"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

martedì 29 aprile 2014

Il vento distante, di José Emilio Pacheco, Sur editore

  Quattordici racconti eleganti che della loro eleganza, in fondo, se ne fottono, che vanno a scavare in certe zone oscure, o fragili, che normalmente non immaginiamo neppure esistano. Questa cosa che fa la letteratura, questo farci scoprire degli anfratti di senso in posti dove noi poveri mortali neppure immaginavamo ci fossero i posti, di questa cosa José Emilio Pacheco (finissimo autore messicano morto nel 2014) è un maestro assoluto. E' un maestro, Pacheco, nel fregarci con l'eleganza apparente del suo stile (stile fintamente classico, eleganza apparentemente classica, stile realmente elegante). Prima di avere il tempo di rendercene conto, mentre ci stiamo ancora domandando di cosa diavolo parli un certo racconto e dove mai vorrà andare a parare,  cominciamo a seguirlo, e solo dopo un po' percepiamo la sua mano salda che stringe la nostra e ci conduce. Ma dove, ci conduce? In quali luoghi, in quali anfratti? E cosa sono questi posti? E gli anfratti? Non lo so, non del tutto, ma ci provo. A volte, sono cambi di prospettiva, slittamenti di senso o punti di vista che si storpiano: Qualcosa nell'oscurità, ad esempio, uno degli ultimi racconti, dove una coppia di latinoamericani (lo deduciamo noi, ma è così) si trasferisce in un quartiere perfetto, silenzioso e asettico e viene presa di mira dalla comunità degli abitanti locali che interpretano ogni loro comportamento come strano, inquietante e, alla fine, inaccettabile. Intollerabile, la diversità diventa intollerabile, e l'attenzione da parte dei nuovi arrivati a non essere invadenti si trasforma automaticamente in una prova dell'accusa. Qualcosa nell'oscurità è un finto racconto di fantasmi (anzi, scendiamo nel sottogenere: casa stregata), un racconto di paura che, giunto all'acme dell'ansia (ansia rispetto ad un pericolo percepito ma non compreso) narrata dalla voce dei nuovi arrivati, scarta improvvisamente in un'analisi fredda e delirante vista dagli occhi degli abitanti locali, organizzati in setta. Da notare che l'incipit è in qualche maniera intuibile che diventi automaticamente anche la chiusura del racconto, come ne L'inquilino del terzo piano, storia con la quale ha molto da condividere, ma al contrario del libro di Roland Topor, qui Pacheco lascia aperto il finale, anzi, non lo abbozza neppure. In Gerico un uomo fa strage di formiche, vede sè stesso come un dio onnipotente e crudele che decide della vita e della morte e delle sofferenze di altri esseri viventi e nel giro di una riga, all'improvviso, diviene lo spettatore impotente della distruzione della propria città, scivolato d'un tratto nel ruolo scomodo e patetico di formica. Pacheco su questo limitare si ferma, non porta i suoi protagonisti a far tesoro delle lezioni che una realtà incomprensibile impone loro, ma lascia le loro reazioni in sospeso: da qui il senso di nostalgia che pervade ogni racconto e (quasi) ogni frase della sua scrittura. Ne Il parco profondo, un bambino, cresciuto con la nonna, deve portare l'odiata gatta dal veterinario per farla sopprimere ma, traviato da un amico, decide di ucciderla nel parco e tenersi i soldi destinati alla parcella del veterinario. Come in questo racconto, spesso gli animali fanno da specchio o da contraltare ai protagonisti umani: vengono uccisi, vengono esibiti ingabbiati per il diletto degli umani, sembrano essere alla mercè dei loro capricci, ma proprio questo loro essere impotenti nelle mani di esseri sadici e/o insensibili, li porta a divenire nel giro di poche o pochissime righe, a volte di qualche parola, il negativo del destino di quegli stessi uomini che li angariano. L'animale è, per Pacheco, l'altra faccia della natura umana, quella migliore, quella innocente ed impotente, quella che la parte oscura dell'animo umano sacrifica sull'altare dei propri desideri malsani (malsani, ma non pensate a nulla di diabolico, il male per Pacheco è qualcosa di quotidiano, umano o paraumano, ha una sua normalità tutt'altro che agghiacciante, quasi rassicurante, sconfina nell'imbecillità). I protagonisti dei vari racconti, indifferentemente, sono docili prede dei loro errori e dei loro difetti, delle loro passioni, vi scivolano dentro con semplicità, con una docilità non priva di beata (e, perdonate la ridondanza, beota) idiozia (un'idiozia che sconfina - o pare sconfinare - nell'innocenza), come capita al protagonista del racconto Vergine delle estati che comincia a raccontare in prima persona di come è finito per divenire uno dei motori di una strage di qualche tempo addietro. Dialoga con qualcuno che fino all'ultimo non sappiamo chi sia e, soprattutto, perchè mai stia ad ascoltarlo. Il protagonista, che dapprima si dipinge come una persona perbene, anche se non uno sprovveduto, racconta della fuga da suoi precedenti delitti, e di come sia finito, bugia dopo bugia, manipolazione dopo manipolazione (subìte e imposte, in maniera liquida, come se fosse naturale prassi del vivere umano) a divenire il sacerdote di un culto campestre parareligioso, e di come infine la truffa si sia conclusa in strage e di come, di nuovo, sia fuggito alle proprie responsabilità.  Alla fine intuiamo (come nel caso di Qualcosa nell'oscurità, Pacheco non lo esplicita, ci lascia il piacere dell'intuizione) che siamo noi il suo interlocutore (più che altro, ascoltatore): siamo noi che ci troviamo di fronte alla narrazione della sua storia, alle amoralità del narratore/protagonista e decidiamo come reagirvi, se infine metterci in affari con lui e porre in atto una nuova truffa religiosa o fuggirgli lontano, allucinati. Sono questi gli anfratti di cui Pacheco è maestro e guida, un mondo apparentemente limpido e cristallino, ordinato, dove la crudeltà, quando non la follia, quando non l'idiozia umana connota la realtà di deliri di volta in volta inquietanti, orribili, crudeli, buffi o insensati (e in certi casi tutti questi aggettivi possono essere usati assieme per descrivere il senso di un singolo racconto, nei casi migliori). Pacheco è autore soprattutto di racconti che, se sono tutti di questa levatura (e l'impressione è che lo siano, non è facile immaginare Pacheco scrivere male: non so spiegare meglio la sensazione ma se lo avete letto capite cosa intendo), è bene che la sua opera venga tradotta quanto prima.


