"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 17 luglio 2016

Gli innocenti, di Oswaldo Reynoso, Sur editore, trad. di Federica Niola

Si può dire che Reynoso sia el secreto mejor guardado de la literatura peruana. Le edizioni Sur, dopo aver pubblicato Niente Miracoli ad Ottobre nel 2015 (1966 prima edizione peruviana) ora pubblica il primo libro di Oswaldo Reynoso (prima traduzione assoluta), Gli innocenti (1961) una raccolta di cinque racconti, ognuno dedicato ad un personaggio, che si può leggere come un romanzo breve o, meglio, come uno sguardo unico ottenuto da quadri giustapposti. Il centro gravitazionale dei racconti è la sala biliardi, nella quale regna, silenzioso ed incontrastato, il Choro Plantado, uno dei pochi adulti del romanzo, gran giocatore di biliardo dal passato oscuro e galeotto (nel vero senso di essere stato in prigione), e punto di riferimento esistenziale dei ragazzini che sono i veri protagonisti della narrazione: Faccia d'Angelo, Il principe, Carambola, Rossetto, Ciambella (uno per ogni capitolo (più Corsaro, Natkinkol, il Cinese e Mani alate. Gli altri punti di riferimento dei ragazzi sono il bar del Japonese e la casa di Gaby (il bordello). Lima è sempre la Ciudad de los Reyes (il primo nome con la quale la città fu fondata nel 1535 nella regione di Limaq, da cui avrebbe poi preso il suo nome attuale), ma è anche una metropoli sospesa tra un passato glorioso e un presente da capitale povera e violenta di un terzomondo che nella realtà è assai diverso (soprattutto le città lo sono) dal ritratto che ne fa il realismo magico letterario di quegli anni. Tra l'altro, il Perù, con la notevole eccezione di Manuel Scorza (noto per il suo pentealogico ciclo andino, la cosiddetta Ballata: Rulli di tamburo per Rancas, Storia di Garabombo l'invisibile, Il cavaliere insonne, Cantare di Agapito Robles, La Vampata), rimane abbastanza alla periferia di questo movimento che ha in Gabriel Garcia Marquez il suo patriarca e nume tutelare, e vanta una schiera di scrittori che sono la diretta derivazione di una classe di letterati intellettuali, lontani dalla realtà quotidiana, forse ancora più da quella metropolitana che da quella indigena (in questo senso non si può non citare José Marìa Arguedas e la sua narrativa antropologico-letteraria). Per la prima volta, Gli innocenti esce nel 1961, uno scrittore racconta la Lima dei barrios popolari, ne racconta gli umori, il sudore, gli odori, il parlato gergale, basso, le ambizioni e, soprattutto, lo sconcerto, il disorientamento di fronte alla vita che la città pone loro di fronte. La cultura dell'epoca dipinge un uomo che, più che uomo, è e deve essere maschio, e come tale con tutti gli attributi che ne conseguono: essere donnaiolo, bevitore, duro, incapace di mostrare debolezze, pronto a difendere le proprie ragioni anche con la violenza. E' questa cultura che incombe sulle anime e sui destini dei protagonisti che disperatamente cercano di allinearsi a quanto la società chiede loro. Sono ragazzini ritratti nel momento di passaggio che dall'innocenza sfocerà in altro, nella perdizione che pare inevitabile per tutti, o quasi (la preghiera del narratore alla fine del libro è per Ciambella, l'unico che potrebbe non attraversare il confine e rimanere, come da titolo, innocente):

Sei triste perchè sai che un ragazzo come te può perdersi. Non è il caso del Principe, che è un ladro; di Rossetto, che fa il <<Maledetto>>, ed è quasi, quasi perduto; di Faccia d'angelo, un giocatore capace d'impegnarsi la camicia per pagarsi un tavolo da biliardo e di tornare a casa nudo, la sera; di Carambola, che se la spassa con una donna più vecchia di lui; di Natkinkol, libero e festaiolo; per non parlare del Cinese e di Corsaro.(...) Se hai sbagliato è per via della tua famiglia, povera e rovinata; per la tua "quinta", caotica e degradata; per il tuo quartiere, che è un vero inferno; e per la tua Lima

 Gli innocenti del titolo sono loro. Faccia d'Angelo (primo capitolo) che viene bullizzato dal gruppo e che a sua volta si domanda se non sia davvero frocio, come lo accusano di essere. Ma è disorientato, si mette alla prova con la Gaby, al bordello, e poi si trova a registrare le avances violente di Rossetto, che è il capobanda ma gli lascia capire che lo desidera (lo desidera come una sfida, come una caccia tra animali, in maniera istintiva e primordiale, sollevando le labbra e lasciando scoperti i denti). Faccia d'Angelo che si vede portare via il pane che aveva comprato per la madre e che non è nemmeno consapevole del suo disorientamento. Si limita a registrare il comportamento degli altri e, come conseguenza, a domandarsi chi sia lui.
Il principe (secondo capitolo) che assume una certa fama da rockettaro per essere finito sul giornale per aver rubato una macchina, che fa il duro durante l'interrogatorio, e si domanda come diavolo può essere che un principe nella ciudad de los reyes vada in giro senza neppure una macchina per conquistare la sua Alicia. Carambola (capitolo 3) che si aggira attorno al Choro Plantado per farsi consigliare su come comportarsi con Alicia, che lui vede innocente e virginale, ma che in realtà è ben altro (Povero Carambola, se solo sapesse che la sua Alicia è più troia di una gatta in calore.) Rossetto, il capobanda, quello che ha imparato come gestire la sua paura per piegare il branco ai propri capricci ma che davanti ad una ragazza diventa impacciato, non sa cosa dire nè come comportarsi: 

  La banda... Lì sì che sono coraggioso. Per strada sono Rossetto il capobanda. Ma alle feste me la faccio sotto. Sono un vigliacco.

E infine Ciambella, che è ancora un bambino ma va in giro con la sigaretta in bocca e con in tasca un foglio assurdo che si è scritto da solo, falsificando la firma della madre, che recita:
La sottoscritta, tramite la presente, certifica che suo figlio Romulo Campos ha vent'anni, ragion per cui ha il permesso di fare cose da uomini. Si pregano i signori poliziotti di non importunarlo, perchè ha problemi di fegato. Cordialmente Gosefina Martines de Campos, sua mamma.

Su tutti loro incombe Lima, i suoi odori, il suo cielo opaco e bollente, il suo passato regale e il presente vigliacco, quella Lima che in fondo è un'entità vera e propria, quell'essere che tutti schiaccia al suo volere, ai propri canoni di comportamento. Che da un parte ti rende capobanda e dall'altra un vigliacco con le ragazze, che ti impone il machismo ma in fondo rende il corpo sudato degli altri maschi un oggetto di un desiderio forse insoprimibile, misterioso, violento e rapinoso. Gli innocenti sono questi ragazzini che rincorrono l'età adulta coi mezzi che hanno, con gli esempi che si trovano a disposizione (il Choro Plantado su tutti), con i soldi che non posseggono, con l'innocenza che li blocca davanti al mistero del sesso, dell'altro sesso e del proprio. Stanno per attraversare una linea dalla quale non si torna indietro, verso la quale la cultura, la società, Lima stessa li spinge, e assaporano ogni attimo, ogni odore, ogni umiliazione (inferta o subita) che la vita gli concede, appena consapevoli di essere ragazzini dei peggiori barrios de la ciudad de los reyes.
  Reynoso, marxista convinto, scrittore di razza, capace di una prosa immediata, dura e poetica al contempo, divenne da subito una sorta di scrittore maledetto, uno scrittore d'iniziazione, e il suo libro (...) un talismano (dalla perfazione di Mariana Enrìquez a Niente miracoli ad Ottobre, ed.Sur, pag.13). Venne da subito tacciato dall'estalishment letterario dell'epoca di pornografia, un maiale che si compiace della sporcizia che descrive, ad eccezione di due grandissimi scrittori, Arguedas e Vargas Llosa, che subito riconobbero in lui l'ambizione innovativa di un narratore di razza. Trascorse poi diversi anni in Cina, pensando di trovare la vita perfetta che il socialismo reale nel quale credeva gli prospettava, ammettendo infine di non averla trovata. E' morto il 24 maggio di quest'anno, ansioso di poter visitare l'Italia (era invitato per quest'estate a diversi festival letterari), il primo paese che ha tradotto, finalmente, i suoi libri.


Oswaldo Reynoso (1931-2016) ha pubblicato romanzi, racconti e poesie. Il suo esordio, con la raccolta di racconti Gli innocenti (venne anche edito col titolo Lima en rock), fu salutato da José María Arguedas e dal futuro premio Nobel Mario Vargas Llosa come uno spartiacque nella letteratura peruviana. Edizioni Sur ha già pubblicato Niente miracoli ad Ottobre (2015).

