"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

lunedì 1 febbraio 2016

Il paese dell'alcol, di Mo Yan, Einaudi editore, trad. di Silvia Calamandrei

  Mo Yan è un premio Nobel, e va maneggiato con cura. Tutta la storia de Il paese dell'alcol va maneggiata con cura, perché è un gioco ad incastri, una narrazione su più piani, un sogno grottesco che sfuma in una realtà ancor più grottesca, dove ogni avvenimento è, o potrebbe essere, frutto di un incubo, o dei fumi dell'alcol, o corrispondere semplicemente alla verità. Un pastiche, un gioco d'ombre nel quale la figura dell'investigatore (quella che tecnicamente è la portatrice di ordine in un mondo permeato dal caos) si perde fin da subito in un teatro delle ombre che mette in scena una realtà ambigua, scivolosa e corrotta, che fiacca la volontà di Ding Gou'er confondendone la capacità di raziocinio.
   L'ispettore Ding Gou'er viene inviato a Jiuguo, il paese dell'alcol del titolo, per indagare su un'usanza barbara (e, ovviamente, illegale) che pare vigere tra le alte cariche del paese, una devianza immorale frutto della decadenza in cui versa la classe dirigente di Jiuguo: il cannibalismo. In un piccolo centro lontano dalle grandi metropoli che poco alla volta lotta per conquistarsi un posto al sole nel moderno panorama della nuova Cina, e che lo fa ritagliandosi fama nazionale per la propria enciclopedica produzione di alcolici e per una particolare attenzione ad ogni genere di prelibatezza (o efferatezza) culinaria, allevare bambini al fine di cucinarli per deliziare i palati dei potenti locali potrebbe essere non solo una cupa leggenda, bensì un orrenda realtà. Ma la natura stessa della città, sospesa tra una voglia di ricchezza e di futuro e un passato ancestrale e magico che non smette di lanciare le sue ombre sul presente, nonché sulla psiche collettiva della comunità, irretisce da subito l'ispettore e, in nome dell'ospitalità e delle usanze alcoliche del luogo, lo inebetisce a suon di brindisi e banchetti straripanti di ogni tipo di leccornia (non dimentichiamoci, e Mo Yan lo esplicita nel libro, che in Cina, si mangia tutto ciò che è vivo). La volontà, non propriamente ferrea ma comunque, almeno inizialmente, chiara di Ding Gou'er, svapora in una narrazione che rimane sospesa tra lo stile di realismo allucinato dell'autore e il vero e proprio delirio del protagonista. Dove inizi l'uno e dove finisca l'altro è uno dei diversi piani di lettura che Mo Yan lascia alla libera interpretazione del lettore. Per certi versi gli argomenti fulcro della narrazione (alcol e cibo per il reparto gola, sesso per la lussuria, e cannibalismo e violenza varia, armi, uccisioni, nani, fantasmi e via discorrendo) ne fanno un testo ai limiti (o oltre i limiti) del pulp. Ding Gou'er già prima di arrivare in città si lascia irretire dalla lascivia di una bella camionista di cui finisce per innamorarsi (o crede di farlo) e che lo caccerà in un mare di guai, ai quali ne seguiranno altri, senza soluzione di continuità. Questa linea narrativa però, che può essere considerata l'asse portante del libro, si interseca con le lettere che Li Yidou, un giovane ammiratore dello scrittore Mo Yan (e laureando in distillazione di alcolici), gli invia, a cui fa seguito la terza linea narrativa, quella dei racconti che Li Yidou sottopone al giudizio di quello che considera il proprio maestro. I racconti di Li Yidou hanno come tema l'alcol, la città di Jiuguo nella quale vive, e diversi personaggi che compaiono sia nel racconto di Mo Yan, che nelle lettere dello stesso Li Yidou a Mo Yan. La linea narrativa principale, si esaurisce presto in un vorticoso delirio che scimmiotta i generi e si perde in una sorta di loop privo di sbocco (è lo stesso Mo Yan, alla fine del libro, ad ammetterlo) e si risolve soltanto con l'entrata in scena dell'autore all'interno della sua stessa narrazione, nelle vesti contemporaneamente di personaggio e scrittore, entrata in scena che permette il ricongiungersi dei tre filoni di narrazione che si sciolgono in un ulteriore loop che ricorda il finale de L'inquilino del terzo piano, di Roland Topor.
  Pare che il libro sia una risposta allo sdegno dell'autore in seguito al massacro di Piazza Tienanmen:
sicuramente dipinge, architettando una struttura narrativa fortemente sperimentale, una Cina a tinte cupe, dove l'ancestrale e magica brutalità del proprio passato si innesta nella corruzione degli alti ranghi del partito ormai lanciati in una dissoluzione di ogni valore fondante che non sia un'orgia perpetua dei sensi, una corsa alla fama, al piacere e, in fondo, alla sopraffazione. L'ossessione del cannibalismo, non nuova all'immaginario cinese, è in questo caso una trasparente metafora di una nazione che cannibalizza sé stessa, nutrendosi dei propri figli. Giungendo anzi ad un grado ulteriore di decadente ed organizzata efferatezza: i bambini vengono concepiti e allevati apposta per essere venduti alla locale scuola di cucina e quindi cucinati. Sono, viene detto nel testo dalla suocera di Li Yidou, uguali ai bambini normali, in tutto e per tutto, ma non sono bambini, sono delle bestiole che vengono al mondo per essere smembrati, cotti, cucinati e serviti. C'è, in tutto questo, qualcosa della mostruosa macchina burocratica nazista: un'organizzazione pensata a mente fredda, finalizzata ad anestetizzare le coscienze, a penetrare nell'inconscio collettivo per modificarne la natura o, per meglio dire, ci sarebbe, perché la certezza del crimine in questo Il paese dell'alcol non trova mai una sua evidenza. Ding Gou'er perde il filo della sua indagine (a dir la verità, neppure lo trova mai) e il crimine rimane un interrogativo irrisolto. Mo Yan intesse un romanzo arcaicamente post moderno che vuole rappresentare una denuncia senza però esplicitare il proprio grido di sdegno, soffocandone lo slancio nell'ironia dei toni e nel vorticoso sussuguirsi di registri stilistici. La capacità dell'autore di maneggiare i suoi abituali materiali narrativi è giocoforza smorzata dalla complessità della struttura che rallenta la narratività della storia e la ingolfa nei continui rimandi tra i vari piani narrativi e nei personaggi che si rimpallano da un piano all'altro. E' lo stesso Mo Yan, nella doppia veste di personaggio e di autore, ad ammettere di aver perso il bandolo della matassa della storia di Ding Gou'er, e pare non farsene un cruccio, e proprio questa sua noncuranza è chiave di lettura di tutto il libro: non è importante la storia, nè se i bambini vengono o meno mangiati, ma la semplice realtà che un tale crimine possa essere immaginato e che nemmeno un ispettore inviato in loco riesca, non dico a risolvere il dilemma, ma neppure ad affrontarlo seriamente . Un ritratto di un paese che, ritrovatosi nel successo, perde sé stesso, che balbetta nel vedersi allo specchio, senza sapere se ridersi addosso, condannarsi senza appello o fingere indifferenza raccontandosi mille storie diverse che lo assolvano o, quantomeno, lo rendano meno colpevole ai suoi stessi occhi.