   José Emilio Pacheco (1939-2014) è stato un poeta, saggista e narratore messicano tra i più noti e amati. Ha pubblicato circa trenta libri di poesia, e selezionatissime opere di narrativa, che gli hanno valso i maggiori riconoscimenti letterari, fra cui il premio Cervantes nel 2009.
  In Italia è uscito Le battaglie nel deserto, presso La Nuova Frontiera editore, La poesia nella speranza, presso Bulzoni

mercoledì 26 marzo 2014

Hawthorn & Child, di Keith Ridgway, Castelvecchi editore

  Hawthorn e Child sono due agenti in servizio a Londra, uno è gay, l'altro no, uno è nero (se ho capito bene, ma non ci giurerei), l'altro no. Quello gay dev'essere il nero (sempre che uno dei due sia nero), l'altro ha una faccia da bambinone. Hawthorn è nero e omosessuale e cucina delle ottime uova e pane tostato per colazione, Child (nomen omen) è quello con la faccia da bambino. Giusto per fare un po' di chiarezza e sgombrare il campo da dubbi. Lavorano in coppia, a Londra, hanno delle vite più o meno private, più o meno insignificanti. Nel loro lavoro ne vedono di tutti i colori, nelle loro vite si lamentano che non capita mai niente, ma non è che proprio se ne lamentino, più che altro ne prendono atto. Quasi ne sono stupiti, nella stessa misura in cui non riescono più a stupirsi della realtà violenta ed assurda che li circonda. A volerla dire tutta, pur essendo la violenza una costante delle situazioni sulle quali si trovano ad indagare, è il senso dell'assurdo insito in quelle stesse situazioni (e che da esse straborda, o esonda, vedete voi) che salta più agli occhi del lettore. E qui sta la chiave della magia ipnotica di questo libro: i gialli o i thriller o i noir convenzionali cui siamo abituati strabordano (o esondano, vedete voi) di violenza, spesso gratuita, quasi sempre mostrata con il compiacimento di un anatomopatologo un po' folle, ma la coerenza interna è la regola principe perchè il meccanismo della narrazione funzioni. Ordine-delitto (e quindi caos)-indagine-ordine ristabilito (cioè soluzione del delitto). Se qualcuno viene ammazzato, poco alla volta scopriamo chi è stato ad uccidere la vittima, in che modo, quando e, soprattutto, perchè. Per quanto le modalità e le motivazioni possano essere poco chiare o magari addirittura deliranti, la logica interna deve spiccare. E' la logica interna che fornisce la verosimiglianza e la solidità a tutta la baracca (leggi:struttura narrativa). In questo libro di Ridgway, la logica interna va bellamente a farsi fottere o, per essere più precisi, non c'è. La narrazione comincia con un colpo di pistola sparato su un passante da un macchina, probabilmente una macchina vecchia, o forse verde, ma più probabilmente vecchia, con dei predellini. Hawtohorn e Child indagano. Ascoltano i testimoni, interrogano la vittima, ripercorrono la strada dov'è stato esploso lo sparo, visionano filmati di videocamere. Ma poi tutto cambia, li ritroviamo alle costole di un malavitoso mingherlino (tale Mishazzo) che pare invischiato in una compravendita di macchine rubate e in una miriade di altre attività illecite, seguiamo le farneticazioni di un tizio che si crede Gesù ed è l'inquilino dello stabile di proprietà del mafioso, viviamo un parallelismo inquietante tra un'orgia gay in una sauna e gli scontri tra polizia e manifestanti durante una manifestazione di piazza. Un uomo scompare dal posto di lavoro e quando torna non è più lo stesso, con in mano un dattiloscritto su una presunta società segreta di lupi che si spartirebbe il controllo su Londra in accordo con pochi uomini al corrente della realtà delle cose, un racconto che potrebbe (o forse no) interessare una casa editrice e che probabilmente non è altro che un'allegoria (o forse no) di una società segreta dedita alla malavita che avrebbe le mani sulla città (forse la stessa società cui è a capo il malavitoso Mishazzo?). Un arbitro internazionale che vede fantasmi anche sui campi di calcio e che non ha mai lasciato trapelare nulla pubblicamente circa la propria omosessualità. Una ragazzina sveglia che si inizia alla vita, all'arte ed al sesso, e una donna che era stata una ragazza intelligentissima, poi bruciatasi con la droga, ripulitasi e che, ora, si suicida secondo modalità sconvolgenti che, forse, contengono al loro interno un messaggio cifrato (ma quale messaggio e rivolto a chi?). Ve lo anticipo, sempre per quella faccenda dello sgombrare il campo da malintesi e false attese: non scopriremo mai chi ha sparato dalla macchina in corsa, forse vecchia o forse verde, non sapremo mai se Mishazzo verrà fermato o proseguirà imperterrito nei suoi loschi traffici, non scopriremo nulla se non delle interconnessioni (sinapsi narrative) su casi apparentemente slegati, punti di contatto tra personaggi, casi, vite private, ma niente di più. E questi benedetti punti di contatto li troveremo (o crederemo di trovarli) perchè il cervello umano non può accettare l'idea del caos fine a sè stesso. Se s'imbatte in una serie di puntini su un foglio deve per forza trovare il modo di unirli e, una volta uniti, cercare di vedervi uno schema, o un'immagine che risalti, qualcosa che dia senso al caos di quei puntini sparsi in giro casualmente. Piaccia o non piaccia, è così che funziona. Ridgway, così come David Lynch nel cinema (è incredibile quanta influenza abbia l'opera di Lynch sulla moderna letteratura), ci offre un viaggio onirico (forse onirico proprio in quanto direttamente realistico o, per dirla diversamente, anatomopatologicamente realistico) tra i pezzi di un puzzle, senza mai neppure provare a metterli in ordine, ben sapendo che sarà la brama naturale del lettore a cercare a tutti i costi un incastro, per quanto forzoso ed azzardato possa infine risultare. Ovviamente parte del gioco sta nel fatto di non specificare se le tessere appartengano o meno tutte quante allo stesso puzzle, se sono cioè destinate fin dall'inizio a comporre un unico disegno oppure no. Ma questo è secondario quando il risultato è un viaggio straniante in segmenti di realtà sottile che normalmente (proprio perchè siamo sempre legati alla normale logica causa-effetto) ci è preclusa. Un viaggio in questo caso, nel caso di questo Hawthorn & Child, molto ben scritto da Ridgway che è un maestro nel prenderci per mano e condurci a fare quei quattro passi nel mistero di cui a volte abbiamo un così disperato bisogno (sia noi che Hawthorn e Child):
 