QUI potete trovare un'intervista a Reynoso su Los inocentes (Lima en rock)
  

N.B.: ci auguriamo che le traduzioni proseguano presto con il libro El hombre y el escarabajo.

domenica 10 luglio 2016

Il demone di Angkor Vat, di John Burdett, Bollati Boringhieri editore, trad. di Carlo Prosperi

E se il centro del male presente e, soprattutto, futuro fosse quella follia della storia che è la Cambogia? Cosa può accadere se la scienza occidentale più spinta (tanto spinta da sembrare pazzia) si sposa con l'ancestrale magia khmer e la psicologia farang (occidentale)?
Burdett, ancora una volta ci porta a seguire le vicende dell'ispettore mezzo farang ed ex monaco Sonchai Jitpleecheep, ma questa volta (come già ne Il padrino di Kathmandu, quando il centro dell'azione era il Tibet), la narrazione degli eventi si sposta in un luogo lontano da Bangkok: la Cambogia: terra di demoni, uno dei luoghi nei quali la follia della storia ha scelto di manifestarsi (vedi alla voce: khmer rossi). Tutto comincia con un delitto: una ragazzina viene decapitata a mani nude, apparentemente da un essere dalla forza sovrumana. Sulla scena del delitto viene trovata una scritta che chiama in causa proprio Sonchai Jitpleecheep:

Detective Sonchai Jitpleecheep, io so chi è (macchia) padre

Poi il comandante Vikorn lo manda ad assistere (sotto l'egida della collega lesbica Krom) ad un evento tanto misterioso quanto orribile sul fiume Chao Praya. Quello che inizialmente pare non avere senso, col procedere delle indagini, viene svelato: il tentativo di vendita del primo asset. L'asset, tanto per essere chiari, è un essere TU, trans umano. Potenziato. Capace di apprendere qualsiasi cosa in tempi brevissimi. E' un essere umano a tutti gli effetti, ma migliore, più potente, più intelligente, assemblato con app di ogni tipo e con innesti infracorporei di alta tecnologia. L'asset è l'ultima evoluzione del Candidato Manciuriano (che, a dar retta a Burdett, a questo punto avrebbe dovuto chiamarsi Candidato Cambogiano), il frutto degli esperimenti della Cia denominati MKUltra. Manipolazione genetica e mentale. Durante la guerra in Vietnam sarebbe partito il progetto, poi abbandonato a causa di problemi "tecnici" (o, forse, "umani"): l'ingestibilità psicologica dei soggetti. In seguito, grazie alla collaborazione di un singolare psicologo inglese, seguendo un protocollo assolutamente top secret, il progetto sarebbe stato ripreso e portato avanti nelle foreste cambogiane e tra le rovine di Angkor Vat. Scienza, psicologia e magia. Oggi, appunto, mentre l'uomo comune ignora totalmente tale realtà, il mercato che si apre, la nuova arma militare è l'asset. Il paese che per primo riesce a mettere le mani su un esercito di super uomini, avrà il controllo del panorama geopolitico mondiale. In previsione di paesi che sempre meno saranno aperti alla democrazia e che, quindi, sempre più avranno il problema della gestione dei conflitti e delle insurrezioni interne, un esercito di superuomini diventa una dotazione essenziale per qualsiasi stato non voglia cadere nel caos e nell'anarchia. Questa, a grandi linee, la trama. Ma ovviamente c'è molto di più: Chanya, la moglie di Sonchai, le sue velleità intellettuali e la sua relazione omosessuale (vera, o solo immaginata) con la lesbica Krom, il demone del titolo, lo smarrimento di Sonchai e del suo karma di fronte ad una realtà assurdamente enorme ed incombente e, soprattutto, di fronte alla soluzione dell'enigma circa l'identità di suo padre, il militare americano di cui ha sempre saputo poco o niente. La trama, le sottotrame, le geometrie che legano l'una alle altre, sono come sempre impeccabili e molto ben gestite dal polso dell'autore, ma il vero centro d'interesse, così come in altri suoi libri era lo studio della mentalità orientale a beneficio del lettore farang (che in questo libro rimane nettamente nell'ombra), è in questo caso l'analisi tra il filosofico e l'antropologico del presentarsi sulla scena mondiale di una nuova realtà (non si può definirla solamente "tecnologia") come quella dei trans-umani. I nuovi dei. Il ritorno del messia. Gli asset, i cosiddetti umani potenziati, fanno ancora parte del genere umano o sono altro, divinità appunto? Quale sarà la relazione tra le due categorie: saranno i transumani agli ordini degli umani (magari anzi, quasi sicuramente, per soggiogare altri umani) o prenderanno il controllo del potere? Cosa provano? Sono, e saranno - sapranno essere - equilibrati e saldi nelle loro missioni, o l'enormità dei loro poteri, la (apparente) perfezione della loro tecnologia li porterà a divenire una minaccia per il mondo e per sè stessi? Le domande, queste ed altre, sono il vero fulcro d'interesse del romanzo e, più che porsele Sonchai Jitpleecheep, Burdett le pone direttamente al lettore (L), sempre con la sua tecnica (onestamente un filo stucchevole) con la quale gli si rivolge direttamente (es: "L, tu sei cresciuto insieme a tuo padre? / Ora L, non posso certo affermare che..." ecc)
  Il mondo disegnato dall'autore è catastroficamente simile al nostro, e il futuro che si appresta all'orizzonte è quello che vediamo avvicinarsi sempre di più al nostro presente, fino a fagocitarlo, le paure e le teorie complottistiche che ne scaturiscono spesso rimagono tali e vanno ad aumentare esponenzialmente il grado di paranoia nell'aria che respiriamo. Burdett prende spunto da queste teorie, ma non si sofferma sulla mostruosità di progetti inumani quali l'MKUltra, sulla domanda  principe in questi casi: come può un essere umano concepire simili mostruosità? Con una logica tutta orientale, si limita a prendere atto dell'esistenza della realtà, per quanto terribile ed apparentmente inverosimile, e l'analizza. La domanda principe, una volta preso atto delle cose come stanno, diventa quindi: come mi pongo io di fronte al mutamento delle cose, che posto occupo (decido di occupare, al netto delle considerazioni relative al mio karma) in un mondo di trans umani?
  Come sempre, i romanzi del ciclo di Jitpleecheep danno l'impressione di essere letteratura take-away, nutrite a base di trash ed effetti forti: sesso e sangue, in salsa esotica, ma ancora una volta l'abilità di Burdett sta nel costruire una storia con materiali poveri, adattandovi una narrazione apparentemente da "segretissimo" da edicola, per scavare però più a fondo. Al di là dei personaggi, ben riusciti ed ai quali, libro dopo libro, ci si affeziona, al di là dell'ambientazione esotica e degli effetti pulp sesso-sangue, i libri di Burdett sono una esplorazione di realtà che spesso ci sforziamo di tenere attentamente lontano dagli occhi: snuff movie, prostituzione infantile e non, commercio di organi ecc.

  A questo punto ci si aspetta che vengano pubblicati anche Bangkog8 e Bangkok tatoo, e ristampato L'uomo di Bangkok.

John Burdett è nato in Gran Bretagna e vive in Asia. Ex avvocato, ha scritto A Personal History of Thirst, The Last Six Million Seconds, Bangkok 8, un romanzo che ha venduto piú di centomila copie negli Stati Uniti ed è stato tradotto in 19 paesi, e Bangkok Tattoo. Bangkok uccide è apparso nelle classifiche americane dei romanzi piú venduti del 2007.

  Su 2666 sono apparse le recensioni di Bangkok Uccide, e Il padrino di Kathmandu

domenica 5 giugno 2016

Il romanzo luminoso, di Mario Levrero, Calabuig edizioni (JakaBook), trad. di Maria Nicola

