"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 26 luglio 2015

Tutto inizia e finisce al Kentucky Club, di Benjamin Alire Sàenz, Sellerio editore, traduzione di Luca Briasco

  L'idea di frontiera è l'idea fondatrice degli Stati Uniti d'America. La frontiera, nel suo tracciare un prima e un dopo, un di qua ed un di là da qualcosa, definisce entrambe le porzioni del mondo che divide. Siamo quello che siamo (o, per meglio dire, ci percepiamo per come crediamo di essere) in buona parte delineando quello che non siamo, quello che consideriamo "altro da noi". Ma, cosa succede, se il punto di vista della narrazione non si trova al di là o al di qua della linea invisibile e solida della frontiera, ma la comprende? Il mondo (il microcosmo) che Sàenz ha scelto per ambientare i sette racconti che compongono questo libro è sospeso sulla linea di confine tra Usa e Messico, lungo quell'elastico che lega El Paso (America, modernità, benessere) a Ciudad Juarez (Messico, la Santa Teresa di 2666, di Bolano, una delle città più violente al mondo, teatro di più di 4000 omicidi di donne dal 1993: i femminicidi di Ciudad Juarez appunto: a tal proposito, oltre 2666, consiglio vivamente la lettura di Ossa nel deserto, di Sergio Gonzalez Rodriguez). Quindi, cosa succede quando la linea di demarcazione non è più esterna al racconto (al punto di vista del narratore) ma ne è parte integrante? Accade che si sbriciolano gli schemi mentali che l'essere umano è così abile ad imporsi pur autogiustificarsi, accade che la frontiera viene interiorizzata ed il bene ed il male si amalgamano, nella realtà e nella psiche dei protagonisti. Lo stridore dei sentimenti si mescola fino a creare un dolore tanto insopportabile quanto silenzioso. Ogni cosa è in frantumi, e danza (J.Morrison). Ognuno dei personaggi di questi racconti è in pezzi, è crollato, andando a collidere contro il muro fronterizo che ha scoperto far parte della sua stessa realtà. I sentimenti fanno male, i legami d'amore e quelli parentali fanno male; ma, come certifica Tom, il protagonista dell'ultimo racconto Il Gioco del dolore: "... non è l'amore, a essere un gioco doloroso, ma la vita. La vita è dolore."
Il Kentucky Club del titolo, giusto per la cronaca, è un locale di Ciudad Juarez col quale, in un modo o nell'altro, tutti i protagonisti hanno a che vedere, anche solo incidentalmente, e che funge semplicemente da espediente narrativo per fingere che nel microcosmo magmatico narrato da Sàenz esista un sole immobile attorno al quale tutto ruota (o, forse, meglio: attorno al quale tutto scorre). Nulla di più. Una scusa che restituisca l'idea che qualcosa a cui aggrapparsi esista sempre e comunque. Ma non ha nulla a cui aggrapparsi lo scrittore protagonista del primo racconto, E' andato a raggiungere le donne, quando il suo amore, conosciuto proprio al Kentucky Club, autista di personalità in vista e politici locali, scompare nel nulla e finisce nel deserto, a lasciare che la sabbia ed il sole gli sbianchino le ossa. Nè il ragazzo de L'arte della traduzione che torna a casa dall'ospedale come se tornasse dal mondo dei morti, dopo che ragazzi gringos lo hanno pestato e gli hanno inciso a sangue la schiena: dovrà inventarsi un nuovo modo di stare al mondo, nuove motivazioni e dovrà imparare a dare un nuovo significato alle parole. Ne L'uomo delle regole, il narratore troverà nel padre spacciatore l'appiglio per affrontare la vita a testa alta, ma sarà proprio il padre a perdersi nel mare di droga e donne che infestano la frontiera.
  Non è che non si salvi nessuno, ma ogni salvezza ha un prezzo, e il prezzo è il dolore.
  Le famiglie disfunzionali, erose dalla violenza e da stilemi culturali atavici e brutali, generano altro spaesamento, sono altre frontiere che costringono ad una scelta, o ad una non scelta:
  ne Fratello in un'altra lingua il protagonista, durante il suo rapporto con lo psicologo pagato dai genitori ricchi e anaffettivi, scopre che il fratello cacciato di casa dal padre, è ormai morto, in un'altra nazione, parlando un'altra lingua (e arriverà a capire anche le motivazioni del perchè della cacciata da parte del padre o, quantomeno, lo immagineremo noi lettori),
  mentre in A caccia del drago un fratello seguirà passo passo la cieca rincorsa autodistruttiva della sorella che, esattamente come la madre che depreca, si perde nel tentativo di possedere il drago, il suo personale drago (chiamiamolo l'attimo fuggente).
  In A volte la pioggia è il bullo Brian che vede capovolgersi il suo mondo quando viene brutalizzato dal padre a causa della sua omosessualità scoprendo però che l'aiuto più prezioso lo può trovare soltanto nella voce narrante, compagno di scuola vittima delle sue persecuzioni machiste.