<< A noi non succede mai niente, Child. >>
<< No. Mai niente.>>
pag.246


 

Keith Ridgway è nato a Dublino nel 1965. È autore dei romanzi The Long Falling, The Parts e Animals, della raccolta di racconti Standard Time e della novella Horses. I suoi libri hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Prix Femina Étranger in Francia e il Rooney Prize for Irish Literature. Un capitolo di Hawthorn & Child è apparso nel 2011 sul «New Yorker». Dopo aver vissuto per undici anni a Londra, ora risiede nuovamente in Irlanda.
 

martedì 11 marzo 2014

Il nono cerchio, di Ignacio Padilla, Giunti editore

  L'Himalaya, e una grotta che non è solo una grotta ma un abisso. Un abisso che è, o potrebbe essere, l'inferno in terra, in senso letterale, con tanto di gironi (i cerchi appunto) e lo Stige; con Satana e le sue ali come vele nere, enormi, tese, ad attendere, sul fondo (forse il centro stesso della terra), i malaugurati idioti che si scegliessero la sventura di addentrarcisi (inabissarcisi). Ma non è popriamente di questo che parla il libro, anche ma non solo. Racconta delle spedizioni che si sono succedute, una dopo l'altra, sventura dopo sventura, tragedia dopo tragedia, gettandosi alla cieca nella ricerca, assurda, del fondo da raggiungere. Letteralmente, toccare il fondo. La brama, la sete di conoscenza, la volontà sorda di sapere ad ogni costo, per forza, per il piacere di conoscere, per la fama che ne consegue, per il potere che dalla fama direttamente discende. La sete di conoscenza dell'uomo - del singolo - e il folle desiderio di potere dello stato: da queste due diverse e complementari volontà nascono le spedizioni dirette alla Grotta del Toscano (così chiamata in quanto la Grotta dovrebbe essere l'inferno, il Toscano è Dante, il cantore del naturale alloggio di Satana). Tutto comincia in un presente in cui una spedizione di documentaristi decide di utilizzare alcuni giorni inoperosi per intervistare degli sherpa himalayani. Registrano otto ore di filmato con Pasang Nuru, leggendario sherpa ormai vecchio che racconta, dal principio, la storia delle spedizioni alla Grotta del Toscano, spedizioni alle quali lui, scettico e distaccato (di uno scetticismo tutto orientale, che sà di saggezza suo malgrado), ha partecipato e per le quali diviene presto un elemento indispensabile. Scende nell'abisso una prima spedizione ruritana, ed è un disastro, un frate cattolico, e non fa ritorno, una spedizione italiana di fascisti in cerca di gloria per il regime, poi un folle solitario dedito al travestitismo ed in infine la spedizione, apparentemente vittoriosa (l'unica), di cinesi, che torna in patria con in dono l'onore imperituro da deporre ai piedi di Mao (il popolo è il corpo, Mao la testa). Ma ogni spedizione porta in sè il suo mistero, le sue morti non spiegate e date in pasto al mondo come prova dell'eroismo delle proprie genti, le vite inghiottite dall'abisso, le macchine fotografiche trovate dalle spedizioni successive, una scarpa da donna abbandonata sul declivio per l'inferno, un cadavere intravisto in un punto in cui non dovrebbe trovarsi, una grotta che, man mano che s'inabissa, sprofonda nel gelo, un fondo di ghiaccio che pare sciogliersi nel tempo. E poi, una falsa Timbuctù in nord Africa, un rullino per il quale è lecito uccidere, cinesi in fuga dal regime, nani (assassini) e un gigante (assassino), scalatori leggendari, best seller che mentono sui fatti e libri di memorie neppure pubblicati, arti portati via dalla cancrena, e sherpa sventrati. E ancora: Reali Società di Esploratori e confraternite leggendarie (la confraternita di Zenda), stati inesistenti (il regno di Ruritania), opossum che si illuminano al buio, avventurieri che diventano leggende vendendo al mondo le loro menzogne, ed eroici avventurieri morti negli anfratti di quelle stesse menzogne. Il titolo originale del libro di Padilla, uscito nel 2006 in Messico (!), è La gruta del Toscano, ed è un fantastico omaggio alla letteratura fantastica, da Kipling a Conrad ai resoconti delle spedizioni di avventurieri e scopritori come Shackleton e Mallory, scritto magnificamente e magistralmente strutturato come una spy story nella quale, come in ogni spy story che si rispetti, nulla è come sembra, dove ogni certezza viene sapientemente costruita dall'autore con l'unico fine di smontarla pezzo per pezzo nei capitoli successivi. Il lettore viene lasciato a godersi un mondo che non c'è più, quello di inizio secolo scorso, quando le grandi esplorazioni erano ancora possibili, con pochi mezzi, molta fantasia e ancor più coraggio - quando non vera e propria avventatezza -, un mondo nel quale aveva ancora senso porsi il dilemma se davvero potesse esistere un inferno direttamente qui, sul piano della realtà, in Terra, lo stesso mondo d'altronde, in cui esimi studiosi sostenevano (e politici di regime davano loro follemente retta) la natura cava della terra, l'esistenza del Sacro Graal e di terre fantastiche come Shamballa, nonchè la presenza di Superiori Sconosciuti che da qualche immensa caverna sotterranea non meglio situata si divertivano a comandare il mondo intero e ad indirizzarlo verso un certo futuro piuttosto che un altro. Al contrario di quanto si è portati a credere leggendo la quarta di copertina, non esiste un protagonista vero e proprio, perchè non lo è Pasang Nuru, lo sherpa, e tantomento lo è il narratore, nè i protagonisti delle varie spedizioni e neppure il rullino misterioso. Forse, e sottolineo forse, protagonista di questa storia è la storia stessa, quel mondo vissuto da ossessioni ai limiti della follia, la brama assoluta di ricerca, la volontà cieca di sapere o, forse, protagonista è il mistero che fa nascere la voglia insopprimibile di conoscere.

