"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 23 marzo 2012

Stella distante, di Roberto Bolano, sellerio editore


Questo libro è, per citare una frase del libro stesso, una sorta di "ultima trasmissione dal pianeta dei mostri". A questo punto c'è da chiedersi chi sono (o cosa sono) i mostri, quantomeno quelli che si muovono all'interno del libro stesso. Sono gli stessi che si muovono, vivono, respirano e, vivaddio, muoiono, nel mondo reale. I mostri (al plurale) sono Carlos Wieder, e dico i mostri perchè Carlos Wieder non è un semplice individuo, e neppure si limita ad essere solo un mostro, Carlos Wieder è molti mostri insieme. E nel contempo è un individuo, nel senso che è un uomo in carne ed ossa e, addirittura, è un artista, e sappiamo che per Bolano l'artista (lo scrittore) è "quasi una persona", o "non proprio una persona". Comunque non proprio una persona normale. Un mostro. Un monstruo. Se nella realtà non è mai vissuto un uomo di nome Carlos Wieder con le caratteristiche e la biografia che si possono evincere dal libro, poco importa, perchè ne sono vissuti altri, molti. E ne nascono (e muoiono) in continuazione, come nascono e muoiono in continuazione gli esponenti di qualsiasi specie. I mostri non sono altro che una sottogruppo della razza uomo. Tutta la narrazione è una detection alla ricerca di Carlos Wieder, ma in realtà è qualcosa di molto più profondo e terribile. E' lo sforzo sovrumano e contemporaneamente totalmente umano di comprendere cosa sia Carlos Wieder. E' un artista che scrive poesie nel cielo? O è un torturatore ed assassino sotto la dittatura di Pinochet? Un fotografo pazzo? Un cameraman di snuff movie? Un poeta nazi-fascista avanguardista? La voce narrante del libro lo ha conosciuto ad un seminario di poesia, in gioventù, ed allora era una specie di playboy ed un ipotetico poeta che si faceva chiamare Alberto Ruiz Tagle, poi però, in seguito al colpo di stato in Cile, ne perde le tracce. In seguito sembra ricomparire, ma con un altro nome, cioè nei panni appunto di Carlos Wieder, ma rimane sempre una sorta di spettro imprendibile, lontano, dai contorni sfumati, un ombra riflessa in uno specchio deformante che si percepisce in lontananza e che proietta sè stessa su situazioni e realtà sinistre. Sinistre e grottesche. Sinistre, grottesche ed oscene. Ma Carlos Wieder, il poeta-aviatore, è davvero Alberto Ruiz Tagle? Il narratore impiegherà una vita (o poco meno) per scoprirlo, per rendersi conto alla fine che la risposta non sarà ciò che lo potrà portare a soddisfare le sue domande. Perchè quelle rimangono. Chi sono i mostri, da dove nascono? Dove svaniscono ad un certo punto? Perchè esistono, i mostri? Rodrigo Fresàn, in un articolo in cui parla dell'amico Bolano (vedi qui) lo definisce come " l'uomo che scrisse di loro (dei mostri) come se li osservasse dalla parte opposta di un microscopio o di un telescopio", e questa è la sensazione che si ha leggendo questo breve capolavoro, di trovarsi dalla parte opposta di un miscroscpio, o di un telescopio, noi stessi intenti ad inseguire un ombra in giro per il mondo ed attraverso gli anni, per poi scoprire che, anche qual'ora la raggiungessimo, si tratterebbe sempre e solo di un'ombra. Il corpo che proietta quell'ombra rimane, sempre e comunque, inconoscibile, misterioso e pericoloso, immerso in quel "territorio del pericolo" che è la letteratura almeno quanto lo è la vita. Il corpo che proietta quel'ombra (Carlos Wieder) e mille altre, è il male, lo stesso che si muove e fa muovere l'intero romanzo 2666, e che si sposta per il globo come una tempesta, dal Cile all'Europa, dai cieli sudamericani alle piccole riviste d'avanguardia poetica dell'Europa, dai set di snuff movie, ai circoli di militari golpisti, e che aleggia su ogni singola parola del libro come un morbo sinistro e, contemporaneamente, come un impossibile punto interrogativo. Come dire, l'ultima trasmissione dal pianeta dei mostri.

  Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare qui. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.

sabato 18 febbraio 2012

I giardini di Kensington, di Rodrigo Fresàn, Mondadori editore

Tutti i bambini, tranne uno, crescono. Questo è quanto sostiene la prima immortale frase di Peter Pan (Peter e Wendy), di Matthew Barrie, ma quando ciò avviene, ammonisce Fresàn, è una catastrofe. Il libro racconta due storie che si svolgono su due linee temporali differenti e che hanno come punto d'unione, appunto, Peter Pan. La prima linea, narrata dall'autore di libri per l'infanzia Peter Hook, racconta la sua storia, i suoi genitori hippie "al revés" nella swinging London, e la morte del fratello e, sempre rivolgendosi ad una terza persona, Keiko Kai, che poco alla volta giungeremo a capire chi sia. La seconda linea narrativa, sempre raccontata dalla voce di Peter Hook, è più o meno la biografia di Matthew Barrie, lo strambo e geniale inventore di Peter Pan; dico più o meno perchè è una sorta di biografia romanzata e come ogni biografia romanzata è molto più avvincente ed anche più approfondita di una normale biografia.Come Hook anche Barrie ha perso un fratello in tenera età e come Hook è stato irrimediabilmente segnato da questa tragedia, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, è questa morte prematura che spinge Barrie al suo amore esagerato (e anche un filo morboso) per i bambini, forse, addirittura, ci sussurra l'autore, a questo fatto bisogna far risalire la ferrea ed esplicita volontà di Barrie di non crescere, di creare un punto di contatto tra la Neverland da lui creata - cattedrale assoluta della fantasia di ogni tempo - e la grigia realtà che spetta in sorte a noi tutti. Questo punto di contatto è rappresentato dai Giardini di Kensington, che sono quel luogo reale dove l'autore concreta le sue fantasie e dove egli stesso pare trovare una sorta di porta che gli permette di fuggire a prendere appunti per i suoi libri in un universo parallelo a misura di bambino. E' nei Giardini di Kensington (dove si trova la statua a Peter Pan) che Barry incontra Silvya Llewellyn Davies e i suoi figli, che diverranno la principale fonte ispiratrice su cui modellare la sua creatura immortale. Peter Hook ha inventato (ed è diventato famoso grazie a) Jim Yang, un bambino che salta da un punto all'altro del tempo inforcando un cronocicletta, ma fin dall'inizio pare prendere le distanze dalla sua creatura così come in un certo qual modo anche dalla sua stessa vita, come se Jim Yang fosse per lui una maledizione. Al contrario di quanto viene specificato in quarta di copertina, non è vero che Peter Hook, con la scusa di parlarci di Barrie e Peter Pan, ci racconta soprattutto la sua storia: è vero piuttosto il contrario. Il centro del libro non è la linea temporale in cui si svolge la storia di Peter Hook, dall'infanzia fino al presente (è una sorta di rincorsa, la sua, per fare in tempo a raggiungere il presente, e raccontarlo), ma la storia di Barrie, la sua vita, ciò che di lui non può essere raccontato in una biografia attraverso dati certi ma che può essere indovinato, il suo attaccamento all'infanzia ed ai bambini LLewellyn Davies, alla nascita di Peter Pan ed al ruolo sempre più preminente che avrà nella sua vita, fino ad oscurarlo e a sbattergli in faccia quelle questioni dalle quali Barrie stesso fuggiva. Una vita passata a fuggire. Trascorsa a crearsi alibi sufficienti per fuggire in santa pace, sotto gli occhi di tutti. Con gli applausi di tutti. E fino ad un certo punto il gioco funziona. Fino a quando la vita e le sue regole non vengono a presentare il conto. Ed è una carneficina. In pochi anni muoiono tutti, o quasi. La madre di Barrie, la sorella, il padre dei lost boys Llewellyn Davies, Arthur, la madre, Silvya, poi giunge la guerra e quelli che erano diventati i suoi bambini sono chiamati sotto le armi, e addio fantasia. Sembra quasi che la prima guerra mondiale sia sorta come sinistra risposta all'universo che Barrie stava creando col suo Peter Pan, per mettere un freno a quel mondo di fantasia giocosa che, come un gorgo, stava risucchiando la vita reale. E' questo il punto centrale del romanzo, il cardine, il momento cruciale in cui i marchingegni del palcoscenico s'inceppano e quella che sembrava una fuga perfetta si arresta, nel modo più brutale. Barrie invecchia, nonostante i suoi sforzi, nonostante cerchi di non pensarci, invecchia. Le sue famiglie, quelle che gli sono toccate in sorte e quelle che si è creato, vengono decimate, le persone scompaiono come dinosauri, e i bambini, quelli che erano il suo elisir di lunga vita, diventano grandi, maturano, cambiano, non vogliono più giocare, si sposano e prendono il volo, combattono in guerra, muoiono e si dimenticano di quel bambino strano, l'unico che non cresce, che rimane, solo, sullo Scoglio degli Abbandonati, a Neverland, in attesa che qualcuno vada a salvarlo, a concedergli il giusto riposo.
  Il libro - magnifico - riflette sul rapporto tra lo scrittore e la sua opera, tra l'individuo e la vita, e lo fa prendendo come territorio di studio l'esistenza speciale di un uomo ed uno scrittore specialissimo, una sorta di rock star del suo tempo rimasto schiacciato dalla fama della sua creazione. A suo modo, un eroe - o antieroe - pop, un genio assoluto a cui, come a tutti i geni, la realtà andava stretta.
  E ogni definizione o etichetta che si voglia attribuire a questo libro, potete stare certi che gli andrà stretta, perchè è qualcosa di diverso. Da cosa? Più o meno da tutto.
  Così come Fresàn non è, come recita la copertina, un Borges pop (Fresàn è Fresàn). Non ha nulla a che vedere con Borges, ma proprio nulla, a parte il fatto di essere argentino.





