"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

sabato 18 febbraio 2012

I giardini di Kensington, di Rodrigo Fresàn, Mondadori editore

Tutti i bambini, tranne uno, crescono. Questo è quanto sostiene la prima immortale frase di Peter Pan (Peter e Wendy), di Matthew Barrie, ma quando ciò avviene, ammonisce Fresàn, è una catastrofe. Il libro racconta due storie che si svolgono su due linee temporali differenti e che hanno come punto d'unione, appunto, Peter Pan. La prima linea, narrata dall'autore di libri per l'infanzia Peter Hook, racconta la sua storia, i suoi genitori hippie "al revés" nella swinging London, e la morte del fratello e, sempre rivolgendosi ad una terza persona, Keiko Kai, che poco alla volta giungeremo a capire chi sia. La seconda linea narrativa, sempre raccontata dalla voce di Peter Hook, è più o meno la biografia di Matthew Barrie, lo strambo e geniale inventore di Peter Pan; dico più o meno perchè è una sorta di biografia romanzata e come ogni biografia romanzata è molto più avvincente ed anche più approfondita di una normale biografia.Come Hook anche Barrie ha perso un fratello in tenera età e come Hook è stato irrimediabilmente segnato da questa tragedia, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, è questa morte prematura che spinge Barrie al suo amore esagerato (e anche un filo morboso) per i bambini, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, a questo fatto bisogna far risalire la ferrea ed esplicita volontà di Barrie di non crescere, di creare un punto di contatto tra la Neverland da lui creata - cattedrale assoluta della fantasia di ogni tempo - e la grigia realtà che spetta in sorte a noi tutti. Questo punto di contatto è rappresentato dai Giardini di Kensington, che sono quel luogo reale dove l'autore concreta le sue fantasie e dove egli stesso pare trovare una sorta di porta che gli permette di fuggire a prendere appunti per i suoi libri in un universo parallelo a misura di bambino. E' nei Giardini di Kensington (dove si trova la statua a Peter Pan) che Barry incontra Silvya Llewellyn Davies e i suoi figli, che diverranno la principale fonte ispiratrice su cui modellare la sua creatura immortale. Peter Hook ha inventato (ed è diventato famoso grazie a) Jim Yang, un bambino che salta da un punto all'altro del tempo inforcando un cronocicletta, ma fin dall'inizio pare prendere le distanze dalla sua creatura così come in un certo qual modo anche dalla sua stessa vita, come se Jim Yang fosse per lui una maledizione. Al contrario di quanto viene specificato in quarta di copertina, non è vero che Peter Hook, con la scusa di parlarci di Barrie e Peter Pan, ci racconta soprattutto la sua storia: è vero piuttosto il contrario. Il centro del libro non è la linea temporale in cui si svolge la storia di Peter Hook, dall'infanzia fino al presente (è una sorta di rincorsa, la sua, per fare in tempo a raggiungere il presente, e raccontarlo), ma la storia di Barrie, la sua vita, ciò che di lui non può essere raccontato in una biografia attraverso dati certi ma che può essere indovinato, il suo attaccamento all'infanzia ed ai bambini LLewellyn Davies, alla nascita di Peter Pan ed al ruolo sempre più preminente che avrà nella sua vita, fino ad oscurarlo e a sbattergli in faccia quelle questioni dalle quali Barrie stesso fuggiva. Una vita passata a fuggire. Trascorsa a crearsi alibi sufficienti per fuggire in santa pace, sotto gli occhi di tutti. Con gli applausi di tutti. E fino ad un certo punto il gioco funziona. Fino a quando la vita e le sue regole non vengono a presentare il conto. Ed è una carneficina. In pochi anni muoiono tutti, o quasi. La madre di Barrie, la sorella, il padre dei lost boys Llewellyn Davies, Arthur, la madre, Silvya, poi giunge la guerra e quelli che erano diventati i suoi bambini sono chiamati sotto le armi, e addio fantasia. Sembra quasi che la prima guerra mondiale sia sorta come sinistra risposta all'universo che Barrie stava creando col suo Peter Pan, per mettere un freno a quel mondo di fantasia giocosa che, come un gorgo, stava risucchiando la vita reale. E' questo il punto centrale del romanzo, il cardine, il momento cruciale in cui i marchingegni del palcoscenico s'inceppano e quella che sembrava una fuga perfetta si arresta, nel modo più brutale. Barrie invecchia, nonostante i suoi sforzi, nonostante cerchi di non pensarci, invecchia. Le sue famiglie, quelle che gli sono toccate in sorte e quelle che si è creato, vengono decimate, le persone scompaiono come dinosauri, e i bambini, quelli che erano il suo elisir di lunga vita, diventano grandi, maturano, cambiano, non vogliono più giocare, si sposano e prendono il volo, combattono in guerra, muoiono e si dimenticano di quel bambino strano, l'unico che non cresce, che rimane, solo, sullo Scoglio degli Abbandonati, a Neverland, in attesa che qualcuno vada a salvarlo, a concedergli il giusto riposo.
  Il libro - magnifico - riflette sul rapporto tra lo scrittore e la sua opera, tra l'individuo e la vita, e lo fa prendendo come territorio di studio l'esistenza speciale di un uomo ed uno scrittore specialissimo, una sorta di rock star del suo tempo rimasto schiacciato dalla fama della sua creazione. A suo modo, un eroe - o antieroe - pop, un genio assoluto a cui, come a tutti i geni, la realtà andava stretta.
  E ogni definizione o etichetta che si voglia attribuire a questo libro, potete stare certi che gli andrà stretta, perchè è qualcosa di diverso. Da cosa? Più o meno da tutto.
  Così come Fresàn non è, come recita la copertina, un Borges pop (Fresàn è Fresàn). Non ha nulla a che vedere con Borges, ma proprio nulla, a parte il fatto di essere argentino.