  Una nota: non lasciatevi fuoriviare dal titolo e dai caratteri del titolo e dalla copertina (insomma dalla veste commerciale del libro) che vogliono a tutti i costi proporvi il libro quale prodotto new age o para-new age (come contrubuisce a fare la stessa impostazione della quarta di copertina che vuole vedere nello sherpa il protagonista, e narratore, orientale e saggio): nulla di tutto questo, per fortuna, Ignacio Padilla è un ottimo autore, capace di una scrittura chiara e complessa al contempo, che nulla ha a che vedere con profezie celestiniane varie. Se lo trovate, ve lo consiglio caldamente.

 
  Nato nel 1968 a Città del Messico, Ignacio Padilla si è laureato in Scienze della Comunicazione all’Università Iberoamericana, in Letteratura inglese a Edimburgo e in Letteratura spagnola a Salamanca. Ha trascorso due anni nello Swaziland, dove è stato condannato a morte con l’accusa di essere un terrorista: un’avventura che lo scrittore ha raccontato in Crónicas africanas.
Dal 2001 al 2003 è stato addetto culturale a Londra presso l’Ambasciata messicana. Nel 1996 ha firmato con Jorge Volpi e Eloy Urroz il celebre “manifesto del crack” per un rinnovamento della letteratura messicana.
È autore di saggi, di tre raccolte di racconti, di libri per bambini e di sette romanzi, uno dei quali, Amphitryon, è stato pubblicato in Italia da Fanucci nel 2000. I suoi libri sono stati tradotti in otto lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, come il Premio Nacional Juan Rulfo para Primera Novela (1994) e il Premio Primavera de Novela (2000).
In italiano sono usciti anche: Ombre senza nome (Fanucci, 2005) e L'ombra dell'eroe (Giunti, 2007)
 