 Rodrigo Fresàn è un autore da noi inspiegabilmente poco conosciuto. Argentino di nascita, vive a Barcellona, dove lavora come giornalista e dove dirige la collana Roja y Negra, nella editorial Mondadori. Da noi sono stati tradotti, I giardini di Kensington (per Mondadori) e Esperanto (per Einaudi).
E' uno dei grandi autori contemporanei della narrativa sudamericana. Vale la pena di imparare lo spagnolo solo per leggerlo.

mercoledì 15 febbraio 2012

Suicidi in capo al mondo, di Leila Guerriero, Marcos y Marcos edizioni

  In Argentina, dove si svolgono i fatti narrati, ci sono due Las Heras, una si trova nella regione di Mendoza, contingua alla capitale provinciale la Gran Mendoza, ed è una città di 180.000 abitanti, l'altra - quella di cui si parla in questo libro d'inchiesta, si trova in Patagonia, che già sarebbe a dire in culo al mondo - è un piccolo centro abitato nato e cresciuto attorno ad industrie di estrazione petrolifera. Esaurito il boom, si è ritrovato svuotato dal suo interno, visitato solo da un vento sabbioso ed ininterrotto e i suoi abitanti sono rimasti inchiodati alla sensazione precisa e lancinante di essere soli ed irrilevanti, lontani da tutto e da tutti, e da tutto e tutti guardati come una razza particolare, una razza bastarda. Leila Guerriero è una giornalista, nata a Junìn e dai diciotto anni residente a Buenos Aires, dove lavora come cronista. Come tutti, non ha mai sentito parlare di Las Heras, perchè Las Heras è come se non esistesse, nè per l'Argentina nè per il mondo, fino a quando non compare una notizia sui giornali nazionali legata al piccolo centro patagonico: un'ondata di suicidi senza precendenti. Da qui comincia un'investigazione sul Grande Nulla, sul Vuoto teso ad unire le industrie di estrazione petrolifera ed il centro abitato che ospita chi in quelle industrie si abbrutisce consumandosi, giorno dopo giorno, per portare a casa il pane. Vale a dire persone che sono giunte a Las Heras da ogni dove nei periodi di massima crescita economica e che, una volta sgonfiatasi la bolla dei sogni, si ritrovano in culo al mondo appunto, sferzati dal vento, privi di sogni, di spazi, di senso della comunità o anche solo della famiglia (di una famiglia normale), abbandonati a sè stessi e con la certezza che qualunque cosa possa capitare loro, non interesserà a nessuno. Non è Ciudad Juarez, è Las Heras. All'apparenza non è il nostro personale inferno sulla terra, come Bolano definisce Ciudad Juarez, ma solo un posto dimenticato da Dio abitato da grandi lavoratori. Ma questa è solo l'immagine con cui la città si mostra al mondo, quello stesso mondo che se ne strafotte non solo dell'immagine di Las Heras quanto della città stessa e di coloro che la abitano. La protagonista, Leila Guerriero, si reca sul posto, si aggira per la cittadina spinta dal vento e, digrignando la sabbia che le invade la bocca, si sposta da una persona ad un'altra, da un sopravissuto ad un altro, da un nucleo famigliare ad un altro e con tutti parla o, per meglio dire, tutti ascolta, e ci riporta le voci che si giustappongono a comporre una sorta di  Spoon River sudamericana. Chi parla in questo caso sono i vivi, quelli che sono restati e che si dibattono tra domande che non riescono a trovare risposta, ma la sensazione è la stessa. Un paese fantasma, come la Comala del Pedro Paramo, abitata da fantasmi le cui voci diventano sussurri erosi dal vento. All'inizio ci sono giovani - perchè sono quasi tutti giovani, e giovanissimi - che si sono tolti la vita, chi sparandosi chi appendendosi ad una trave, e c'è l'incredulità, perchè nessuno all'apparenza aveva motivi per farla finita: allora le voci popolari mettono in piedi altre voci, voci che parlano di una setta, di una lista di questa setta dove sarebbero stati indicati i nomi dei suicidi e le date nelle quali avrebbero dovuto dire addio al mondo, voci che parlano degli indios morti che si aggirano per la città e reclamano nuovi morti, ma questo, appunto, è l'inizio, la mitologia che l'essere umano crea per spiegare ciò che apparentemente una spiegazione non ha. La protagonista passa di casa in casa e ascolta i racconti e i ricordi delle madri, delle sorelle, dei fratelli e degli amici dei morti (dei padri, quasi mai, non ci sono quasi mai i padri) ed è allora che dallo sfondo emerge poco alla volta un'immagine diversa, fatta di ragazze madri, ragazzine madri e, non di rado, di bambine madri, di ragazze, ragazzine e bambine violentate, di padri assenti, spesso giovani anch'essi, che prendono il volo e di loro non se ne sa più nulla, di nuovi patrigni maneschi, di violenze fisiche e psicologiche accettate e narrate quasi come se si trattasse di un destino ineluttabile e, quindi, in qualche modo giusto. Una realtà messa insieme nei bordelli, dove le donne smettono di essere tali e diventano carne in vendita, nelle case dove le donne smettono di essere tali e diventano semplicemente una proprietà privata dell'uomo, dove le figlie non è bene che studino, dove, anche se fosse accettata l'idea che una figlia femmina possa voler studiare, le distanze dalla prima università sono più simili a quelle tra due pianeti che tra due città. Una realtà dove l'alcool s'impasta con la fatica del lavoro, dove oltre all'impianto petrolifero, alla casa ed al bordello non c'è nulla, neppure una piazza dove trovarsi, dove parlarsi, dove imparare a gestire la rabbia, la differenza di idee, la gelosia, l'amore, la frustrazione. Ed è qui, poco alla volta, testimonianza dopo testimonianza, in maniera quasi sommessa, che le ipotesi della setta e degli indios morti sfumano e si fa prepotente un'altra realtà, più banale ma anche più terribile. La solitudine, la consapevolezza della solitudine non scelta ma subita, l'abbandono dei sogni, il senso di inadeguatezza mascherato da orgoglio di una diversità che pare congenita ma è geografica. Lo sgretolarsi del senso comune, dei legami famigliari, di un centro (uno specchio) nel quale potersi riconoscere. Tutto ciò, Leila Guerriero, lascia che filtri a noi poco alla volta, con un timbro elegante e perseverante, lascia che la sua voce letteraria consumi le nostre certezze, come il vento che imperversa notte e giorno a Las Heras, e ci lascia infine di fronte al grande Nulla, o al grande Vuoto, che è esattamente quello che deve fare la grande letteratura: porci in piedi ad affrontare il drago. La letteratura, diceva Bolano, è un lavoro pericoloso, è quella cosa che si pianta "nel territorio del rischio". In questo senso Suicidi in capo al mondo non è solo non-fiction-novel nella scia di Truman Capote, Thomas Wolfe, Rodolofo Walsh o Sergio Saviane, ma vera letteratura giornalistica, letteratura a tutto tondo.

Uscito nel 2007, è ancora prenotabile su IBS.

 Leila Guerriero nasce a Junín, in provincia di Buenos Aires, nel febbraio 1967. A diciotto anni si trasferisce a Buenos Aires, dove si laurea in Scienze del territorio coltivando in parallelo studi letterari e filosofici. Nel 1991 esordisce come giornalista scrivendo per il quotidiano argentino «Pagina/12».
Si dedica alla ricerca sul campo, appassionandosi al giornalismo di inchiesta e approfondimento.
Nel 1996 entra in pianta stabile nella “Revista” del quotidiano «La Nación» e pubblica con Alfaguara la biografia della regista argentina María Luisa Bemberg per l’antologia Mujeres argentinas.
Dal 2000 si moltiplicano le collaborazioni con giornali e riviste di vari paesi dell’America Latina e con «El País» spagnolo. Con Suicidi in capo al mondo, il suo primo libro, è entrata nelle classifiche dei best seller in America Latina. Los suicidas del fin del mundo lo pubblica nel 2005, e nel 2009 pubblica Frutos Extranos, non tradotto in Italia.

