"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

martedì 26 aprile 2016

Il male minore, di Carlos Eduardo Feiling, Fanucci editore, trad. di Ilaria Magnani

  Buenos Aires è invasa da spettri (che in realtà non sono spettri, ora ci arriviamo) che solo alcune persone possono vedere, e il Male ha aperto un varco nella Recinzione, proprio sopra la zona di Calle Tristàn Narvaja.
  Inès Gaos, si è appena trasferita in un alloggio non distante dal ristorante di cui è socia assieme all'amico (e non solo, non proprio) Alberto, quando la prima notte che passa in casa (sola, ad eccezione della gatta Azucena) viene terrorizzata da un'apparizione mostruosa. Seguono tragedie: il suicidio del fidanzato (insomma, più o meno), e oscuri presagi. Nelson Floreal è un cartomante che studia come meglio spillare i pochi soldi che gli riesce ai suoi clienti, assiste l'anziana madre e, la sera, si siede fuori dall'uscio di casa e osserva preoccupato un singolare via vai di presenze di non-vivi che si aggira per le strade di Buenos Aires. Inès è una figlia della Buenos Aires bene, colta e cocainomane, Nelson Floreal e la madre si arrangiano come possono, vivacchiano, galleggiano sull'orizzonte quotidiano della sopravvivenza, loro e i loro due cani. Alberto ha la stessa estrazione sociale (e lo stesso vizio) dell'amica e socia in affari Inès, e studia storia delle religioni. Partendo da queste semplici basi l'autore ottiene un'atmosfera cupa (a volte, poche, decisamente splatter) e inquietante ma al contempo non riesce a non perdere una certa leggerezza nello sguardo che è tipica, più che non della letteratura, del cinema. Ma un punto è importante: l'effetto spiazzante che ne deriva stilisticamente è speculare a quello strutturale, ne consegue quindi l'impressione che l'autore sia quasi svagato nel seguire i suoi personaggi e/o lo faccia senza credere fino in fondo alla paura che vuol far vivere ai propri lettori ma, appunto, si tratta solamente di un'impressione. Quest'effetto straniante che emerge dal contrasto cupezza/leggerezza non svilisce le potenzialità del romanzo ma, al contrario, le intensifica, rendendolo un caso unico nel genere. Poi, ci sono particolari che non sono quello che sembrano: ad esempio l'anziana madre malata di Nelson Floreal non è solo una vecchietta sull'orlo della povertà e della morte, è un arconte. Gli arconti, che nel mondo sono 12 - devono sempre essere 12, pena: il disastro su scala planetaria - sono gli unici esseri umani che non sognano, e sono i guardiani della Recinzione. La Buenos Aires de Il male minore, la più europea delle capitali latine, è una città oscura dove solo il nome della topografia ci fa capire dove ci troviamo, ben lontani dallo stereotipo dell'America latina che ha colonizzato l'immaginario occidentale. Il passaggio suicidiario ai tropici è solo una grottesca caricatura dell'idillio naturalistico e marxista (splendido il viaggio in aereo con i "compagni" in visita nell'Avana comunista) che ci si potrebbe aspettare. Dalla casa di Inès, al quartiere, a Buenos Aires, al SudAmerica, ai Tropici, il male si annida dappertutto, avanza, guadagna spazio, demolisce luoghi comuni e colleziona morti, si adatta, accumula energia per allargare il varco e permettere ai due mondi di colare l'uno nell'altro. Feiling ha perfettamente appreso la lezione del maestro del genere Stephen King e mette in scena un male multiforme, che cambia