sabato 22 febbraio 2014

Il viaggio del Naga, di Tew Bunnag, Metropoli d'Asia

  Il Naga è un'entità presente già presso i culti animisti pre-buddisti ed è raffigurato come un serpente a sette o a nove teste, rappresenta le forze oscure dell'universo, ma non solo: è un elemento dell'acqua che ne definisce la forza nutriente e, al contempo, quella distruttrice. In un certo senso è il protagonista di questo libro, che dà il via all'intrecciarsi degli eventi (apparendo in sogno) e li conclude sommergendo tutto e tutti e dispensando morte, distruzione e tragedia, ma nel libro, così come nelle credenze, è una presenza carsica che scorre invisibile sotto lo strato ordinato della narrazione e solo ogni tanto lascia emergere il capo (o i capi, sette o nove che siano) inquietante. Allora, Don è un monaco che, in seguito ad un sogno sinistro avente per protagonista appunto il Naga, lascia i voti e torna nella metropoli dalla quale era fuggito anni prima dopo aver ucciso accidentalmente un bambino. Marisa è una star, l'attrice dalla bellezza divina che tutto il paese conosce e idolatra, la bellezza pura in cui ogni ragazza thalinadese si rispecchia, e si trova ad una svolta della sua carriera: prima di scivolare in ruoli di secondo piano e sempre più marginali decide di reinventarsi produttrice. Arun è un pittore, un artista tormentato che rifugge il mondo nella stessa misura in cui non riesce a comprenderlo. Questi tre personaggi sono, senza saperlo, comunque non fino in fondo e certamente non tutti (l'unico che lo sospetta è Don, grazie al suo sogno), sono, dicevo, in balìa delle forze del Naga. Neppure noi lettori ce ne rendiamo conto e, se anche arriviamo a sospettarlo, comunque ce ne dimentichiamo presto grazie alla maestria ed alla misura con cui Bunnag segue e centellina le storie dei tre personaggi e l'intreccio che, poco alla volta, viene intricandosi. I tre s'incontrano al funerale di un sinistro e ambiguo personaggio pubblico, Pi O, il re dell'industria del divertimento (leggi:sesso), che in modi differenti ha toccato ognuna delle loro vite. L'opinione pubblica è divisa tra chi lo ritiene un uomo di successo e un buon datore di lavoro per i suoi dipendenti e chi lo vede come un semplice lenone senza scrupoli che sfrutta i corpi di chi lavora per lui per arricchirsi. I tre diventeranno amici, uniti da un terzo personaggio che evito di menzionare per non svelare troppo della trama, e si troveranno a fare i conti con il proprio passato e i propri demoni, aiutandosi l'un l'altro, fino a quando il Naga non deciderà di riemergere del tutto, mettendo a soqquadro l'intera Bangkok, e dando così un nuovo ordine alla realtà ed alle loro vite. Per quanto possa apparire scontato, il pregio principale della scrittura di Bunnag è la misura (in fondo è quanto ci si aspetta da uno scrittore orientale, almeno secondo i nostri pregiudizi, in questo caso positivi), il ritmo apparentemente piano secondo il quale fa muovere i personaggi, svela poco alla volta le loro storie senza peraltro mai scivolare nella tensione tipica dei thriller, ma senza neppure permettere che l'attenzione del lettore possa patire delle cadute. I personaggi sono ben delineati, apparentemente senza sforzo, nelle vicende e nelle psicologie che li caratterizzano, e Bangkok, la grande metropoli poggiata su paludi ancestrali che non aspettano altro che tornare ad imporre la loro presenza selvatica sulla modernità, svolge un ruolo anch'essa di coprotagonista, fungendo di volta in volta da specchio per gli stati d'animo di Don, Marisa e Arun, alternando sprazzi di lusso e modernità ad abissi di sfavillante povertà che, come le paludi, pare essere sempre sul punto di prendere il sopravvento e cannibalizzare ogni cosa in un'orgia di fame e malattia. I miasmi. L'inedia. L'ingiustizia sociale. Il kharma che tutto avvolge, come una nebbia collosa, e tutto giustifica, nella sua logica inoppugnabile ma distorta. Bangkok è tutto questo, e altro ancora, è l'industria del sesso che si è incarnata nello spirito stesso della città, che è divenuta qualcosa di molto simile ad una filosofia di vita, ammorsata saldamente al kharma, alla quale le persone si aggrappano come ad un'ancora di salvezza. Ogni abitante cerca a suo modo di strapparsi via dal fango delle paludi, per poi finire con l'accettare con inclinazione tutta orientale (altro pregiudizio) il volere del fato, o del Naga, o semplicemente del kharma. La città è un continuo tendersi di braccia per trovare un appiglio, per tirarsi via, per vincere la fame, e nel contempo un'apparente immobilità dove l'atavico si muove a braccetto con l'ipermoderno. Bangkok è il pozzo nel quale ci si tuffa (per sopravvivere, per perdersi, per dimenticare e farsi dimenticare) e dal quale si tenta di fuggire in cerca delle uniche cose che la città non può dare: pace, e ordine. Il libro è davvero ben riuscito, e la bravura di Bunnag sta nel miscelare i vari dosaggi narrativi senza che il lettore abbia modo di rendersi conto della maestria che serve per ottenere un simile esempio di equilibrio. Non immaginatevi una tipica storia come i nostri pregiudizi (di nuovo) di farang potrebbero farci sospettare, tutta pause, tempi immobili e saggezza millenaria: qui i monaci hanno dubbi, un passato tragico e un futuro ignoto, gli artisti non seguono un ideale classico di bellezza da imitare il più possibile alla perfezione, ma si lasciano rodere dalle loro inquietudini e dalle imperfezioni, struggendosi perchè la propria arte sia capace di riportarle al pubblico, per poi mettere in dubbio che la loro stessa arte sia davvero importante, e le attrici hanno un'anima da salvare, un passato da nascondere o da mostrare, a seconda dei momenti, e un futuro incerto.

  Spero che la casa editrice, Metropoli d'Asia, prosegua nel tradurre l'opera di Tew Bunnag, un autore che vale sicuramente la pena di seguire. A questo proposito vi consiglio di andare qui a leggere un interessante articolo di Tommaso Pincio su Bunnag.


Tew Bunnag: Personaggio poliedrico e cosmopolita, Tew Bunnag è nato a Bangkok nel 1947 da una nobile famiglia thailandese. Autore di saggi sul Tai Chi Chuan e di racconti, con Il viaggio del Naga firma il suo primo romanzo, già tradotto in Spagna e pubblicato negli Stati Uniti.