  Qui potete trovare la pagina di MarcosYMarcos in cui è postato questa recensione

martedì 31 gennaio 2012

I dispiaceri del vero poliziotto, Roberto Bolano, Adelphi editore

  Non sono d'accordo, non è un romanzo dannato (nè tantomeno indiavolato, a seconda delle traduzioni che sono state fatte. La traduzione corretta comunque è indemoniato) e il lettore non è il poliziotto affranto del titolo. Dev'essere destino che non sia mai d'accordo con le affermazioni di Bolano circa le sue opere, così come non lo ero quando deprecava Il Terzo Reich  ("una vera merda"), a mio parere un libro magnifico. Ho atteso allo spasimo questo libro che - ci tengo a precisare, perchè in altri blog ho letto che è l'ultimo titolo di Bolano che ci aspetta - non sarà l'ultimo inedito, in quanto deve ancora essere tradotta in Italia la raccolta di racconti El secreto del Mal e quella di poesie La universidad desconocida, l'ho cercato disperatamente in lingua originale per poterlo leggere quanto prima, ma devo essere sincero, sono rimasto deluso. Non tanto - non mi capita mai con Bolano - ma un po' deluso si. Abbastanza. In questo I dispiaceri del vero poliziotto ritroviamo Amalfitano e sua figlia Rosa, scopriamo qualcosa di lui, della sua vita a Barcellona, del suo lavoro  di professore universitario (dei suoi colleghi e, soprattutto, dei suoi studenti) e della sua "fuga" dalla città catalana per evitare una cacciata con ignominia causa le sue spericolate e un po' disperate (o forse no) frequentazioni sessuali. Lo vediamo giungere come un esiliato a Santa Teresa, che sulle prime non prelude nulla di quello che è realmente - un anticamera, o forse il salotto o la camera da letto, o il balcone stesso dell'inferno -, solo una città al confine del mondo, al sud di nessun nord come direbbe Bukowski. Lo spiamo prendere le misure al luogo, alla gente, all'università, alle sue nuove frequentazioini sessuali, lo seguiamo aggirarsi per i vicoli vecchi di Santa Teresa (pagine veramente notevoli, soprattutto in lingua originale, capaci di scavare nella povertà, nell'immediatezza, nei chiaroscuri e nella precarietà di quei vicoli che sono e non sono i vicoli di Genova, di Napoli, di Barcellona, di Lima, di Calcutta, di Rio) e leggiamo la sua corrispondenza lievemente straziata e sempre sporcata da uno scarto di tempo o di senso di troppo, col poeta Padilla, suo amante catalano e prima causa del licenziamento forzato dall'Università di Barcellona.
La scrittura è sempre di un livello elevatissimo e certe descrizioni di luoghi o di momenti estremamente azzeccate, ma la storia s'interrompe mentre ci chiediamo cosa succederà e, al contempo, cosa già sta succedendo. Non lo sapremo mai. La seconda parte è terribile: una serie di riassunti dei romanzi di Arcimboldi, un elenco di nemici di Arcimboldi, appunti da lezioni, questionari ed elencazioni varie. Poi, finalmente, si giunge alla terza parte, Assassini de Sonora, e finalmente la storia torna a scorrere, o forse comincia a scorrere realmente per la prima volta, anche se il balzo temporale è al revés, indietro nel tempo. E seguiamo le avventure di Pancho Monje e Pedro Negrete, storie che s'intrecciano tra loro e con quella di Amalfitano, cominciamo a vedere (o forse ad indovinare) i primi sviluppi, il contorcersi delle storie e dei personaggi su loro stessi, sulle proprie ossessioni e sui propri destini più o meno sfacciati, maledetti, e casuali. Spacciati. Poi finisce. Il fatto che termini senza una fine non è una colpa dell'autore e non è neppure il limite del libro, magari può essere letto come un marchio di fabbrica. La questione è che è squilibrato nel complesso. La parte centrale (io vi ho visto un divisione tripartita, ma i capitoli sono cinque), quella su Arcimboldi, è sicuramente figlia dell'amore dell'autore per le avanguardie e dello sperimentalismo, ma è pure terribilmente pesante e sproporzionata rispetto al resto dell'intreccio ed alla lunghezza stessa del libro. Mi spiego. Si ha la sensazione che se l'autore avesse potuto lavorarci sopra e licenziare il testo terminato, la parte arcimboldiana sarebbe stata della lunghezza e del peso corretto rispetto ad un libro più ampio, di un respiro maggiore, con un intreccio magari non terminato ma lasciato a sospendere nel vuoto ad uno stadio più avanzato, più complesso. Voglio dire che il fatto che sia un libro non terminato lo si sente non tanto dal finale quanto dal complesso della storia e dalla sproporzione delle sue parti.
  Per questo non lo considero tra le opere maggiori nè tra le migliori di Bolano, anche se rimane il fatto che la stragrande maggioranza degli scrittori viventi (e morenti, morti e moribondi) darebbe il braccio sinistro (i mancini) e alcuni quello destro pur di saper scrivere come lui.
  Penso che, comunque, sia un libro adatto a quanti già stimano Bolano, a chi già lo conosce e lo ama, anche perchè potrà scorgervi qua e là sviluppi e personaggi magari solo abbozzati ma già conosciuti in 2666 - questo sì un capolavoro, il capolavoro di Bolano -, in Stella distante, Chiamate telefoniche e I detective selvaggi; chi dovesse cominciare con questo libro ad accostarsi al mondo assoluto e dissoluto, e caotico, dell'autore cileno, temo che avrebbe difficoltà a trovare gli stimoli per affrontare il resto della sua opera. E sarebbe il peccato più grande.

  Aspetto la traduzione de Il segreto del male. Alcuni racconti sono al livello dei suoi migliori e la raccolta in sé è di sicuro valore.

 Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare qui. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.

sabato 28 gennaio 2012

I malcontenti, di Paolo Nori; Einaudi editore

Quando ho avuto tra le mani questo libro di Paolo Nori, un paio di giorni fa, mi sono detto che l'avrei recensito quanto prima, e mi era sembrata una bella idea, nuova, come se fosse il primo libro di Nori che leggevo, poi mi sono domandato perchè mai non ne avessi recensito uno suo prima, dal momento che li ho letti (quasi) tutti.
Non ho una risposta. Solo, mi sono ricordato di come sono incappato la prima volta in un suo libro, Mi compro una gilera. Mi era piaciuto il titolo e la copertina, la foto in copertina, che era quella di sua figlia, personaggio che torna spesso nei suoi libri nei panni de l'Irma. Poi da lì in avanti non mi sono più fermato. Mi sono chiesto il perchè. Non lo so. Non so neppure perchè mi è piaciuto questo libro, I malconenti. Vedo di spiegarmi. Se lo leggi per la prima volta, Nori (qualsiasi cosa di Nori), le prime righe ti domandi se questo è scemo o cosa, se ti sta prendendo per il culo o cosa, perchè lo stile è incredibilmente discorsivo, ma non nel senso che fila via liscio, non solo in questo senso, quanto piuttosto perchè è un parlato che nessuno aveva osato proporre in testi letterari, con frasi smozzicate, interruzioni, salti logici, errori sintattici e via discorrendo. Provate a registrarvi quando parlate e poi sbobinate il tutto su carta e potrete rendervi conto di ciò che intendo. Ovviamente poi capisci che quel caos di stampo prettamente orale è stato usato dall'autore in maniera programmatica, in realtà creando un finto caos che dopo un po' (poco per la verità) crea un ritmo tutto suo e ti entra sottopelle. Da quel punto in avanti non hai modo di mollare il testo. Immagino per via del fatto che è un po' come avere l'autore, Nori Paolo, che è lì con te nella stanza e ti parla, ti racconta le sue cose, ti racconta com'è stato quando ha pubblicato il suo primo libro, come sono i suoi amici, com'è la vita a Parma o a Bologna, cosa ha detto o fatto l'Irma, com'è stato trascorrere diverso tempo in un reparto grandi ustionati, in ospedale. Immagino che ci sia chi lo ama follemente e chi lo odia visceralmente: io mi iscrivo al primo gruppo. Un'altra caretteristica sono le trame, che non ci sono, quasi, o quantomeno sono così semplici - fragili verrebbe da dire - che vengono quasi nascoste dai personaggi che popolano il suo universo, personaggi caserecci che, se non sono strambi di propria natura, vengono comunque descritti dall'autore da un punto di vista obliquo, dove le stranezze balzano subito all'occhio e si pongono immediatamente all'attenzione dell'autore e quindi del lettore. E un po' tutto il mondo che Nori descrive nella sua produzione è caratterizzato da questa dicotomia, da un lato è incredibilmente routinario, è esattamente il mondo che conosciamo tutti noi ogni giorno, il panettiere, la mamma, l'amico, il gatto, il datore di lavoro, il fratello, l'amica, il tizio in autobus, il collega, il proprietario del pub, dall'altro è sempre visto e raccontato con uno sguardo puro, un po' singolare, come se il mondo il protagonista lo vedesse per la prima volta, come se tutto quanto fosse visto con gli occhi di una bambina di quattro anni, l'Irma, anche quando in realtà non è l'Irma a parlare. Addirittura anche nei libri in cui l'Irma non era ancora venuta al mondo il protagonista (di solito Learco Ferrari) vive e si nutre di quello sguardo. Il risultato è straniante: ironico, comico a volte, spiazzante e, in certi casi, anche un filo malinconico. Come in questo caso, ne I malcontenti. E' la storia di una coppia (in un'età che fa si che oggi venga definita giovane coppia) che si lascia. Noi la seguiamo nelle sue vicissitudini un po' giornaliere un po' assurde, dal piano di sotto, dall'alloggio di sotto, dove vive il protagonista, che li conosce in quanto nuovi inquilini, entra in contatto con loro in qualità di vicino di casa e, poco alla volta, diventa amico, confidente, collaboratore suo malgrado in progetti assurdi, fino a quando, semplicemente, senza nessun rumore, si lasciano, senza scene madri indiavolate, piatti che volano, recriminazioni, porte che sbattono e via discorrendo. Questa è la storia. La posso riassumere perchè non è un mistero la storia in sè, non è un giallo il cui finale dev'essere preservato, quello che importa è altro, come quasi sempre nei libri e nella vita. E' lo stesso Nori che spiega che questo libro gli porta alla memoria un film di Lubitsch in cui la trama (un uomo innamorato di una donna scomparsa, a cena con un amico, si rende conto che la donna che ama è la moglie dell'amico) viene riportata dai commenti che giungono dalla cucina: dal cuoco, dal cameriere e dal maggiordomo. Penso che questo libro sia esattamente la cucina del film di Lubitsch.
  Qui cambiano i nomi, l'Irma è Una bambina di quattro anni, Paolo Nori-Learco Ferrari è Bernardo (anche detto Bernardo Provenzano) e le città in cui si muovono i protagonisti hanno nomi tedeschi, e non solo le città. C'è Francesco, che l'hanno rovinato gli psichiatri (da non perdere, per motivi differenti e opposti, la sua autobiografia registrata e le interviste a cui lo sottoponeva il protagonista)
  La giovane coppia è composta da Nina e Giovanni. Poi c'è Quello delle scarpe.
  E scoprirete che cos'è (cos'è stato e cosa invece doveva essere) il Festival dei Malcontenti.

Paolo Nori è nato a Parma nel 1963. Ha pubblicato:

 La meravigliosa utilità del filo a piombo (2011), I malcontenti (2010), A Bologna le bici erano come i cani (Ciclopolis) (2010), Le cose non sono le cose (2009), L'accalappiacani. Settemestrale di letteratura comparata al nulla: 4 (2009), Pancetta (Universale economica) (2008), Mi compro una Gilera (I narratori) (2008), Baltica 9. Guida ai misteri d'oriente (Contromano) (2008), I libri devono essere magri (2008), Pubblici discorsi (Compagnia Extra) (2008), Siam poi gente delicata. Bologna Parma, novanta chilometri (Contromano) (2007), Tre discorsi in anticipo e uno in ritardo. Su Calatrava, su Cechov, sulle scimmie, sulla canzone popolare (Narrativa) (2007), La vergogna delle scarpe nuove (Narratori italiani) (2007), Noi la farem vendetta (I narratori) (2007), Le cose non sono le cose (Fernandel) (2006), Storia della Russia e dell'Italia (LDM. Libri di merda) (2006), I quattro cani di Pavlov (2006), Ente nazionale della cinematografia popolare (I narratori) (2005), Pancetta (I narratori) (2004), Learco. In un'ora, nove romanzi in musica con Learco Ferrari, in un'ora. Con CD Audio (Plurale immaginario) (2004), Gli scarti (Super universale economica) (2003), Si chiama Francesca, questo romanzo (Einaudi. Stile libero) (2002), Grandi ustionati (Einaudi. Stile libero) (2001), Diavoli (Einaudi. Stile libero) (2001), Spinoza (Einaudi. Stile libero) (2000), Bassotuba non c'è (Vox) (2000), Bassotuba non c'è (Einaudi. Stile libero) (2000)

sabato 21 gennaio 2012

Godzilla en Mexico, poesia di Rodrigo Fresàn, in Mantra, editoriàl Mondadori

Atiende esto, hijo mio: las bombas caìan
sobre Ciudad de México
pero nadie se daba cuenta.
El aire llevò el veneno a través
de las calles y ventanas abiertas.
Tù acababas de comer y veìas en la tele
los dibujos animados.
Yo leìa en la habitaciòn de al lado
cuando supe que ìbamos a morir.
Pese el mareo y las nàuseas me arrastré
hasta el comedor y te encontré en el suelo.
Nos abrazamos. Me preguntaste qué pasaba
y yo no te dije que estàbamos en el programa de la muerte
sino que ìbamos a iniciar un viaje,
uno màs, juntos, y que no tuvieras miedo.
Al marcharse, la muerte ni siquiera
nos cerrò los ojos.
Qué somos? Me preguntaste una semana o un
ano después,
hormigas, abejas, cifras equivocadas
en la gran sopa podrida del azar?
Somos seres humanos, hijo mìo, casi pàjaros,
hèroes pùblicos y secretos.

