"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 30 agosto 2015

Lascia stare la gallina, di Daniele Rielli (Quit the Doner), Bompiani editore

  Nello scarto inciso tra la generazione di Rosario Petrachi (il padre, sindacalista) e Salvatore Petrachi (il figlio, faccendiere criminale) sta tutta la storia recente d'Italia. Questo libro, a suo modo perfetto, risponde alle domande che continuano a ronzare nelle orecchie di quella parte del paese che, ancora, non si vergogna di avere una coscienza: come siamo arrivati fino a qui? Come è stato possibile? Cosa ci hanno fatto per farci diventare quello che siamo oggi?
Per definire il romanzo di Rielli è necessario utilizzare il titolo di un altro libro, appena uscito, di Maurizio Maggiani: Il romanzo della nazione. Lascia stare la gallina è, nonostante il titolo "Cochirenatesco", la storia tragica (pur se raccontata con stile disincantato, quasi drammaticamente leggero) degli ultimi decenni italiani, è la cronistoria di come una società sostanzialmente sana (pur con i suoi atavici difetti) si sia corrotta da sola.
  
 C'è gente che pagherebbe pur di vendersi (Victor Hugo)

  L'operazione che mette in campo Rielli è ambiziosa, letterariamente molto rischiosa, ma gli riesce alla perfezione. Il nuovo Salento turistico-affaristico-edonistico si è sovrapposto a quello rurale e arretrato, lasciandone però emergere vecchi campanilismi (verso i baresi, i napulicchi, i polentoni), razzismi (verso gli albanegri) e sessismi atavici (la vittima è donna, le altre, quasi tutte, vivono in uno stereotipo: o madri e donne di casa o prostitute), è questo Salento il microcosmo che viene messo sotto la lente d'ingrandimento per studiarne le dinamiche che in realtà sono quelle che hanno stritolato il paese a livello nazionale. Ma il romanzo non si ferma qui, non si limita a riprodurre su carta uno schema, con agili flashback ci mostra il passato (la manifattura tabacchi, l'attività sindacale, l'infanzia del protagonista compresa la gallina del titolo) e lascia che il lettore non solo metta a fuoco lo scarto tra il prima ed il poi (il presente) ma che isoli e definisca quali sono stati i prodromi che hanno dato il via all'attivarsi di un meccanismo di potere corruttivo che ci ha condotti fino ai giorni nostri. Se Salvatore Petrachi è il simbolo dell'ultima generazione che ha pagato (caro) pur di vendersi, il Salento lo è di quell'Italia che, nel suo volontario scadere a semplice divertimentificio da paese dei balocchi, ha venduto non solo sè stessa ma al contempo il futuro dei propri cittadini. Lascia stare la gallina insinua uno sguardo chirurgico e scanzonato dietro le quinte del sistema di potere e corruzione mafioso o paramafioso che si è impossessato della vita pubblica del paese. 

  Agosto 2011. Martina Scalzi, giovane turista in vacanza in Salento, viene trovata morta tra le dune del campeggio nel quale trascorreva le vacanze assieme ad alcune amiche. Della sua morte viene immediatamente incolpato un altro ragazzo, il ventiduenne Marco De Sanctis, figlio della Bologna bene. Qui sta l'inghippo che mette in moto il meccanismo narrativo: il pollo da sacrificare proviene da una famiglia che ha i mezzi per reagire. L'avvocato della famiglia De Sanctis incarica l'ex poliziotto corrotto Salvatore Petrachi, attualmente imprenditore rampante nel campo della sicurezza privata e criminale a tempo pieno, di indagare alla ricerca di prove che scagionino il suo cliente. De Sanctis è il colpevole ideale, è l'ultimo ad essere stato visto con la vittima, con la quale tra l'altro ha consumato un rapporto sessuale poco prima che questa venisse uccisa, quando è stato fermato dalle forze dell'ordine se ne stava andando dal campeggio in anticipo rispetto alla data prevista e infine è stato trovato in possesso di un certo quantitativo di marijuana. Però non è stato lui ad uccidere Martina. Il testimone che giura di averli visti litigare, mente. Perchè? Chi protegge? Totò Petrachi comincia a darsi da fare, fa domande, mette il naso in giro e, poco alla volta, il delitto da cui è nata l'indagine e quindi la narrazione, finisce col diventare un semplice riferimento di fondo. Le piste che segue, che a volte non portano a niente, aprono scenari che svelano il mondo (il mondo di mezzo) che stà al di là delle quinte da Bel Paese che tutti ammirano e con le quali tutti si crogiolano. Sesso, corruzione, mafia nostrana e albanese, politica, malaffare, traffico d'armi, di droga, il salvataggio posticcio della locale manifattura tabacchi (operazione che ricorda moolto da vicino l'affaire Alitalia), imprenditoria di facciata che in realtà nasconde attività illegali (Il Saraceno, il ristorante alla moda di proprietà di Petrachi - socio occulto - e di Adamo Greco, suo amico e cumpa' d'infanzia), servizi segreti, razzismo (che solo il comune terreno criminale stempera), prostituzione di alto livello, orgie e ammazzatine varie. Ancora più sullo sfondo, ma come amor che move il sole e l'altre stelle, lo scenario politco nazionale, a Roma. Il presidente regna ancora ma ormai il suo declino è evidente a tutti e il crollo è già deciso, di conseguenza nelle province dell'impero tutta una serie di sommovimenti di assestamento preparano le realtà politiche locali al nuovo scenario che di lì a poco rimodellerà il paese. Ogni periodo di cambiamento e di crisi è un momento che apre nuove possibilità agli occhi dell'imprenditore capace, e Totò Petrachi, a suo modo, lo è: approfitterà delle rivoluzioni in atto per ritagliarsi il suo angolo di paradiso nel Salento che conta.

  Rielli, già Quit the Doner (Quitaly, Indiana Editore), ha al suo arco talmente tanti talenti narrativi da lasciare inizialmente l'impressione di esagerare nel farne sfoggio. Con questo libro scrive la storia del suo paese, e lo fa senza mai spostare l'attenzione dalla godibilità della trama, dipinge personaggi credibili e disegna con attenzione lo schema preciso di come entità politica, imprenditoriale, malavitosa e giornalistica collaborino al fine di controllare la realtà di un territorio (e qui si dimostra anche gionalista di razza) . Nessuno nel libro è totalmente buono, e anche chi è cattivo tout court non risulta comunque una semplice immagine bidimensionale da fumetto, ogni personaggio ha una sua profondità e una passato che lo ha costruito. Lo stile è straripante, vulcanico, ironico e moltiplica i punti di vista della storia fancendo di questo Lascia stare la gallina un romanzo corale. Moltiplica i registri, fa ampio uso del parlato dialettale, inserisce articoli giornalistici, sa quando alzare il piede dall'acceleratore e quando invece pigiarlo fino in fondo. L'uso dell'ironia non svaluta mai la brutalità degli eventi ma, semmai, come la colonna sonora in Arancia meccanica, la rende più spaesante. Il male non è un'entità che entra nel corpo di una persona e la possiede, bensì la risultante di innumerevoli scelte sia di natura politica e sociale che di natura più strettamente personale, e come tale non contamina un solo individuo ma l'intera società (per questo un romanzo corale).

  Non so se Rielli sia effetivamente l'Irvine Welsh italiano (io penso di si), se la sua produzione letteraria futura confermerà questo giudizio (e quanto sarà difficile confermare una qualità e complessità come quella di quest'opera prima!), indubbiamente è la novità più straordinaria capitata alla letteratura italiana negli ultimi anni.

  Unica, minima, pecca: sappiamo perchè Martina Scalzi è morta (e ovviamente qui non lo svelo) ma, considerando che ogni piega narrativa è stata svicerata e portata a suo termine, ci si sarebbe aspettati che anche questo aspetto venisse appronfondito e spiegato a fondo (avrebbe avuto un certo potenziale narrativo da dispiegare). 


Daniele Rielli (Quit the Doner) è nato nel 1982. Realizza reportage narrativi per “Il Venerdì di Repubblica”, “Internazionale” e “Riders”. Scrive storie per la televisione e il teatro. Laureato in filosofia, ha collaborato anche con “Vice” e “Linkiesta” diventando uno degli autori più noti di long-form journalism italiano. Nel 2013 ha vinto il Mia Award per il miglior articolo italiano e nel 2014 ha pubblicato con Indiana Editore Quitaly, raccolta dei suoi reportage. I suoi lavori sono riuniti su www.quitthedoner.com, uno dei siti autoriali più seguiti d’Italia.