martedì 18 febbraio 2014

Le attenuanti sentimentali, di Antonio Pascale, Einaudi editore

Pagina 4: << ... non dico che devi inventare chissà che, ma concedi almeno al lettore un piccolo appiglio narrativo, ..., cioè o sei un autore con i coglioni, davanti al quale uno alza le mani e dice: fai di me quello che vuoi, oppure non ci rompere le palle e scrivi una trama.. >>
Pagina 12: << Poi un giorno incontro una mia amica francese,Veronique, che mi dice: - Fai otoficsiòn - Autofiction -... In Francia è un genere conclamato. Non c'è nulla di strano... ora tutto è pubblico. Chi ti accusa di essere ombelicale lo fa, in genere da un blog, nel quale racconta la sua giornata. Il gioco è proprio questo, dare intensità a fatti minimi... >>. Ammettiamolo, non si può dire che Pascale non ami giocare a carte scoperte, questo gli va riconosciuto. Nel senso: una trama, manco a parlarne - solo la scusa di un documentario sui sentimenti che gli salta in testa, e attorno a cui gira quella fragilissima non-costruzione che l'autore mette in piedi - e con questo il lettore s'è bell'e che scordato il suo sacrosanto appiglio narrativo di cui sopra; "essere un autore coi coglioni che ti prende e ti porta ad arrenderti", onestamente, neppure, quantomeno non in questo libro. E allora ecco che arriva l'otoficsiòn a far quadrare il cerchio. Dare intensità ai fatti minimi, parlare di sè, guardarsi l'ombelico ma, per non risultare eccessivi, prendere un minimo di distanza da sè stessi attraverso un uso salvifico dell'ironia. Dunque, Pascale è il protagonista del racconto, Pascale che sono sei anni che non gli riesce di scrivere un libro e così si lascia vivere, analizzando questo suo lasciarsi vivere, che poi è vita a sua volta, la sua vita - sua di lui Pascale personaggio e probabilmente sua di lui Pascale scrittore (almeno così siamo portati a credere) - e che immagina di vincere l'empasse del blocco dello scrittore con questa benedetta storia del documentario sui sentimenti. Ma noi, da pagina 12, sappiamo già che ci troviamo in piena otoficsiòn, e quindi siamo pienamente coscienti di che gioco (ci) sta giocando: vale a dire, metanarrativa pura e semplice. Spiegato questo, bisogna ammettere che non è affatto male questo Le attenuanti sentimentali: un po' Woody Allen (le nevrosi), un po' Paolo Nori (certi modi di dire colloquiali, l'uso dell'ironia, pur se di stampo diverso: Nori, ironia emiliana, Pascale romanesco-partenopea), in certi casi quasi un po' Vonnegut o Galiazzo (nelle tirate di stampo scientifico: il solare, i cibi biologici, i termovalorizzatori, ecc.). Tutti i miei "un po'" sono da intendersi come complimenti, anche se personalmente continuo a preferire Woody Allen, o Nori, o Vonnegut o Galiazzo. Quindi, dicevamo, siamo dalle parti della metanarrativa e dell'autofiction e, giocoforza, non possiamo che trovarci di fronte ad un racconto ombelicale (appunto, come anticipato da Pascale stesso, a mettere le mani avanti), autoreferenziale, biografico, documentaristico e, forse, mocumentaristico. Può piacere o non piacere, ma comunque è dichiarato subito, chiaro e tondo. E spiega anche perchè non può far altrimenti, perchè non ha più senso scrivere libri in tre atti, con una trama, dei personaggi inventati e via discorrendo, ma questo lo lascio dire a Pascale, nel libro, che sa argomentarlo meglio di me. Detto questo, possiamo riassumere dicendo che è un libro che parla di un uomo sposato, con due figli, un intellettuale, insonne, nevrotico, forse in crisi con sè stesso o forse con la società ma sicuramente (almeno in parte, e a mio parere in larga parte) compiaciuto di questa sua crisi, che gira per Roma, incontra gente, di solito intellettuali o qualcosa di molto simile o, per dirla alla Oscar Wilde, gente che si atteggia come se lo fosse (il libro, la vita che viene narrata, è molto radical chic, tipico di quella sinistra un filo snob che è sempre convinta di essere dalla parte giusta delle cose e Pascale, essendone cosciente, a volte ne prende le distanze, con ironia e apprezzabile senso autocritico), parla con loro, gli amici intellettuali, coi figli, a volte, abbastanza di rado, con la moglie Daniela, e cerca distrattamente e anche abbastanza svogliatamente di mettere insieme il materiale per il famoso documentario, sui sentimenti appunto, come già si è detto, e oltre il materiale, che forse nella sua testa abbonda, ricerca un metodo per metterlo in ordine, dargli delle priorità e degli incasellamenti ben precisi (intento che, si capisce fin dall'inizio, rimane sulla carta, del libro, e nella testa, del protagonista). Pascale (personaggio) è un flaneur che seguiamo nelle sue elucubrazioni cervellotiche, nelle sue notti insonni, nei suoi tentativi di spiegare agli altri e a sè stesso ciò che gli passa per la testa, e che lì, nella sua testa, finisce per dare una struttura al mondo, una struttura che però, forse, alla fin fine, non riesce a convincerlo fino in fondo. Forse non convince fino in fondo neppure noi, ma non credo sia questo il punto, convincere, quanto piuttosto porsi le domande, lasciare da parte (quantomeno provarci) l'ossessione della felicità e mettere in primo piano il pensiero, l'intelligenza, l'analisi. In tutto questo, con una scrittura piacevolmente affabulatoria, Pascale riesce nell'intento (sempre che lo abbia avuto, ma penso di sì) di procedere lieve, magari un po' troppo ombelicale, vero (tra l'altro, giusto per concludere il cerchio metanarrativo di cui sopra, notate l'ironia: lo dice uno che scrive queste cose su un blog, come predetto a pagina 12 del libro), ma per fortuna senza mai prendersi troppo sul serio, e comunque mai fino in fondo. Come avrete capito è un libro etereo, forse addirittura nebuloso se capite cosa intendo, basato su fondamenta fragili, quasi inesistenti, è una passeggiata in compagnia di un amico un tantino logorroico (e nevrotico, e fissato) che racconta, e racconta, e racconta, e a volte fa un po' un mescolone, mette insieme fatti e ragionamenti, e sprazzi di sincerità assoluta (o è solo presunta e in realtà si tratta di fiction?...), e ci porta in giro, ci racconta dei suoi amici, della sua famiglia, del suo essere padre, della figlia che dice troppe parolacce, del figlio che pare vivere solo ed esclusivamente per la maggica Roma e, a volte, ci scodella delle riflessioni che ci lasciano lì, perplessi, perchè sono questioni sulle quali avevamo ragionato anche noi, ma che pensate da noi non sembravano avere lo stesso peso, nè la stessa profondità. E se a volte i dialoghi e le riflessioni sui sentimenti (al contrario delle parti sul biologico e sull'agroalimentare che ho trovato notevoli) scadono un po' nel banaluccio (d'altronde, cosa si può dire sui sentimenti che non sia già stato detto? Il sentimento è, per sua natura, oscenamente banale) nelle ultime pagine si aprono degli scorci di riflessioni più profonde che sfiorano il filosofico quando non il poetico.
E' il primo libro che leggo di Pascale, non credo sarà l'ultimo.
E concludo con una riflessione personale: l'autore ripete più volte quanto spesso gli venga riconosciuta la capacità di indovinare degli splendidi titoli per i suoi libri. Sarà che io ho gusti strani, ma a me i suoi titoli (La città distratta, La manutenzione degli affetti, Passa la bellezza (bleah!)) non piacciono per nulla, neppure questo, troppo stucchevoli, versioni elevate di Và dove ti porta il cuore. Se mi fossi fermato al titolo avrei immaginato un libro completamente diverso e non lo avrei mai comprato. Le attenuanti sentimentali: mi sarei aspettato uno di quei romanzi su coppie trenta-quarantenni, benestanti, in crisi: tradimenti, ripensamenti, grandi pippe sul significato dell'amore, dei sentimenti, del sesso, del matrimonio, della famiglia, del libero amore e cose così. Poteva anche esserlo, ma per fortuna è solo otoficsiòn, dà risalto ai fatti minimi, ci porta in giro per Roma, con sè, nella sua vita, punto.