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Ascolta questo, figlio mio: le bombe cadevano
su Città del Messico
ma nessuno ci faceva caso.
L'aria portò il veleno attraverso
le vie e le finestre aperte.
Tu finivi di mangiare e guardavi i cartoni animati
alla televisione.
Io leggevo nella stanza accanto
quando seppi che saremmo morti.
Nonostante il capogiro e le nausee mi trascinai
fino alla sala da pranzo e ti trovai sul pavimento.
Ci siamo abbracciati. Mi domandasti cosa stava succendendo
e io non ti dissi che ci trovavamo nel programma della morte
ma che stavamo per iniziare un viaggio,
uno in più, assieme, e che non avessi paura.
Partendo, la morte neppure
ci chiuse gli occhi.
Chi siamo? mi domandasti una settimana o un
anno dopo,
formiche, api, somme sbagliate
nella gran zuppa marcia del caso?
Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli,
eroi pubblici e segreti.

La poesia qui tradotta ha come titolo Godzilla en Mexico, e fa parte del libro Mantra, di Rodrigo Fresàn, un autore da noi inspiegabilmente poco conosciuto. Argentino di nascita, vive a Barcellona, dove lavora come giornalista e dove dirige la collana Roja y Negra, nella editorial Mondadori. Da noi sono stati tradotti, I giardini di Kensington (per Mondadori) e Esperanto (per Einaudi).
E' uno dei grandi autori contemporanei della narrativa sudamericana. Vale la pena di imparare lo spagnolo solo per leggerlo.
... In speranzosa attesa che qualche editore lungimirante si decida a tradurre tutta la sua opera (Mantra è comunque imprescindibile). 



domenica 18 dicembre 2011

L'occhio dello zar, di Sam Eastland, il Saggiatore edizioni

Con questo romanzo, estremamente ben documentato da un punto di vista storico, ci è dato sbirciare dall'interno cosa sia stata la rivoluzione bolscevica in Russia. Non uno sguardo partecipato e sanguigno, la condanna per le atrocità commesse o l'euforia per un'utopia messa in piedi nel mondo reale non si percepiscono, se non eventualmente come sfondo, quasi si trattasse di sussurri lontani, ma in realtà lasciano sempre il dubbio che si tratti più di opinioni del lettore che non di indicazioni lasciate a bella posta dall'autore. E forse è così. Ci troviamo più che altro di fronte allo sguardo di uno storico che, introiettata la freddezza dei paesaggi siberiani, ci descrive passo passo cos'è avvenuto sul palcoscenico della storia e, soprattutto, cosa è avvenuto dietro i pesanti tendaggi che spesso celano le infinite storie che compongono la Storia. Uno storico, uno scienziato sotto acido, verrebbe da dire riferendosi a Sam Eastland, l'autore di questo perfetto giallo storico, se non fosse che verrebbe da pensare ad una sorta di Irvine Welsh: niente di più lontano. Sam Eastland compone un romanzo convenzionale nella forma, avvalendosi di una scrittura impeccabile ma sostanzialmente piatta, in tutto e per tutto al servizio della storia che racconta. La stessa scansione dei capitoli che rimbalzano tra passato e presente è quanto di più banale ci si può aspettare da un meccanismo narrativo. La definizione di storico (o scienziato) sotto acido va riferita al complesso del libro. La ricerca storica è inappuntabile e viene fatta attanagliare al plot narrativo come un abito che gli calza dannatamente bene. Ci lasciamo trascinare da una detecion story e nel contempo ci muoviamo all'interno dei corridoi enormi della Grande Storia. Attenzione, per quei corridoi così austeri ci permettiamo di addentrarci con leggerezza, senza la pesante consapevolezza che il luogo richiederebbe. Spero di aver reso l'idea.
Pekkala, dunque. Il protagonista di questa storia ha un nome improbabile, Pekkala appunto, almeno alle orecchie di un non finlandese, perchè è proprio dalla Finlandia che questi arriva, quando ancora la Finlandia era territorio della Grande Madre Russia. Viene mandato dal padre - che lo aveva destinato secondo i suoi progetti a proseguire la sinistra attività di famiglia, un'impresa di pompe funebri - a Pietrogrado, per entrare a far parte della Legione Finlandese dello Zar, il più alto onore che un padre (finlandese) potesse sperare per il proprio figlio (finlandese). Qui Pekkala viene preso a ben volere dallo Zar Nicola II, che per lui inventa una carica mai esistita prima e che lo pone, nei suoi doveri di responsabile della sicurezza dello zar, al di sopra dello zar stesso. Presto dimostra le sue capacità investigative al limite del paranormale, prima tra tutte la sua prodigiosa memoria, e diviene famoso nella cerchia dello corte e agli occhi del popolo come l'Occhio di smeraldo. Detta così suona un po' come una stronzata, del tipo All'inseguimento della pietra verde, ma nel romanzo giuro che funziona. Comunque, il soprannome in effetti non è il punto del forte del libro, siamo d'accordo. Via, riprendiamo: con lo scatenarsi della Rivoluzione d'Ottobre, Pekkala viene incarcerato ed interrogato dal nuovo sistema di potere, i Rossi, e spedito in Siberia a spezzarsi la schiena aspettando di essere liberato dalla morte. Invece, anni dopo, il presente storico del libro, a richiamarlo alla vita libera un giovane ufficiale dell'esercito sovietico, Kirov, un cuoco... anzi, uno chef strappato alla cucina dalle improrogabili necessità della rivoluzione. Il compagno Stalin in persona gli promette la libertà se metterà le sue doti di investigatore al servizio del popolo e del Soviet per scoprire se, effettivamente, i Romanov (vale a dire i suoi vecchi datori di lavoro) siano stati effettivamente uccisi, e dove siano stati seppelliti. Da qui in poi si sviluppa una trama interessante, storicamente credibile, ben scritta, con stile asciutto e preciso, una storia solida, appassionante e ricca sia di colpi di scena che di paesaggi ed atmosfere nelle quali non siamo abitutati a muoverci, neppure con la fantasia e che però fanno parte dell'inconscio collettivo. Quella zona dell'inconscio collettivo che ne è la periferia: lande fredde e messe un po' al bando dal baluginìo delle fantasie moderne, tutte improntate a serial killer americani, metropoli, complotti mondiali e bellone ipersexy sempre sull'orlo dell'orgasmo. Per questo, per la sua natura periferica, questa parte di inconscio collettivo riveste un fascino assolutamente speciale. Uomini venuti dal freddo, paesaggi lunari, città coperte di neve e ghiaccio, villaggi dimenticati da Dio e coperti dal fango e dalla fame, uniformi severe di imperi scomparsi e simboli che, dal presente del romanzo, assugeranno in fretta agli onori della cronaca mondiale. Falci, martelli, finti villaggi perfetti per ingannare l'occhio di chi guarda. Donne che aspettano il proprio uomo, o forse no.
Potrebbe essere un romanzo ottocentesco, o un saggio storico, e invece è un perfetto giallo che si fa divorare dal lettore. E Pekkala, protagonista algido e appassionante al contempo, non ci resta che seguirlo nella seconda puntata pubblicata in Italia sempre da Il Saggiatore: Bara rossa.

  La cosa migliore che si può dire di Sam Eastland, è che è uno pseudonimo. Dovrebbe essere un autore inglese che vive negli Stati Uniti, questo è quanto si sa di lui. Non ho trovato foto sue, e quindi qui accanto, nell'ovvia impossibilità di postare una foto di Pekkala, ho scelto di mostrare una foto dello zar Nicola II e della sua famiglia.
  Mi stupisco che non sia ancora stato tratto un film da questo libro.