 Rodrigo Fresàn è un autore da noi inspiegabilmente poco conosciuto. Argentino di nascita, vive a Barcellona, dove lavora come giornalista e dove dirige la collana Roja y Negra, nella editorial Mondadori. Da noi sono stati tradotti, I giardini di Kensington (per Mondadori) e Esperanto (per Einaudi).
E' uno dei grandi autori contemporanei della narrativa sudamericana. Vale la pena di imparare lo spagnolo solo per leggerlo.

mercoledì 15 febbraio 2012

Suicidi in capo al mondo, di Leila Guerriero, Marcos y Marcos edizioni

  In Argentina, dove si svolgono i fatti narrati, ci sono due Las Heras, una si trova nella regione di Mendoza, contingua alla capitale provinciale la Gran Mendoza, ed è una città di 180.000 abitanti, l'altra - quella di cui si parla in questo libro d'inchiesta, si trova in Patagonia, che già sarebbe a dire in culo al mondo - è un piccolo centro abitato nato e cresciuto attorno ad industrie di estrazione petrolifera. Esaurito il boom, si è ritrovato svuotato dal suo interno, visitato solo da un vento sabbioso ed ininterrotto e i suoi abitanti sono rimasti inchiodati alla sensazione precisa e lancinante di essere soli ed irrilevanti, lontani da tutto e da tutti, e da tutto e tutti guardati come una razza particolare, una razza bastarda. Leila Guerriero è una giornalista, nata a Junìn e dai diciotto anni residente a Buenos Aires, dove lavora come cronista. Come tutti, non ha mai sentito parlare di Las Heras, perchè Las Heras è come se non esistesse, nè per l'Argentina nè per il mondo, fino a quando non compare una notizia sui giornali nazionali legata al piccolo centro patagonico: un'ondata di suicidi senza precendenti. Da qui comincia un'investigazione sul Grande Nulla, sul Vuoto teso ad unire le industrie di estrazione petrolifera ed il centro abitato che ospita chi in quelle industrie si abbrutisce consumandosi, giorno dopo giorno, per portare a casa il pane. Vale a dire persone che sono giunte a Las Heras da ogni dove nei periodi di massima crescita economica e che, una volta sgonfiatasi la bolla dei sogni, si ritrovano in culo al mondo appunto, sferzati dal vento, privi di sogni, di spazi, di senso della comunità o anche solo della famiglia (di una famiglia normale), abbandonati a sè stessi e con la certezza che qualunque cosa possa capitare loro, non interesserà a nessuno. Non è Ciudad Juarez, è Las Heras. All'apparenza non è il nostro personale inferno sulla terra, come Bolano definisce Ciudad Juarez, ma solo un posto dimenticato da Dio abitato da grandi lavoratori. Ma questa è solo l'immagine con cui la città si mostra al mondo, quello stesso mondo che se ne strafotte non solo dell'immagine di Las Heras quanto della città stessa e di coloro che la abitano. La protagonista, Leila Guerriero, si reca sul posto, si aggira per la cittadina spinta dal vento e, digrignando la sabbia che le invade la bocca, si sposta da una persona ad un'altra, da un sopravissuto ad un altro, da un nucleo famigliare ad un altro e con tutti parla o, per meglio dire, tutti ascolta, e ci riporta le voci che si giustappongono a comporre una sorta di  Spoon River sudamericana. Chi parla in questo caso sono i vivi, quelli che sono restati e che si dibattono tra domande che non riescono a trovare risposta, ma la sensazione è la stessa. Un paese fantasma, come la Comala del Pedro Paramo, abitata da fantasmi le cui voci diventano sussurri erosi dal vento. All'inizio ci sono giovani - perchè sono quasi tutti giovani, e giovanissimi - che si sono tolti la vita, chi sparandosi chi appendendosi ad una trave, e c'è l'incredulità, perchè nessuno all'apparenza aveva motivi per farla finita: allora le voci popolari mettono in piedi altre voci, voci che parlano di una setta, di una lista di questa setta dove sarebbero stati indicati i nomi dei suicidi e le date nelle quali avrebbero dovuto dire addio al mondo, voci che