sabato 8 agosto 2015

La morte del prossimo, di Luigi Zoja, Einaudi editore

                                           
Diceva Marcello Marchesi: Nessuno si è mai ammazzato perché non riusciva ad amare il prossimo suo come sè stesso. Prima che un signore passato alla storia come Gesù il Cristo lo postulasse, nessuno aveva mai neppure pensato che avesse senso perdere tempo a formulare un pensiero simile. All'epoca, oltre che rivoluzionario, doveva suonare parecchio bislacco: non solo il crisitanesimo pretendeva che si amasse Dio (richiesta data per scontata da qualsiasi religione, la conditio sine qua non) ma addirittura che si amasse il prossimo, e per di più come sè stessi. Era folle. Poi nella storia della filosofia si fece largo un tale di nome Nietzche (che nel corso della sua vita segni di follia (e di ippofilia) li dimostrò per davvero) che per la prima volta da che il mondo aveva preso a girare su sè stesso se ne venne fuori col (dato di)fatto che Dio era morto. Da lì in avanti rimase solo il prossimo, inteso come umano, come umanità: l'uomo avrebbe dovuto prendere atto che la storia del pensiero, non ultimo l'illuminismo e lo scientismo, lo obbligavano ad accollarsi tutte le responsabilità dello stare al mondo. Dio non aveva più voce in capitolo. Un'alluvione era un'alluvione e una pestilenza una pestilenza, non erano castighi inviati da nessuno, bisognava rimboccarsi le maniche, mettere in sicurezza le città e pensare a lavarsi un po' più spesso. Il rapporto, un tempo esclusivamente verticale (verso Dio), col cristianesimo era divenuto una croce (verso Dio in senso verticale, e verso il prossimo in senso orizzontale) e dopo Nietsche si era parificato in senso unicamente (e tragicamente) orizzontale. Volendo, si può citare anche Woody Allen quando puntualizzava: Dio è morto, Marx è morto, e anch'io non mi sento tanto bene. E il saggio di Zoja, in un certo senso, proprio questo analizza: dopo la morte di Dio, la morte del prossimo (che sia Marx o il sottoscritto poco importa). Ed essendo Zoja, lo fa portandoci per mano, con semplicità, ma stando ben attento a farci compiere tutti i passi necessari per ripercorrere il tragitto lungo il quale qualcosa abbiamo smarrito. Presso quali crocicchi abbiamo intrapreso una strada piuttosto che un'altra e dove queste deviazioni ci hanno infine condotto? Le ideologie e le rivoluzioni culturali, ad esempio, puntando sul concetto di solidarietà hanno aperto la porta al desiderio individuale che, ovviamente, si è fatto largo a gomitate e della solidarietà se n'è fatto un baffo; laddove il sogno era quello di un mondo dove tutti fossero uguali nella diversità, si è trasformato in un mondo in cui tutti si uniformano a desiderare le stesse cose e sono disposti a mettersi in competizione per ottenerle. Lo spazio del desiderio ha fagocitato l'utopia, "l'uomo-essere desiderante" ha spazzato via quello sociale. Quando il prossimo ancora c'è è divenuto un concorrente, qualcuno a cui non posso chiedere aiuto o confidarmi ma da cui mi devo guardare se non voglio soccombere (a volte per davvero, più spesso simbolicamente). L'individualismo esisteva già in nuce nella rivoluzione dei figli dei fiori, ed ha finito per trasformarsi subdolamente nel primo baluardo dell'attuale società iperconsumistica. La società iperconsumistica, da parte sua, una volta plasmato il cittadino a sua immagine e somiglianza (non più semplice "essere desiderante" bensì brutalmente "consumatore") lo ha ingabbiato, gli ha levato i diritti (vedi l'attuale mondo del lavoro), e gli ha messo in mano uno strumento ulteriore per alienarlo definitivamente, isolarlo da chi ci è vicino (il prossimo appunto) e dargli l'illusione di essere in contatto (in connessione) con il resto del mondo: lo smartphone. L'uomo, solo, in mezzo alla folla era già stato postulato, ma avevamo scordato di mettergli in mano un cellulare connesso ad internet. Ci troviamo nella stessa stanza, in silenzio, ognuno con gli occhi ammorsati allo schermo del telefonino, a far scorrere i post di facebook, abbiamo amici che non conosciamo, e ignoriamo le persone che ci stanno accanto, che possiamo toccare, con le quali possiamo interagire. Si tratta di un mutamento antropologico vero e proprio e, forse, si tratta del cambiamento che si è manifestato nella maniera più repentina in assoluto nel corso della storia. Non abbiamo più una comunità di riferimento di persone in carne ed ossa, bensì mille community formate da persone di cui ignoriamo l'aspetto, il nome e spesso anche il sesso. Ovviamente Zoja, come detto, approfondisce da par suo tutti gli aspetti e gli snodi storici e culturali che hanno portato allo stato attuale delle cose - all'homosmartphone -, analizza, domanda, s'immerge in profondità e ne riemerge con all'amo una serie di prove che, senza il suo occhio di esperto, non saremmo probabilmente mai stati in grado di mettere insieme. La morte del prossimo è un libricino tanto snello ed agile alla lettura quanto imprescindibile per chi sente la necessità di fermare per un attimo la giostra e scendere a ragionare sul presente. Chi siamo, dove andiamo, cosa siamo diventati e infine dove diavolo siamo diretti. Zoja, psicanalista di fama mondiale, divulgatore di livello finissimo e al contempo alla portata del grande pubblico, autore, tra gli altri, dello splendido saggio "Paranoia, la follia che fa la storia" (per Bollati Borignhieri: non consigliato, di più!), come sempre sa parlare al lettore comune, prenderlo per mano e condurlo con passo sicuro lungo le delizie del ragionamento.
Di Zoja, per inciso, andrebbe letto tutto.
Dio è morto, Marx è morto ma Zoja è in piena salute.


Luigi Zoja, psicoanalista di fama mondiale, è stato presidente dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e ha vinto due Gradiva Award. Fra i suoi libri: Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), Storia dell'arroganza (2003), Giustizia e Bellezza (2007), La morte del prossimo (Einaudi, 2009) e In difesa della psicoanalisi (Einaudi 2013, con S. Argentieri, S. Bolognini e A. Di Ciaccia), Paranoia, la follia che fa la storia (2011 Bollati Boringhieri), Utopie minimaliste (2013 Chiarelettere)

domenica 2 agosto 2015

Il Pozzo, di Juan Carlos Onetti, EdizioniSur, trad. di Ilide Carmignani

  Eladio Linacero, giunto ai suoi quarant'anni, decide di scrivere le sue memorie perchè, non ricorda dove, ma ha letto che a quarant'anni un uomo deve comporre la sua biografia. Ecco, più o meno è tutto qui, in 57 pagine di letteratura al suo stadio più puro.
  Cos'ha da raccontarci Eladio Linacero? Perchè lui è certo di aver vissuto moltissime esperienze degne di essere raccontate (o, più che altro, dal suo punto di vista, ascoltate), anche se in effetti non andrà proprio così, per certi versi, ma in realtà invece sarà proprio quello che accadrà (poi mi spiego). lo ossessiona il ricordo di una ragazza, Ana Marìa, ricordo che chiama "della capanna dei tronchi", un ricordo che gli ritorna spesso addosso come fantasia, forse addirittura come alluncinazione: Ana Marìa che torna da lui nuda, e si stende su un letto di paglia. Ma ricordo e fantasia, pur non confondendosi, si sovrappongono, vengono a traslare di significato. Il ricordo non porta traccia di senso di colpa nè di drammaticità, è distaccato, come rivissuto da un io totalmente amorale. La fantasia invece soffre della frustazione propria di ogni fantasia, vale a dire la sua distanza dalla realtà. In un certo senso, si potrebbe riassumere: quello che è stato fatto non è importante, non lascia ferite nell'abito morale del senor Linacero, diventa rilevante quando si trasforma in fantasia e qui il segno lo incide nell'animo, perchè altro non resta se non il fantasticare. "Ho fatto, ma è come se non fosse mai successo", e poi, "vorrei ma non posso", ma con un passaggio ulteriore, mostruoso soprattutto per la naturalezza con la quale il narratore ce lo propone: il passaggio da reale a fantastico è sotteso da un desiderio sessuale totalmente amorale, se non propriamente immorale. E' contorto, capisco, ma in realtà, a leggerlo, risulta assolutamente chiaro, a tal punto da passare quasi inosservato. El senor Linacero però è convinto che questo ricordo (e la fantasia ad esso collegata) sia degno di essere raccontato e, soprattutto, ascoltato. Fa mostra di umiltà ma lascia intendere che ormai lui è uno che si occupa di scrittura (Niente di più lontano da me dell'idea di mostrare a Cordes che anch'io sapevo scrivere). Così scende nel pozzo dei suoi ricordi, nel nero umido che è stata la sua vita, e ne estrae altri, smozzicati, appena accennati: descrive un paesaggio che lascia per massima parte incompiuto e si perde nel valutare le reazioni di quelle poche persone a cui ha raccontato, in parte, le sue memorie in via di composizione: una puttana (Ester) e un poeta (Cordes). Sono fili che cominciano ad intrecciarsi e poi, ad un dato momento, si sfilacciano. E' una discesa nel pozzo di un uomo grigio, privo di obiettivi, sconfitto, amareggiato, disgustato da tutto fuorchè da sè stesso. Si sente superiore al mondo, ne vede le bassezze, le storture, le patisce sulla propria pelle, le rimira incise nella propria esistenza ma rimane però incapace di riconoscersi parte di quel mondo, pure lui basso e storto (moralmente parlando). Ora torno al (poi mi spiego) di cui sopra. La puttana ed il poeta non reagiscono, all'ascoltare le sue memorie, come Linacero si era aspettato, e quindi, il suo desiderio (vissuto fino a quel momento quasi come una certezza) ne risulta frustrato (una desillusiòn màs). E se rimaniamo a quanto racconta il narratore nel suo libricino di memorie, è vero: nessuno è interessato ad ascoltare la sua vita (quel puzzle smozzicato che Linacero ci presenta: il caos strutturale nel raccontare è specchio del disordine morale del narratore/protagonista). Ma a questo punto ci rendiamo conto di un altro piano, metanarrativo: ossia ci sono i lettori, quelli veri, non quelli fittizi interni al racconto, cioè ci siamo noi, e noi lo stiamo leggendo, e vorremmo anzi che continuasse con quel suo magmatico e parziale racconto di eventi ora immorali ora amorali, quel suo registrare il calore del giorno, i rumori della strada, le ciccione che lavano i panni, gli sfaccendati che fumano (come lui d'altronde: "io sono un uomo solitario che fuma in un punto qualsiasi della città"), il coro dei cani, il gallo che canta di tanto in tanto, a nord, a sud, in qualche posto sconosciuto, i fischi delle guardie che si ripetono sinuosi e muoiono.
  Eladio Linacero è un antieroe, come antieroi sono i protagonisti di tutti i libri di Onetti: è pessimista e cinico (nichilista, per certi versi simile all'Erdosain de I sette pazzi, di Arlt, ma privo dello slancio folle che questi proietta sul reale), vede l'essere umano per quello che è, una pozza maleodorante senza il benchè minimo senso, ma il suo stesso raccontarsi, il suo stesso elevarsi rispetto alla melma che lo disgusta, a sua volta disgusta i suoi lettori che non lo riconoscono migliore degli oggetti del suo disprezzo. Ma Onetti è Onetti, un gigante, e questi abissi (pozzi appunto) di pessimismo cosmico li rende con tratti stilistici inarrivabili: la poesia del vuoto la si potrebbe definire.

<< Un rumore breve, come uno stridio, mi fa guardare verso l'alto. Sono sicuro di scoprire una crepa nel punto esatto dove ha gridato la rondine. Inspiro la prima aria che annuncia l'alba fino a riempirmi i polmoni; c'è un'umidità fredda che mi sfiora la fronte alla finestra. Ma tutta quanta la notte, inafferrabile, tesa, sta allungando la sua anima fine e misteriosa nel filo d'acqua del rubinetto chiuso male, nel lavatoio di cemento del cortile.>>

  Aggiungo: in questa splendida e coraggiosa veste delle EdizioniSur, spicca la traduzione di Ilide Carmignani, nonchè l'introduzione di Juan José Saer.
  Una curiosità: Il pozzo è stato scritto da Onetti in un fine settimana, sotto l'influsso della mancanza di nicotina (aveva smesso di fumare).