domenica 27 novembre 2011

I falsificatori / Gli illuminati, di Antoine Bello, Fazi editore

  Il romanzo incomincia con tale Gunnar Eriksson che assume tale Sliv Dartunghuver nella società di studi ambientali che dirige, a Reykjavìk. La società, è solo una copertura. I due personaggi ce li porteremo avanti per mille pagine, fino ad ora almeno, ignoro se sia previsto un terzo libro per poter assurgere al grado di trilogia, ma potrebbe benissimo essere. Ora, due personaggi maschili, e uno femminile, Lena Thorsen, di una bellezza algida e calcolatrice, in nord europa, a Reykjavìk. Non è un giallo nordico, per fortuna. E non è un noir nordico, sempre per fortuna. Apro una parentesi, quando parlo di romanzo mi riferisco ad entrambi i libri, vale a dire I falsificatori e Gli illuminati, perchè in realtà è esattamente ciò che sono, parti diverse di uno stesso romanzo, pubblicati in momenti diversi per ovvie ragioni commerciali. Sliv verrà convocato da Eriksson che gli proprorrà di entrare a far parte de CFR, vale a dire del Consorzio di Falsificazione della Realtà. Da qui in avanti incomincia la storia vera e propria, che in realtà non è importante, come quasi mai lo sono le storie in sè: ci saranno personaggi che si aggiungono, coppie che si formano, momenti di tensione, tentativi di comprendere sè stessi, pericoli veri o presunti per la propria o altrui incolumità e via discorrendo. Vale a dire ciò che ci si aspetta da un romanzo che possa avvincerci. C'è tutto. Tutto quanto diluito in mille pagine. La vita non come la conosciamo ma come vorremmo che fosse: interessante, avventurosa, sorprendente. Ciò che non è la nostra: noiosa, piatta, banale. Ma non è questo il centro pulsante della narrazione. Il punto di fuoco del romanzo è la capacità di mettere seriamente in dubbio il nostro modo di vedere il mondo. Se la cagnetta Layka non fosse mai stata spedita in orbita? Se Cristoforo Colombo non fosse lo scopritore del continente americano? Se. Se. Fino a qui, non ci troviamo di fronte ad una rivoluzione copernicana, in fondo internet è pieno di teorie del complotto o revisioniste. Esiste, in questo romanzo, un ulteriore slittamento di senso: se invece il complotto fosse stato applicato non a posteriori per mettere in dubbio una verità acclarata, bensì giorno per giorno per crearne di nuove che diverranno esse stesse verità ufficiali? Se il ritocco della realtà servisse a far emergere la verità di un avvenimento, altrimenti soffocato dalle varie cortine fumogene delle innumerevoli ragioni di stato (politiche, religiose, economiche e geopolitiche)? Chi è dunque che dà il senso con cui interpretare la realtà, e perchè? Quali sono i fini del CFR?  Che cos'è il CFR? Una multinazionale segreta della contraffazione, potrei definirla così, e credo che non sbaglierei di molto, sempre volendo ammettere di aver sbagliato. Sliv è uno scenarista, il migliore della sua generazione. Sceglie un argomento, decide come cambiarlo, individua i punti nodali sui quali è possibile ammorsare la nuova storia, e la cuce su misura. Gli scenari possono essere di piccola, media o enorme portata, e avere risvolti minimi o epocali. L'importante - l'essenziale direi - è che lo scenario sia perfetto, che non abbia punti deboli. Inattaccabile. Poi, al lavoro dello scenarista si somma quello del falsificatore. Lena Thorsen è una falsificatrice, la migliore della sua generazione. Il falsificatore studia lo scenario e verifica tutti i punti che necessitano di pezze d'appoggio reali. Inserisce falsi documenti negli archivi, procura testi inesistenti di bibliografie inesistenti. Redige certificati di nascita e morte. Modifica le dichiarazioni di personaggi storici creando falsi articoli di giornali, e via discorrendo. Gli scenaristi mettono insieme la storia, e quindi modificano il senso e la direzione della realtà, i falsficatori forniscono pezze d'appoggio affinchè la storia si trasformi in realtà. Il CFR ha antenne sparse per il mondo, le antenne sono le sedi, ogni sede ha una sua funzione specifica. Un'immensità di uomini e donne che hanno lavori di copertura ma che in realtà tramano per dare un senso alla vita. Quale senso, però? Sliv e Lena si scontreranno e si perderanno lungo tutto l'arco del romanzo (dei due libri, delle mille pagine), si attrarranno e si respingeranno, facendosi male e forse provocandone. Metteranno in piedi scenari e li renderanno reali. Sliv si costuirà una rete di poche ma salde amicizie, ma sempre, in fondo, rimarrà aleggiante la domanda di fondo. Qual'è la vera ragione d'esistere del CFR? La sua ragione sociale, diciamo. Il suo obiettivo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole fare del mondo? La risposta a questa domanda è il vero motore che regge e permette al romanzo di evolversi e di crescere per accumulazione. e quando finalmente ne saremmo messi a conoscenza, noi e Sliv, una vertigine ci riporterà alla domanda primigenia dello stare al mondo. Perchè? Perchè la guerra in Iraq? Il CFR vuole la guerra in Iraq, o la vuole ostacolare? Ha creato scientemente delle false prove per avallarla o qualcuno dal suo interno ha tradito? Il CFR è bene o è male?
  E' difficile definirlo, questo romanzo, perchè non è un giallo, non è una spy story, non è un romanzo main stream, forse (e sottolineo forse) lo si può considerare un romanzo di formazione. Potrebbe essere un romanzo filosofico, ma ha una struttura troppo commerciale per esserlo realmente, e una scrittura scorrevole ma piatta, priva di slanci. Però rimane imprescendibile ugualmente, al giorno d'oggi. E' una riflessione che unisce diversi generi su cosa sia la realtà e su cosa stia dietro di essa, sul significato che hanno le nostre vite e su quello che noi stessi decidiamo di porvi. La verità, intendo il concetto stesso di verità, invece viene scardinato nel breve volgere di poche pagine, e gettato alle ortiche come un qualcosa di vecchio e ormai inutilizzabile.

Antoine Bello, nato in Canada, cresciuto in Francia e ora residente negli Usa, è autore di Elogio del pezzo mancante, pubblicato in Italia da Bompiani.
  I falsificatori e Gli illuminati sono stati avvicinati alla poetica di Borges, ma non vi hanno nulla a che vedere.

lunedì 14 novembre 2011

La gamba sinistra di Joe Strummer, di Caryl Férey, e/o edizioni

  A McCash manca l'occhio destro, perso in un pub di Belfast, sfondato dal calcio di un fucile, ma questo è un avvenimento di molti anni prima, quando ancora credeva nell'Ira. Poi è finito in Francia e si è ritrovato a fare il poliziotto. Adesso, nel momento in cui facciamo la sua conoscenza, è steso su un lettino con un dottore che lo rimprovera per non aver mai pulito la sua protesi (l'occhio di vetro), e per non averla mai cambiata. McCash è scosso da dolori lancinanti che gli perforano la cavità oculare e gli strapazzano il cervello, la sua "bestia" personale. Da sotto la benda di cuoio nero gli sgorga liquido giallastro che non lascia intendere nulla di buono. McCash è stanco, rassegna le dimissioni ad un passo dalla pensione, ripensa amaramente alla moglie che lo ha abbandonato (con tutte le ragioni, tra l'altro). E' il classico tipo che, per noia o per destino, le donne le ha perdute. Come ogni noir che si rispetti sta raschiando il fondo dell'esistenza, con le unghie, quello strato putrido di sozzura che si accumula inevitabilmente col passare dei giorni, a voler vivere. Ed è ad un passo da premere il grilletto che spazzerà via ogni cosa, sozzura, esistenza e tutto il restante. Quando apre una busta. All'interno della busta c'è una lettera. La lettera lo mette al corrente di avere una figlia, Alice, una bambina speciale dice la lettera, che aggiunge che la madre della bambina, la scrivente, sta per morire di cancro, lasciando la bambina da sola nel mondo. Aggiunge dove trovarla, e lo prega di prendersene cura. Poco dopo essere giunto in incognito nel paese dove la bambina risiede presso una famiglia temporanea, McCash s'imbate nel cadavere di una bambina di poco più piccola di sua figlia, portata dal fiume, con un passamontagna rosso in testa. Caryl Férey pare sia uno dei nomi di punta del noir francese (polar), anche se qui da noi prima di questo libro è stato tradotto solamente Zulu, per la Mondadori (attualmente disponibile nella collana Piccola Biblioteca Mondadori). Ha vinto tutti i premi francesi dedicati alla letteratura noir. Eppure a me non sembra totalmente un noir, questo La gamba sinistra di Joe Strummer, anche se lo è, ma non a tutti gli effetti. Dopo il ritrovamento del cadavere della bambina ovviamente si innesca il meccanismo dell'indagine che andrà a scavare nelle miserie morali e nei vizi della provincia francese, come da copione. C'è poi anche uno spostamento di scena, in Marocco, secondo la lezione di Jean Christophe Grangé. Eppure non ha nulla del noir alla Derek Raymond, nè tantomeno di quello alla Izzo, come erroneamente rivendicato in ultima di copertina. Nonostante il protagonista sia un duro dal cuore tenero, provato (provatissimo!) dalla vita, sommerso dai rimorsi più che dai ricordi e sempre in cammino su quel terreno che divide la vita dalla non vita, nonostante dissemini la sua strada di morti senza darsi troppa pena, forse proprio perchè la distinzione tra morte e vita per lui non ha più un gran significato, nonostante la bontà umana non la s'intravveda neppure da lontano e il paesaggio sia quasi sempre scuro e piovoso, l'impressione che se ne ha è che non sia un noir. Intendo dire un noir per davvero. Il nucleo del male, non lo si sfiora mai. C'è il vizio, c'è la corruzione, c'è la violenza, ma il vero centro nero dell'esistenza pare non essere mai messo a fuoco. Alla fine, la causa della morte della bambina col passamontagna rosso e di tutte quelle che verrano in seguito a cascata si verificherà essere semplicemente grettezza, non però avulsa da un coacervo di sentimenti addirittura positivi seppur distorti.Il vizio e le perversioni di provincia (uguali identiche ai vizi ed alle perversioni delle metropoli), non sono altro che un'occasione, e non hanno nulla della grandezza del male, sono solo passatempi che aiutano a rimanere vivi, a vincere la noia, ad intessere relazioni di potere o ricattatorie. Il male vero, sarebbe a dire il mare di morti che ne consegue, compreso quella della bambina, è una sorta di danno collaterale non voluto e non previsto da nessuno dei protagonisti. Eppure questo libro è una lettura piacevole (e anche in questo non è un noir che, per sua stessa natura, è disturbante), scritto non in maniera eccelsa ma certamente trascinante, con un'ottima scansione delle scene ed un buon ritmo. Per dire, poi, quanto non sia noir, termina in un finale che potrebbe quasi essere una sorta di happy end.
  Un bel giallo, solido anche quando pare non esserlo, capace di trasciare il lettore nell'oscura provincia francese e nelle sue perversioni, seguendo un protagonista che è bidimnesionale al punto giusto per farci da Virgilio nel suo personale inferno.
  La sua qualità, dicevo, non si trova nella qualità della scrittura, buona ma non eccelsa, nè in altro che riesco ad indentificare, però lascia la voglia di correre a comprare Zulu, l'altro libro di Férey tradotto in italiano, quantomeno per cercare di capire dove risieda il quid che permette all'autore di immergerci nel suo mondo, anche se un po' sgangherato, e a non lasciarci andare fino all'ultima riga.