  Un uomo aspetta di essere operato di colecisti. Quell'uomo, temendo complicazioni ed eventualmente la morte in seguito alle ipotetiche complicazioni dell'operazione, decide di scrivere un libro nel quale riportare le proprie esperienze "luminose" (vedremo in seguito cosa si intenda per "luminose"). Anni dopo, quello stesso uomo ormai anziano che, per inciso, è uno scrittore - l'autore stesso - riceve una donazione da un ente culturale (fondazione Guggenheim) per potersi dedicare a scrivere in santa pace, senza assilli di tipo economico (almeno per qualche tempo) e decide di tenere un diario, il cosiddetto Diario della borsa, nel quale appunta sia la sua decisione di tornare a lavorare sul Romanzo luminoso, con l'intenzione di completarlo, sia il quotidiano stillicidio dei suoi giorni a Montevideo: la sua dipendenza da computer, il suo ormai quasi del tutto rovesciato ritmo sonno-veglia, la sua telepatia col venditore di libri usati, la sua storia con Chl, l'ossessione passeggera per le immagini pornografiche, le visite della sua dottoressa (sua ex-moglie) e del cane Mendieta, il caldo impossibile delle estati e la necessità di un condizionamento in casa, le sue lezioni e i suoi studenti, le sue fobie, le passeggiate con le sue accompagnatrici (nel vero senso della parola, cioè: donne, amiche, che lo accompagnano), il lento decomporsi di un piccione sul tetto del palazzo di fronte e le successive visite della vedova al cadavere del compagno. Il romanzo luminoso è una reiterazione del quotidiano che pone un'attenzione ossessiva a certi - pochi - aspetti che nel loro ritmico susseguirsi ritraggono fedelmente la vita di un uomo nel tramonto della propria esistenza, un attento compendio che attua uno scostamento sottile dalla mera realtà quotidiana al mondo interiore dell'autore.
  L'esistenza descritta vive di una geografia ben precisa e sempre uguale a sé stessa: l'appartamento, le passeggiate, sempre le stesse strade, il negozio di libri usati: pochi punti che delineano la topografia entro la quale il proprio corpo si muove, metodicamente, quasi barcollando, con un'andatura balbuziente, da vecchio che si adatta all'idea di impaurirsi del mondo esterno, che sempre si pone in una condizione di autoauscultazione dei propri acciacchi, dei segni che il proprio corpo gli invia per metterlo in allarme, ma quella mappa diviene da subito la tela sulla quale Levrero riporta per intero la propria vita mentale (intendo dire mentale prima ancora che interiore), i ricordi, le storie che si aprono come riflessioni improvvise per poi a volte, spesso, non terminare in nulla, gli appunti per storie da sviluppare, le morti degli amici che gli giungono come attutite da una lontananza a volte geografica a volte temporale, gli accenni - pochi - asfittici alla figlia, la scrittura come àncora di salvezza ma al contempo così terribilmente difficile da praticare. Il reale dunque, pur se descritto nella sua mera quotidianità, viene percepito come in bilico, costantemente sul punto di sfaldarsi. Ed è proprio il concetto stesso di reale che il romanzo rende "luminoso", quel non esaurirsi in sé stesso o, per meglio dire, nella percezione che normalmente ne abbiamo: altre dimensioni si aprono su quella presente, e lo stesso essere umano, lo stesso autore, nel raccontare la banalità di una vita quasi bidimensionale, permette agli squarci "luminosi" di brillare in tutta la loro forza. Non solo la realtà è più complessa e dimensionata di quanto siamo soliti pensare ma lo stesso essere umano lo è. Levrero, autore quasi sconosciuto in Italia (incomprensibilmente), scrive un diario che, come tale, non finisce e abbozza un romanzo, non terminato anzi, appunto, solo abbozzato, e parlando direttamente a sé stesso e quindi al lettore (e viceversa), ci descrive non tanto la sua biografia quanto l'idea stessa di biografia ossia, l'impossibilità di una biografia come accademicamente la si intende. La biografia come avventura mentale, totalmente mentale, avventura nella quale il corpo, il piano fisico è un incidente di percorso che permette lo sviluppo, e l'avviluppo, di un'esistenza mentale. In Levrero l'aspetto intangibile dell'esperienza umana diviene corposo, acquista dimensioni, colori, consistenze, mentre la vita fisica scivola in un ruolo di secondo piano: il corpo serve in fondo solo per portare in giro il proprio cervello e per trascendere sé stesso. Il romanzo luminoso è un'avventura, a volte parapsicologica, esoterica, fantastica, ed è un romanzo d'amore, una riflessione sulle donne e su Dio, sulle paure che vivere comporta, è un modo di entrare direttamente nei gangli neuronali dell'autore, nelle sue fobie, negli errori percorsi e schivati, ed è ovviamente un diario, un appuntarsi (un aggrapparsi, direi, a) il quotidiano per immergersi in quella zona che alla fine è il proprio io, o la propria psiche, o quello che nel tempo abbiamo costruito per definirlo "io", noi stessi.
L'ordine ossessivo da seguire secondo rituali precisi agganciano il reale alla percezione dell'autore come se seguire un certo percorso fosse condizione necessaria per permettere a quello stesso percorso di esistere: in questo senso è la meccanica creatrice dello scrittore che (apparentemente controvoglia, o quasi) prima immagina, poi crea. La realtà che viene narrata dietro ad ogni aspetto banale e quotidiano nasconde non solo un complicato ricettacolo di ragionamenti e rimandi che le permette di crearsi, ma anche uno squarcio (anzi, numerosi) su universi inquietanti, apparentemente statici eppure in constante, lento, movimento, continenti (anzi, dimensioni) che invece di collidere si sovrappongono, scivolano a formare una realtà che non può essere descritta, perché in certe dimensioni, forse, non esistono le parole, o comunque da questa dimensione non riusciamo a raggiungere le parole corrette per descriverla. Per questo all'autore non resta che la possibilità di balbucear, di cercare continuamente di aggiustare il tiro, di cercare il termine adatto e, continuamente, vedersi costretto a portare esempi, girare al largo per circoscrivere qualcosa che non può essere catturato. Eppure, questa balbuzie inevitabile e terribilmente umana, nella tecnica superlativa di Levrero, si trasfonde in uno stile preciso e totalmente "luminoso". Appunto.

La realtà è un insieme di percorsi mentali che a volte possono, o no, condurre ad uno scarto, un aprirsi di prospettive che modificano la realtà stessa. E un'operazione alla colecisti può tradursi in paura della morte e realizzarsi in un capolavoro "luminoso" che ci racconta di un vecchio scrittore, del suo appartamento a Montevideo, della sua amata, e del suo diario. Solo Levrero potevo farlo.

  Uno dei libri che non si può non leggere, in attesa di altre traduzioni di Levrero, e di altri lettori di Levrero.

  Mario Levrero (Montevideo 1940 – 2004) ha pubblicato una decina di romanzi che lo hanno reso uno scrittore di culto, un punto di riferimento per molti autori latinoamericani. Appassionato di ipnosi, fenomeni telepatici, computer e libri gialli, ha esercitato molti mestieri, tra i quali il fotografo, il libraio, il direttore di riviste di enigmistica e l’autore di videogiochi. La rivista “Granta” lo ha recentemente proposto all’attenzione dei lettori europei nella rubrica Best Untranslated Writers. Il romanzo luminoso è il suo primo libro tradotto in italiano.

  QUI potete trovare un articolo dal blog di EdizioniSur di Raul Schenardi e una traduzione di Loris Tassi per farvi un'idea di chi sia stato Mario Levrero.

martedì 26 aprile 2016

Il male minore, di Carlos Eduardo Feiling, Fanucci editore, trad. di Ilaria Magnani

  Buenos Aires è invasa da spettri (che in realtà non sono spettri, ora ci arriviamo) che solo alcune persone possono vedere, e il Male ha aperto un varco nella Recinzione, proprio sopra la zona di Calle Tristàn Narvaja.
  Inès Gaos, si è appena trasferita in un alloggio non distante dal ristorante di cui è socia assieme all'amico (e non solo, non proprio) Alberto, quando la prima notte che passa in casa (sola, ad eccezione della gatta Azucena) viene terrorizzata da un'apparizione mostruosa. Seguono tragedie: il suicidio del fidanzato (insomma, più o meno), e oscuri presagi. Nelson Floreal è un cartomante che studia come meglio spillare i pochi soldi che gli riesce ai suoi clienti, assiste l'anziana madre e, la sera, si siede fuori dall'uscio di casa e osserva preoccupato un singolare via vai di presenze di non-vivi che si aggira per le strade di Buenos Aires. Inès è una figlia della Buenos Aires bene, colta e cocainomane, Nelson Floreal e la madre si arrangiano come possono, vivacchiano, galleggiano sull'orizzonte quotidiano della sopravvivenza, loro e i loro due cani. Alberto ha la stessa estrazione sociale (e lo stesso vizio) dell'amica e socia in affari Inès, e studia storia delle religioni. Partendo da queste semplici basi l'autore ottiene un'atmosfera cupa (a volte, poche, decisamente splatter) e inquietante ma al contempo non riesce a non perdere una certa leggerezza nello sguardo che è tipica, più che non della letteratura, del cinema. Ma un punto è importante: l'effetto spiazzante che ne deriva stilisticamente è speculare a quello strutturale, ne consegue quindi l'impressione che l'autore sia quasi svagato nel seguire i suoi personaggi e/o lo faccia senza credere fino in fondo alla paura che vuol far vivere ai propri lettori ma, appunto, si tratta solamente di un'impressione. Quest'effetto straniante che emerge dal contrasto cupezza/leggerezza non svilisce le potenzialità del romanzo ma, al contrario, le intensifica, rendendolo un caso unico nel genere. Poi, ci sono particolari che non sono quello che sembrano: ad esempio l'anziana madre malata di Nelson Floreal non è solo una vecchietta sull'orlo della povertà e della morte, è un arconte. Gli arconti, che nel mondo sono 12 - devono sempre essere 12, pena: il disastro su scala planetaria - sono gli unici esseri umani che non sognano, e sono i guardiani della Recinzione. La Buenos Aires de Il male minore, la più europea delle capitali latine, è una città oscura dove solo il nome della topografia ci fa capire dove ci troviamo, ben lontani dallo stereotipo dell'America latina che ha colonizzato l'immaginario occidentale. Il passaggio suicidiario ai tropici è solo una grottesca caricatura dell'idillio naturalistico e marxista (splendido il viaggio in aereo con i "compagni" in visita nell'Avana comunista) che ci si potrebbe aspettare. Dalla casa di Inès, al quartiere, a Buenos Aires, al SudAmerica, ai Tropici, il male si annida dappertutto, avanza, guadagna spazio, demolisce luoghi comuni e colleziona morti, si adatta, accumula energia per allargare il varco e permettere ai due mondi di colare l'uno nell'altro. Feiling ha perfettamente appreso la lezione del maestro del genere Stephen King e mette in scena un male multiforme, che cambia faccia a seconda di chi si trova di fronte, che incarna le paure di coloro che, di volta in volta, tentano di parargli il passo, e un male cangiante è un male che non ha un'identità sua propria. E l'indefinitezza è per sua natura ciò che più crea paura: si teme ciò che non si conosce. Ci fa orrore un volto privo di tratti. Ci terrorizza una minaccia che non capiamo da dove arrivi. Ciò che è sfumato, potenzialmente non ha confini. Ma Feiling va oltre, l'universo semantico in cui fa muovere i suoi personaggi e monta la sua storia, lo costruisce su un'unità di base che lo rende incredibilmente coerente con sé stesso e con la storia stessa: l'intera cosmogonia che regge l'universo de Il male minore e che rischia di mandare in pezzi il mondo così come lo conosciamo è centrato sul sogno. Sul potere distruttivo e creatore del sogno. Torniamo alla Recinzione. Cosa c'è di là dalla Recinzione? Un dimensione nella quale esistono (nel vero senso della parola) i sogni del mondo (o, per essere più precisi: degli esseri umani), un contenitore oscuro nel quale gli arconti recludono l'inconscio del mondo. Ecco il centro innovativo del libro. Non è tanto una questione di apparizioni, di oscuri presagi, di case maledette, di città invase da schiere di fantasmi, di pazzia virale, di abitatori dell'inconscio, streghe, mostri e vampiri (tantomeno!). Il centro del tutto, e in fondo ora che lo sappiamo, e lo sappiamo perché Feiling ce lo ha spiegato (o, per meglio dire: ce lo ha lasciato capire) è l'inconscio collettivo, il male che viene da dentro. Non dall'interno di un singolo essere umano, ma dall'oscurità misteriosa che cova nei sogni dell'umanità intera; e cosa c'è di più spaventoso e perverso dei sogni dell'umanità? Cosa sarebbe la realtà se ciò che l'umanità sogna improvvisamente si materializzasse? O, ancora: e se la realtà fosse quella che è - cioè in molti suoi aspetti e in molte latitudini, un vero e proprio inferno sulla terra - proprio perché quel mondo che sta al di là della Recinzione ha già aperto una falla e si è infiltrato nel nostro presente?
  Il tocco geniale dell'autore sta nel non concentrarsi in spiegazioni complesse, psico-antropologiche, religiose o altro e, poco alla volta che la scopre, nell'accettare la realtà così com'è, assurda e tragica, illogica e pur tremendamente razionale, limitandosi a seguire i suoi personaggi, portandoli freddamente verso il compimento dei loro destini. Se all'apparenza si tratta di un mix riuscito tra Ghostbusters e L'inquilino del terzo piano (e in effetti lo è), in realtà Il male minore è (anche e soprattutto) un romanzo scioccante che procede verso la catastrofe con la stessa leggerezza con la quale l'orchestra del Titanic suonava andando incontro all'iceberg ("Il Titanic è appena rientrato in porto", per citare appunto Ghostbusters). Un libro unico, sicuramente in debito con l'immaginario cinematografico ma al contempo saldamente letterario, un libro strano e straniante, che spiazza il lettore portandolo ad assumere lo sguardo doloroso e incredulo di chi sa di dover morire di lì a poco (e i personaggi del romanzo muoiono, uno dopo l'altro, come farà il suo autore, con una facilità repentina, illogica eppure assurdamente naturale).
  Il capitolo finale, il cui contenuto qui non svelo, è illuminante.  E' solo alla fine che ogni tassello trova il suo alloggio, e la realtà si lascerà invadere dai propri sogni.