 

Juan Carlos Onetti (1909-1994) uruguayano, ha ricevuto nel 1980 il Premio Cervantes, massimo riconoscimento della cultura ispanica, per la sua carriera letteraria. Fra le sue opere: Per questa notte (1943), La vita breve (1950), Il cantiere (1961), Lasciamo che parli il vento (1979).

domenica 26 luglio 2015

Tutto inizia e finisce al Kentucky Club, di Benjamin Alire Sàenz, Sellerio editore, traduzione di Luca Briasco

  L'idea di frontiera è l'idea fondatrice degli Stati Uniti d'America. La frontiera, nel suo tracciare un prima e un dopo, un di qua ed un di là da qualcosa, definisce entrambe le porzioni del mondo che divide. Siamo quello che siamo (o, per meglio dire, ci percepiamo per come crediamo di essere) in buona parte delineando quello che non siamo, quello che consideriamo "altro da noi". Ma, cosa succede, se il punto di vista della narrazione non si trova al di là o al di qua della linea invisibile e solida della frontiera, ma la comprende? Il mondo (il microcosmo) che Sàenz ha scelto per ambientare i sette racconti che compongono questo libro è sospeso sulla linea di confine tra Usa e Messico, lungo quell'elastico che lega El Paso (America, modernità, benessere) a Ciudad Juarez (Messico, la Santa Teresa di 2666, di Bolano, una delle città più violente al mondo, teatro di più di 4000 omicidi di donne dal 1993: i femminicidi di Ciudad Juarez appunto: a tal proposito, oltre 2666, consiglio vivamente la lettura di Ossa nel deserto, di Sergio Gonzalez Rodriguez). Quindi, cosa succede quando la linea di demarcazione non è più esterna al racconto (al punto di vista del narratore) ma ne è parte integrante? Accade che si sbriciolano gli schemi mentali che l'essere umano è così abile ad imporsi pur autogiustificarsi, accade che la frontiera viene interiorizzata ed il bene ed il male si amalgamano, nella realtà e nella psiche dei protagonisti. Lo stridore dei sentimenti si mescola fino a creare un dolore tanto insopportabile quanto silenzioso. Ogni cosa è in frantumi, e danza (J.Morrison). Ognuno dei personaggi di questi racconti è in pezzi, è crollato, andando a collidere contro il muro fronterizo che ha scoperto far parte della sua stessa realtà. I sentimenti fanno male, i legami d'amore e quelli parentali fanno male; ma, come certifica Tom, il protagonista dell'ultimo racconto Il Gioco del dolore: "... non è l'amore, a essere un gioco doloroso, ma la vita. La vita è dolore."
Il Kentucky Club del titolo, giusto per la cronaca, è un locale di Ciudad Juarez col quale, in un modo o nell'altro, tutti i protagonisti hanno a che vedere, anche solo incidentalmente, e che funge semplicemente da espediente narrativo per fingere che nel microcosmo magmatico narrato da Sàenz esista un sole immobile attorno al quale tutto ruota (o, forse, meglio: attorno al quale tutto scorre). Nulla di più. Una scusa che restituisca l'idea che qualcosa a cui aggrapparsi esista sempre e comunque. Ma non ha nulla a cui aggrapparsi lo scrittore protagonista del primo racconto, E' andato a raggiungere le donne, quando il suo amore, conosciuto proprio al Kentucky Club, autista di personalità in vista e politici locali, scompare nel nulla e finisce nel deserto, a lasciare che la sabbia ed il sole gli sbianchino le ossa. Nè il ragazzo de L'arte della traduzione che torna a casa dall'ospedale come se tornasse dal mondo dei morti, dopo che ragazzi gringos lo hanno pestato e gli hanno inciso a sangue la schiena: dovrà inventarsi un nuovo modo di stare al mondo, nuove motivazioni e dovrà imparare a dare un nuovo significato alle parole. Ne L'uomo delle regole, il narratore troverà nel padre spacciatore l'appiglio per affrontare la vita a testa alta, ma sarà proprio il padre a perdersi nel mare di droga e donne che infestano la frontiera.
  Non è che non si salvi nessuno, ma ogni salvezza ha un prezzo, e il prezzo è il dolore.
  Le famiglie disfunzionali, erose dalla violenza e da stilemi culturali atavici e brutali, generano altro spaesamento, sono altre frontiere che costringono ad una scelta, o ad una non scelta:
  ne Fratello in un'altra lingua il protagonista, durante il suo rapporto con lo psicologo pagato dai genitori ricchi e anaffettivi, scopre che il fratello cacciato di casa dal padre, è ormai morto, in un'altra nazione, parlando un'altra lingua (e arriverà a capire anche le motivazioni del perchè della cacciata da parte del padre o, quantomeno, lo immagineremo noi lettori),
  mentre in A caccia del drago un fratello seguirà passo passo la cieca rincorsa autodistruttiva della sorella che, esattamente come la madre che depreca, si perde nel tentativo di possedere il drago, il suo personale drago (chiamiamolo l'attimo fuggente).
  In A volte la pioggia è il bullo Brian che vede capovolgersi il suo mondo quando viene brutalizzato dal padre a causa della sua omosessualità scoprendo però che l'aiuto più prezioso lo può trovare soltanto nella voce narrante, compagno di scuola vittima delle sue persecuzioni machiste.
  In questi tre racconti incentrati sul ruolo negativo delle famiglie (sarebbero quattro ma L'uomo delle regole in fondo riesce ad evitare una conclusione così sconfortante) il paesaggio esterno - la frontiera e, soprattutto, il deserto - altro non è che lo sconfortante specchio del paesaggio interiore dei personaggi, almeno di parte di essi, di quella parte genitoriale incapace di rivestire il proprio ruolo entro confini tollerabili: le famiglie non sono una monade, si incarnano nell'opposto del concetto di unità: due individui persi in dolori personali, tunnel imbottiti di droghe ed alcol, di sesso, persone che, sempre che si siano mai amate, non hanno saputo costruire su quel sentimento null'altro che rancori ed incomprensioni: vedono i figli come soggetti alieni, incomprensibili, complessi, che incutono terrore perchè o sono gli specchi del fallimento dei genitori o rischiano di essere gli specchi di quello che i genitori avrebbero potuto essere e non sono stati: meglio allontanarsi dunque, andarsene lontano, o allontanarli e lasciarli al loro destino. Il mondo di Sàenz, quel mondo che ha la frontiera dentro di sè, è circondato dal deserto, affollato di violenza insensata nutrita di pregiudizi, droghe, alcol, sotteso tra abissi di bilinguismo e di biculturalismo, ma tutto ciò lo vive introiettato al proprio interno. Non ha la possibilità di vedere il male come altro da sè: lo straniero non esiste, lo straniero sono io, i tratti si mescolano, le lingue anche: spesso i protagonisti dei racconti si domandano l'un l'altro se sono gringos o se sono messicani, ma invariabilmente la risposta è confusa, o composita: madre messicana e padre gringo, o viceversa, radici da un lato della frontiera, o dall'altro, o da entrambi. L'identità si sfuma lasciando nuda la psiche, ed emerge solo l'umanità, confusa, incapace di guardarsi allo specchio e comprendersi. In fondo, la vita è dolore. In fondo, tutto è in frantumi, e danza, ma si tratta di un danzare lancinante, che ha qualcosa dell'irrimediabilità nei suoi passi. Per salvarsi è necessario il sacrificio, e il sacrificio è dolore. L'unico male assoluto, di cui tutti gli altri mali non sono altro che la conseguenza ed il riflesso, è il narcotraffico, sono i narcos, che Sàenz sapientemente non descrive mai: sono un male inespresso, lasciato sullo sfondo, un male di stampo ontologico che non si può nominare nè spiegare, che è lì come da sempre, che neppure si giudica più. Solo ne piangiamo le conseguenze: i morti in quel silenzio immenso che è il deserto che ci circonda, fuori ma anche dentro di noi. Le ossa che nel deserto si sbiancano, il vento che le liscia. Sàenz, che insegna scrittura creativa - e si sente: il suo stile, bello, maturo, elegante, ha sempre qualcosa di trattenuto, di calcolato, si ha l'impressione che stia usando un qualche artificio messo lì in bella posa, ma l'artificio meglio riuscito sta nel non dire, nell'alludere e lasciar immaginare il lettore - sceglie di descrivere un mondo che finisce con l'includere al suo interno sia la migliore letteratura nordamericana che quella latina, e lo fa con una sicurezza insolita in chi è pioniere e per primo esplora nuovi territori. Compone un affresco in cui a volte affiorano dialoghi cesellati e cinematografici (ricordano a volte il cinema di Inarritu) e a volte scioglie le briglie e permette alla narrazione una fluidità più tipicamente latina (non stiamo parlando di realismo magico, per carità), un affresco doloroso, intimo ma potente dove gli stili, così come i tratti somatici e gli accenti si (con)fondono e si combinano in qualcosa di nuovo.
  Ci sarebbe da dire riguardo alla predominanza (anche un tantino ridondante a dire il vero) di amori omosessuali, come se il machismo di frontiera venisse eroso alle sue stesse fondamento dalla propria stessa fobia, ma è un particolare che alla fine passa in secondo piano, in favore della creazione di un universo piccolo ed universale, dolente ma capace di slanci di sorda umanità: uno fra tutti, il padre di L'uomo delle regole che non avendo più speranze per sè, riesce a trovare la lucidità per scegliere ed imporre quelle regole che salveranno il figlio. Una redenzione, anche il deserto, la permette.

