"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 1 gennaio 2017

Un posto chiamato Oreja de perro, di Ivàn Thays, Fandango editore, trad. di Anna Mioni

  Il protagonista del romanzo è un giornalista in caduta libera, una caduta lenta e cadenzata che, passo dopo passo, lo porta ad arenarsi in una delle zone del Perù più povere e martoriate del paese, Oreja de Perro appunto, una enclave di violenza, povertà e coltivazione della coca nella quale negli anni '80 si è scatenata una vera e propria guerra civile tra terroristi e militari nella quale i campesinos e la popolazione civile si sono trovati presi nel mezzo, trucidati dagli uni in quanto sospettati di essere terroristi o amici di terroristi e dagli altri in quanto sospettati di essere spie dei militari, "borghesi" (per quanto assurdo potesse essere anche solo immaginarlo) o semplicemente non abbastanza rivoluzionari. A Oreja de Perro tutti aspettano l'arrivo del Cholo il presidente Toledo, la speranza tradita dell'intero Perù, il presidente andino, il presidente contadino, il presidente che si dice abbia speso il suo mandato più che altro a barcamenarsi tra uno scandalo e l'altro, tra donne e festini, alcool e quant'altro. I suoi ritardi agli appuntamenti ufficiali (la hora de Cabana) sono diventati prima barzellette e infine istituzionalizzati.
  Per la prima volta un presidente onorerà Oreja de Perro con la sua presenza.
  Ma Toledo, il presidente cholo, non arriva.

  La zona è pattugliata dall'esercito, un esercito formato da ragazzini indolenti, poveri e figli di poveri che la divisa e le armi in dotazione rendono improvvisamente pericolosi e arroganti, pronti ad esplodere in qualsiasi momento e per un nonnulla. Il paese è sospeso - in un certo senso come lo è sempre stato - in un tempo che non è quello presente, in uno spazio dimenticato da Dio e dagli uomini, ma ora trattiene il respiro perché l'arrivo del presidente sarà (potrebbe essere, dovrà essere) l'inizio di una nuova era: aiuti economici dal governo centrale e un nuovo volto da spendere se non col mondo, almeno col resto del Perù. Ma il Cholo non arriva, pare sia fermo a Huamanga, così dicono, ma non si sa, eppure tutti sanno che deve arrivare. Arriverà, per forza. Anche se La hora de Cabana comincia ad estendere il suo dominio su un tempo oggettivamente troppo lungo, come un elastico che viene tirato troppo, o una gomma da masticare. Ci sono i giornalisti, ci sono gli attivisti, gli antropologi, chi in trasferta da Lima chi locale, ci sono i militari fermi nelle strade di terra battuta, agli angoli delle case, ai crocevia, che fanno scattare le sicure, che mettono paura alla gente, tutti sospesi in attesa di un Godot andino che forse è perso in qualche orgia, aggrappato al suo status presidenziale per giustificare, anche a sé stesso, il ritardo perenne che ha nei confronti non solo del paese ma anche della realtà. Il protagonista - narratore - del libro, è un giornalista che vive a sua volta un tempo sospeso, incapace di vivere appieno il lutto per la morte del figlioletto e abbandonato dalla moglie con una lettera appena prima di partire per Oreja de perro. La sua realtà è fibrosa, lenta, incagliata in un presente che non riesce a decifrare, un presente che è intriso del dolore che la morte del figlio Paulo porta con sé. Dovrebbe scrivere sull'arrivo del presidente, che non arriva, e dovrebbe scrivere una lettera di risposta alla moglie, che non scrive. Prende appunti su un taccuino, incontra due possibili sviluppi futuri della sua vita incarnati in due donne, Jazmin e Maru. Ma una sembra emergere direttamente dal passato più oscuro del Perù, dal suo lato maledetto, porta in grembo un figlio ma anche sul nascituro si allungano ombre che hanno radici nella realtà di violenza e sopraffazione dal quale il paese fatica a riemergere, l'altra è forse troppo solare, troppo limena, è la possibilità del paese di essere altro da sé ma che, proprio per questo, pare fatta di materia inconsistente, come un ologramma, un utopia inarrivabile perché in fondo non si ha nemmeno la forza di prenderla seriamente in considerazione. Chi è così ingenuo da puntare ancora su un futuro solido, equilibrato, onesto, non violento? Il narratore e protagonista rimane intrappolato tra mondi e dimensioni diverse, quando misteriose quando silenziose: è una minaccia sorda quella che aleggia su tutto il libro, una minaccia e una consapevolezza. La consapevolezza del passato tragico (la guerra civile nel paese e la morte del figlio Paulo per il protagonista) e la minaccia di un futuro che non abbia la forza di essere diverso dal passato. Poi, il presidente finalmente arriva in paese, e l'azione diventa convulsa, caotica e, ancora una volta, violenta: il passato torna ad abitare il presente. Ancora morti, ancora violenza e vendette. Finalmente il tempo ricomincia a scorrere, ma non chiarisce nulla, se non l'impossibilità stessa a chiarirsi. Saranno ombre che non si dissipano a colonizzare la nuova realtà del protagonista, nuovi equilibri precari che non lasciano presagire alcuno spazio per un lieto fine. Quello che è fatto è fatto, le conseguenze hanno forma concreta, anche se in qualche maniera misteriosa e complicata.   E' un libro, Un posto chiamato Oreja de perro, lento e implacabile, che risponde all'urgenza di fare i conti col proprio passato e alla consapevole certezza di non essere in grado di fare i conti col proprio passato. Le porte aperte rimangono aperte, e ne aprono di nuove. I figli morti stanno da qualche parte inconosciuta ma non tornano ad incarnarsi in sé stessi, il vuoto creato permane, e permea, le fosse comuni traboccano, l'odio si aggira per i vicoli di terra battuta dei villaggi andini, per i campi, la si respira in quella porzione d'aria che si contendono le persone per respirare.