Carel Férey è nato nel 1967. Si è imposto all'attenzione del pubblico con Haka e Utu, due noir ambientati tra i Maori, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi, e con Zulu, pubblicato in Italia da Mondadori nella collana Strade Blu.

lunedì 17 ottobre 2011

Dannazione, di Chuck Palahniuk, Mondadori

Chuck Palahniuk è uno dei pochi autori veramente imprenscindibili della letteratura contemporanea nordamericana e, se a volte, soprattutto ultimamente, la sua sovrapproduzione non giova alla qualità finale dell'opera, non si può dire lo stesso di questo libro. E' un libro che, come nella miglior tradizione del bardo psichedelico di Portland, spiazza chi legge e questo è - sempre - segno di rispetto verso il lettore. Ci spiazza perchè è una sorta di oggetto letterario non identificato, che strizza l'occhio più a Swift (non per niente citato nell'opera) che a Dante, e che riesce a mettere insieme richiami cinematografici e assolutamente pop ad una scrittura totalmente letteraria. Non so, forse sta proprio in questo la grandezza di Palahniuk, nel mettere insieme piani, livelli e riferimenti diversi all'interno di prodotti (alti) del tutto narrativi. La storia, è presto detto, è quella di una ragazzina tredicenne, figlia di genitori ricchi, famosi e democratici (ex hippye, ex anarchici, ex punk, ex tutto) che si ritrova ad essere morta, semplicemente, e oltre a questo stato non propriamente invidiabile, ad affrontare la prospettiva di trascorrere l'eternità all'inferno. L'inferno quello sotto il comando tirannico ed assoluto di Satana, esattamente quello che i suoi genitori ex sessantottini le avevano insegnato che non esisteva. Così Madison scopre che c'è vita dopo la morte, che la sua personalità rimane invariata e che, a conti fatti, l'inferno non è quello schifo di cui si dice in giro, nel mondo dei vivi. Ha tredici anni, è vergine (e destinata quindi a rimanerlo in eterno), intelligente (o crede di esserlo), grassa, impacciata e poco sicura di sè. E'  morta per un overdose di marjiuana, per questo crede di essere stata condannata alla dannazione eterna: tra l'altro scopre che ci si danna per molto meno, per aver detto cazzo più di un tot di volte nella vita, per aver suonato troppe volte il clacson in vita o per aver sputata in terra. Cose così. L'inferno, come ci viene raccontato da Madison, è un luogo terribilmente burocratico. Oltre che essere afflitto da un'incuria che dura probabilmente dalla sua fondazione, quantomeno a vedere le condizioni in cui versa. Madison, però, non è una ragazzina come tutte le altre, non fa la schizzinosa rispetto alla poca igiene con la quale deve imparare a convivere, non si abbatte, non si piange addosso per qualche millennio e, soprattutto, si sforza di avere un approccio positivo rispetto alla sua nuova condizione. Conosce e fa amicizia con un adolescente punk dalla cresta azzurra, con un giovane giocatore di footbal, con una ex cheerleader con seni e fianchi da fare invidia ad un'attrice e con un secchione che sa tutto di demoni e cosmologie infere. Troverà un lavoro, laggiù, nell'ade, e avrà modo di raggiungere una certa notorietà. Scoprirà cose su sè stessa che in vita non era riuscita neppure a sospettare, e avrà una visione più chiara della sua morte. Del come e del perchè. Un romanzo di formazione infera, o un esercizio di fantasia sballata e selvaggia, o un esperimento post-post moderno, o una riflessione sul nostro mondo contemporaneo e sul senso della vita, o forse qualche cos'altro ancora che comprende tutte queste letture e ne aggiunge altre. Cosa sia, onestamente, non lo so. Non lo si mai, o quasi mai, coi buoni libri, e questo è un buon libro. Parte in un modo, e vira innumerevoli volte verso lidi ai quali non approda mai. Però non lascia in bocca la sensazione di qualcosa di incocluso. La critica ufficiale pretende che Palahniuk sia il cantore dei nostri tempi malati, della cultura di massa, dei sogni e degli incubi terrificanti che si innestano sulla nostra realtà, ormai troppo espansa per avere limiti e confini ben chiari, e forse è vero. Forse è così. Se questa è la lettura corretta da dare all'opera di Palahniuk, bisogna ammettere che riesce nel suo intento con notevole maestria, con una capacità rara di sondare non tanto le storie quanto i livelli di nevrosi e commistioni culturali e amensie sociali che sottendono le storie stesse. Voglio dire che alla fine dei suoi libri spesso ci si chiede se davvero ci ha raccontato qualcosa o se, piuttosto, non abbia trovato delle scuse per sballottarci in qua e in là su piani sottili della realtà e dell'inconscio collettivo contemporaneo che altrimenti ci sarebbero stati preclusi.




  Il libro si conclude con la parola: CONTINUA, seguita da puntini. Tre puntini...
  Così: Continua...
  Chissà che non ritroveremo Madison in purgatorio e/o in paradiso a parlarci più di noi e della follia che ci circonda che non di sè stessa...

venerdì 7 ottobre 2011

Chi non muore, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

Angie, mamma mia! Il romanzo qui recensito sta tutto in una parola, che poi è pure la protagonista assoluta del romanzo: Angie, vale a dire Angela detta Angie. Così somigliante ad Angelina Jolie, tette a parte, con le sue labbra carnose e il suo essere un po' rocker e un po' snob, e la sua follia dei vent'anni o giù di lì, quella stessa follia che tutti abbiamo avuto a quell'età o, più che altro, tutti abbiamo sognato di avere e che ora, passata abbondantemente la trentina, tutti ci illudiamo di aver avuto. La storia pretenderebbe di essere un giallo, un giallo che poi finirà col tingersi di sfumature paranormali, così come Cicatrici, ma la pretesa è una finzione. Non è un giallo. Nel senso che usa la struttura (seppur in modo molto elastico) del giallo per parlare di altro, non so esattamente di cosa. Non so dire di cosa tratti perchè non so se ci sia un messaggio o un argomento particolare - se c'è non me ne sono accorto o me ne sono scordato - quello che so è che è la storia di Angie, è una sorta di telecamera che entra nella sua vita, dietro i suoi occhi, all'interno del suo cristallino e delle sue sinapsi cerebrali per mostrarci il mondo confuso, sconclusionato, forse pure terribile, ma ancora totalmente aperto ad ogni sviluppo, di una ventenne che vive da sola in una città universitaria, una ventenne che dovrebbe trascorrere le sue giornate all'università ad apprendere e a studiare e che invece pensa alla musica e a diventare una rocker. La musica, non tutta la musica e non una musica in particolare, bensì tutta quella musica che la fa sentire viva e, soprattutto, diversa. Diversa da tutto e da tutti. L'italia banale, massificata, bigotta e videodipendente, sostanzialmente lobotomizzata di questi anni non è neppure sullo sfondo, ma si limita a venir ben rappresentata dalle odiate coinquiline di Angie. Delle idiote, maniacali, bigotte, paranoiche e quant'altro, ma che non servono a nulla se non a ridicolizzare sè stesse. Il centro del romanzo non è neppure il mistero della morte di tre elementi di una band avvenuta anni prima del presente in cui Angie racconta, e non risiede neppure nella storia d'amore tra Angie e Mizar: il centro del racconto è la furia devastante della protagonista che ci racconta in presa diretta cosa fa e cosa pensa, e anche quando"fa" senza pensare, il suo essere a volte perfida e altre superficiale ed altre ancora lievemente romantica. E' la voce della gioventù cosciente di essere tale e che si concede la licenza di guardarsi da fuori e di viversi contemporanemante. Il finale, a mio avviso, lascerà un po' l'amaro in bocca, perchè se era una finzione il giallo ovviamente non può che essere una finzione pure la soluzione del giallo, ma non è questo il punto, perchè il romanzo non lascerà l'amaro in bocca, per nulla. Quello che rimane è la sensazione di essere incappati raramente, o forse mai, in un personaggio così fresco e assoluto, femminile e forte al contempo, nella letteratura italiana contemporanea. E su questo bisogna riconoscere a Morozzi un ulteriore balzo nella sua caratura di scrittore: è riuscito a creare un personaggio nuovo (senza peraltro esserlo realmente) e fornendolo di una voce - questa sì - assolutamente unica e perfettamente azzeccata.
La voce di Angie. Angie. Il sesso di Angie. La sua musica. Il suo mondo scapestrato e futilmente anarchico.
La copertina invece fa schifo.

lunedì 26 settembre 2011

Cicatrici, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

In realtà si tratta di due romanzi in uno. Due microromanzi, diciamo. Due microromanzi lunghi; uno un po' più lungo (o meno corto) dell'altro e, in un certo senso, in netto contrasto tra loro. Mi spiego. C'è una storia terribilmente e tragicamente realistica, la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg (uomo), che è una storia d'amore disgraziata e maledetta. Forse. Nel senso che forse è una storia d'amore. Come storia invece è senza dubbio tragica e terribile, non ci piove. Per certi versi ricorda le inquietudini e i misteri e i sottintesi del capolavoro di Ernesto Sabato "Sopra eroi e tombe" e la figura di Felice (donna) pare ritagliata su quella di Alejandra, almeno fino ad un certo punto, poi comunque questo Cicatrici non è certo Sopra eroi e tombe. E qui finisce la similitudine. L'intrecciarsi della loro vicenda riesce ad essere tanto realistica quanto onirica. Lui è un tipografo triste che lavora di notte, ogni notte sale sul suo autobus per andare al lavoro e ogni mattina vi risale per tornare a casa. Lei appare sullo stesso autobus come per magia. Lui è brutto, enorme, sgraziato, chiuso in sè stesso e nella reiterazione sorda dei suoi giorni. Lei, no, lei è dolce, eterea, sottile. E misteriosa. Poi, com'è come non è, si conoscono: lui è già cotto da un pezzo e lei pare ricambiarlo. Fino a qui nulla di male. Poi però arriva l'altro, che è suppergiù l'incarnazione del male. Non vado oltre a svelare la trama, però ci tengo a sottolineare che nel pezzo in cui Felice (donna) ricorda e svela il suo lento (o velocissimo) cadere e degradarsi per amore dell'altro mi pare di leggere una netta volontà di riportare, trasfigurandola, una certa realtà al giorno d'oggi molto ben rappresentata nel nostro paese (e non solo): quella del potente che può e vuole tutto, abietto, che considera la donna un oggetto e che si comporta di conseguenza, che gode delle proprie perversioni e della propria impunità. Chiusa parentesi. Poi c'è l'altro microromanzo lungo (un po' meno lungo del primo), che funge da cornice, e che è una storia di reincarnazioni a rotta di collo, vorticose alla fine, una dietro l'altra, un avvilupparsi di karma che si intrecciano e dipanano alla velocità di un battito di ciglia. All'inizio pare fatichino a coabitare, ed in effetti secondo me è così, non coabitano per nulla, ma alla fine della fiera finiscono per funzionare perchè una racchiude l'altra, e quando la prima si conclude ha senso portare a termine la seconda, che quasi lascia sfumare la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg in secondo piano, smorzando i termini tragici, guardandola come da lontano, da una spiaggia fredda e immobile sul limitare del tempo.
  Morozzi scrive bene, non lo si può negare. E' dotato di uno stile freddo e calcolato, però in qualche maniera anche fresco e se, nella prima parte della sua carriera, era messo al servizio di storie sgangherate e divertenti di provincia (la sua provincia), a dar voce a giovani sull'orlo di un allegro nulla, una banda di lievi tardoadolescenti felicemente smarriti nel mondo d'oggi, da Blackout in poi ha utilizzato le virtù del suo scrivere per scavare nel lato oscuro dei suoi personaggi. Ci riesce bene.