 Benjamin Alire Sáenz è nato nel 1954 a Old Picacho, in New Mexico. Presidente del dipartimento di Scrittura creativa alla University of Texas di El Paso, dove vive, è artista e poeta, narratore e autore di libri per bambini, premiato con la Wallace Stegner e con la Lannan Poetry Fellowship per le sue opere di poesia, e finalista al Los Angeles Times Book Prize.

sabato 18 luglio 2015

I miei documenti, di Alejandro Zambra, Sellerio editore, trad. di Maria Nicola

  Undici racconti (divisi in tre sezioni) che delineano in maniera lancinante il mondo di Alejandro Zambra: dopo Bonsai (Neri Pozza, 2007) e Modi di tornare a casa (Mondadori, 2013) viene tradotto in Italia da Sellerio (traduzione di Maria Nicola) I miei documenti. La qualità letteraria della scrittura di Zambra è fuori discussione, anche se nel precedente libro mi aveva lasciato il dubbio che venisse utilizzata con indubbia maestria ma con l'intento di coprire alcuni vuoti strutturali che, forse, in realtà non c'erano. O forse si. In questa racccolta però, forse perchè la distanza del racconto sembra ritagliata su misura sulle caretteristiche dell'autore cileno, il dubbio di cui sopra viene spazzato via. In realtà gli undici racconti sono come i pezzi di un unico puzzle, sono conclusi in sè stessi e non hanno altri agganci con i racconti che li seguono o li precedono, se non - appunto - la scrittura e il punto di vista che è invariabilmente quello di Zambra scrittore, o di un protagonista che potrebbe tranquillamente essere lo stesso Zambra e che rende il libro un unicum perfettamente omogeneo. I personaggi sono tutti ammantati di un'aura sartriana: è come se ognuno di loro avesse sempre ammorsata, in qualche punto non meglio precisato (ma presumibilmente dietro al collo, tra le scapole, e in qualche ganglio del cervello, a qualche crocicchio neuronale), la consapevolezza di essere costantemente sull'orlo di qualcosa di troppo grande, troppo assurdo e troppo silenzioso per non venirne irrimediabilmente schiacciati. Chi non è stato travolto e sconfitto è in procinto di esserlo, o comunque sà che gli ingranaggi di un destino implacabile sono in movimento e possono piombargli tra capo e collo da un momento all'altro. I protagonisti (tutti di mezza età, come l'autore) se non sono proprio tutti scrittori o comunque amanti dei libri, condividono comunque il medesimo modo di vedere il mondo. Complicato. Rassegnato, anche se solo fino ad un certo punto. La felicità non è prevista e se è stata presente nelle vite dei personaggi ha avuto un ruolo episodico, accidentale, s'è presentata e poi, irrimediabilmente, è passata oltre. Non esistono ampli orizzonti (uno dei motivi che mi portò a criticare Modi di tornare a casa messo al confronto con Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia, di Patricio Pron), nè ideali (al di fuori, in certi casi, della letteratura stessa), è la vita stessa che viene ritratta per quel che è: dimessa, precaria, incompleta ed onnivora. Nei racconti di Zambra, così come già in Modi di tornare a casa, non guardiamo il mostro dritto negli occhi (come Roberto Bolano definisce il compito della buona letteratura) ma ne registriamo le conseguenze in chi la costante e minacciosa presenza del mostro deve subire giorno dopo giorno. La vita come un'abitudine tetra, una fatica immotivata, inconclusa, si parte ma non si arriva e, se si arriva, ci si rende conto che forse sarebbe stato meglio andare da un'altra parte, o magari in nessun posto. Ci si muove, si vive, perchè è il destino dell'essere umano, e ce lo facciamo piacere, non perchè abbia realmente un senso farlo.

E che sono vigliacco e ambizioso. Sono così vigliacco che voglio vivere di più. Come se fossi, ad esempio, felice.

Dovrei dire, copiando Pessoa: << Sono arrivato a Santiago, ma non a una conclusione. >>

<< Non ha mai temuto che la sigaretta la uccidesse? >> 
<< A me non importa, sa? Perchè non trovo così positivo il fatto che noi esseri umani, nella media, viviamo tanto a lungo >>


L'unico collante che dà un senso alle cose, o si forza di farlo, è la letteratura. Raccontare la mancanza di senso restituisce già un senso, o una forma embrionale di esso. Quindi poco importa che ci si trovi davanti a tabagisti in crisi d'astinenza, a scrittori che saccheggiano i loro ricordi d'infanzia per vendere un racconto nero latinoamericano, che si parli di bugiardi indefessi, a chierichetti in incongnito, o a padri alle prese con figli e gatti ed ex mogli, ad ex fidanzati disposti ad attraversare l'oceano per riconquistare la propria metà (ma più per senso estetico del gesto che per disperazione o per amore) o a coppie in balia dei propri notebook, il mondo è sempre quello di Zambra, mesto, folle senza per questo sfumare nell'allegria, un mondo dove i personaggi sembrano sempre ineluttabilmente soli anche quando in realtà non lo sono. Sono sconfitti dall'esistenza, ma non del tutto, la loro rivincita è rimanere in piedi, comunque, senza stilemi eroici da indossare, non sono eroi romantici, sono piccoli burocrati grigi della vita che resistono, giorno dopo giorno, affrontano piccoli e grandi guai, non immaginano orizzonti diversi da quelli che gli tocca masticarsi tutte la mattine, alzandosi con l'alba, ma sono comunque quelli che la commedia, pur consapevoli della sua insensatezza, la portano avanti. E poi, sono coloro che la loro storia se la raccontano e, rendendola degna di essere raccontata, la rendono degna di essere vissuta. (Tant'è che noi, i lettori intendo, quelle storie senza senso le viviamo, leggendole)
 Un libro fantastico, che ha come collante una scrittura sopraffina, una delle migliori attualmente in circolazione e, in questo caso, perfettamente al servizio della narrazione.

          Non so se apro o chiudo parentesi.

   Alejandro Zambra è nato nel 1975 a Santiago del Cile, dove vive. Poeta, narratore e critico letterario, insegna letteratura all'università Diego Portales e scrive per il supplemento "Babelia" di "El País" e per la rivista messicana "Letras Libres". Il suo primo romanzo, Bonsai (Neri Pozza 2007), ha vinto il premio cileno della critica. Nel 2010, Zambra è stato segnalato dalla rivista "Granta" come uno dei migliori giovani narratori di lingua spagnola.

lunedì 13 luglio 2015

Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia, di Giuseppe Rizzo, Fetrinelli editore

  Leggendo la quarta di copertina si pensa subito a uno di quei libri generazionali (mutuo la definizione dall'ambito cinematografico), leggeri, sbadati, che raccontano storie di trentenni che ancora non si sentono adulti (ma sanno che dovrebbero ormai esserlo) e che dubitano di riuscire a raggiungere la maturità in un qualsiasi futuro, fosse anche lontano. Amici che vengono sballotati dall'esistenza rimanendo intimamente ancorati alle serate con gli amici, alle notti ventenni, le indianate, le cavolate, le fidanzate che andavano e venivano, il disimpegno obbligato di una certa età che non ti permette - per statuto verrebbe da dire - di prendere troppo sul serio nè te stesso nè, soprattutto, il mondo. E la prima parte del libro suo malgrado conferma questo clichè. Tre amici, siciliani, ormai sparsi per il continente se non proprio per il mondo, si ritrovano al paesello natìo, Lortica, per fare scaricare una camionata di sterco davanti a casa del sindaco del paese. Scaricano la camionata di merda di cui sopra e, soddisfatti, si prendono qualche giorno per fare i conti con le proprie famiglie e coi pregiudizi e i legami ottusi dai quali sono fuggiti. Pensano sia facile, una vacanza: Andrea che è la voce narrante, vive a Roma, e lavora come giornalista in una radio di sinistra che lo sottopaga, Pupetta (vero nome Martina) che vive a Berlino, femmina al mille per mille, dotata di cervello, curve e di forti stati d'ansia, che ha lavorato per un ministero ma, caduto uno dei tanti governi del paese, ha dovuto arrangiarsi con un impiego in una ong, e  Gaga (vero nome Marco) che vive a Praga, dove è finito per seguire uno dei suoi tanti amori eterni di pochi mesi, un parrucchiere che ad un bel momento l'ha piantato, in un rigurgito di eteresessualità. Fin qui, dicevo, nulla che non ci si aspetti: serate, ricordi, alcolici, adrenalina, il punto di vista di chi ha lasciato la terra natale e ora vi torna, scettico, critico, lontano, corrosivo. E poi: amori passati, traumi infantili, fratelli in carcere, e dinamiche ormai lasciate a marcire nel dimenticatoio che tornano a galla. E i pidocchi. Soprattutto i pidocchi, che sono alla base della piccola guerra lampo del titolo. Non è chiarissimo da subito chi siano, ma lo si intuisce agevolmente. Dallo scarico fecale davanti casa del primo cittadino si passa ad una seconda bravata. Dalla seconda bravata si precipita nel thriller. Chiamiamolo thriller. Non è proprio un thriller, non secondo i canoni comuni che definiscono il genere, ma comunque la tensione va alle stelle. Tutti rischiano qualcosa, forse tutto, forse pure la vita. Ed è in questa seconda parte che il romanzo esce quasi involontariamente dagli stilemi fin qui seguiti e diventa - felicemente - altro. Il lettore quasi non se ne accorge, ma dai toni da commedia generazionale (appunto), elegante e simpatica ma pure manierata e un filino scontata, la storia prende il sopravvento e finalmente se ne fotte delle frasi ad effetto e degli arzigogoli su cosa sia la Sicilia, la sicilianità e i siciliani, e semplicemente procede per conto suo, con una forza e una profondità naturale, priva di ritrosie. Qualche meccanismo della narrazione si è innescato e ora è lui che comanda, l'autore non può fare altro che corrergli dietro a perdifiato, tentando di mantenere un minimo di undestatement. Corre, ne percepisci il battito accelerato, ma non si ferma mai piegato in due a riprendere fiato. Della tripartizione classica, questo secondo movimento è in assoluto il migliore, non solo perchè vi si dipana la storia, e l'azione che ne consegue, ma anche perchè finalmente lo stile ricade totalmente al servizio della trama, si libera di orpelli, di ironie a volte troppo ricercate e di tic narrativi che rendono lo stile di Rizzo troppo simile a quello di Paolo Nori. La scuola emiliana ha delle caratteristiche ben precise, Nori ne è uno dei maestri, e sicuramente uno dei più conosciuti, e Rizzo pare essersi cimentato nell'esperimento di trasferire la scuola emiliana in Sicilia, e ci riesce, è bene sottolinearlo, ma il troppo stroppia e in diversi momenti (troppi, appunto) si riceve l'impressione di leggere un libro di Nori che si finge siciliano. Questo, soprattutto nella prima e nella terza parte. Nella seconda, come detto, la forza della trama trascina tutto con sè e distoglie l'autore da quei manierismi che, seppure sono nelle sue corde (e gli riescono pure bene), appesantiscono il romanzo rischiando di relegarlo in un ambito un tantino soffocante e scontato. Ora, torniamo a noi, a cosa succede nella seconda parte. Senza svelare troppo, Lortica è un paesello ma è pur sempre un paesello siciliano, il potere reale è un potere non lecito, mafioso, e gli altri poteri ufficiali (politica, chiesa, forze dell'ordine) a questo primo potere oscuro ineluttabilmente si piegano. Se qualcuno arriva da fuori a rompere le uova nel paniere, qualcosa deve succedere, per forza. Non vado oltre. L'amicizia, gli amori, passati e presenti, il futuro che non esiste, e se c'è comunque non è visibile a nessuno, i rapporti con le famiglie, la corruzione, lo status quo, i pidocchi (i mafiosi, a questo punto è chiaro), la sicilianità e la Sicilia, la violenza e l'ineluttabilità di ciò che accade e la normalità di chi si è scassato la minchia della violenza e della ineluttabilità, della corruzione, dei pidocchi, e di Lortica, della lorticanità, e della Sicilia e della sicialianità. Questo Piccola guerra lampo (etc) è un compendio di diversi aspetti, un romanzo ben riuscito, ma ancora non perfetto, non di grandissimo respiro, ma comunque di una profondità tanto più intensa quanto inaspettata, di uno stile che a tratti pare essere davvero lo stile di Rizzo, ma che in certi casi paga un debito troppo altro a modelli che l'autore sembra voler ancora seguire pedissequamente, e inutilmente, dal momento che, nella seconda parte, la migliore, l'ho già detto, finalmente si ha la sensazione di leggere lo stile di Rizzo, quello suo proprio, il risultato di quell'esperimento che vuole la scuola emiliana alle prove con la terra (e la lingua, e la cultura) siciliana. Un bel romanzo, leggero e intenso, a volte un po' troppo di maniera, a volte forse banale, ma in fondo totalmente vero e, a tratti, inaspettato. La lettura è piacevole, veloce, ironica, i personaggi un po' troppo bidimensionali. Alla fine, si ha l'impressione di aver visto un film, o che stiano per trarne un film, e questo rapporto un po' troppo stretto tra narrazione letteraria e immaginario filmico tende a stendere come una patina opaca sul libro, quasi a snaturare il "romanzo" nella sua natura intima di narrazione rivoluzionaria, lontana dalle mode, capace di scavare nel corpo stesso della società. Un po' meno commedia (di commedie in Italia ne abbiamo già viste di tutti i tipi) e un po' più coraggioso nell'essere sè stesso, qualsiasi cosa sia: se c'è una critica da fare a questo romanzo (che di difetti è pieno, ma pure di splendidi pregi), è questa.



