Il Complotto mongolo, considerato come il romanzo fondante della cosiddetta novela negra latinoamericana, è un pastiche malinconico e sconsiderato che, nel tentativo di parodiare l'hard boiled nordamericano, in realtà lo ridefinisce calandolo nella realtà messicana degli anni '60, a sua volta inscritta nello scacchiere internazionale dell'epoca. Tutto è in bilico, e in divenire, un divenire lento che odora comunque di morte, morte inevitabile e sempre dietro l'angolo (come da tradizione nella cultura messicana): è in bilico la vita di Feliberto Garcia, non solo perché viene messa a rischio nel corso dell'indagine, ma anche (e soprattutto) perché inaspettatamente qualcosa in lui cambia, si affievolisce, forse perché è giunto in quella zona dell'esistenza di ognuno in cui fare un bilancio diventa inevitabile; è in bilico l'indagine sospesa tra diverse chiavi di lettura che spaziano dal complotto internazionale per uccidere il presidente degli Stati Uniti, al complotto internazionale per compiere un colpo di stato a Cuba, al complotto per eliminare il presidente messicano; è in bilico la pace nel mondo anzi, lo stesso mondo in quegli anni vive in perenne quanto instabile equilibrio; e la stessa morte pare muoversi su un baratro che la porta dalla sua incarnazione più banale e violenta alla sua essenza filosofica:
"E a me non rimane che la solitudine della mia vita. Hanno già cominciato a lasciarmi indietro. Li ho accompagnati sulla soglia della porta, e poi hanno proseguito da soli. Lasciandomi al di qua, di fuori."
"Ora (...) è sola. Sola nel letto con tutta la sua morte. Non avevo mai fatto questo pensiero. Uccidere significa condannare una persona alla solitudine."
Rafael Bernal, sceneggiatore e diplomatico, che scrive Il complotto mongolo a Lima, in Perù, intesse una storia avvincente, e getta le basi per un genere che colonizzerà in breve l'intera realtà letteraria di lingua ispana (proprio in quegli anni comincerà a pubblicare Jorge Ibargüengoitia). Il mondo che descrive non è al suo tramonto, al contrario, è ben saldo nel proprio presente che prolungherà lunghe ombre sul futuro dei decenni a venire, piuttosto è Garcia che è il rappresentante di un mondo che va scomparendo: non è solo l'alter ego messicano del classico ispettore nordamericano, è soprattutto un uomo che ha vissuto sulla propria pelle la storia recente del Messico, ne porta incisa nell'anima la violenza e la relativa inclinazione verso l'ammazzatina facile (da pane al pane, vino al vino, per intenderci). Ed è un uomo che proprio in questa storia si trova a valicare (almeno con un piede, se non con tutti e due) la linea di demarcazione che divide il vecchio Messico da quello nuovo, e in questo passaggio cede parte di se stesso alla novità del sentimento (un sentimento trattato con la delicatezza di chi lo maneggia per la prima volta in vita sua; senza scadere nel sentimentalismo, ma cedendo ad uno stupefatto lirismo del sentimento). Non è più lui, Feliberto Garcia, non è più quello che violenta la donna con accanto il cadavere ancora fresco del marito, fresco di dipartita. Ma allora chi è? E qual'è la reale natura del complotto? E qual'è il vero Messico? Se nella prima parte il tono del romanzo è più leggero, a volte dai tratti parodistici (le ripetute ironiche raccomandazioni dei suoi superiori a che non lasci troppi morti sul suo cammino), nella seconda parte prende quota l'intreccio e la suspense, per poi finire in uno scioglimento narrativo nettamente crepuscolare quando non addirittura catacombale. Lo stile "a grana grossa" restituisce la sensazione di un racconto popolare, destinato ad un consumo immediato e veloce, agevole ai più, ma l'intreccio del complotto che stupisce il lettore per la verosimiglianza con la quale viene ordito (le varie ipotesi messe in campo sono solo un parte della paranoia nella quale viveva il mondo in quell'epoca) eleva il materiale narrativo ad un livello superiore. Il reiterare di espressioni e leit motiv (la Mongolia esteriore, Martita, i morti ammazzati, l'Avvocato, l'epoca ormai passata, ecc) diviene un marchio stilistico ben preciso (così come i: fottuto / dannato), il dialogo è quello stilizzato dello sceneggiatore navigato (quale Bernal era), la caratterizzazione dei personaggi è volutamente approssimativa, a volte poggiata sul classico stereotipo ed altre pescata a piene mani dalla vita reale, ma quello che lascia stupefatti, come sempre avviene nei libri di qualità, è la resa finale della narrazione: al contempo all'interno ed al di fuori del solco del genere nella quale si iscrive.
Una storia che è al contempo leggera e "pesantissima", avvincente e straziante. Un classico (fondante) del genere della novela negra.
Ottima "scoperta" della casa editrice LaLinea che nella collana TamTam pubblica romanzi davvero interessanti.
Rafael Bernal nasce a Città del Messico nel 1915: è stato un uomo dalla vita avventurosa e uno scrittore poliedrico. Fu un instancabile giramondo: studiò cinema a Parigi, poi fu in California come sceneggiatore, rientrò in Messico per fondare una casa editrice, si trasferì in Venezuela a lavorare in una televisione, quindi fu assunto nel corpo diplomatico messicano e spedito in Honduras, nelle Filippine, in Perù e infine in Svizzera, dove morì nel 1972. Scrisse per la radio, la televisione, il teatro e alcuni giornali. Oltre al celebre “Complotto mongolo”, ha pubblicato opere di una grande varietà di generi, tra cui: “Tres novelas policiacas” (1946), “Su nombre era muerte” (1947), “Gente de mar” (1950) e “Tierra de gracia” (1963).