parlano degli indios morti che si aggirano per la città e reclamano nuovi morti, ma questo, appunto, è l'inizio, la mitologia che l'essere umano crea per spiegare ciò che apparentemente una spiegazione non ha. La protagonista passa di casa in casa e ascolta i racconti e i ricordi delle madri, delle sorelle, dei fratelli e degli amici dei morti (dei padri, quasi mai, non ci sono quasi mai i padri) ed è allora che dallo sfondo emerge poco alla volta un'immagine diversa, fatta di ragazze madri, ragazzine madri e, non di rado, di bambine madri, di ragazze, ragazzine e bambine violentate, di padri assenti, spesso giovani anch'essi, che prendono il volo e di loro non se ne sa più nulla, di nuovi patrigni maneschi, di violenze fisiche e psicologiche accettate e narrate quasi come se si trattasse di un destino ineluttabile e, quindi, in qualche modo giusto. Una realtà messa insieme nei bordelli, dove le donne smettono di essere tali e diventano carne in vendita, nelle case dove le donne smettono di essere tali e diventano semplicemente una proprietà privata dell'uomo, dove le figlie non è bene che studino, dove, anche se fosse accettata l'idea che una figlia femmina possa voler studiare, le distanze dalla prima università sono più simili a quelle tra due pianeti che tra due città. Una realtà dove l'alcool s'impasta con la fatica del lavoro, dove oltre all'impianto petrolifero, alla casa ed al bordello non c'è nulla, neppure una piazza dove trovarsi, dove parlarsi, dove imparare a gestire la rabbia, la differenza di idee, la gelosia, l'amore, la frustrazione. Ed è qui, poco alla volta, testimonianza dopo testimonianza, in maniera quasi sommessa, che le ipotesi della setta e degli indios morti sfumano e si fa prepotente un'altra realtà, più banale ma anche più terribile. La solitudine, la consapevolezza della solitudine non scelta ma subita, l'abbandono dei sogni, il senso di inadeguatezza mascherato da orgoglio di una diversità che pare congenita ma è geografica. Lo sgretolarsi del senso comune, dei legami famigliari, di un centro (uno specchio) nel quale potersi riconoscere. Tutto ciò, Leila Guerriero, lascia che filtri a noi poco alla volta, con un timbro elegante e perseverante, lascia che la sua voce letteraria consumi le nostre certezze, come il vento che imperversa notte e giorno a Las Heras, e ci lascia infine di fronte al grande Nulla, o al grande Vuoto, che è esattamente quello che deve fare la grande letteratura: porci in piedi ad affrontare il drago. La letteratura, diceva Bolano, è un lavoro pericoloso, è quella cosa che si pianta "nel territorio del rischio". In questo senso Suicidi in capo al mondo non è solo non-fiction-novel nella scia di Truman Capote, Thomas Wolfe, Rodolofo Walsh o Sergio Saviane, ma vera letteratura giornalistica, letteratura a tutto tondo.

Uscito nel 2007, è ancora prenotabile su IBS.

 Leila Guerriero nasce a Junín, in provincia di Buenos Aires, nel febbraio 1967. A diciotto anni si trasferisce a Buenos Aires, dove si laurea in Scienze del territorio coltivando in parallelo studi letterari e filosofici. Nel 1991 esordisce come giornalista scrivendo per il quotidiano argentino «Pagina/12».
Si dedica alla ricerca sul campo, appassionandosi al giornalismo di inchiesta e approfondimento.
Nel 1996 entra in pianta stabile nella “Revista” del quotidiano «La Nación» e pubblica con Alfaguara la biografia della regista argentina María Luisa Bemberg per l’antologia Mujeres argentinas.
Dal 2000 si moltiplicano le collaborazioni con giornali e riviste di vari paesi dell’America Latina e con «El País» spagnolo. Con Suicidi in capo al mondo, il suo primo libro, è entrata nelle classifiche dei best seller in America Latina. Los suicidas del fin del mundo lo pubblica nel 2005, e nel 2009 pubblica Frutos Extranos, non tradotto in Italia.

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