faccia a seconda di chi si trova di fronte, che incarna le paure di coloro che, di volta in volta, tentano di parargli il passo, e un male cangiante è un male che non ha un'identità sua propria. E l'indefinitezza è per sua natura ciò che più crea paura: si teme ciò che non si conosce. Ci fa orrore un volto privo di tratti. Ci terrorizza una minaccia che non capiamo da dove arrivi. Ciò che è sfumato, potenzialmente non ha confini. Ma Feiling va oltre, l'universo semantico in cui fa muovere i suoi personaggi e monta la sua storia, lo costruisce su un'unità di base che lo rende incredibilmente coerente con sé stesso e con la storia stessa: l'intera cosmogonia che regge l'universo de Il male minore e che rischia di mandare in pezzi il mondo così come lo conosciamo è centrato sul sogno. Sul potere distruttivo e creatore del sogno. Torniamo alla Recinzione. Cosa c'è di là dalla Recinzione? Un dimensione nella quale esistono (nel vero senso della parola) i sogni del mondo (o, per essere più precisi: degli esseri umani), un contenitore oscuro nel quale gli arconti recludono l'inconscio del mondo. Ecco il centro innovativo del libro. Non è tanto una questione di apparizioni, di oscuri presagi, di case maledette, di città invase da schiere di fantasmi, di pazzia virale, di abitatori dell'inconscio, streghe, mostri e vampiri (tantomeno!). Il centro del tutto, e in fondo ora che lo sappiamo, e lo sappiamo perché Feiling ce lo ha spiegato (o, per meglio dire: ce lo ha lasciato capire) è l'inconscio collettivo, il male che viene da dentro. Non dall'interno di un singolo essere umano, ma dall'oscurità misteriosa che cova nei sogni dell'umanità intera; e cosa c'è di più spaventoso e perverso dei sogni dell'umanità? Cosa sarebbe la realtà se ciò che l'umanità sogna improvvisamente si materializzasse? O, ancora: e se la realtà fosse quella che è - cioè in molti suoi aspetti e in molte latitudini, un vero e proprio inferno sulla terra - proprio perché quel mondo che sta al di là della Recinzione ha già aperto una falla e si è infiltrato nel nostro presente?
  Il tocco geniale dell'autore sta nel non concentrarsi in spiegazioni complesse, psico-antropologiche, religiose o altro e, poco alla volta che la scopre, nell'accettare la realtà così com'è, assurda e tragica, illogica e pur tremendamente razionale, limitandosi a seguire i suoi personaggi, portandoli freddamente verso il compimento dei loro destini. Se all'apparenza si tratta di un mix riuscito tra Ghostbusters e L'inquilino del terzo piano (e in effetti lo è), in realtà Il male minore è (anche e soprattutto) un romanzo scioccante che procede verso la catastrofe con la stessa leggerezza con la quale l'orchestra del Titanic suonava andando incontro all'iceberg ("Il Titanic è appena rientrato in porto", per citare appunto Ghostbusters). Un libro unico, sicuramente in debito con l'immaginario cinematografico ma al contempo saldamente letterario, un libro strano e straniante, che spiazza il lettore portandolo ad assumere lo sguardo doloroso e incredulo di chi sa di dover morire di lì a poco (e i personaggi del romanzo muoiono, uno dopo l'altro, come farà il suo autore, con una facilità repentina, illogica eppure assurdamente naturale).
  Il capitolo finale, il cui contenuto qui non svelo, è illuminante.  E' solo alla fine che ogni tassello trova il suo alloggio, e la realtà si lascerà invadere dai propri sogni.




