"E' la terza volta in un anno che mi metto a scrivere questo romanzo il cui soggetto non deve interessarmi poi molto se, appena arrivo alla fine di un quaderno (scrivo sempre con la Bic in quaderni a spirale), il giorno stesso lo perdo." pag.11 (*)
"Il fatto d'aver finito il romanzo mi solleva, è come se mi risvegliassi da un incubo. Mi domando che effetto mi farà quando dovrò correggere le bozze, chissà se il lettore sospetta che dimentico tutto ciò che scrivo." pag.114 (**)
Nel mezzo a queste due considerazioni si scatena l'inferno. In quest'inferno fatto di sesso e amor perduto, non manca (quasi) ogni forma di depravazione, e delitti a ripetizione, commessi con la stessa urgenza e leggerezza di un qualsiasi atto sessuale narrato nel libro. Ma è da notare come sia l'autore stesso ad aprire le danze sottolineando (anzi, prendendo atto lui stesso) che (*) il romanzo che sta scrivendo (vale a dire quello che è narrato da lì in poi nel libro, ossia il libro stesso) non gli interessa poi un granchè (ogni volta che finisce un quaderno, lo perde), e a chiuderle (**) domandandosi se il lettore possa sospettare che non ricorda mai un accidente dei libri che scrive, come se li scrivesse lungo il corso di un lungo, incessante incubo. Un incubo da cui è un sollievo risvegliarsi. In questo senso, nell'infinito gioco di specchi che è Il ballo delle checche, potremmo giungere a sospettare (banalizzando oltremodo la narrazione) che si tratti di un romanzo sulla creazione di un romanzo, sul mistero della creazione artistica, sul delirio che sottende ogni costruzione che evada dal perimetro della realtà e, in parte, forse, saremmo nel giusto. Nel senso che questo libro è anche questo. Il gioco post moderno di scatole cinesi nelle quali vengono confusi i piani di realtà e finzione disegna una struttura narrativa che confonde il lettore e lo lascia in balìa dello stile immediato, svagato e diretto di Copi, uno stile che a sua volta gioca più che coi generi con le tonalità del narrare. Tutto il libro è una folle corsa in presa diretta del protagonista alla ricerca dell'ispirazione per scrivere il libro. Ma la narrazione autofaga che, quasi sbadatamente, segue passo passo il proprio stesso delirio, non si ferma davanti a niente, e ingerisce e digerisce il ricordo, l'incubo, il piano del presente e quello del reale (che, nel libro, non sempre coincidono), con l'incedere distratto di chi racconti una giornata al mare, o uno scherzo giocato dalla prospettiva. Lo stile è cannibale in Copi, e non segue mai i canoni del materiale che sta narrando: per cui potrete incontrare omicidi (per sventramento, per lessatura, eccetera) riportati con una leggerezza straniante che, però, non dà mai l'impressione di scadere nel gioco autoriale di tanta letteratura pulp, l'effetto non vuole essere quello di far ridere, nè di sconvolgere, nè tantomeno di rendere l'orrore accessibile banalizzandolo. Copi è una macchina inventiva esplodente (più che esplosiva), perennemente a rischio di deragliare, disattenta ai particolari stilemi dei generi, addirittura si può dire che sia una macchina narrativa autoriale suo malgrado (o a sua insaputa): lo stile che caratterizza Copi è, in fondo, la sua mancanza di stile, il suo continuo rincorrere una fantasia scatenata che inevitabilmente lo anticipa, lo distanzia, a volte si lascia riprendere ma sempre e solo per sfuggirgli di nuovo (viene in mente Topor in Memorie di un vecchio cialtrone quando dice: "Sono sempre stato in anticipo sull'avanguardia. Allora mi dovevo fermare e aspettare il resto della brigata, e ogni volta quelli mi superavano").
Di cosa parli questo libro è assolutamente irrilevante, come quasi sempre quando si parla di letteratura.