Giuseppe Rizzo è nato in Sicilia nel 1983. Ha pubblicato i romanzi L’invenzione di Palermo (Giulio Perrone Editore, 2010) e Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia (Feltrinelli, 2013).
 

domenica 5 luglio 2015

La prossima volta, di Holly Goddard Jones, Fazi editore, trad. di Silvia Castoldi

  Siamo nel 1993, ad Ottobre, a Roma, nel Kentucky, ed Emily, una tredicenne "strana", vittima di bullismo, trova un cadavere nei boschi dietro casa, ma non ne denuncia la scomparsa. Wyatt, un operaio solitario, oggetto dello scherno e dei pesanti scherzi dei colleghi più giovani, viene fatto ubriacare in un bar e s'infilerà in un mare di guai, forse troverà l'amore (eros&thanatos, coppia inseparabile) ma certamente troverà la forza di alzare la testa ed affrontare una volta per tutte la realtà. Susanna, una giovane professoressa, scopre all'improvviso di navigare a vista in un matrimonio in crisi e, quando, la scapestrata sorella Ronnie scompare, ogni aspetto della sua vita andrà in pezzi. In un certo senso questo La prossima volta può essere letto come un romanzo di (tras)formazione. Emily, Wyatt e Susanna sono i tre personaggi principali attorno ai quali ruota l'intera vicenda e al contempo rappresentano tre fulcri narrativi e soprattutto tre punti di vista differenti. Tutti e tre si trovano a giocare il loro ruolo in una zona dell'esistenza che li vede isolati, persone in difficoltà, emarginati dalla società (dalla piccola società della cittadina, dall'ambiente della scuola o del lavoro); sono chiusi, introversi, insicuri, si accontentano della marginale ed insoddisfacente realtà che vivono, fino a quando non capita qualcosa. Quel qualcosa che è l'argomento del romanzo e che li spingerà per la prima volta nella loro vita a provare ad immaginarsi diversi. Forse alzeranno la testa, forse combineranno dei gran casini, forse cambieranno e daranno una svolta alla loro esistenza (al matrimonio, al lavoro, alla scuola), nel bene e nel male, ma a Goddard Jones non interessa conoscere gli sviluppi di questa svolta (se non quelli strettamente legati alla detection), piuttosto il suo focus si concentra sul momento preciso (un arco di pochi giorni) in cui questi cambiamenti si presentano all'orizzonte e, nel giro di breve, brevissimo tempo, piombano sulla realtà come un tornado furibondo, a spazzare via tutto l'ordine apparente che fin a quel momento aveva regnato su ogni cosa, silenziandola. L'occhio dell'autrice si concentra sugli effetti di questo tornado, sulle dinamiche che il tornado scatena, sui resti che vorticano tra le spire d'aria del turbine, come si combinano, come si scontrano: non dove si posano e se marciranno o torneranno a nuova vita. La scrittura della Goddard Jones è piana (attenta, quasi piatta, anche se assolutamente non scialba), lascia parlare gli eventi e i personaggi, e li segue (li scruta, li studia) con un'attenzione da entomologa (o forse, meglio, da psicologa), è precisa fino alla sfinimento nel seguire ogni minimo mutamento psicologico, ogni capriccio del caso e della psiche: la storia la gestisce con sapienza, con l'incedere lento e (in un certo senso) maestoso dei grandi romanzi americani, ambietando il tutto in quella provincia dove tutto succede proprio perchè pare che non accada mai nulla. Un bel romanzo solido, psicologicamente attento, capace di mantenere la tensione per 470 pagine nonostante la verità di quanto accaduto si intuisca piuttosto presto (forse troppo), una lettura piacevole ma non disturbante. Un noir dal taglio elegante, psicologico, ben scritto, elaborato con una certa attenzione allo stile e al palato fine (ma non finissimo) di certo lettore di genere. Quindi: tutto bene? No, non tutto, non a mio avviso. Il libro, lo abbiamo detto, si muove su quello stretto sentiero che divide (o unisce) il noir (il meccanismo della detection) dal librone mainstream di taglio sociale (certo non sociologico), non è solo una o solo l'altra cosa. Dargli una lettura ed una veste marketing di taglio noir lo avrebbe indubbiamente sminuito, incasellandolo in un ambito che gli sarebbe risultato stretto, d'altronde la detection serve e funziona proprio per parlare di altro, per  descrivere (in maniera un po' troppo stereotipata) una provincia americana che, tra l'altro, ormai è stata svelata da diverso tempo e da svariati autori, in libri, canzoni (Springsteen su tutti), film e serie tv, di successo o meno. In questo filone (potremmo chiamarlo de "L'altra America") La prossima volta non spicca per acutezza dello sguardo nè tantomeno per profondità di analisi: è come il compito redatto da una studentessa non troppo portata ma molto attenta, il frutto di una capacità non eccelsa sostenuta da una volontà ferrea che, alla fine dei giochi, non riesce nell'intento che si era proposta (svelare qualche aspetto della provincia americana ancora non conosciuto), ma comunque mette insieme un libro che si fa leggere con partecipazione per quasi cinquecento pagine (e non è poco). Quello che risulta più fastidioso è lo scarto tra le aspettative che crea il marketing impresso direttamente su copertina e quarta di copertina e la reale portata del libro. Sono certo che senza le aspettative create (spropositate a tal punto da risultare, per molti versi, ridicole) l'impressione che emergerebbe sul libro sarebbe assolutamente positiva, non entusiastica (non stiamo parlando di un capolavoro) ma comunque positiva. E' un noir elegante, sorretto da uno psicologismo attento, lento quel tanto da renderlo diverso da un semplice prodotto commerciale. E' un'istantanea riuscita non tanto di una (micro)società quanto delle vite dei protagonisti, segue morbosamente il nodo da sciogliere che Emily, Susanna e Wyatt si trovano per le mani in momenti ed età differenti. Poi, se fosse stato ambientanto in Antartide o tra le tribù Navajos o nel centro di Calcutta sarebbe stato sostanzialmente la stessa cosa. Quindi, perchè, mi domando, infarcirlo di aspettative assolutamente fuori luogo?
Cito: Un libro che piacerà a chi ha amato Twin Peaks / In un'atmosfera in pieno stile Twean Peaks 
  Ecco, con Twin Peaks non c'incastra un accidente.
Cito: Nessun politico dovrebbe utilizzare l'espressione american people senza aver prima letto questo libro, meglio se due volte.
Mah...
  Per quanto possa avere poca stima della categoria dei politici, dubito che qualsiasi politico americano non abbia anche solo la vaga percezione che nel loro sterminato paese non esistono solo Hollywood e Wall Street ma anche operai sottopagati, sfigati di varia natura perennemente vittime di stronzi di varia natura, insegnanti in crisi matrimoniale e bambini sensibili vittime di bullismo. Ah, si, e infermiere sovrappeso in cerca d'amore, investigatori di colore che ancora vengono guardati con un minimo di sospetto dalla popolazione wasp, insegnanti di musica pieni di boria, genitori iperprotettivi e, infine, si, pure una certa linea di demarcazione che divide tra chi ha i soldi e chi i soldi non li ha. Tra chi umilia e chi è umiliato.
  Leggetelo, ma per quello che è non per quello che vorrebbero che fosse.


Holly Goddard Jones è nata nel Kentucky. Ha pubblicato racconti su varie riviste e alcuni sono apparsi in prestigiose antologie come la New Stories From The South: The Year's Best, 2007 e la American Mystery Stories 2008. Insegna nell'Università del North Carolina. Per Fazi è uscita anche la raccolta di racconti Questa America. La prossima volta è il suo primo romanzo.

domenica 28 giugno 2015

il padrino di Kathmandu, di John Burdett, Bollati Boringhieri editore (trad. Carlo Prosperi)