  In questi tre racconti incentrati sul ruolo negativo delle famiglie (sarebbero quattro ma L'uomo delle regole in fondo riesce ad evitare una conclusione così sconfortante) il paesaggio esterno - la frontiera e, soprattutto, il deserto - altro non è che lo sconfortante specchio del paesaggio interiore dei personaggi, almeno di parte di essi, di quella parte genitoriale incapace di rivestire il proprio ruolo entro confini tollerabili: le famiglie non sono una monade, si incarnano nell'opposto del concetto di unità: due individui persi in dolori personali, tunnel imbottiti di droghe ed alcol, di sesso, persone che, sempre che si siano mai amate, non hanno saputo costruire su quel sentimento null'altro che rancori ed incomprensioni: vedono i figli come soggetti alieni, incomprensibili, complessi, che incutono terrore perchè o sono gli specchi del fallimento dei genitori o rischiano di essere gli specchi di quello che i genitori avrebbero potuto essere e non sono stati: meglio allontanarsi dunque, andarsene lontano, o allontanarli e lasciarli al loro destino. Il mondo di Sàenz, quel mondo che ha la frontiera dentro di sè, è circondato dal deserto, affollato di violenza insensata nutrita di pregiudizi, droghe, alcol, sotteso tra abissi di bilinguismo e di biculturalismo, ma tutto ciò lo vive introiettato al proprio interno. Non ha la possibilità di vedere il male come altro da sè: lo straniero non esiste, lo straniero sono io, i tratti si mescolano, le lingue anche: spesso i protagonisti dei racconti si domandano l'un l'altro se sono gringos o se sono messicani, ma invariabilmente la risposta è confusa, o composita: madre messicana e padre gringo, o viceversa, radici da un lato della frontiera, o dall'altro, o da entrambi. L'identità si sfuma lasciando nuda la psiche, ed emerge solo l'umanità, confusa, incapace di guardarsi allo specchio e comprendersi. In fondo, la vita è dolore. In fondo, tutto è in frantumi, e danza, ma si tratta di un danzare lancinante, che ha qualcosa dell'irrimediabilità nei suoi passi. Per salvarsi è necessario il sacrificio, e il sacrificio è dolore. L'unico male assoluto, di cui tutti gli altri mali non sono altro che la conseguenza ed il riflesso, è il narcotraffico, sono i narcos, che Sàenz sapientemente non descrive mai: sono un male inespresso, lasciato sullo sfondo, un male di stampo ontologico che non si può nominare nè spiegare, che è lì come da sempre, che neppure si giudica più. Solo ne piangiamo le conseguenze: i morti in quel silenzio immenso che è il deserto che ci circonda, fuori ma anche dentro di noi. Le ossa che nel deserto si sbiancano, il vento che le liscia. Sàenz, che insegna scrittura creativa - e si sente: il suo stile, bello, maturo, elegante, ha sempre qualcosa di trattenuto, di calcolato, si ha l'impressione che stia usando un qualche artificio messo lì in bella posa, ma l'artificio meglio riuscito sta nel non dire, nell'alludere e lasciar immaginare il lettore - sceglie di descrivere un mondo che finisce con l'includere al suo interno sia la migliore letteratura nordamericana che quella latina, e lo fa con una sicurezza insolita in chi è pioniere e per primo esplora nuovi territori. Compone un affresco in cui a volte affiorano dialoghi cesellati e cinematografici (ricordano a volte il cinema di Inarritu) e a volte scioglie le briglie e permette alla narrazione una fluidità più tipicamente latina (non stiamo parlando di realismo magico, per carità), un affresco doloroso, intimo ma potente dove gli stili, così come i tratti somatici e gli accenti si (con)fondono e si combinano in qualcosa di nuovo.
  Ci sarebbe da dire riguardo alla predominanza (anche un tantino ridondante a dire il vero) di amori omosessuali, come se il machismo di frontiera venisse eroso alle sue stesse fondamento dalla propria stessa fobia, ma è un particolare che alla fine passa in secondo piano, in favore della creazione di un universo piccolo ed universale, dolente ma capace di slanci di sorda umanità: uno fra tutti, il padre di L'uomo delle regole che non avendo più speranze per sè, riesce a trovare la lucidità per scegliere ed imporre quelle regole che salveranno il figlio. Una redenzione, anche il deserto, la permette.

 Benjamin Alire Sáenz è nato nel 1954 a Old Picacho, in New Mexico. Presidente del dipartimento di Scrittura creativa alla University of Texas di El Paso, dove vive, è artista e poeta, narratore e autore di libri per bambini, premiato con la Wallace Stegner e con la Lannan Poetry Fellowship per le sue opere di poesia, e finalista al Los Angeles Times Book Prize.

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