Ed è irrilevante come in fondo pare al narratore già ad inizio libro, non gli interessa poi un granchè, e non trovando alcun particolare interesse per una narrazione fittizia, quale che sia, ciò che emerge è il subconscio, le ossessioni del protagonista. Anzi, l'ossessione: il suo amore (perchè se c'è passione, sesso e depravazione a piene mani, c'è anche e soprattutto l'amore," amor fou", disperato, assoluto, addirittura sordo a sè stesso) per Pietro/Pierre giovane checca romana prima, poi travestito nella folle bohème di Parigi, poi drogato a Ibiza, santone, guru, cattolicissima vittima sacrificale di sè stessa infine. Che sia Parigi, Roma, o Ibiza, che si trovino insieme o separati, amanti o universi inconciliabili, la calamita attorno alla quale si muove ogni altra azione narrativa è l'amore/passione che allontana e riavvicina i due, punteggiata dagli assurdi spazi che l'autore si ritaglia per scrivere (in condizioni improponibili, eccessive, caotiche), oltre i quali puntualmente vengono smarriti quaderni e registrazioni, rendendo così (apparentemente) vano ogni sovrumano sforzo consumato nel portarsi fuori dal vortice degli eventi per renderli narrabili. Poi c'è il paesaggio, per lo più umano, sul quale recitano i personaggi, la bohème omosessuale che regna sui bassifondi di Parigi e Roma così come di qualsiasi altro luogo al mondo, una sorta di regno nascosto che, paradossalmente, può rimanere tale proprio perchè è in bella evidenza, sotto gli occhi di chiunque voglia prendere atto e vedere. Il mondo, che è quello dell'autore, omosessuale dichiarato da sempre, che è uno specchio deformante del resto della società: brutto, sporco e cattivo, e in fondo pervaso da un'innocenza diabolica che lascia esterrefatti. L'essere umano è quella cosa lì, incapace di maturità, perennemente vittima dei propri appetiti e delle proprie paure, quasi inconsapevole di sè stesso se non nella misura che è dettata dalla brama dell'accoppiamento. Tutto il resto, la bohème stessa, l'arte, lo scrivere, i rapporti personali, la famiglia, la fede, la decenza, l'approdo sociale, l'amicizia, ogni possibile faccia della realtà è svagatamente lasciata all'incoscienza dei protagonisti, adulti mai cresciuti forse perchè nel mondo di Copi la maturità è un'opzione non prevista.
Lungo il viaggio nella creazione di questo libro si viene traslati nel ricordo, nell'incubo, in stati dell'essere che non sono nè l'uno nè l'altro ma che sfumano tra le diverse possibilità del reale e dell'immaginario, sfilano una serie di omicidi brutali ed insensati consumati con l'incosciente leggerezza del sogno, ma distinguere cosa sia reale da cosa non lo sia è impresa totalmente superflua. Non è interesse dell'autore creare un gioco per rendere il lettore detective di cosa sia o non sia reale, il lettore è semplice spettatore della sua folle corsa verso l'abisso che, di volta in volta, è la creazione artisitica o la morte.
Copi potrebbe essere disturbante, forse anche intollerabile (invece è disincantato, dissacrante), se il suo raccontare non fosse sempre illuminato dal suo interno da un bisogno quasi infantile di rincorrere l'immagine che ognuno cerca di sè stesso: quella ricerca dell'identità perduta che è, al contempo, irrintracciabile, inarrivabile. I personaggi di Copi si perdono a provarsi diverse maschere, cercando di capire quale sia la loro imago animae, ma perdendosi sin da subito nel riflesso della propria immagine nello specchio e dimenticandosi della ricerca di sè per dedicarsi al piacere sublime del correre come pazzi a causare danni.
Per favore, ripubblicatelo.
"Fu una rivelazione e una grande influenza, forse la più grande di tutte.
Una lezione di velocità, di leggerezza, di quella meravigliosa continuità
che divenne per me un'esigenza" Cesar Aira su Copi
Copi, nom de plume di Raúl Damonte Botana (Buenos Aires, 20 novembre 1939 – Parigi, 14 dicembre 1987), è stato un drammaturgo, fumettista, scrittore e attore argentino, che però ha pubblicato principalmente in lingua francese. fratello di Juan Damonte, autore di Ciao papà, pubblicato in Italia da Elliot edizioni.
Anagrama ha riunito i testi di Copi in due volumi: Obras Tomo I, e Obras Tomo II, consacrandolo definitivamente tra i grandi scrittori e drammaturghi argentini.
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