  L'autore, Carlos Eduardo Feiling, quando muore (di leucemia) nel 1997 ha 36 anni e all'attivo una raccolta di poesie (Amor a Roma, 1995) e tre libri di narrativa: El agua electrizada, 1992, Un poeta nacional, 1993 e El mal minor, finalista al premio Planeta Biblioteca del Sur del 1995, l'unico suo libro tradotto in Italia. Curò inoltre l'antologia Los mejores cuentos del terror.
   Era nato a Rosario nel 1961. Laureatosi in Lettere e Filosofia, iinsegnò linguistica, latino e filosofia, prima di dedicarsi, dal 1990, esclusivamente al mestiere di scrittore e giornalista.


sabato 16 aprile 2016

La casa di carta, di Carlos Maria Dominguez, Sellerio editore, trad. di Maria Nicola

 Una docente universitaria di letteratura ispanica di Cambridge, Bluma Lennon, muore investita da un'auto mentre legge una vecchia edizione delle poesie di Emily Dickinson. Il professore che prenderà il suo posto (e io narrante del romanzo) riceve per posta un pacco destinato alla professoressa deceduta. Il pacco contiene un'edizione del capolavoro di Joseph Conrad, La linea d'ombra, che reca una dedica firmata dalla stessa Bluma per un certo Carlos Brauer, facendo riferimento ad una trascorsa notte di passione. Il libro, per assurdo, è ricoperto di tracce di cemento, come se col cemento fosse stato impastato, quasi fosse un mattone e non un libro. Da queste premesse prende l'avvio una detection dai modi garbati che si sposta prima a Buenos Aires e poi a Montevideo, in cerca del misterioso Carlos Brauer, e poco alla volta scivola verso un abisso di delirio al quale l'autore si affaccia senza peraltro mai immergervisi realmente. Sbircia la follia dagli argini del maelstrom, ma subito se ne ritrare, preferendo studiarne gli effetti su quanti hanno più o meno incidentalmente conosciuto Brauer (Delgado, e i pescatori della spiaggia di Rocha) e, soprattutto, sulla storia che si trova ad indagare, vale a dire quella tra stesso Brauer e la professoressa Bluma, fino ad ipotizzarne connessioni più o meno dirette con la morte stessa della docente.

  I libri cambiano il destino delle persone. Ci fu chi lesse "I pirati della Malesia" e divenne professore di letteratura in remote università. "Demian" condusse all'induismo decine di migliaia di giovani, Hemingway ne fece degli sportivi, Dumas mandò all'aria la vita di migliaia di donne, e non poche scamparono al suicidio grazie ai manuali di cucina. Bluma ne fu vittima. Ma non fu l'unica. Il vecchio professore di lingue classiche Leonard Wood rimase emiplegico ricevendo sulla testa cinque volumi dell'Enciclopedia Britannica crollati insieme ad un ripiano della libreria; il mio amico Richard si ruppe una gamba nel tentativo di Raggiungere "Assalonne, Assalonne!" di William Faulkner che, mal collocato su uno scaffale, causò la sua caduta dalla scala. Un altro mio amico di Buenos Aires si ammalò di tubercolosi nei sotterrnei di un archivio pubblico e conobbi un cane cileno che morì di indigestione dopo aver divorato "I fratelli Karamazov" in un pomeriggio di furia.

 La casa di carta è un romanzo (breve, 85 pagine appena) che parla di libri, dell'amore per i libri, dell'ossessione per i libri, e di come i libri interferiscano con la vita delle persone fino a modificarne i percorsi ed i destini. Ma non solo, ovviamente. In un gioco di rimandi e citazioni Dominguez intesse una riflessione su cosa sia la conradiana "linea d'ombra" e su cosa voglia dire stare al di qua o al di là di essa. Cosa succede quando Brauer perde il controllo della propria ossessione e si lascia fagocitare da essa, e dove lo condurrà la follia che lo abiterà, oltre la spiaggia di Rocha? Dove si perdono le tracce del suo destino? E in quale modo si sono intrecciate con quelle della professoressa Bluma?
E poi, come riferito da Delgado, come poteva Bruaer conoscere in anticipo la fine di Bluma.
  Quando Brauer perde la chiave ( o il codice, o la mappa) per orientarsi nella propria sterminata biblioteca, smarrisce il proprio orizzonte, e la sua vita va in frantumi. Ma il problema era nato prima, dalla sua improvvisa mania di catalogare i libri secondo una logica di affinità tra gli stessi.

Voglio dire che Pedro Paramo e "Il gioco del mondo" sono due opere di autori latinoamericani, ma se si vuole seguire il cammino dell'una è necessario risalire a William Faulkner, mentre l'altra ci porta a Moebius. O per dirla in altro modo: Dostoevskij finisce per essere più affine a Roberto Arlt che a Tolstoj. E, volendo essere più chiari, Hegel, Victor Hugo e Sarmiento meritano certamente di stare più vicini di Paco Espìnola, Benedetti e Felisberto Hernàndez.

  O forse la crepa che aveva dato il via alla catastrofe s'era presentata prima ancora, forse in un punto della storia che nè noi nè l'io narrante abbiamo modo di conoscere, forse in quella citata notte di passione vissuta anni prima da Brauer e Bluma. Perchè (e, in ogni caso:come?), altrimenti, Brauer, descrivendo la sua amante di una notte all'amico Delgado, era stato in grado di predire con precisione lancinante la morte?

... ho conosciuto un'ispanista inglese, molto carina,... una di quelle accademiche focose e petulanti, abituate a rivestire ogni cosa di citazioni letterarie, che se potessero scegliere il modo di morire vorrebbero finire sotto un'automobile mentre leggono Emily Dickinson.

  Dominguez intreccia un affascinante gioco di rimandi nel quale la bibliofilia è una malattia che rende più sopportabile l'esistenza, pur rovinandola, e dove, forse, l'unico colpevole della morte della professoressa Bluma, è un libro. O forse no. Dominguez, affabula, costruisce un meccanismo elegante che non si spinge alle estreme conseguenze della propia trama, ma che affabula il lettore e lo lascia a riflettere, in una casa di carta, sulla spiaggia di Rocha.

Carlos Maria Dominguez (Buenos Aires, 1955), è anche giornalista e critico letterario. I suoi romanzi e racconti, che sembrano colloquiare con i temi e le ispirazioni intellettuali provenienti dalle parti di Borges, Buzzati o Calvino, sono stati pubblicati in diversi paesi. La casa di carta è del 2001.
 