L'impressione è che il signor Burdett potrebbe tranquillamente scrivere meglio (non che non scriva bene), ad un livello superiore, autoriale, ma che in fondo non gliene freghi nulla. Forse non è importante. In fondo i suoi libri (quantomeno questi del ciclo del detective Sonchai Jitpleecheep) sono un giro di giostra, divertente, veloce, un'immersione in un mondo di cui riconosciamo le striature di colori sfrecciarci davanti agli occhi, pennellate di un mondo sconosciuto ed esotico, + delitto, + sesso. Un bel cocktail. In quest'indagine Sonchai ha perso il figlioletto Pinchai (nel senso non che si è smarrito, ma che è morto) e la moglie Chanya (non nel senso che è morta, ma che se n'è andata - leggendo vedrete dove - in seguito alla morte di Pinchai) ed è divenuto il consigliere del suo capo, Vikorn, capo della Regia Polizia Thailandese e al contempo narcotrafficante principe dell'intero regno della Thailandia. Sonchai, mezzo thai e mezzo farang (occidentale), figlio di una ex prostituta e attuale tenutaria di un bar-bordello nella zona a luci rosse di Bangkok (Bangkok è per Burdett quello che Barcellona è per Gonzalez-Ledesma), poliziotto e monaco mancato, è come sempre impegnato a scendere a compromessi ora con sè stesso ora con la realtà per mettere in piedi un sistema di contrappesi morali che gli permetta di trovare il suo agognato equilibrio karmico: in fondo è uno dei pochi che considera il karma un impegno vero e proprio e non un mezzo per giustificare il proprio stile di vita. Essere consigliere (ruolo che gli frutta un fuori-busta principesco) di un narcotrafficante non lo aiuta a rimanere in pace con la propria coscienza, specie quando si trova a dover organizzare l'acquisto di un quantitativo pantagruelico di droga in Tibet. Il venditore è un mistico tibetano, Noru Tietsin, il padrino del titolo, che con i proventi dell'affare ha intenzione di invadere nientemeno che la Cina. Il Tibet non è quel paradiso di sacrale afflato religioso che ormai è diventato il suo marchio internazionale di fabbrica (il made in Tibet, diciamo), non solo, quantomeno non lo è secondo le logiche che infestano i cervelli di noi poveri farang. La religiosità è una faccenda complessa in oriente, ricca di sfaccettature, non scevra da violenza, lussuria e sete di vendetta. Ogni cosa al suo posto, ma tutto in movimento. Inoltre a Bangkok viene rinvenuto in un pied a terre (volgarmente detto: scannatoio) il cadavere di un famoso regista hollywoodiano col petto squarciato e la calotta cranica sollevata. In una rincorsa perenne alla pagina successiva ci sfrecciano davanti ex prostitute che si fanno monache, farmaciste cinesi pazze, kongrao, Hong Kong, Katmandu, mistici, sesso tantrico, diamanti rarissimi e diamanti contraffatti, narcotrafficanti, Lek il poliziotto transessuale, eserciti schierati a difesa di militari corrotti, visioni in pieno giorno, poliziotti onesti terrorizzati dalla mafia, film d'essai mai proiettati, cervelli mangiati direttamente nel cranio della vittima, marjuana e su tutto, anzi, al di sotto di ogni cosa, a farne da base e sfondo di riferimento, una spiritualità che per non saper nè leggere nè scrivere comprende ogni aspetto del reale, dallo smercio di droga nelle strade alla prostituzione, fino alla morte incomprensibile di un figlio. Se la volontà di Burdett è quella di costruire l'ennesimo divertissement della serie, allora ha fatto centro, come al solito, ma, come al solito, qualcosa gli è sfuggito. Si ha infatti sempre l'impressione di non leggere (solo) un noir, o un pulp, bensì uno strano oggetto che è qualcosa di più leggero e, in fondo, suo malgrado, più profondo. Per quanto le storie di Burdett amino pescare nel torbido andando in cerca di argomenti abbastanza paraculi da dare quel tocco in più di trash che non guasta mai, in realtà la scrittura e lo svoglimento della storia non si fissano mai sui dettagli più disturbanti e truculenti, pur non ricnunciando a descriverli. E' come se i protagonisti si trovassero sempre a qualche metro di distanza da ciò che capita loro, come se le avventure che vivono non li toccassero realmente fino in fondo. Non si può sostenere come si fa con i romanzi farang: "Niente è come sembra", perchè a volte in oriente è vero l'esatto opposto, piuttosto la questione è che ogni parte della realtà ha in sè molti aspetti, troppi forse, o forse tutti: tutto è in movimento, ogni intero è formato da una serie infinita di sfaccettature (come per i diamanti). E' il karma che si srotola al di sopra delle teste e delle vite dei poveri umani che non possono far altro che prenderne atto e farci i conti. La realtà è terribilmente complicata, per questo "va presa con le pinze" e, in un certo senso, saggiamente tenuta a distanza.
Non spaventatevi se scoprirete che il Tibet (anche questo libro di Hopkirk ne è una prova) non è esattamente quello che vi eravate immaginati, in fondo Kathmandu non è poi così diverso da Bangkok, se guardato con gli occhi di un figlio di puttana mezzo farang, monaco mancato e consigliere di un narcotrafficante.
  


 
 


John Burdett è nato in Gran Bretagna e vive in Asia. Ex avvocato, ha scritto A Personal History of Thirst, The Last Six Million Seconds, Bangkok 8, un romanzo che ha venduto piú di centomila copie negli Stati Uniti ed è stato tradotto in 19 paesi, e Bangkok Tattoo (verrà tradotto, vero?). Bangkok uccide è apparso nelle classifiche americane dei romanzi piú venduti del 2007

sabato 13 giugno 2015

L'eliminazione, di Rithy Panh (con Christophe Bataille), Fetrinelli editore

  Nell'Aprile del 1975 i Khmer Rossi di Pol Pot, alleatisi con il neonato Fronte Nazionale Unito Khmer, prendono il potere in Cambogia. Da quel momento fino al 1979 Rithy Panh, che è un bambino di unidici anni, vive (ma sarebbe più corretto dire che sopravvive) in una parentesi temporale nella quale ogni parvenza di logica e senso viene spazzata via in un sol tratto in nome della società nuova che l'Angkar, l'invisibile governo della nuova Kampuchea Democratica, decide di mettere in atto. Potrebbe essere comunismo, ma non è neppure quello: è follia, pura e semplice. Ed è deportazione di massa, è spoliazione dei beni, è cancellazione di ogni individualità, è fame, tortura, uccisioni, fosse comuni, stupri, esperimenti "scentifici" sui prigionieri, infanticidi. Ed è - diciamo - subito sera. Notte più che altro, la notte della ragione e, citando Goya, il sonno della ragione genera mostri. L'essere umano non esiste più, esiste solo in quanto ingranaggio di un sistema più grande, il sistema dell'Angkar, e gli ingranaggi non hanno sentimenti, non provano dolore, li si può sostituire, gettare, intercambiare. Poi, peggio, da ingranaggio si diventa nemico, nemico del popolo. E infine il popolo diventa nemico di sè stesso, si autocannibalizza, la paranoia prende il sopravvento e dalle menti dei pochi - invisibili - dirigenti si propaga come un virus e, veicolato dal terrore, infetta tutti, vittime e carnefici. Dico vittime e carnefici perchè le categorie sociali sono rimaste quelle due, non c'è modo di essere altro o si tortura e si uccide o ci si nasconde fino a quando non si ci si tradisce, magari perchè si cerca di spulciare il proprio giaciglio di paglia (ed è male, perchè le pulci sono creature dell'Angkar) e si viene torturati, si muore. La rivoluzione svuota le città e inchioda tutta la popolazione nei campi: il futuro dev'essere costruito su due soli classi sociali, operai e contadini, non esistono più medici, ingegneri, insegnanti, tantomeno artisti, o si lavora nei campi o si lavora in fabbrica. Ma la verità è che esistono solo aguzzini e vittime, tutti quanti chiusi in un'unico carcere a cielo aperto. Sarebbe più corretto definirlo inferno, non carcere. Rithy Pahn articola questo libro su due piani, il presente, in cui lui stesso intervista Dutch il boia a capo del S21 (la macchina di morte dei Khmer rossi) uno dei centri in cui si torturava in cerca di una confessione e, a confessione ottenuta, immancabilmente si uccideva, e il passato, dall'arrivo dei Khmer rossi a Phnom Penh, alla deportazione di tutta la popolazione nei campi e, follia dopo follia, mostruosità dopo mostruosità, fino alla caduta del regime e alla fuga di Rithy, ancora bambino, verso la Tailandia. Rithy, regista e documentarista, si pone di fronte a Dutch, al boia, come se fosse uno specchio, cerca in lui una risposta umana alle sue domande, un pentimento che non sia mera prova attoriale, lo incalza, gli mostra foto, immagini delle sue vittime, incrocia dati e testimonianze, domanda, continua indefessamente a domandare e a cercare uno spiraglio di pentimento, ma la follia dell'Angkar rimane ammorsata in Ducth, che ride, manipola, si finge offeso, risponde con gli slogan del regime, poi mente, tenta di portare Rithy ad essere suo complice, almeno morale, dell'intervista, lo vuole far cadere: è l'animale che non vuole morire, che si dibatte, che dà spettacolo e tenta di corrompere il suo pubblico. E' un libro terribile. E' una storia terribile. E' un mondo terribile. E' una specie, la nostra, terribile. La Kampuchea Democratica tornerà ad essere la Cambogia, i sopravvissuti sopravviveranno, più che altro a sè stessi ed ai propri ricordi, la memoria di quel periodo rimarrà uno scrigno quasi troppo doloroso per essere riportato davvero alla luce, per essere aperto in cerca di cosa ci fosse all'interno, ma rimarranno i morti, milioni, uccisi per avere rubato un pugno di riso, per aver sognato anche solo per un attimo di vivere una realtà che non fosse l'incubo che li circondava, o anche senza motivo alcuno, i morti uccisi perchè, prima, erano vivi. I carnefici uccisi perchè non erano stati carnefici abbastanza solerti. I morti per fame. I morti, i morti. Questo potrebbe benissimo essere un libro di fantascienza, una di quelle storie nelle quali un virus che arriva da qualche altro pianeta comincia ad infettare gli esseri umani e a zombizzarli, invece è una testimonianza diretta di uno di quei momenti nella storia in cui l'uomo si lascia abitare dalle sue più nere perversioni e così facendo apre una faglia, uno strappo (una fossa) dalla quale penetra un'altra dimensione, fatta di follia, paranoia, perversione e morte. E' un libro terribile, l'ho già detto, ma è anche un libro che và letto, perchè nonostante tutto parla di noi, in presa diretta, dell'essere umano, del momento in cui nella storia tanti esseri umani decidono di non essere più tali, di diventare un corpo unico, un meccanismo, un insieme di ingranaggi, una macchina di morte.