  L'autore, Carlos Eduardo Feiling, quando muore (di leucemia) nel 1997 ha 36 anni e all'attivo una raccolta di poesie (Amor a Roma, 1995) e tre libri di narrativa: El agua electrizada, 1992, Un poeta nacional, 1993 e El mal minor, finalista al premio Planeta Biblioteca del Sur del 1995, l'unico suo libro tradotto in Italia. Curò inoltre l'antologia Los mejores cuentos del terror.
   Era nato a Rosario nel 1961. Laureatosi in Lettere e Filosofia, iinsegnò linguistica, latino e filosofia, prima di dedicarsi, dal 1990, esclusivamente al mestiere di scrittore e giornalista.


sabato 16 aprile 2016

La casa di carta, di Carlos Maria Dominguez, Sellerio editore, trad. di Maria Nicola

 Una docente universitaria di letteratura ispanica di Cambridge, Bluma Lennon, muore investita da un'auto mentre legge una vecchia edizione delle poesie di Emily Dickinson. Il professore che prenderà il suo posto (e io narrante del romanzo) riceve per posta un pacco destinato alla professoressa deceduta. Il pacco contiene un'edizione del capolavoro di Joseph Conrad, La linea d'ombra, che reca una dedica firmata dalla stessa Bluma per un certo Carlos Brauer, facendo riferimento ad una trascorsa notte di passione. Il libro, per assurdo, è ricoperto di tracce di cemento, come se col cemento fosse stato impastato, quasi fosse un mattone e non un libro. Da queste premesse prende l'avvio una detection dai modi garbati che si sposta prima a Buenos Aires e poi a Montevideo, in cerca del misterioso Carlos Brauer, e poco alla volta scivola verso un abisso di delirio al quale l'autore si affaccia senza peraltro mai immergervisi realmente. Sbircia la follia dagli argini del maelstrom, ma subito se ne ritrare, preferendo studiarne gli effetti su quanti hanno più o meno incidentalmente conosciuto Brauer (Delgado, e i pescatori della spiaggia di Rocha) e, soprattutto, sulla storia che si trova ad indagare, vale a dire quella tra stesso Brauer e la professoressa Bluma, fino ad ipotizzarne connessioni più o meno dirette con la morte stessa della docente.

  I libri cambiano il destino delle persone. Ci fu chi lesse "I pirati della Malesia" e divenne professore di letteratura in remote università. "Demian" condusse all'induismo decine di migliaia di giovani, Hemingway ne fece degli sportivi, Dumas mandò all'aria la vita di migliaia di donne, e non poche scamparono al suicidio grazie ai manuali di cucina. Bluma ne fu vittima. Ma non fu l'unica. Il vecchio professore di lingue classiche Leonard Wood rimase emiplegico ricevendo sulla testa cinque volumi dell'Enciclopedia Britannica crollati insieme ad un ripiano della libreria; il mio amico Richard si ruppe una gamba nel tentativo di Raggiungere "Assalonne, Assalonne!" di William Faulkner che, mal collocato su uno scaffale, causò la sua caduta dalla scala. Un altro mio amico di Buenos Aires si ammalò di tubercolosi nei sotterrnei di un archivio pubblico e conobbi un cane cileno che morì di indigestione dopo aver divorato "I fratelli Karamazov" in un pomeriggio di furia.

 La casa di carta è un romanzo (breve, 85 pagine appena) che parla di libri, dell'amore per i libri, dell'ossessione per i libri, e di come i libri interferiscano con la vita delle persone fino a modificarne i percorsi ed i destini. Ma non solo, ovviamente. In un gioco di rimandi e citazioni Dominguez intesse una riflessione su cosa sia la conradiana "linea d'ombra" e su cosa voglia dire stare al di qua o al di là di essa. Cosa succede quando Brauer perde il controllo della propria ossessione e si lascia fagocitare da essa, e dove lo condurrà la follia che lo abiterà, oltre la spiaggia di Rocha? Dove si perdono le tracce del suo destino? E in quale modo si sono intrecciate con quelle della professoressa Bluma?
E poi, come riferito da Delgado, come poteva Bruaer conoscere in anticipo la fine di Bluma.
  Quando Brauer perde la chiave ( o il codice, o la mappa) per orientarsi nella propria sterminata biblioteca, smarrisce il proprio orizzonte, e la sua vita va in frantumi. Ma il problema era nato prima, dalla sua improvvisa mania di catalogare i libri secondo una logica di affinità tra gli stessi.