 

domenica 3 aprile 2016

Mumbo Jumbo, di Ishmael Reed, Minimum Fax editore, trad. di Anne Meservey

Scritto nel 1972, Mumbo Jumbo è una follia: contorta, sperimentale, incomprensibile; e incredibilmente lucida. Riportare qui la trama è un'impresa, e forse servirebbe a poco, non tanto perché, come ovvio, la trama non sia realmente importante, e non lo è, come non lo è mai d'altronde, quanto perché la commistione di generi e il caos (controllato) della narrazione di Reed rende oggettivamente difficile seguirla. Mi spiego: è difficile seguirla, coerentemente. In realtà si segue altro, che forse non è neppure il sottotesto, quanto il punto di vista. La sovversione letteraria in questo libro viene attuata dal cambio a 180° del punto di vista. Una rivoluzione copernicana. Non è un libro sulla cultura black né, per quanto per certi versi possa dispiacere al lettore in cerca di più o meno facili esotismi, un libro sul voodoo (e neppure sul jazz o sul dixieland) e tantomeno è un semplice libro con protagonisti di colore. Vado oltre, non è un libro sulla negritudine: Mumbo Jumbo si spinge follemente (la ironica follia - o la folle ironia - cervantina che non ci permette di capire fin dove ci troviamo di fronte alla realtà e fin dove siamo noi a scivolare nella follia, e a credere in essa) a rileggere la storia del mondo sotto una lente totalmente diversa da come il mondo l'ha sedimentata nel corso della sua storia. Il centro non è più la cultura occidentale, non c'è l'illuminismo nè la rivoluzione francese a fungere da perno, la realtà non si articola attorno ad interpretazioni marxiste nè fideistiche/cattoliche: la storia del mondo, a guardarla bene (ci dice Reed), è una lunga lotta tra il freddo razionalismo occidentale (il suo cercare una logica, progredire per gradi, confidare in un finalismo storico, nello scientismo, eccetera) e un principio dionisiaco-animista-caotico incarnato nell'epidemia di Jes Grew che di tanto in tanto emerge dal suo sonno carsico e, come un virus, invade le nazioni, facendole ballare, riportandole in contatto col ritmo matto e ossessivo che è il cuore pulsante del mondo. Quel ritmo che è il mondo primigenio, che dà la vita e porta alla morte, l'eco del caos pre-BigBang che ancora tutto permea, pur sotto un'apparenza di ordine e logica. Reed, nella sua partigiana e orgoglioso rilettura della realtà, va oltre, si spinge a cannibalizzare il punto di vista occidentale e a farlo proprio: c'è una cultura che, dall'inizio della storia, ha plasmato il mondo, e non è quella occidentale, bensì quella africana. Per fare questo imbastisce una storia che è un pazzo collage che ruota attorno ad una finta detection portata avanti da investigatori che (ovviamente) non sono tali: Papa LaBas e Black Herman. Siamo negli anni 20 e l'epidemia di Jes Grew si sta espandendo per gli Stati Uniti. La reazione bianca viene portata avanti dall'Ordine Wallflower in una complicata alleanza con i Cavalieri Templari. Jes Grew è musica, abbastanza virale e potente da mettere in forse la stessa sopravvivenza della società occidentale così com'è conosciuta, può sbriciolarne i pilastri, ma per raggiungere la massima potenza d'urto ha bisogno delle sue parole, del Testo. Jes Grew si espande in cerca del proprio Testo. Il testo dell'Opera. Attorno a questo scenario apocalittico, la grande guerra segreta tra l'Opera e l'Ordine Wallflower s'incarna in una serie di personaggi tanto sbilenchi da risultare, a volte, perfettamente credibili. La Grande Cospirazione muove le sue pedine, infiltra androidi neri nei giornali e nella vita pubblica e culturale perché questi smorzino la forza rivoluzionaria della Black Renaissance, ridicolizza la febbre di Jes Grew dipingendola come semplice isteria tardo adolescenziale con radici selvagge, neo animismo patologico, cerca in ogni modo di depotenziarla, utilizzando personaggi oscuri e improbabili che sembrano usciti pari pari dalle indagini sull'uccisione di JFK. Sullo sfondo del presente storico della narrazione, la Guerra Sporca degli Usa contro Haiti, e nel passato la reinterpretazione della mitologia egizia e del mondo magico esoterico in chiave black. Quindi: il dixieland e il jazz come possessione voodoo, come Jes Grew, che si allarga a macchia d'olio, che costringe i bianchi a ballare fino allo sfinimento, fino a crollare in terra esanimi e a morirne, o a non essere più sé stessi. Quindi: la reazione bianca attraverso l'Ordine Wallflower, smontare il contagio, limitarlo, denigrarlo culturalmente e non solo. La guerra sporca ad Haiti. Le antiche guerre tra dei egizi che incarnavano principi opposti (e in questa maniera pure lo spirito razionalista occidentale viene inglobato dalla cultura africano-egizia). La ricerca del testo dell'Opera. La magia come la vera Via, o semplicemente come la vera vita. Non c'è nulla di strano o affascinante nella magia che compare in Mumbo Jumbo, è semplicemente un altro modo di vivere: il modo di vivere. Anzi, il vero modo di vivere. La magia, o una certa forma di essa, sta nella capacità di Reed di combinare un pastiche che stravolge ogni aspetto delle certezze occidentali, demolendole (da notare le numerose note bibliografiche) e costringendo (in maniera divertita ma anche violenta, arrogante) ogni lettore a vedere il mondo con occhi nuovi, neri, africani, ascoltando un ritmo che è il cuore pulsante della storia, della vera storia di Jes Grew, del Mumbo Jumbo, del Libro, dell'Opera.


Ishmael Reed è nato nel Tennessee nel 1938. Tra gli scrittori afroamericani più conosciuti della sua generazione, è autore di romanzi, poesie e saggi, tra cui The Complete Muhammad Ali, una biografia del leggendario campione di boxe.

domenica 20 marzo 2016

Il punto cieco, di Javier Cercas, Guanda editore, trad. Bruno Arpaia

  Cos'è il romanzo (la forma-romanzo), e oggi è ancora vivo e vibrante o si è forse fermato, come sosteneva Alain Robbe-Grillet, all'800? E' stato salvato dal postmodernismo o è da esso stato condannato ad un'irrilevanza cinica e fine a sé stessa? Tutto nasce (e finisce) col Chisciotte cervantino o, nonostante tutto, il romanzo continua a vivere e a combattere con (o contro) di noi? E' un capolavoro La città e i capi, di Vargas Llosa? E Anatomia di un istante, dello stesso Cercas, è un romanzo, un saggio, un romanzo storico, è non fiction novel, o piuttosto un saggio romanzato o, ancora, un saggio scritto con le tecniche narrative proprie del romanzo, come predicato dal new journalism? Tutti questi interrogativi (e altri) trovano spazio nei quattro capitoli (più prologo ed epilogo) che compongono questo libro (La terza verità, Il punto cieco, La domanda di Vargas Llosa, L'uomo che dice no) e ruotano tutti attorno al concetto di "punto cieco", che dà il titolo al secondo capitolo e al libro stesso.
  Don Chisciotte è sano di mente o malato? Ecco il primo, il più alto esempio di punto cieco. Cervantes non ce lo dice, non lo esplicita. Tutto il Chisciotte è giocato sul filo dell'ironia e del paradosso, il paradosso di inanellare domande senza una risposta, o con molteplici risposte possibili. Il romanzo aperto, il primo esempio di romanzo moderno, Il Don Chisciotte, il capolavoro assoluto. In cosa consiste il punto cieco di cui Cercas parla? Nel territorio di incertezza che l'autore crea non fornendo al lettore tutte le risposte, bensì, chiamandolo ad essere parte attiva della costruzione del romanzo, ad immaginarsi le possibili risposte, e le ulteriori domande. Un centro cieco - un meccanismo che non si ferma ad essere semplice espediente narrativo - la cui prospettiva, paradossallmente, illumina il resto della narrazione e la permea di una sorta di moto perpetuo. Il romanzo come un pensiero sempre in movimento, che a sua volta genera altri movimenti, e che non trova in sè una conclusione.
 Mentre i romanzi a tesi costruiscono una storia che si svolge per attirare l'attenzione del lettore e condurlo per mano al finale che non sarà altro che la dimostrazione della tesi (implicita o esplicita) iniziale, i romanzi del punto cieco costruiscono (e al contempo cosituiscono) un meccanismo narrativo che lascia il lettore in uno stato di sospensione, in attesa di una risposta che non verrà mai, ma che fungerà da moltiplicatore di domande e di punti di vista.
  Il romanzo sarebbe dunque quello strumento che l'uomo ha creato per porsi domande, per complicare quelle che già si era posto, per mettere in dubbio le risposte che si era dato o, per dirla con le esatte parole di Cercas: 

  La risposta è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso.

 Attorno a questo assioma gli altri capitoli indagano sul perché della grandezza de La città e i cani, il primo romanzo di Vargas Llosa, uno dei grandi romanzi in lingua spagnola, del come sia possibile rendere una storia tutto sommato semplice, un capolavoro immortale. Di come un libro realista possa contenere al suo interno un punto cieco. E poi, esiste ancora il romanzo impegnato, e cos'è? Cos'è o, per meglio dire, cosa dev'essere, per il romanziere, "l'impegno"? E l'intellettuale è morto (Sartre lo è, da tempo, ma la figura dell'intellettuale, lo è?) o è più vivo e presente che mai? 
  Le riflessioni abilmente inanellate nei quattro capitoli di questo libro inquadrano un ragionamento più ampio che Cercas condivide col lettore sulla letteratura e sul suo ruolo nel mondo e nella storia, sul romanziere e sul suo ruolo nella società intessendo i diversi passaggi con riferimenti personali alla propria vita di uomo e scrittore e prendendo in esame la sua stessa produzione narrativa (Anatomia di un istante in modo particolare). La prosa piacevole, ricercata senza mai scivolare nella pesantezza, capace di sviscerare ogni argomento in un ritmo razionalmente cadenzato dal reiterarsi delle domande, rende Il punto cieco, una lettura vibrante, accessibile, indispensabile per chi ama la letteratura in ogni sua espressione e non smette di interrogarsi sul mistero di come sia possibile che l'arte di raccontarsi (e raccontare) storie sia così imprescindibile e vitale per l'essere umano.