Rithy Panh nasce nel 1964 a Phnom Penh, in Cambogia. Dal 1975 è prigioniero nei campi di riabilitazione dei khmer rossi. Nel 1979, appena quindicenne, rie­sce a fuggire in Thailandia. L’anno successivo si trasferisce a Parigi. Nel 1985 si iscrive all’Institut des hautes études cinématographiques (Idhec) e firma il suo primo documentario nel 1989, Site II. Da allora Rithy Panh non ha smesso di lavorare contro l’amnesia del suo paese mostrando la tragedia cambogiana e le sue conseguenze – tra il 1975 e il 1978 il regime di Pol Pot ha fatto più di due milioni di morti. Tra i suoi documentari si ricordano S21, La macchina di morte dei Khmer rossi  (Feltrinelli “Real Cinema”, 2007) e The missing Picture, con il quale ha vinto il premio della sezione “Un Certain Regard” al festival di Cannes nel 2013. L’eliminazione (con Christophe Bataille; Feltrinelli, 2014) è stato pubblicato in Francia da Grasset e può essere considerato l’autobiografia di Rithy Panh. Il libro ha ottenuto in Francia il Gran Prix des Lectrices d’Elle, il Grand Prix Joseph Kessel, il Grand Prix sgdl de l’Essai, il Prix Essai France Télévision e il Prix Aujourd’hui, Prix “Livre et droits de l’Homme”. Attualmente è professore a La Femis di Parigi.

domenica 7 giugno 2015

Kassel non invita alla logica, di Enrique Vila-Matas, Feltrinelli editore

  Enrique Vila-Matas, nel 2012, viene invitato a partecipare alla 13°edizione di Documenta, a Kassel, a sedersi in un ristorante cinese ai limiti di un parco e a scrivere quel che gli passa per la testa, questa è in sintesi estrema la trama di Kassel non invita alla logica, che si snoda dal primo enigmatico contatto tra l'autore e gli organizzatori (anzi, le organizzatrici) del mastodontico evento artistico-culturale fino alla "Conferenza senza nessuno" tenuta dall'autore alla Standehaus che sigillerà la sua esperienza nella folle e selvaggia prateria dell'arte d'avanguardia.
  Vila Matas (detto tra parentesi) è un genio, credo, ma anche se non lo fosse comunque fa di tutto per esserlo, e questo libro, questo reportage autobiografico che è sospeso sull'abisso che divide (o unisce, vedete voi) la narrativa dalla saggistica, lo si può leggere come un diario interiore o, per meglio dire, mentale, spesso cervellotico - e forse, appunto, geniale -, erudito ma non troppo, dell'autore di fronte all'improvviso pararglisi di fronte del - nientemeno! - nucleo stesso dell'arte d'avanguardia (sempre che si possa anche solo postulare l'esistenza di un nucleo, riferito a qualsiasi avanguardia, in qualsiasi ambito artistico, cosa che non credo possibile: le avanguardie sono sbilanciate per loro stessa initma natura, in avanti, sul futuro, non possono permettersi un centro d'equilibrio). Ma poi è, questo Kassel non invita alla logica, anche altre cose: un requiem, una funzione funebre per un'Europa che, senza saperlo, è morta e che per rinascere deve trovare la forza di presenziare al proprio funerale (celebrato tra l'altro da una inintellegibile orda di cinesi), di prendere atto della propria natura cadaverica, ed è la storia di un uomo e delle sue fobie ed ossessioni, il viaggio di un intellettuale, di uno scrittore apolide in terra straniera (è un ossimoro, ma leggendo il libro si può capire che al contempo non lo è), è un reportage su Documenta, l'importante kermesse quinquennale d'arte d'avanguardia che si tiene a Kassel, in Germania, nell'alta Assia, ma è anche un esperimento, un libro di letteratura che ha come oggetto l'arte d'avanguardia stessa e come soggetto (e punto di vista, e io narrante) uno scrittore, anch'esso d'avanguardia. E' un respiro fondo, vivo e sconcertato dell'autore di fronte ad un Mondo Nuovo, a volte sfiorato ma mai, realmente, vissuto. Soprattutto, credo, si tratta di un libro sulle domande che nascono quando la logica si trova di fronte ad incarnazioni di un'altra logica (o di altre logiche): cos'è l'arte, cos'è la vita, in che rapporto stanno, e via discorrendo. Ma, seppur a volte i contorcimenti cervellotici di Vila-Matas sforino nella ridondanza, le domande di cui sopra, per quanto trite e ritrite, se non addirittura ataviche, in questo libro suonano più lievi, meno banali, forse perchè non ricevono una risposta, La Risposta, e neppure un silenzio sconosolato: le risposte che il libro fornisce sono molte, forse pure troppe, e si sussegguono a seconda dell'opera che l'autore si trova di fronte (o attorno, diciamo "dell'opera che l'autore si trova a vivere") e a seconda del suo umore, lieve e gioioso la mattina e cupo e pessimista la sera. Esiste una speranza o, come l'Europa, l'arte è semplicemente morta? Cos'è l'avanguardia se non follia, e la follia cos'è se non vita, e la vita, quella del protagonista almeno, cos'è se non un continuo pencolare tra la crisi e la rinascita, tra la paura e la gioia, tra l'oscurità della notte e la luce del giorno?

La possibilità che mi annoiassi, pensai, non doveva assolutamente preoccuparmi visto che se volevo tenermi ben occupato per tutta la notte era sufficente che mi domandassi, per esempio, a che genere di cose si dedicava Dio prima di creare il mondo. (pag.210)

Quello era stato sicuramente il mio errore più grande del giorno: non essere convinto che il profumo di Eva Braun potesse avere a che fare con l'arte d'avanguardia.  (pag.73)

Vedevo che il mondo mi scivolava tra le mani e mi accorgevo che era sgradevole trattenerlo per più tempo con me, volevo scagliarlo in una qualsiasi discarica spaziale, o forse in un Euro-Sexy-Shop, o in una macelleria della Selva Nera, o in un negozio di tappeti a El Paso, o in una lavanderia di Melbourne. Non sapevo cosa farmene del mondo. (pag. 137)

  Forse tutto il libro è un unico, lungo McGuffin, o forse lo è Documenta, o magari lo stesso Vila-Matas, nel libro, è un McGuffin. L'importante resta comunque il viaggio, l'occhio dell'autore di fronte ad uno spaesamento continuo, perenne (e voluto, cercato, braccato), l'essenziale è la sospensione del testo tra fiction e non-fitction, tra realtà e rivisitazione fantasticata, è l'ironia che lo permea, il mettersi a nudo dell'autore catalano, il condurci in una paese delle meraviglie in cui il Bianconiglio è la quintessenza della normalità e in cui tutto ciò che sembra non è ma necessita di una spiegazione. La rinascita dopo la caduta è la ricerca di questa spiegazione, ma in fondo non si può essere più chiari (cioè non lo si può essere affatto) perchè Kassel non invita alla logica in effetti non invita affatto alla logica. Detto questo, Vila-Matas va comunque letto, anche solo per detestarlo, anche solo per il semplice e banale dato di fatto che lui, anche se non lo fosse, un genio si sforza realmente di esserlo: e in tempi di mediocrità elevata a modus vivendi come quelli che ci troviamo a vivere, questo sì è d'avanguardia. Se poi sia arte o meno, è un altro paio di maniche.



   Enrique Vila-Matas (Barcellona, 1948), considerato uno dei maggiori scrittori spagnoli contemporanei (diversi critici letterari lo hanno indicato come il maggiore scrittore spagnolo vivente) , è tradotto in tutto il mondo e ha ricevuto prestigiosi premi letterari. Appassionato delle opere di James Joyce e del suo Ulisse in particolare, ha contribuito a fondare a Dublino l'Order of Finnegans, al quale partecipa piuttosto di frequente tutti gli anni, di solito in occasione del Bloomsday il 16 giugno. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Bartleby e compagnia (2002), Il mal di Montano (2005), Dottor Pasavento (2008), Storia abbreviata della letteratura portatile (2010) e Un’aria da Dylan (2012).            

   Qui potete trovare la pagina del sito di Vila-Matas in cui c'è il link a questa recensione (e altre ancora)     

domenica 17 maggio 2015

Godetevi la corsa, di Irvine Welsh, Guanda editore

Chi non conosce Welsh alzi la mano, e chi l'ha alzata corra in libreria a porre rimedio. Irivine Welsh è una sorta di miracolo letterario, oltre che un ossimoro vivente: scrive in uno slang tossico-edimburghese al limite del compensibile (i suoi traduttori in tutto il mondo sono figure eroiche, come il nostro Massimo Bocchiola) e con una solidità strutturale di fondo assolutamente incredibile, i suoi personaggi e le sue storie sono deviati, tossici, maniaci, perdenti, ubriaconi, caricature del peggior sottoproletariato violento scozzese, gentaccia che si perde in storie folli, sbilenche e sgangherate, eppure non c'è libro di Welsh che non finisca con l'aprirsi in improvvisi sprazzi di profondità totalmente inattesi. Verrebbe da dire che Welsh è un genio letterario suo malgrado. All'apparenza i suoi libri paiono talmente immediati da sembrare improvvisati, raccontano storie così assurde da risultare, ad un primo impatto, inverosimili, eppure non sono molti gli autori al giorno d'oggi da potersi permettere dei libri tanto riusciti come quelli del bardo scozzese. Realista kitsch? Poeta del sottoproletariato? Omero di un'infinita odissea tossica? Welsh è questo ed altro ancora. Ci ha portati per mano a conoscere il mondo dei tossici scozzesi, le loro vite e i loro sogni insostenibili (o la loro insostenibile mancanza di sogni sostenibili) con il suo stile basso, diretto e comico, urlato e involontariamente malinconico. Alla base di tutte le sue storie ci sono le vite dei personaggi, vite prese alla leggera, esistenze già segnate in partenza o che si incastrano in incubi assurdi poco alla volta, scelta sbagliata dopo scelta sbagliata, incastro dopo incastro. Questo Godetevi la corsa non si distanzia dalla poetica degli altri libri di Welsh, e come in altri casi anche in questo libro appare, anche se in un ruolo di semplice comparsa di fondo, uno degli immor(t)ali protagonisti di Trainspotting, in questo caso SickBoy, divenuto imprenditore di successo nel mondo dei video pornografici di Londra. Il protagonista invece è Terry "Gas" Lawson, nuova entrata nel pantheon welshiano, tassista e attore porno, bellimbusto senza arte nè parte, tutto riccioli e "pacco", spacciatore a tempo perso, sciupafemmine per vocazione e "ripopolatore" di Edimburgo e dintorni (i figli leggittimi e non, non si contano) proprio come il suo odiato padre Henry. Lo seguiamo nella sua discesa da una spensierata e scopereccia quotidianità agli inferi dell'astinenza sessuale coatta (causa un muscolo cardiaco ridotto a brandelli) ed alle conseguenze che questa porta, come un uragano, nella sua e nelle vite di chi gli ruota attorno. L'uragano che si abbatte su Edimburgo all'inizio del libro, affettuosamente (ed esorcisticamente) ribattezzato "Du'palle", non è altro che l'incarnazione reale del trambusto che scuote interiormente il protagonista per tutto il romanzo. Terry salverà una ragazza in procinto di suicidarsi, diventerà amico e "socio" di un miliardario americano della tv, farà da supervisore al vice-pappone di un bordello, cercherà, senza troppa foga a dire il vero, una ragazza scomparsa (Jintina) la sera in cui Du'palle si sfoga sulla città, ragazza che è la compagna di un suo cugino mezzo scemo (cugino per modo di dire, se leggerete il libro, capirete) nonchè prostituta - per necessità ma anche per vocazione - e infine sua amante occasionale (in realtà si tratterà solo di "una botta e via", ma tant'è), aiuterà il miliardario americano a trovare una bottiglia di costosissimo whisky per collezionisti appena comprata e subito rubata, diventerà un ottimo giocatore di golf, cercherà di rimediare ai suoi errori passati redimendosi come buon padre e pessimo figlio, scoperchierà tombe e, addirittura, si taglierà i suoi leggendari riccioli accalappia-femmine, inizierà il suo cugino "mongo" al mondo del porno, e via discorrendo. Entrare oltre nella trama vorrebbe dire svelare anche solo un singolo ganglio dell'intreccio, e sarebbe già troppo. Se il protagonista è indubitabilmente Terry Lawson (e in un certo senso anche il suo "Vecchio Compare"), le voci narranti sono diverse: oltre Terry, c'è Jontino (il cugino cui manca qualche Venerdì), Jintina (la di lui compagna, prostituta e persona scomparsa) Ronnie Checker (il miliardario americano, star dei reality televisivi) e, in un paio di occasioni, addirittura "il Vecchio Compare". Se vogliamo elencare quello che capita in questo romanzo, è più facile ribadire ciò che non succede: non ci sono invasioni aliene e non crollano le Torri Gemelle. Al di là della trama, apparentemente estemporanea (non lo è, al contrario, è ben salda) ma comunque assolutamente secondaria se non in funzione di divertissement, il centro del libro sono Terry e la sua psicologia, comunque piuttosto sorprendente per essere l'emanazione di un tipo sociale (all'apparenza) parente strettissimo dell'australopiteco. Terry si barcamena in un contesto sociale in cui la violenza è il mezzo più comune per rapportarsi col prossimo e, al contrario di quanti gli stanno attorno, lo utilizza soltanto come extrema ratio. Il sesso per lui non è una perversione nè un commercio, ma il momento vitale che dà significato a tutti gli altri. Nel cercare sè stesso, nel tentativo di definirsi come "altro" da suo padre, incorrerà in una serie interminabile di accadimenti deliranti e in una scoperta devastante che lo porterà ad una rivoluzione copernicana nel percepire sè stesso, e il tutto senza l'ausilio della sua droga preferita, il sesso. Alla fine, scoprirà che essere Terry Lawson, alla fine, con tutti i suoi difetti e le sue mancanze, non è la cosa peggiore che gli potesse capitare. Questo Godetevi la corsa, è un libro straordinariamente divertente, lessicalmente devastato e devastante, sicuramente non il capolavoro di Welsh, ma comunque una folle cavalcata nei bassifondi di Edimburgo e dell'anima di Terry Lawson, un personaggio che non sarà facile dimenticare (se non è all'altezza dei leggendari SickBoy, Marc Renton, Spud e Franco Begbie (il generalissimo Franco!) è solo perchè il contesto letterario nel quale Welsh lo immagina non è Trainspotting).