 
E' uscito da poco il nuovo libro di Gianluca Morozzi, Chi non muore, sempre per Guanda.
  Qui potete trovare la sua bibliografia, nonchè la biografia.

domenica 4 settembre 2011

La ballata di Mila, Matteo Strukul, Edizioni e/o

Ora, questo dovrebbe essere un romanzo pulp (o sugarpulp, secondo la definizione dell'autore) che si addentra e ci illumina sulla realtà criminal-economica del nostro paese; pare che esattamente per questo motivo sia stato scelto (per inaugurare la collana SabotAge) dal curatore della collana Massimo Carlotto, nonchè nome di punta del noir nostrano. Il romanzo è ambientato in quel NordEst tanto caro a Carlotto, e una delle cose migliori che traspare da questa Ballata di Mila è esattamente "l'amore per" e "la conoscenza del" territorio. Grazie alla cura con cui Strukul ce lo descrive, riusciamo a quasi a vederlo e, per la prima volta dopo diverso tempo, ad immaginarcelo differente da quello che balza agli onori delle cronache come una landa medieval-industriale abitata da orde di razzisti medioborghesi incapaci di parlare un italiano corretto e dediti, di solito, ad accumulare soldi e arricchire la cronaca nera nazionale di casi più o meno turpi. Vien voglia di prendere la macchina e visitarli, certi altopiani e certe zone se non proprio descritte comunque accennate: però non è un libro di viaggio, nè un pamplet turistico della regione Veneto. C'è un cinese, tale Guo, che s'è installato nel NordEst per conto di una triade cinese, la 14K, e c'è un tale Rossano Pagnan che è il boss indigeno che gestisce la malavita locale, entrambi ben inseriti nel contesto sociale e politico della zona. Poi c'è Mila, una ragazza piuttosto bella che, deradlock rossi a parte, ricorda molto da vicino la protagonista di Kill Bill, ed è una macchina da guerra alimentata ad odio e vendetta (a giusta ragione, tra l'altro). Senza voler svelare troppo, Mila si inserisce tra le due gang e le mette una contro l'altra, così spiega la quarta di copertina del libro (bella la copertina di Laurenti). In realtà qui cominciano, a mio avviso, le contraddizioni. Cioè, il romanzo si apre con un ammazzamento dei commercialisti di Pagnan da parte della Triade: dunque, deduco che erano già, le due organizzazioni, in guerra tra loro. Quantomeno quella doveva essere con ogni probabilità la prima mossa che avrebbe scatenato comunque il putiferio. La presenza di Mila sulla scena non è spiegabile. Sapeva già della pianificazione dell'omicidio? E come? Dopodichè Mila si mette nel mezzo e prende parte a degli eventi che, ripeto, si ha la netta sensazione che, a logica, si sarebbero verificati ugualmente ed ineluttabilmente. Scorre una quantità di sangue impressionante, senza peraltro che le forze dell'ordine diano segno di vita, come se in realtà tutto ciò avvenisse in una qualche regione selvaggia ed abbandonata all'anarchia del globo terracqueo. Le contraddizioni non sono concluse: ci sono riprese video in soggettiva che vengono viste scaricate su computer comprese delle immagini di chi le ha girate, ci sono monchi che allungano le mani, e avvimenti che non paiono essere proprio ancorati ad una rigida sequenza causa effetto. Un pregio di Strukul è quello di non voler a tutti i costi copiare il suo mentore, Carlotto, e questa per un esordiente è una virtù da non sottovalutare, inoltre riesce a tratti ad utilizzare uno stile che, senza lanciarsi nei personalismi, riesce ad essere parecchio incisivo e, di tanto in tanto, evocativo. Però non sempre. A volte certe frasi lasciano la sensazione di non essere passate attraverso nessun editing (come la questione del monco che porge le mani) e suonano stonate, come certe scene. L'ultima, ad esempio, che più che una conclusione è un aggancio a quella che sarà sicuramente la prossima puntata. E' un romanzo ingenuo, con diverse imperfezioni, nel quale si possono riconoscere i modelli ed i padri, sia cinematografici che letterari, ed è un romanzo che ha come principale difetto il fatto di essere spacciato per quello che non è. Una volta letto non saprete nulla di più della realtà criminale del NordEst (per quello leggete Carlotto) nè di quella italiana o cinese (leggete Genna). Sicuramente è un romanzo che ha la sua forza più sul versante pulp, nonostante tutti i limiti e le ingenuità di cui sopra, ed è un romanzo che si fa leggere con piacere. Solo che, leggendolo, a volte ti trovi ad incazzarti perchè non capisci come certi errori siano sfuggiti prima della pubblicazione. Un po' come un buon film di genere, a basso budget, in cui di tanto in tanto si vede il microfono che ballonzola sul lato superiore dell'inquadratura e che, invece che essere venduto per quello che è, magari un buon noir casereccio, viene spacciato per nouvelle vague italiana. In questo senso trovo totalmente controproducente la tirata di Tim Willocks sul benvenuto a Strukul nella cerchia dei romanzieri folli e via discorrendo, così come gli accostamenti non tanto a Tarantino o Rodriguez (la differenza di medium può mascherare e giustificare certe differenze) quanto a Joe Lansadale (su Victor Gischler non mi sbilancio perchè non l'ho mai letto). Non è Lansdale, nella maniera più assoluta, non adesso, e questo va detto, nel bene e nel male. E' un'altra cosa, Strukul, e sicuramente in futuro sarà qualcosa forse anche di notevole nel suo genere, ma per ora manca la mano sicura (a volte c'è, ma non sempre, e si sente), l'esperienza, e un buon editing. Il punto forte - uno dei punti forti assieme a certe frasi come lampi ed alla descrizione del territorio - è la costruzione del personaggio di Mila. Il suo passato e il suo presente. Il suo look e il suo modo di muoversi e di combattere la rendono una eroina che rimane nella memoria, e se anche i suoi modelli sono piuttosto chiari e facili da rintracciare (Kill Bill, Nikita, Alias, Lisbeth Salander) ciò non toglie nulla alla resa del personaggio che, pur non volendo essere un esempio di neorealismo, rimane un immagine che continua a muoversi nel subconscio del lettore ancora tempo dopo averlo letto. Nonostante tutti i limiti e le contraddizioni sottolineate (comunque comprensibili per un esordiente) ed il fastidio per i paragoni roboanti e - per ora - fuori luogo, rimane un romanzo divertente che si fa leggere volentieri e che lascia presagire un autore interessante per il futuro.



N.B: è interessante notare come certi personaggi borderline femminli, come ad esempio quello di Mila, abbiano avuto modo di venire alla luce solo dopo l'esplosione sulla scena mondiale della Lisbeth Salander di Stieg Larsson.

giovedì 25 agosto 2011

Le legge del più forte, Joaquìn Guerrero Casasola. La nuova Frontiera edizioni

Gil Baleares è uno spiantato, e fin qui niente di nuovo sotto il sole. Gil Baleares, per guadagnarsi la pagnotta, lavora come detective privato. Prima era in polizia, poi dopo no. Ne è uscito, e capiremo il perchè con l'avanzare del romanzo, ma anche qui nulla di trascendentale. Viene ingaggiato per ritrovare la figlia di un industriale, forse ricco o forse no, comunque non esageratamente ricco. O forse solo terribilmente spilorcio. Chiede, per svolgere l'incarico, una cifra tutto sommato irrisoria. In fondo, pensiamo, è uno onesto. Forse, ci domandiamo, è per questo che è uscito dalla polizia, perchè è uno onesto. Ma forse non si tratta di onestà. E' un uomo come tutti, o come tanti, e il calcolo sul suo onorario l'ha fatto sulla prima rata di una macchina nuova che si vuole comprare a tutti i costi. Una Nissan Tsuru (?) che di tanto in tanto si va gustare direttamente dal concessionario. Se la guarda, ci entra dentro, si siede, chiude gli occhi e si immagina alla guida. E' un povero mortale come tutti noi dunque. Poco alla volta ci rendiamo conto che è anche peggio di noialtri. E' la teoria del maelstromm: il vortice lo lambisce, poi lo cattura, lui non oppone una gran resistenza e comunque alla fine cede, e il vortice lo trascina in basso, sempre più velocemente, sempre più in fondo. Il ruolo del maelstromm lo svolge il rapimento, chi ci gira intorno, la polizia corrotta, gli ex colleghi, gli amici, sempre che quelli che ha si possano chiamare tali, la città, i taxisti, la coppia che lo ha ingaggiato, lui privo di carattere e in balia di una moglie folle e aggressiva, lo svolge, il ruolo del maelstromm, la violenza e la follia che permea ogni cosa, la sporcizia, il giocare due partite su due tavoli diversi, la mancanza di qualsiasi codice etico. L'unico elemento che rimane invariato è la malattia del padre di Gil. Il vero fulcro del romanzo è l'Alzheimer. La pardita di memoria temporanea, il ritorno improvviso alla normalità, il cagarsi addosso, l'orinare nell'acquario dei pesci, il perdersi nella città e il perdersi in casa. La perdità di tabù. Il passato che si ri ripropone sotto forme diverse e terribili. La nostalgia del sesso. E poi c'è chi viene abitato e posseduto dall'Alzheimer, il padre di Gil, che non è un simpatico vecchietto un po' rintronato. E' un ex poliziotto, pare anche uno bravo, all'epoca. Un figlio di puttana, ma con un codice. L'ha scampata durante tutta la carriera, è sopravissuto, ma non sfugge alla malattia, alla decadenza del corpo che gli muore addosso, che si secca addosso, della mente che va in brandelli, ma non sempre. Non del tutto. Poi c'è tutta la vicenda del rapimento, che ovviamente si complica, di tutti coloro che gli girano attorno, dell'industria che si compatta attorno all'azione di privare un essere umano della propria libertà. Chi sceglie il bersaglio, che fa i controlli, chi segue, chi pianifica, chi guida, chi ci investe i soldi, chi fa da carceriere, e chi sta sopra a tutto questo. E' il male, grigio, banale e volgare, come la malattia, stupido, solido e stolido, senza senso. E' un modo come un altro per stare al mondo. Uno dei modi migliori per stare al mondo a Città del Messico. Si spinge per stare in piedi e si rimane in piedi fino a che non si viene spinti. Si lavora, si uccide, si tradisce, ci si affatica, a volte per una donna più giovane, altre anche solo per una macchina nuova (una macchina da poco, mica una Ferrari), ma non si può fare altro perchè l'unico modo di rimanere vivi è muoversi. Chi si ferma muore o, per meglio dire: chi si ferma è morto. Anche l'Alzheimer può essere un modo per rimanere vivi.