Javer Cercas è un collaboratore abituale dell'edizione catalana di "El País" e del supplemento del sabato e dal 1989 è docente di letteratura spagnola all'Università di Gerona.
Ha raggiunto il successo con Soldati di Salamina (Guanda 2002), che in Spagna è arrivato alla quindicesima edizione; Il movente (Guanda 2004); La velocità della luce (Guanda 2006); La donna del ritratto (Guanda 2008); Anatomia di un istante (Guanda 2010); Il nuovo inquilino (Guanda 2011) e L'impostore (2015)

giovedì 18 febbraio 2016

In cerca di Klingsor, di Jorge Volpi, Mondadori editore, trad. di Bruno Arpaia

Klingsor è un personaggio del Parsifal di Richard Wagner e, nella finzione del libro di Jorge Volpi, il nome in codice di quell'entità che ricopriva il ruolo informale di consigliere scientifico di Hitler, colui che aveva modo di decidere (o, per meglio dire, di far decidere: a Hitler ovviamente che, di suo, verosimilmente, non ne capiva una mazza) quali ricerche avrebbero ricevuto fondi e quali no, quali scienziati avrebbero fatto carriera e quali sarebbero stato affossati cioè, in parole povere, Klingosr era colui che era in grado di decidere la direzione e le sorti dell'intera scienza tedesca (che, come sappiamo, all'epoca si estendeva dalla fisica quantistica a veri e propri deliri quali la teoria della terra cava e altre fesserie del genere). L'autore, Jorge Volpi, immagina che durante il processo di Norimberga venga fatto cenno a questo enigmatico Klingsor, in maniera superficiale e quasi casuale, da un oscuro aderente al partito nazista che subito nega di aver mai pronunciato quel nome. Nelle carte, viene cancellato, non ne rimane traccia, la Storia non avrà mai modo di raffrontarsi con Klingsor, ma chi era presente e ha udito, si mette in allarme. Gli Stati Uniti incaricano il giovane fisico Francis P. Bacon (da poco arruolatosi nell'esercito del suo paese per sfuggire a una opprimente realtà fatta di fisica e donne - due) di indagare e di scovare questo fantasmatico, e diabolico, soprattutto diabolico, Klingsor, sempre che esista, o sia esistito. La storia si articola su tre piani temporali, il presente, il 1989 nel quale il matematico Gustav Links si trova richiuso in un manicomio e racconta, il passato, cioè il 1946 nel quale Bacon e Links indagano alla ricerca di Klingsor, e il trapassato (chiamiamolo così), vale a dire l'epoca della gioventù dei due investigatori nella quale germogliano i prodromi che si andranno innestando nel futuro della storia. In special modo la gioventù di Links avrà una particolare rilevanza nel dare un ordine ed un significato al succedersi ed, anche, al precipitare degli eventi. A parte il piano del 1989 (il presente da cui Links narra), gli altri due sono in un certo qual senso uno lo specchio dell'altro o, per essere più precisi, gli avvenimenti che prendono forma in un piano temporale saranno speculari a quelli dell'altro piano. Mi spiego, i tradimenti che si consumano prima saranno una sorta di prequel di quelli successivi. Le vite di Bacon e Links, scienziati dalla mente fredda e razionale, vengono squassate e decise dall'irrazionalità dei sentimenti che provano per le donne che li circondano. La narrazione è un movimento perenne e ipnotico tra l'indagine e il conseguente sprofondo nella palude della storia del periodo, e la storia personale dei due protagonisti - il narratore è uno, Links, ma i protagonisti sono comunque due - costellata da passioni eccessive incapaci di concretizzarsi in altro che non sia un finale dai toni da tragedia (non greca ma germanica e norrena). Non solo l'indagine, ma tutto il libro è una immersione nella storia della fisica del novecento, a tratti forse troppo didascalica ma comunque efficace. Einstein, Bohr, Schrodinger, Von Neumann, Heisenberg, sono tutti personaggi che si muovono e parlano tra le pagine del libro, immersi nella realtà bellica dell'epoca, nella quale, ovviamente, nulla è come sembra, e le responsabilità di uno scienziato si decuplicano di fronte ai paradossi della storia. Procedendo nella lettura si viene condotti in una detection dove i mostri sacri della scienza di quegli anni (e quindi di tutti i tempi) si scontrano a suon di teorie e colpi bassi, dove sono le stesse teorie a scontrarsi (ad uscirne vincitrice sarà quella quantistica che cancellerà le certezze della fisica classica senza, in fondo, poterle sostituire con teorie nuove altrettanto granitiche: si torna al socratico "sapere di non sapere") e in mezzo a queste battaglie epocali i singoli, per quanto geni riconosciuti, si trovano a dover giocare un'ulteriore partita: da che parte stare? Fino a dove ci si può spingere ad usare la politica prima che non si ribaltino le regole del gioco e non sia la politica ad usarti? E come ti giudicherà la Storia (quella con la S maiuscola)?
  Il libro è solido e ben costruito, giocato più che non sulla spy story e sulle vicende sentimentali dei protagonisti, sulla storia del pensiero scientifico di quegli anni, una storia terribilmente affascinante o, per meglio dire, considerate le conseguenze che ha avuto sulla realtà e quelle che avrebbe potuto avere: una storia terribile ed affascinante. Il libro avrebbe potuto certamente essere meno didascalico e grondare più letteratura, ma immagino che avrebbe dovuto essere corredato da un apparato di note esplicative simil Infinite Jest di wallaciana memoria. La cosa che più risulta affascinante, per un profano, oltre che proprio la fruibilità della storia della fisica dell'epoca, è la struttura perfettamente riuscita del romanzo. I piani temporali, come già detto, le storie dei protagonisti che si specchiano tra loro e divengono premessa per quanto accadrà in seguito, tutto quanto richiama una costruzione perfetta e, paradossalmente, indefinita. Mi spiego: il romanzo è da considerarsi riuscito anche in un altro aspetto, a mio avviso il principale, vale a dire rendere, l'argomento principe della storia, cioè la fisica quantistica e il principio di indeterminazione, lo stesso principio che governa gli avvenimenti che costruiscono la storia stessa. Cioè: come non è possibile determinare la posizione di un elettrone in un determinato momento, così non è possibile decifrare l'identità di Klingsor. Le teorie che Links e Bacon formulano su chi possa essere (o essere stato) Klingsor, si scontrano coi limiti che la stessa fisica di quegli anni scopre in sé stessa: ovvero, (chi sia Klingsor) non è possibile stabilirlo con certezza. L'errore finale di Frank Bacon infatti sarà proprio quello tipico di un fisico classico, cioè quello di voler a tutti i costi trovare un colpevole (voler a tutti i costi definire dove diavolo si trovi il maledetto elettrone nel tale momento x). Rispetto ad un'indagine classica, nella quale il detective riporta l'ordine in una realtà governata dal caos, qui tutto il romanzo pare essere una spiegazione a posteriori di come (principio di indeterinazione dixit) il caos non possa essere cancellato, e l'ordine non possa essere altro che un apparenza (leggi: errore). Il mondo della prima metà del novecento descritto ne In cerca di Klingsor è un mondo devastato dal caos sulfureo e tragico di una guerra mondiale che non trova conforto neppure nella sua intellighenzia, la quale deve chinare il capo di fronte ai propri limiti (e anche qui il paradosso: lo sforzo estremo di superarsi della scienza la porta inesorabilmente al "trionfo" di prendere atto dei propri limiti).

  Il mondo nelle mani di un sanguinario illogico ed irrazionale si scopre in balìa di leggi fisiche impossibili da addomesticare ad una razionalità umana. Un mondo privo di certezze che trova nella fisica dell'indeterinazione, della casualità e del dubbio la strada per radere al suolo l'umanità, fare tabula rasa e ricominciare da capo. Ma nessuno sa chi sia Klingsor.

Jorge Luis Volpi Escalante (Città del Messico, 10 luglio 1968) è uno scrittore, saggista e accademico messicano, con Eloy Urroz, Ignacio Padilla e Pedro Angel Palou, fondatore negli anni novanta della Generación del crack (Crack Movement). Attualmente lavora a Puebla, presso la Fundación Universidad de las Américas (UDLA).
Studia Giurisprudenza e Letteratura presso l'Universidad Nacional Autónoma de México de la Ciudad. Lavora come avvocato per due anni, poi si decide a diventare scrittore di professione.
Contribuisce significativamente a fondare il Crack Movement, convinto che la Letteratura latinoamericana debba andare oltre il Realismo magico dei tempi d'oro e che la Letteratura messicana debba concentrarsi più su se stessa. Lui in particolare guarda a Juan Rulfo, Carlos Fuentes e Octavio Paz come ai modelli da seguire, mentre Padilla, ad esempio, si dimostra più legato a Borges.
Nel 2007 viene eletto direttore del Canale 22, l'emittente culturale sponsorizzata dal Governo messicano.
Ha raggiunto una certa fama grazie al romanzo En busca de Klingsor (In cerca di Klingsor), pubblicato nel 1999, al termine dell'avventura Crak Movement; per esso vince il Premio Biblioteca Breve.
  In italia pubblica anche: Non sarà la terra (2010) e Memoriale dell'inganno (2015)

domenica 7 febbraio 2016

Dell'eleganza mentre si dorme, di Emilio Lascano Tegui, Barney edizioni, trad. di Raul Schenardi

  Ripescare cadaveri nella Senna significa divenire una piccola celebrità locale, soprattutto se sei un bambino e il fascino della morte, da quel momento in avanti, ti è saltato in collo e non ti ha più abbandonato. La voce narrante del libro vive a Bougival, un borgo alle cui spalle scorre la Senna, dispensatrice più che altro di corpi gonfi e banchettati dai pesci, e Bougival è, per la narrazione, un mondo a sé, distante in ugual misura da Parigi come da New York, o da Buenos Aires, vale a dire lontanissimo. Da tutto. Una distanza siderale che lo divide dal resto dell'universo, come se il borgo stesso fosse sprofondato in un fossato (se non proprio un buco) spaziotemporale dal quale potrebbe, forse, solo spiare il resto dello scorrere del tempo, se solo ne fosse interessato. Bougival (che possiamo immaginare sia la trasposizione letteraria di Concepción del Uruguay, la cittadina della provincia argentina di Entre Rìos, nel quale l'autore è nato) è il palcoscenico della storia-nonstoria narrata da Lascano Tegui, ma al contempo è parte integrante della mente del narratore (e, quindi, presumibilmente dell'autore): lo spazio della narrazione è essa stessa narrazione, così come la storia che viene narrata è al contempo oggetto e soggetto della narrazione. La storia è la mente distorta (o l'anima piagata, o la fantasia, o più fantasie malate) del narratore. Il libro si apre con la premonizione di un delitto (secondo il procedimento utilizzato da Oscar Wilde ne Il delitto di Lord Savile), sussurrata con leggerezza, quasi si trattasse di un futile pettegolezzo e, dopo un ondivago dipanarsi di micronarrazioni dai tocchi noir, esistenzialisti, amenamente gotici, aforismi e considerazioni su aspetti a volta profondi e spesso (quando non al contempo) frivoli, si risolve con la conferma della predizione iniziale. Il delitto finale diventa quindi non tanto una forma d'arte quanto una parodia della stessa, unico sbocco al tedio cinico nel quale l'animo del narratore galleggia (non nuota, verbo che denota un'attitudine troppo attiva), lasciandosi pigramente trasportare da un pensiero ad un altro, da un aneddoto al seguente.