  Segnalo, è molto interessante sentire lo stesso Pascale che spiega questo libro dialogando con la sua editor, Angela Rastelli, anticipandolo a Anteprime 2013 a Pietrasanta. Lo potete trovare qui.

Antonio Pascale, nato a Napoli nel 1966, ha pubblicato La città distratta (Edizioni l'Ancora, 1999 ed Einaudi, 2001), ripubblicato, con l'aggiunta di nuovi capitoli, nel 2009 da Einaudi Stile libero con il titolo Ritorno alla città distratta; La manutenzione degli affetti («L'Arcipelago Einaudi», 2003 e, accresciuto di tre racconti, «ET Scrittori», 2006); Passa la bellezza (Einaudi, 2005); Scienza e sentimento (Vele 2008); Tre terzi, con Diego De Silva e Valeria Parrella (Einaudi, 2009); Le attenuanti sentimentali (Einaudi, 2013). È fra gli autori di Scena padre (Einaudi 2013). Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in «Lo Straniero» e «Nuovi Argomenti». Un suo racconto compare nell'antologia Disertori («Stile Libero»). Collabora con «Il Mattino», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera» e «il Post». È stato l'«intellettuale di servizio» delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi.

venerdì 14 febbraio 2014

Condominio r39, di Fabio Deotto, Einaudi editore

Via, cominciamo. " La mattina di venerdì 22 marzo è una mattina qualsiasi, alle 22.47 (ma, è mattina o notte??) da una palazzina della semimperiferia milanese vengono estratte cinque persone in coma e un ragazzo di ventisei anni in stato confusionale.". Messa così, ci si aspetterebbe (quantomeno) una discreta figata. Il classico giallo ambientato in un condominio, che poi non è altro (oltre che essere un vero e proprio sottogenere) che un amplimento del (iper)classico giallo "della stanza chiusa". In quarta di copertina però si fa riferimento a Ballard e a Polansky (chissà poi perchè non a Roland Topor che è l'autore del libro, magnifico, da cui Polansky ha tratto il film L'inquilino del terzo piano) e a questo punto si ha il dubbio (quasi una lieve vertigine) piacevole, di trovarsi di fronte ad uno di quei rari libri che hanno il coraggio di prendere un genere e portarlo a sfondare i propri limiti naturali, sfociando in quel territorio che è proprio degli incubi, dei deliri e delle paranoie. Un condominio, una costruzione salda, imponente, un fuori, una facciata, e un dentro, scuro e labirintico. Vite serrate in cubi di cemento che confinano senza mai sfiorarsi se non superficialmente, calma apparente sotto la quale cova altro, qualcosa di malato, di folle, sinistro. La notte, sogni che s'incrociano, intrappolati tra le mura degli appartmenti, che vagano per i corridoi, che si muovono su e giù per i cavi dell'ascensore. Ripostigli umidi, sottoscala dimenticati e vecchi delitti che aspettano di venire a galla. La follia che serpeggia all'interno delle mura esattamente come alberga nel chiuso di una scatola cranica. Bene, tutto questo, scordatevelo. Se L'inquilino del terzo piano, il capolavoro di Topor, è un meccanismo perfetto racchiuso in sole 159 pagine di prosa allucinata e disturbante, un viaggio kafkiano nell'incubo grigio di un mondo al suo epilogo, e se Il condomino (192 pagine) o Un gioco da bambini (92 pagine), entrambi di Ballard, sono dei bisturi che scorrono nel ventre malato della società moderna, quasi dei saggi sociologici, dove, sotto una patina di normalità e di modernità, affiorano mostri atavici che emergono dal nostro passato bestiale, questo Condominio r39 è un guazzabuglio di ben 442 pagine (che paiono non finire mai), ridondante, privo di ritmo, che non sà decidersi se essere un giallo, un mistery, o un thriller ellroyano con tanto di poliziotti brutti, sporchi, cattivi e tossici, un gioco ad incastro alla Black dog (titolo originale, molto più appropriato: Tesseract) di Alex Garland, o una sorta di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, di Gadda. Vuole essere tutto, troppo, senza riuscirvi. La psicologia dei personaggi è unidimensionale, qualcosa di molto simile a quella dei personaggi dei cartoni animati: sono delle figurine ritagliate grossolanamente da mille altri romanzi, film o fumetti: il poliziotto (Pallino??) dalla coscienza sporca, dalla vita famigliare a pezzi, in perenne contrasto con sè stesso, grigio, triste e distaccato dal mondo. La mamma single troppo apprensiva. La ballerina da nightclub dalla vita marginale (anche se è difficile dirlo con certezza, dal momento che Sara è davvero un personaggio solamente appena abbozzato). I giovani tossici e vampiristi, fuori di testa, sballati fino all'inverosimile, sciroccati che più sciroccati non si può. Il vecchio professore, solo, burbero, immerso nelle sue peronali elucubrazioni-ossessioni che, solamente, sa condividere con un bambino il quale, ovviamente, non lo può capire. L ex 'attrice sinistrorsa di talento ormai fuori dal giro, dipinta come pazza dai giornali di gossip e in preda a despressioni e manie persecutorie. L'imprenditore arricchito, volgare, violento, abbronzato, grasso, porcino e sgraziato che crede di poter comprare tutto e tutti con la sola forza del denaro sonante. E via discorrendo. I bambini parlano, si muovono e seguono logiche assolutamente adulte, solo sono più bassi e non guidano la macchina. L'ispettore, come più o meno tutti i personaggi, fa cose assolutamente assurde, vaga nel vuoto e nei suoi mal di stomaco fino a che, finalmente a cena fuori con la moglie in crisi, non ha un'illuminazione, l'unica