è più la cronaca di un misfatto ma è il sintomo di qualcosa di più grande, di peggiore. La stessa leggenda che il ragazzo morto affogato sia tornato dal fiume e "viva" nella borgata confonde il baratro che distingue la realtà dalla fantasia. E in questo vero e proprio gioiello, ad un tratto ci rendiamo conto che l'autrice ci ha presi per mano e ci ha condotti pari pari in un racconto di Lovecraft. Ma, come sempre nella Enriquez, la citazione non è mai un plagio. Non basta una casa stregata per renderla un'imitatrice di Shirley Jackson, nè di nessun altro maestro del genere. Mariana Enriquez ha saputo trovare la propria voce per raccontare delle storie di paura che, pur nella contemporaneità, hanno la consistenza del classico, che sanno scavare nella nostra quotidianità, in quella parte di realtà che rimane sempre appena più in là del nostro sguardo, e ci accompagna (volevo scrivere "ci costringe", ma sarebbe stato un errore, il suo è più un prendere per mano) di fronte allo specchio, senza strilli, senza sensazionalismi. Senza giudicare.

Mariana Enríquez (Buenos Aires, 1973) è una giornalista e scrittrice argentina. Fa parte del gruppo di scrittori “nuova narrativa argentina“. Laureata in Comunicación Social alla Universidad Nacional de La Plata, collabora con «Radar», supplemento del quotidiano Página/12 (di cui è coeditrice) e le riviste «TXT», «La Mano», «La Mujer de mi Vida» e «El Guardián». Collabora anche con Radio Nacional. Ha pubblicato i romanzi Bajar es lo peor (1994) e Cómo desaparecer completamente (2004). Ha pubblicato inoltre le raccolte di Los peligros de fumar en la cama (2009) e Cuando hablábamos con los muertos (2013), tradotto in italiano nel 2015 per Caravan edizioni. Predilige le atmosfere dark, ma se altrove ha sperimentato il genere horror (come in No entren al 14GB, antologia dedicata a Stephen King), nei tre racconti di Quando parlavamo con i morti la paura ha sempre connotati metafisici e metaforici, con richiami alla storia dell’Argentina e alla condizione della donna. Nel 2017 sempre Caravan ha pubblicato Qualcuno sulla tua tomba. Le cose che abbiamo perso nel fuoco è il suo primo libro pubblicato da Marsilio.


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