Un posto chiamato "oreja de perro" (orecchio di cane) si trova nella provincia di La Mar, in una zona compresa tra Ayacucho e Huamanga, nella regione del Vrae (Valle de los rios Apurimac y Ene): si tratta di una zona molto povera, dedita per lo più alla coltivazione della coca (terra di cocaleros dunque), quasi fosse realmente un orecchio reciso dal resto del corpo, e lontano mille miglia dal cuore del cane, Lima, immaginata ed odiata come solo qualcosa di lontano e alieno può esserlo. Un altro pianeta, un'altra dimensione, un'altra umanità. La zona di Ayacucho e Huamanga è stato il centro (universitario in particolar modo) dal quale è nato il terrorismo rosso degli anni '80 di Sendero Luminoso (all'università di san Cristobàl di Huamanga e Ayacucho insegnò filosofia il delirante leader maoista di SL Abimael Guzman); inoltre la regione cosiddetta del Vrae è stata la regione nella quale i terroristi si rifugiarono quando ormai la loro rivoluzione venne sconfitta dallo stato e dove, ancora oggi, pare si nascondano terroristi latitanti.

     Fare i conti col proprio passato è materia di ogni letteratura, e in Perù il passato più gravoso è quello legato al terrorismo, un epoca nella quale la popolazione civile si è trovata schiacciata tra due follie, quella maoista integralista rivoluzionaria di SL e quella violenta e burocratica di uno stato che ha demandato ad un esercito impreparato la sola risposta alla violenza terroristica. Tutti, dai campesinos agli abitanti della capitale, potevano perdere la vita da un momento all'altro, o in quanto vittime collaterali di qualche attentato, o perchè scambiati dagli uni per terroristi e dagli altri per borghesi. In Perù, fare i conti col terrorismo è una necessità del paese: da Il caporale Lituma sulle ande, di Vargas Llosa, a I delitti della settimana santa, di Santiago Roncagliolo, a La hora azul di Alonso Cueto) tutti hanno sentito la necessità di prendere le misure a quella parte della storia recente così assurda e violenta. Thays lo fa con lo sguardo dolente di un viaggiatore perso tra dimensioni che non sa far proprie né abitare, dimensioni che si sfiorano senza interagire, che si scontrano e si allontanano, dimensioni dolenti, devastate, assurde, abitate da quei cani che assurgono a simbolo stesso del Perù, presenze silenziose, affamate (Los perros hambrientos, di Ciro Alegrìa), calciati, uccisi, appesi ai pali della luce e resi simbolo dalla follia maoista di Sendero Luminoso eppure sempre legati a quei poveri lembi della loro esistenza, sempre pervicacemente aggrappati al loro semplice illogico esistere.

Taci, taci, animale feroce,
tanto Dio non sente la tua voce.


Iván Thays (Lima, 1968) è uno degli autori peruviani più interessanti degli ultimi anni. Ha vinto nel 2000 il premio giornalistico Príncipe Claus per i suoi contributi. Ha diretto per sette anni il programma televisivo Vano Oficio su libri e letteratura e ha un seguitissimo blog di cultura, Moleskine Literario. Scrittore di racconti, romanzi, professore universitario, ha dedicato la sua vita alla letteratura, una vocazione che nel suo caso è insieme “una passione e una missione”. Con questo romanzo è stato finalista del prestigioso Premio Herralde. 



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