Voglio dire che Pedro Paramo e "Il gioco del mondo" sono due opere di autori latinoamericani, ma se si vuole seguire il cammino dell'una è necessario risalire a William Faulkner, mentre l'altra ci porta a Moebius. O per dirla in altro modo: Dostoevskij finisce per essere più affine a Roberto Arlt che a Tolstoj. E, volendo essere più chiari, Hegel, Victor Hugo e Sarmiento meritano certamente di stare più vicini di Paco Espìnola, Benedetti e Felisberto Hernàndez.

  O forse la crepa che aveva dato il via alla catastrofe s'era presentata prima ancora, forse in un punto della storia che nè noi nè l'io narrante abbiamo modo di conoscere, forse in quella citata notte di passione vissuta anni prima da Brauer e Bluma. Perchè (e, in ogni caso:come?), altrimenti, Brauer, descrivendo la sua amante di una notte all'amico Delgado, era stato in grado di predire con precisione lancinante la morte?

... ho conosciuto un'ispanista inglese, molto carina,... una di quelle accademiche focose e petulanti, abituate a rivestire ogni cosa di citazioni letterarie, che se potessero scegliere il modo di morire vorrebbero finire sotto un'automobile mentre leggono Emily Dickinson.

  Dominguez intreccia un affascinante gioco di rimandi nel quale la bibliofilia è una malattia che rende più sopportabile l'esistenza, pur rovinandola, e dove, forse, l'unico colpevole della morte della professoressa Bluma, è un libro. O forse no. Dominguez, affabula, costruisce un meccanismo elegante che non si spinge alle estreme conseguenze della propia trama, ma che affabula il lettore e lo lascia a riflettere, in una casa di carta, sulla spiaggia di Rocha.

Carlos Maria Dominguez (Buenos Aires, 1955), è anche giornalista e critico letterario. I suoi romanzi e racconti, che sembrano colloquiare con i temi e le ispirazioni intellettuali provenienti dalle parti di Borges, Buzzati o Calvino, sono stati pubblicati in diversi paesi. La casa di carta è del 2001.
 

 