I pesci - mi riferisco a quelli della Senna - che arrivano a Bougival sono vecchi e stanchi. Conoscono l'intero trattato dell'arte della pesca. Quando mi metto a fischiare sulla riva, vedo che si divertono saltando fuori dall'acqua per godersi la musica. Invece, quando passano accanto alle canne tese non si girano affatto. I pescatori sono gente noiosa, non sono neanche capaci di fischiare.

  Il cocchiere, interlocutore privilegiato del narratore, è un prete spretato, che non riesce a concepire "romanzi se non in carrozza", inanella storie lugubri, immorali quando non addirittura amorali, e così gli altri personaggi che compaiono in maniera casuale nelle pagine a scansione diaristica del libro non sono altro che figure appartenenti a qualche narrazione o che, a loro volta, danno vita a nuove divagazioni, figure vuote che reagiscono agli urti della vita secondo asettiche logiche di azione-reazione, uomini o donne persi nell'umida brughiera di Bougival come negli anfratti più oscuri della propria esistenza, incapaci di offrire una resistenza (e tanto meno una resilienza) vera e propria agli urti ai quali vengono sottoposti. Passivamente soccombono agli orrori quotidiani. O, come nel caso di Gabriela, si riparano nella pazzia da orrori che pur sconvolgenti finiscono col colorarsi delle grigie tinte del quotidiano. Anche il sesso, pur se intinto nel sale della perversione e del proibito, finisce col lasciare il retrogusto amaro della delusione. Lo sguardo del narratore è quello di un dandysmo nichilista da bohème che, se nel diario si incarna spesso in un tono aforistico brillante, velocemente si spegne in una visione sartriana del mondo che diviene, pagina dopo pagina, sempre più cupa e paradossale. L'universo scruta Bougival con distacco, senza il minimo interesse, e questo sprezzo viene percepito dagli "abitanti del libro" che si sentono - e sono - orfani di un senso che permetta loro di muoversi alla ricerca di qualcosa di definitivo; il non senso ed il rimpianto che possiede le anime degli abitanti di Spoon River, è pane quotidiano per gli abitanti di Bougival già in vita. L'unica forma di ribellione che è data al narratore-protagonista è certo dandismo di maniera che marca un distacco dalle cose del mondo e da sé stesso. Il piacere del paradosso, il superamento della morale comune, una ricerca di stile pur se in una microcosmo (waste land) dove sono gli appetiti più bassi a farla da padrone (eros e thanatos), queste sono le armi che l'uomo si riserva per innalzarsi non già di fronte al destino quanto piuttosto rispetto al resto dell'umanità dolente che quel destino compone.

Bougival è popolato di vecchie. Le loro grandi facce riempiono i vetri delle finestre. Dio mio, come sono vecchie!... Ormai neanche la morte può convincerle, moriranno soltanto il giorno in cui si saranno stancate di sentir suonare le campane.

  E' lo sguardo, non la struttura, che rende l'opera di Lascano Tegui degna di elevarsi oltre il mero esercizio di stile, anche perché l'esercizio di stile è il fallimento di una terra desolata che non sa far altro che inghiottire un cadavere dopo l'altro, per poi risputarli nel corpo liquido della Senna.
  Lo stile di Lascano Tegui rimarca la sconfitta di un dandy (e il richiamo, l'ennesimo, a Wilde è d'obbligo) incapace di sopportare con leggerezza la mostruosità del reale, divenendone schiavo. I topoi del dandismo rimangono di maniera, una pratica che si svuota ma che eroicamente si ripropone come unica risposta ad un universo grottesco e senza senso.



   Emilio Lascano Tegui: nato in un paesino della provincia argentina di Entre Rìos, in una famiglia  modesta che presto si traferì a Buenos Aires, fu traduttore per l'Ufficio internazionale delle Poste. Poco più che ventenne viaggiò a piedi in Francia, Italia e NordAfrica, dove pubblicò (attribuendosi il titolo di visconte) una raccolta di versi accolta con entusiasmo dai circoli intellettuali. Nel 1913 visse a Parigi, dove strinse amicizia con Apollinaire e Picasso, e per sbarcare il lunario fece vari mestieri - venditore ambulante, arredatore, meccanico, dentista - mentre esponeva dipinti in importanti mostre collettive. In seguito ricoprì in veste di diplomatico diversi incarichi ufficiali che lo condussero a Boulogne sur Mer, Cherbourg, Parigi, Caracas (dove realizzò un gigantesco murale) e Los Angeles. Squisito maestro dell'arte culinaria, bon vivant, collaborò per tutta la vita a importanti pubblicazioni in patria e all'estero e fu uno dei precursori della nuova sensibilità modernista. Oltre a Dell'eleganza mentre si dorme, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1925, nel 1936 diede alle stampe altri due romanzi singolari, El libro celeste e Album de familia, e nel 1924 i versi di Muchaco de San Telmo. Dandy, provocatore, cosmopolita, morì a Buenos Aires.