 

mercoledì 13 luglio 2011

Dov'è finita Dulce Veiga?, di Caio Fernando Abreu. La nuova frontiera

Chi sia Dulce Veiga e che fine abbia fatto lo si scopre solo dopo un certo numero di pagine (chi sia; che fine abbia fatto, se Dio vuole, lo scopriremo solo alla fine); all'inizio facciamo conoscenza con il protagonista. Non è che ti viene in testa che non avresti potuto assolutamente fare a meno di conoscerlo, che avresti perso chissà cosa nella tua vita. Mi spiego: a parte il fatto che di mestiere fa il giornalista, e pure per il rotto della cuffia, diciamo, in un giornale di quartordine o che quantomeno il protagonista ritiene tale, l'io narrante non è molto diverso dai protagonisti di mille altri romanzi del novecento. Non solo è un'antieroe ma, da com'è di moda da un po' di tempo a questa parte, è pure sfigato. Di più. E' abitato da una sfiga atavica, che lo circonfonde, lo vive e lo fa vivere e lui, il nostro protagonista, si lascia per lo più vivere e portar per mano dalla sua compagna Sfortuna. Dovrebbe essere al settimo cielo per aver trovato un posto da imbrattacarte, e forse lo è pure, vista la sua precedente condizione di disoccupato senza una lira, ma a suo modo, cioè in realtà la sua felicità viene costantemente bloccata dalla consapevolezza di qualcos'altro. Qualcosa di grigio, tedioso, assurdo, pesante e nauseabondo che lo invischia come pece. Qualcos'altro, che forse è la vita stessa, forse è la sua vita solamente o forse è il Brasile, forse San Paolo. Forse altro ancora. Fin qui, il romanzo non decolla e non rispetta le attese di un autore che viene considerato - in Brasile, in Sud America - uno dei più importanti dell'ultimo scorcio del secolo scorso. Barcolla tra il suo alloggio squallido abitato da insetti vari e la redazione del suo nuovo lavoro. Sappiamo che è stato lasciato da una donna, anche lei partita in cerca di qualcosa. Qualcosa di diverso, qualcosa che non sia San Paolo. E intuiamo che ha perso i contatti anche con un uomo, svanito nel nulla da un momento all'altro. Il protagonista, dunque, è una sorta di copia incolla di mille altri, carico di clichè (anche se dal nostro punto di vista di europei lo percepiamo in modo opposto, forse perchè abbiamo nella testa un'immagine del sud america e dei sud americani piuttosto datata e stereotipata). Il particolare che gli rende una certa tridimensionalità rispetto al clichè è la sua omosessualità, che scopriamo poco alla volta ma che intuiamo da subito.
  Fin qui, nessuna traccia di Dulce Veiga.
  Cercando disperatamente di mettere insieme un articolo ed un'intervista ad una band di giovani ragazze punk, si ritrova ad incappare in una cover di un vecchio successo di Dulce Veiga cantata dalle Vagine Dentate (questo il nome del gruppo punk femminista). Tornerà col ricordo ad un'episodio sepolto nel passato in cui lui e Dulce Veiga si trovavano nella stessa stanza. Si domanderà che fine ha fatto Dulce Veiga, scomparsa al culmine del successo in cerca (forse) di qualcosa, anche lei, di qualcos'altro, come amava ripetere spesso. Scoprirà un legame tra le Vagine Dentate e Dulce Veiga. Deciderà (o più che altro qualcuno deciderà per lui) di mettersi in cerca della cantante. Da qui in poi la storia decolla. Diventa una sorta di detection sbilenca che in un certo senso può ricordare certi film di Almodovar: per i personaggi assurdi, gli incastri improbabili, le situazioni sospese tra il tragico ed il grottesco. A questo punto la storia non ti lascia più scampo e ti costringe a seguirla fino in fondo. Ed è da qui in poi che anche il suo stile acquista un senso compiuto, quando nelle prime pagine dava l'impressione di qualcosa di stonato e, a volte, di pretenzioso. In realtà alla fine ti lascia qualcosa dentro. Che cosa? Innanzitutto la sensazione che quel qualcos'altro che tutti cercano nel romanzo sia in realtà il vero protagonista e che in fondo sia qualcosa che tutti noi cerchiamo, consapevoli o meno. Poi, che quel qualcos'altro è qualcosa di inafferrabile per molti, ma per altri invece diventa realtà già in questa dimensione. Infine ti lascia la voglia di leggere altro di Abreu. Qualcos'altro. Forse per tentare di capire. Capire quale sia il centro della sua opera e del suo mondo. Per capire se davvero sia un grande autore o quantomeno uno scrittore di culto. Per capire se siamo stati fregati, come il protagonista del romanzo, oppure no. Qualsiasi sia la risposta, rimane un libro da leggere.


  In più, in italiano, è stato pubblicato un altro suo libro, per la Quarup editore, I draghi non conoscono il paradiso.

domenica 3 luglio 2011

I minuti neri, di Martin Solares, edizioni Il Saggiatore

In questa storia c'è un presente con cui si apre e si chiude la narrazione, e questo presente ha un suo protagonista (Ramòn Cabrera, detto el Macetòn) e diversi altri personaggi, poi c'è un passato che è il vero centro del racconto, e questo passato ha un suo protagonista (Vicente Rangel Gonzàlez) il quale a sua volta ha un coprotagonista (Jorge Romero, detto el Ciego), e diversi altri personaggi. Ogni personaggio, più o meno, ha un soprannome e l'autore di volta in volta decide se usare il nome o il soprannome. Alcuni compaiono sia nella linea del presente che in quella del passato. La storia comincia con l'omicidio di un giornalista, Bernardo Blanco, tornato nella immaginaria città di Paracuan dagli Stati Uniti, e infilatosi da subito in un groviglio di serpi in cerca della verità su fatti che ebbero inizio nel 1978. La vera protagonista del libro è la storia di questi fatti, che viene portata alla luce, poco alla volta e tra mille difficoltà, dal Macetòn, il quale indaga sulla morte di Blanco, il giornalista. In poco tempo si rende conto che i due fatti sono strettamente legati e per comprendere l'uno bisogna inevitabilmente ricostruire l'altro, cosa tutt'altro che facile dal momento che i fatti del 1978 rappresentano il peccato originale su cui si è costruita, attraverso menzogne, soprusi e corruzione, il vero gotha della città, e non solo. Nel 1978 vennero trovate morte quattro bambine, quattro cadaveri mutilati che vennero addebitati ad un serial killer senza volto ribattezzato dalla stampa Lo Sciacallo. Nel corso del libro scopriremo la vera identità dello Sciacallo, ma sarà relativamente poco importante. Avrà un nome ed un cognome, ma di lui sapremo poco o niente, se non che " Lo portarono dentro alle tre, e alle tre e cinque lo liberarono. ". Il vero centro del narrare, il vortice scuro che tutto ingoia, è la rappresentazione della corruzione in Messico (che in questo caso è perfetto come sfondo credibile, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra nazione: pensiamo ai mille misteri italini, alle stragi di stato, ecc.), gli allacci coi politici, coi narcotrafficanti, coi criminali, la rete di coperture di cui si trova a fruire lo Sciacallo, quasi a sua insaputa, e il mare di menzogne e scese a patti squallidi che si mettono in moto da subito e finiscono per costituire una sovrastruttura (un Sistema) che diventa impensabile scalfire. Se si sottrae un pezzo, seppur infinitesimale, di menzogna al castello di bugie, tutto quanto l'edificio sarà destinato al crollo, per questo il sistema dovrà coprire, insabbiare, corrompere, torturare e uccidere pur di salvaguardare sè stesso. Blanco, il giornalista Bernardo Blanco, scoprirà il Macetòn, stava raccogliendo materiale per scrivere un libro su quei fatti, e per questo muore. Il vero protagonista del romanzo è il meccanismo che sottende il potere, è il potere stesso e le sue forme di autodifesa, il crimine come fatto insito al sistema. Di più, come azione fondante del sistema. C'è tutto il Messico (e non solo) in questo libro: ci sono i femminicidi di Ciudad Juarez, i narcotrafficanti onnipotenti, c'è la polizia che si limita a divenire un tramite tra i narcos, i politici e la popolazione. C'è la corruzione politica, che parte dall'ambito locale e giunge fino a quello nazionale. Ci sono però anche tre generazione di poliziotti onesti - non perfetti, non immuni da vizi o colpe, ma onesti -: Miguel Rivera Gonzalez, lo zio di Vicente Rangel Gonzalez, Vicente rangel appunto e infine Ramòn Cabrera, el Macetòn. E poi c'è la stampa che, nonostante tutto, rimane l'unico contropotere a potersi permettere di svolgere il suo ruolo. Non per niente, forse, il mondo ha potuto venire a conoscenza della strage di donne di Ciudad Juarez grazie al libro di un giornalista, Sergio Gonzalez Rodriguez (Ossa nel deserto, Adelphi) e non per niente lo stesso autore, Martin Solares, è giornalista. Abbiamo un noir ben dosato, ben scritto (la scrittura è da autore tout court non certo del semplice giornalista), ben ambientato, teso senza essere mai eccessivo, con qualche sforamento nel grottesco se non proprio nell'assurdo (vedi il capitolo " Testimonianza di Rodrigo Montoya, agente sotto copertura"). Un libro che trascina nella lettura e che, alla fine, si vorrebbe non aver mai letto, ma che in qualche sua componente continua a galleggiare nel subosconscio del lettore.
Non illudiamoci che parli solo del Messico.