domenica 3 aprile 2016

Mumbo Jumbo, di Ishmael Reed, Minimum Fax editore, trad. di Anne Meservey

Scritto nel 1972, Mumbo Jumbo è una follia: contorta, sperimentale, incomprensibile; e incredibilmente lucida. Riportare qui la trama è un'impresa, e forse servirebbe a poco, non tanto perché, come ovvio, la trama non sia realmente importante, e non lo è, come non lo è mai d'altronde, quanto perché la commistione di generi e il caos (controllato) della narrazione di Reed rende oggettivamente difficile seguirla. Mi spiego: è difficile seguirla, coerentemente. In realtà si segue altro, che forse non è neppure il sottotesto, quanto il punto di vista. La sovversione letteraria in questo libro viene attuata dal cambio a 180° del punto di vista. Una rivoluzione copernicana. Non è un libro sulla cultura black né, per quanto per certi versi possa dispiacere al lettore in cerca di più o meno facili esotismi, un libro sul voodoo (e neppure sul jazz o sul dixieland) e tantomeno è un semplice libro con protagonisti di colore. Vado oltre, non è un libro sulla negritudine: Mumbo Jumbo si spinge follemente (la ironica follia - o la folle ironia - cervantina che non ci permette di capire fin dove ci troviamo di fronte alla realtà e fin dove siamo noi a scivolare nella follia, e a credere in essa) a rileggere la storia del mondo sotto una lente totalmente diversa da come il mondo l'ha sedimentata nel corso della sua storia. Il centro non è più la cultura occidentale, non c'è l'illuminismo nè la rivoluzione francese a fungere da perno, la realtà non si articola attorno ad interpretazioni marxiste nè fideistiche/cattoliche: la storia del mondo, a guardarla bene (ci dice Reed), è una lunga lotta tra il freddo razionalismo occidentale (il suo cercare una logica, progredire per gradi, confidare in un finalismo storico, nello scientismo, eccetera) e un principio dionisiaco-animista-caotico incarnato nell'epidemia di Jes Grew che di tanto in tanto emerge dal suo sonno carsico e, come un virus, invade le nazioni, facendole ballare, riportandole in contatto col ritmo matto e ossessivo che è il cuore pulsante del mondo. Quel ritmo che è il mondo primigenio, che dà la vita e porta alla morte, l'eco del caos pre-BigBang che ancora tutto permea, pur sotto un'apparenza di ordine e logica. Reed, nella sua partigiana e orgoglioso rilettura della realtà, va oltre, si spinge a cannibalizzare il punto di vista occidentale e a farlo proprio: c'è una cultura che, dall'inizio della storia, ha plasmato il mondo, e non è quella occidentale, bensì quella africana. Per fare questo imbastisce una storia che è un pazzo collage che ruota attorno ad una finta detection portata avanti da investigatori che (ovviamente) non sono tali: Papa LaBas e Black Herman. Siamo negli anni 20 e l'epidemia di Jes Grew si sta espandendo per gli Stati Uniti. La reazione bianca viene portata avanti dall'Ordine Wallflower in una complicata alleanza con i Cavalieri Templari. Jes Grew è musica, abbastanza virale e potente da mettere in forse la stessa sopravvivenza della società occidentale così com'è conosciuta, può sbriciolarne i pilastri, ma per raggiungere la massima potenza d'urto ha bisogno delle sue parole, del Testo. Jes Grew si espande in cerca del proprio Testo. Il testo dell'Opera. Attorno a questo scenario apocalittico, la grande guerra segreta tra l'Opera e l'Ordine Wallflower s'incarna in una serie di personaggi tanto sbilenchi da risultare, a volte, perfettamente credibili. La Grande Cospirazione muove le sue pedine, infiltra androidi neri nei giornali e nella vita pubblica e culturale perché questi smorzino la forza rivoluzionaria della Black Renaissance, ridicolizza la febbre di Jes Grew dipingendola come semplice isteria tardo adolescenziale con radici selvagge, neo animismo patologico, cerca in ogni modo di depotenziarla, utilizzando personaggi oscuri e improbabili che sembrano usciti pari pari dalle indagini sull'uccisione di JFK. Sullo sfondo del presente storico della narrazione, la Guerra Sporca degli Usa contro Haiti, e nel passato la reinterpretazione della mitologia egizia e del mondo magico esoterico in chiave black. Quindi: il dixieland e il jazz come possessione voodoo, come Jes Grew, che si allarga a macchia d'olio, che costringe i bianchi a ballare fino allo sfinimento, fino a crollare in terra esanimi e a morirne, o a non essere più sé stessi. Quindi: la reazione bianca attraverso l'Ordine Wallflower, smontare il contagio, limitarlo, denigrarlo culturalmente e non solo. La guerra sporca ad Haiti. Le antiche guerre tra dei egizi che incarnavano principi opposti (e in questa maniera pure lo spirito razionalista occidentale viene inglobato dalla cultura africano-egizia). La ricerca del testo dell'Opera. La magia come la vera Via, o semplicemente come la vera vita. Non c'è nulla di strano o affascinante nella magia che compare in Mumbo Jumbo, è semplicemente un altro modo di vivere: il modo di vivere. Anzi, il vero modo di vivere. La magia, o una certa forma di essa, sta nella capacità di Reed di combinare un pastiche che stravolge ogni aspetto delle certezze occidentali, demolendole (da notare le numerose note bibliografiche) e costringendo (in maniera divertita ma anche violenta, arrogante) ogni lettore a vedere il mondo con occhi nuovi, neri, africani, ascoltando un ritmo che è il cuore pulsante della storia, della vera storia di Jes Grew, del Mumbo Jumbo, del Libro, dell'Opera.


Ishmael Reed è nato nel Tennessee nel 1938. Tra gli scrittori afroamericani più conosciuti della sua generazione, è autore di romanzi, poesie e saggi, tra cui The Complete Muhammad Ali, una biografia del leggendario campione di boxe.