 Irvine Welsh: cresciuto in un quartiere di case popolari, abbandona presto la scuola per intraprendere vari lavori, tra cui lo spazzino (ruolo in cui comparirà in un cameo nel film The Acid House). Nel 1976 si trasferisce a Londra e aderisce alla rivoluzione punk e comincia a sperimentare diverse sostanze stupefacenti. Ormai ex-tossicodipendente, Irvine Welsh comincia a scrivere mentre era ai servizi sociali, dopo aver letto il romanzo Dockerty (1975) di William McIllvaney. Scrive Trainspotting cercando di ricreare l'eccitazione che si prova andando a un rave o in un club house e utilizzando il dialetto scozzese, perché più funky rispetto allo Standard English.
Trainspotting, Ecstasy, Acid house, Il lercio, Tolleranza zero, Colla, Porno, I segreti erotici dei grandi chef, Una testa mozzata, Crime, Tutta colpa dell'acido, Serpenti a sonagli, Skagboys e La vita sessuale delle gemelle siamesi, tutti per Guanda.

domenica 26 aprile 2015

Le scimmie, di Josè Revueltas, Sur editore

Tutto il respiro del racconto è cinto tra le sbarre di una prigione e quelle di una manciata di minuti, pochi, spesi in attesa della Meche, della Chata, della Madre e della droga che quest'ultima nasconde all'interno della sua vecchia ed immonda vagina. Sono Polonio, Albino e il Coglione che si struggono in attesa di quella manciata di polvere bianca che è, per loro, l'unica via di fuga dal carcere e, soprattutto, da sè stessi. Prima Polonio, poi Albino e infine il Coglione infileranno la testa nello spazio stretto e umiliante dello spioncino per controllare, con l'unico occhio che riesce ad averne la visuale, il cortile sottostante, in attesa dell'entrata dei parenti dei detenuti. Poi i parenti entreranno, e con loro le tre donne, e infine succederà quello che succederà. Stop, fine. Tutto qui. Eppure questo Le scimmie è un viaggio in un'altra dimensione, non tanto fisica (il carcere, o cubo, come viene definito nel racconto), quanto spirituale. La descrizione del Coglione è quanto di più straziante e realistico si possa immaginare, e lo stesso vale per la Madre (del medesimo): il loro legame, fatto di ripugnanza, sensi di colpa, inadeguatezze, finanche di tenerezza, e poi ancora rabbia, codardia, rimpianto e sconfitta, è il riassunto della condizione umana secondo la concezione di José Revueltas. Il fatto stesso di aver partorito quell'obbrobrio che risponde al soprannome di "Coglione" richiama immediatamente nell'autore l'immagine di un coito bestiale della madre, consumato con chissà chi, in chissà quali sordide circostanze. Non c'è spazio per l'amore, solo per il brutale desiderio, non c'è speranza e, soprattutto, non c'è redenzione. Siamo nel braccio più patetico dell'intero carcere, quello dei tossicodopendenti, degli sfigati, di esseri totalmente in preda ai propri istinti primari, incapaci di elevarsi dal proprio livello (para)bestiale: Polonio e Albino dividono la cella con il Coglione, uno sciancato, zoppo e orbo, che ogni tot tempo si apre le vene in attesa che le guardie - le scimmie del titolo - corrano a salvarlo. In fondo vorrebbe morire, così come pure sua madre prega che la morte abbia pietà di lui e se lo porti via (da notare, nel testo, che si tratta sempre di supposizioni della voce narrante, vale a dire dello stesso Revueltas, disgustato dall'umanità che descrive ma al contempo incapace di condannarla), ma in fondo legato inconsapevolmente a quella sua ridicola e abietta parvenza di vita, vita da vittima, da reietto, da disgustoso purulento. I tre detenuti e le tre donne che vanno a trovarli (compagne e madri), e le scimmie, che camminano da un lato all'altro del corridoio, che passano la vita all'interno del carcere esattamente come coloro ai quali devono limitare la libertà, carcerati essi stessi, ma per scelta: questa è l'umanità che si muove sul palcoscenico di Revueltas, il cubo, di cui noi per buona parte del racconto non possiamo che scorgere un semplice rettangolo che la testa di Polonio riesce, a fatica, a sbirciare. L'autore non giudica, nè assolve, si limita a descrivere, ma non tanto la realtà che il suo occhio di compagno di sventure (l'autore scrive questo racconto durante la sua ultima detenzione, nel 1968) può registrare, quanto l'universo valoriale che sta dietro a quell'umanità. Se nella narrazione non è presente la condanna è però imperante un senso di consapevolezza che diventa il grimaldello principale per scardinare da una banale cornice realista quello che avrebbe potuto essere un semplice racconto (quasi un articolo di cronaca) ed elevarlo a letteratura universale: quei minuti, quei pochi personaggi, quello spazio ermeticamente chiuso, sono l'esistenza, lo stato del transito umano in questa realtà. Il Particolare (tra l'altro, così... "particolare") che racchiude in sè l'Universale. La consapevolezza dell'autore di avere di fronte agli occhi non solo, e non tanto, una pessima (messa in)scena di una squallida porzione di umanità, bensì il succo stesso dell'essere umano, lo porta ad abbandonare la descrizione realista e a giungere ad un turbine stilistico che non di rado scivola piacevolmente nella filosofia (del suo autore) e nella (anti)psicologia dei suoi personaggi. Loro, le scimmie, Polonio, Albino, il Coglione e le loro donne non si rendono conto di niente, a malapena di sè stessi, ma senza comunque arrivare mai a comprendersi, sono burattini schiavi delle proprie pulsioni: la droga, il sesso, il disgusto, la vendetta, la sopravvivenza. Non c'è altro. A ben vedere non c'è, non dico la speranza, ma neppure il sogno sedativo di una fuga, di un futuro fuori dal carcere. L'unica fuga è la morte, in fondo agognata, per gli altri e, a volte, per sè stessi, ma in fondo scansata (non temuta, scansata, quasi con noncuranza). Oltre le mura del carcere le menti dei protagonisti non riescono più a figurarsi nulla: qualche brandello di ricordo, di passato, ma il futuro è un oceano scuro, privo di dimensioni che non vale neppure la pena di essere preso in considerazione. Di tutto questo, della vita che scorre nelle loro vene, nè tantomeno di concetti più elevati, nei tre non esiste traccia di consapevolezza alcuna. Esistono, senza saperlo. Uccidono (o vorrebbero farlo) senza indagarne il motivo. Scopano senza altro trsporto che non sia un desiderio animale, equivoco, malato. Solo la droga permette loro dei temporanei perimetri di requie ai propri demoni.

Era tutto un non rendersi conto di niente. Della vita. Senza rendersi conto se stavano lì, dentro il cubo, marito e moglie, marito e marito, moglie e figli, padre e padre, figlie e genitori, scimmie atterrite e universali.
  (pag.20)

  La scrittura di Revueltas è un vortice, uno sguardo furioso, disgustato e attonito che, mentre descrive, ragiona, entra nelle psicologie dei personaggi e le trova (spazi, stanze) vuote, povere, maleodoranti, malconce, disperate, è una cavalcata che mescola punti di vista e sensazioni, pensieri, riflessioni, senza mai un attimo di tregua, lunghi periodi che evitano (per un pelo) la prolissità del narrare barocco grazie ad un poeticità che pur nella bassezza del materiale riesce a trovare un punto di equilibrio musicale (avete presente la nona sinfonia di Beethoven che accompagna le gesta dei drughi di Arancia meccanica?). Sono solo 51 pagine, ma di letteratura a tutto tondo.    


  José Revueltas (1914-1976), scrittore, sceneggiatore e attivista politico, è considerato in Messico un autore di culto. Ha scritto più di trenta libri tra romanzi, racconti e saggi politici.Qui potete trovare articoli ed approfondimenti sull'autore, nelle pagine del blog di Sur Edizioni.