lunedì 1 febbraio 2016

Il paese dell'alcol, di Mo Yan, Einaudi editore, trad. di Silvia Calamandrei

  Mo Yan è un premio Nobel, e va maneggiato con cura. Tutta la storia de Il paese dell'alcol va maneggiata con cura, perché è un gioco ad incastri, una narrazione su più piani, un sogno grottesco che sfuma in una realtà ancor più grottesca, dove ogni avvenimento è, o potrebbe essere, frutto di un incubo, o dei fumi dell'alcol, o corrispondere semplicemente alla verità. Un pastiche, un gioco d'ombre nel quale la figura dell'investigatore (quella che tecnicamente è la portatrice di ordine in un mondo permeato dal caos) si perde fin da subito in un teatro delle ombre che mette in scena una realtà ambigua, scivolosa e corrotta, che fiacca la volontà di Ding Gou'er confondendone la capacità di raziocinio.
   L'ispettore Ding Gou'er viene inviato a Jiuguo, il paese dell'alcol del titolo, per indagare su un'usanza barbara (e, ovviamente, illegale) che pare vigere tra le alte cariche del paese, una devianza immorale frutto della decadenza in cui versa la classe dirigente di Jiuguo: il cannibalismo. In un piccolo centro lontano dalle grandi metropoli che poco alla volta lotta per conquistarsi un posto al sole nel moderno panorama della nuova Cina, e che lo fa ritagliandosi fama nazionale per la propria enciclopedica produzione di alcolici e per una particolare attenzione ad ogni genere di prelibatezza (o efferatezza) culinaria, allevare bambini al fine di cucinarli per deliziare i palati dei potenti locali potrebbe essere non solo una cupa leggenda, bensì un orrenda realtà. Ma la natura stessa della città, sospesa tra una voglia di ricchezza e di futuro e un passato ancestrale e magico che non smette di lanciare le sue ombre sul presente, nonché sulla psiche collettiva della comunità, irretisce da subito l'ispettore e, in nome dell'ospitalità e delle usanze alcoliche del luogo, lo inebetisce a suon di brindisi e banchetti straripanti di ogni tipo di leccornia (non dimentichiamoci, e Mo Yan lo esplicita nel libro, che in Cina, si mangia tutto ciò che è vivo). La volontà, non propriamente ferrea ma comunque, almeno inizialmente, chiara di Ding Gou'er, svapora in una narrazione che rimane sospesa tra lo stile di realismo allucinato dell'autore e il vero e proprio delirio del protagonista. Dove inizi l'uno e dove finisca l'altro è uno dei diversi piani di lettura che Mo Yan lascia alla libera interpretazione del lettore. Per certi versi gli argomenti fulcro della narrazione (alcol e cibo per il reparto gola, sesso per la lussuria, e cannibalismo e violenza varia, armi, uccisioni, nani, fantasmi e via discorrendo) ne fanno un testo ai limiti (o oltre i limiti) del pulp. Ding Gou'er già prima di arrivare in città si lascia irretire dalla lascivia di una bella camionista di cui finisce per innamorarsi (o crede di farlo) e che lo caccerà in un mare di guai, ai quali ne seguiranno altri, senza soluzione di continuità. Questa linea narrativa però, che può essere considerata l'asse portante del libro, si interseca con le lettere che Li Yidou, un giovane ammiratore dello scrittore Mo Yan (e laureando in distillazione di alcolici), gli invia, a cui fa seguito la terza linea narrativa, quella dei racconti che Li Yidou sottopone al giudizio di quello che considera il proprio maestro. I racconti di Li Yidou hanno come tema l'alcol, la città di Jiuguo nella quale vive, e diversi personaggi che compaiono sia nel racconto di Mo Yan, che nelle lettere dello stesso Li Yidou a Mo Yan. La linea narrativa principale, si esaurisce presto in un vorticoso delirio che scimmiotta i generi e si perde in una sorta di loop privo di sbocco (è lo stesso Mo Yan, alla fine del libro, ad ammetterlo) e si risolve soltanto con l'entrata in scena dell'autore all'interno della sua stessa narrazione, nelle vesti contemporaneamente di personaggio e scrittore, entrata in scena che permette il ricongiungersi dei tre filoni di narrazione che si sciolgono in un ulteriore loop che ricorda il finale de L'inquilino del terzo piano, di Roland Topor.
  Pare che il libro sia una risposta allo sdegno dell'autore in seguito al massacro di Piazza Tienanmen:
sicuramente dipinge, architettando una struttura narrativa fortemente sperimentale, una Cina a tinte cupe, dove l'ancestrale e magica brutalità del proprio passato si innesta nella corruzione degli alti ranghi del partito ormai lanciati in una dissoluzione di ogni valore fondante che non sia un'orgia perpetua dei sensi, una corsa alla fama, al piacere e, in fondo, alla sopraffazione. L'ossessione del cannibalismo, non nuova all'immaginario cinese, è in questo caso una trasparente metafora di una nazione che cannibalizza sé stessa, nutrendosi dei propri figli. Giungendo anzi ad un grado ulteriore di decadente ed organizzata efferatezza: i bambini vengono concepiti e allevati apposta per essere venduti alla locale scuola di cucina e quindi cucinati. Sono, viene detto nel testo dalla suocera di Li Yidou, uguali ai bambini normali, in tutto e per tutto, ma non sono bambini, sono delle bestiole che vengono al mondo per essere smembrati, cotti, cucinati e serviti. C'è, in tutto questo, qualcosa della mostruosa macchina burocratica nazista: un'organizzazione pensata a mente fredda, finalizzata ad anestetizzare le coscienze, a penetrare nell'inconscio collettivo per modificarne la natura o, per meglio dire, ci sarebbe, perché la certezza del crimine in questo Il paese dell'alcol non trova mai una sua evidenza. Ding Gou'er perde il filo della sua indagine (a dir la verità, neppure lo trova mai) e il crimine rimane un interrogativo irrisolto. Mo Yan intesse un romanzo arcaicamente post moderno che vuole rappresentare una denuncia senza però esplicitare il proprio grido di sdegno, soffocandone lo slancio nell'ironia dei toni e nel vorticoso sussuguirsi di registri stilistici. La capacità dell'autore di maneggiare i suoi abituali materiali narrativi è giocoforza smorzata dalla complessità della struttura che rallenta la narratività della storia e la ingolfa nei continui rimandi tra i vari piani narrativi e nei personaggi che si rimpallano da un piano all'altro. E' lo stesso Mo Yan, nella doppia veste di personaggio e di autore, ad ammettere di aver perso il bandolo della matassa della storia di Ding Gou'er, e pare non farsene un cruccio, e proprio questa sua noncuranza è chiave di lettura di tutto il libro: non è importante la storia, nè se i bambini vengono o meno mangiati, ma la semplice realtà che un tale crimine possa essere immaginato e che nemmeno un ispettore inviato in loco riesca, non dico a risolvere il dilemma, ma neppure ad affrontarlo seriamente . Un ritratto di un paese che, ritrovatosi nel successo, perde sé stesso, che balbetta nel vedersi allo specchio, senza sapere se ridersi addosso, condannarsi senza appello o fingere indifferenza raccontandosi mille storie diverse che lo assolvano o, quantomeno, lo rendano meno colpevole ai suoi stessi occhi.


Mo Yan, premio Nobel per la Letteratura nel 2012, nasce nel 1955 da una famiglia numerosa di contadini poveri, a Gaomi, nella provincia dello Shandong. Nel febbraio del 1976 abbandona il povero e isolato paese natale per arruolarsi nell'esercito. Fa il soldato semplice, il caposquadra, l'istruttore, il segretario e lo scrittore. Nel 1997, congedatosi dall'esercito, inizia a lavorare per un giornale. Nel frattempo si è laureato presso la Facoltà di Letteratura dell'Istituto Artistico dell'Esercito di Liberazione Popolare (1984-1986) e ha ottenuto un Master in Studi letterari e artistici presso l'Università Normale di Pechino (1989-1991). Inizia a pubblicare nel 1981.
Fra le sue numerose opere narrative, Einaudi ha finora pubblicato Sorgo rosso, L'uomo che allevava i gatti, Grande seno, fianchi larghi, Il supplizio del legno di sandalo, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, Le rane, Le canzoni dell'aglio e Il paese dell'alcol. Delle sue undici novelle si ricordano Felicità, Fiocchi di cotone, Esplosioni, Il ravanello trasparente. Tra i racconti, Il cane e l'altalena e Il fiume inaridito, che Einaudi ha pubblicato nella raccolta di racconti L'uomo che allevava i gatti.
Ha anche scritto opere teatrali e sceneggiature cinematografiche come Sorgo rosso, Il sole ha orecchie, Addio mia concubina. Il film Sorgo rosso è stato premiato con l'Orso d'Oro al Festival del cinema di Berlino e Il sole ha orecchie con quello d'Argento. Nel 2005 gli è stato assegnato il Premio Nonino per la sua intera opera.

venerdì 15 gennaio 2016

2666 sostiene la pubblicazione di ¡Alemania, Alemania!, il primo romanzo di Felipe Polleri tradotto in Italia da Arcoiris edizioni


 Todos los libros del mundo estan esperando a que los lea*  (Roberto Bolaño)

 

 

Alemania Alemania! è un libro allucinato, un delirio a tre voci nel quale il suo autore, Felipe Polleri, ancora inedito in Italia (per poco), trasfonde tutta la sua poetica eccentrica. Il nazismo, il Reich, personaggi storici ed inventati che danzano lungo la fantasia folle del proprio autore.
  Felipe Polleri è uno scrittore che ha riscosso successo in Uruguay e Argentina, si sta ritagliando il suo spazio anche in Portogallo e Francia, in Spagna sta per sbarcare con Tusquets. Alcune opere sono in fase di pubblicazione negli Stati Uniti, in Messico e America Centrale. In Italia, tramite il crowdfunding, è prevista la pubblicazione del suo romanzo Alemania Alemania! verso il mese di Giugno per la collana Gli Eccentrici dell'editore Arcoiris (traduzione di Loris Tassi).

  Ogni nuovo autore è una scommessa, un salto nel vuoto, ma è anche e soprattutto un arricchimento per il paese che lo traduce, un viaggio nella mente di un artista sconosciuto, un dialogo che comincia senza sapere dove e a cosa potrà portare: * ogni libro del mondo è in attesa di incontrare i propri lettori.  Per questo 2666 sostiene e partecipa all'opera di traduzione e pubblicazione di Felipe Polleri in Italia e lancia l'hashtag #PortiamoPolleriInItalia.

  Cliccando da questo sito sull'hashtag chiunque può partecipare al crowdfunding per contribuire alla pubblicazione di Alemania Alemania! e ricevere le ricompense che la casa editrice offre a chi l'accompagnerà nel percorso di pubblicazione del libro, del mondo e della follia di Felipe Polleri in Italia.

   «Il linguaggio è allucinato, poetico, violento, e non si rispetta niente e nessuno. In quanto ai personaggi, a questi mostri che ho creato, non ho altra alternativa che farli esistere. In un certo senso io mi limito soltanto a trascrivere, a tradurre ciò che mi dicono». 
  Felipe Polleri 




¡Alemania, Alemania! (dal blog ed.Arcoiris)

   “Un romanzo alieno da cui non sappiamo staccarci. Già dalle prime parole, Polleri ci tiene in pugno; ne usciamo scossi e pieni di ammirazione davanti al genio letterario di uno scrittore assolutamente straordinario, non classificabile”.
Si tratta di ¡Alemania, Alemania! dell’uruguayano Felipe Polleri, uno degli scrittori latinoamericani più sorprendenti degli ultimi anni.
La storia si svolge durante la Seconda Guerra Mondiale in vari Paesi: l’Inghilterra bombardata, la Germania nazista, la Spagna e l’Uruguay. Eppure non si tratta... (Continua a leggere)




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  Un titolo del genere, soprattutto di questi tempi, ricorda il sinistro Deutschland über alles, fa pensare a un saggio di economia o di storia (magari all’ottimo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, di Vladimiro Giacché) ed evoca il cupo scenario di un IV Reich che sorge sulle macerie del «sogno europeo». Ma non si tratta di questo, se non in modo tangenziale (fin dalle prime pagine si evocano infatti le ceneri del ghetto di Varsavia, e la Seconda Guerra Mondiale, con al centro la Germania hitleriana, è uno degli assi tematici del libro). ¡Alemania, Alemania! in realtà è il titolo del più recente romanzo di uno scrittore uruguayano ancora sconosciuto da noi: Felipe Polleri.
Lautréamont, Horacio Quiroga, Felisberto Hernández, Juan Carlos Onetti, Armonía Somers, Mario Levrero: l’Uruguay è una fucina di scrittori “raros”: rari, o strani, secondo una definizione ormai classica e un po’ abusata. L’ultimo, in ordine di tempo, di questa stirpe è Felipe Polleri, classe 1953, che a proposito di questa classificazione ha le idee molto chiare: «È un’etichetta che nasconde un retropensiero: “invece di leggerlo, diciamo che è un altro scrittore raro”. Essere scrittori in Uruguay è una cosa rara perché, diciamo, poco vantaggiosa. Dev’essere una... (Continua a leggere)