Mo Yan, premio Nobel per la Letteratura nel 2012, nasce nel 1955 da una famiglia numerosa di contadini poveri, a Gaomi, nella provincia dello Shandong. Nel febbraio del 1976 abbandona il povero e isolato paese natale per arruolarsi nell'esercito. Fa il soldato semplice, il caposquadra, l'istruttore, il segretario e lo scrittore. Nel 1997, congedatosi dall'esercito, inizia a lavorare per un giornale. Nel frattempo si è laureato presso la Facoltà di Letteratura dell'Istituto Artistico dell'Esercito di Liberazione Popolare (1984-1986) e ha ottenuto un Master in Studi letterari e artistici presso l'Università Normale di Pechino (1989-1991). Inizia a pubblicare nel 1981.
Fra le sue numerose opere narrative, Einaudi ha finora pubblicato Sorgo rosso, L'uomo che allevava i gatti, Grande seno, fianchi larghi, Il supplizio del legno di sandalo, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, Le rane, Le canzoni dell'aglio e Il paese dell'alcol. Delle sue undici novelle si ricordano Felicità, Fiocchi di cotone, Esplosioni, Il ravanello trasparente. Tra i racconti, Il cane e l'altalena e Il fiume inaridito, che Einaudi ha pubblicato nella raccolta di racconti L'uomo che allevava i gatti.
Ha anche scritto opere teatrali e sceneggiature cinematografiche come Sorgo rosso, Il sole ha orecchie, Addio mia concubina. Il film Sorgo rosso è stato premiato con l'Orso d'Oro al Festival del cinema di Berlino e Il sole ha orecchie con quello d'Argento. Nel 2005 gli è stato assegnato il Premio Nonino per la sua intera opera.

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