parvenza di una sua capacità investigativa in cui incappiamo in tutto il libro, e quando finalmente ha più o meno chiaro in testa cosa diavolo è successo in quella casa (perchè alla fine le storie di questo genere, che partono dal finale e si sviluppano in "montaggio alternato", sono sostanzialmente questo: ricostruire cosa diavolo è successo), permette tranquillamente che il cattivo di turno rapisca un bambino innocente sotto i suoi occhi (a dir la verità sarebbe più corretto dire che guarda il rapimento del bambino, che avrebbe potuto sventare senza troppa difficoltà, senza muovere un dito) senza alcuna motivazione logica se non il fatto che lui è fatto così, lascia che le cose avvengano e poi ci piange sopra. I giovani vampiristi più che cattivi sono degli emeriti idioti in preda ad una perenne nebbia di droghe che offusca loro qualsiasi tipo di pensiero anche solo lontamente razionale. I personaggi - tutti i personaggi - all'incirca si equivalgono, sono amorfi - a parte un paio un po' più sinistri degli altri e che paiono in un perenne stato euforico da piccole pesti che si sono spinte un po' troppo oltre - si muovono come fumetti su uno sfondo di cartone, non hanno una propria anima, scimmiottano degli stereotipi e hanno l'unica funzione di far muovere il meccanismo narrativo, meccanismo non eccelso a dir la verità. Nonostante la loro natura di semplici componenti meccaniscinstiche della narrazione, ai personaggi l'autore si incaponisce a voler dare, se non un minimo di profondità psicologica (forse ci prova, non saprei, ma sicuramente non ci riesce) almeno un passato alle spalle, aprendo di tanto in tanto squarci chirurgici sulla loro storia che nel migliore dei casi suonano inutili (e quindi ulteriori dilungamenti) e quando va male sono talmente fuori luogo da risultare assurdi. In questo senso, mi viene da pensare: se la psicologia non è necessaria ad un certo tipo di narrazione, perchè mettercela a tutti i costi? Barry Gifford dimostra brillantemente che si può raccontare una storia lasciando che i protagonisti non siano altro che esseri semplici sospesi ai propri istinti ed ai propri deliri senza bisogno di sondarne le anime (forse, nei libri di Gifford, i personaggi neppure ce l'hanno un'anima). Poi, continuiamo: in certi casi pare che manchi una pura e semplice logica dei fatti (ad esempio come quando i due bambini chiusi in una cella frigorifera cercano delle armi per difendersi dall'ultimo intruso e, invece di armarsi del coltello che sappiamo essere in quella stanza, usano dei salami congelati!) e in altri le scelte stilistiche sono come minimo opinabili come certe frasette poste a fine capitolo che sembrano voler a tutti i costi esplicitare una morale ben chiara o un certo senso poetico del momento appena descritto (i cosiddetti ghirigori). Capita spesso che i personaggi (troppi, a mio giudizio, e non tutti necessari, a volte si tende a confonderli) siano raccontati in certi loro gesti o atteggiamenti che forse potrebbero anche trovare una loro logica ma che non vengono per nulla preparati nella narrazione precedente, lasciando così nel lettore una sensazione di assurda estemporaneità. A pensarci bene, sono tutti difetti che trovano una loro spiegazione se consideriamo che l'autore è alla sua prima prova narrativa, ma che la perdono subito quando soppesiamo l'oggetto Condominio r39 e prendiamo atto che non è il faldone di un dattiloscritto che un giovane scrittore si porta appresso per farlo leggere ad amici e conoscenti ma che è un libro in brossura pubblicato da una major editoriale, gloriosa e conosciuta per essere un marchio di qualità, quale la Einaudi. La domanda che non ci si può esimere dal porsi leggendo il libro é se le case editrici utilizzino ancora gli editor, perchè l'impressione è quella di un dattiloscritto portato in casa editrice, stampato e mandato direttamente in libreria, esponendo così un giovane autore ad ogni tipo di rovescio critico (quale è, me ne rendo conto, il post che state leggendo). In realtà il libro, che potrebbe tranquillamente essere sfrondato di qualche centinaio di pagine guadagnandone in leggibilità e snellezza, verso la fine trova una sua seppur abboracciata ricomposizione, e nelle pagine in cui il professor Eugemini spiega alla figlia la sua visione della meccanica della vita, la spirale evolutiva e quella controevolutiva (questo è il vero centro del romanzo, troppo isolato in un'unico dialogo, ma comunque il vero motivo per cui l'intera storia viene raccontata) finalmente si toccano pagine di qualità (e il nucleo dei concetti espressi avrebbe meritato un diverso spazio e un approfondimento sicuramente più intenso, diluito sapientemente nel corso della narrazione), in cui la Weltanschauung del personaggio sposa (con tutta probabilità) quella dell'autore in una spiegazione logica, motivata e profonda, a prescindere da quanto possa suonare poco piacevole e politically uncorrect.


Fabio Deotto è nato a Vimercate (MB) nel 1982. Laureato in Biotecnologie, scrive articoli, interviste e approfondimenti a sfondo scientifico e musicale per numerose riviste nazionali. Condominio R39 , pubblicato da Einaudi Stile Libero nel 2014, è il suo primo romanzo.

domenica 2 febbraio 2014

Si sente? Tre discorsi su Auschwitz, di Paolo Nori, Marcos y Marcos edizioni

  Chi sia Paolo Nori non c'è bisogno di stare a specificarlo, però credo sia utile enucleare una linea di demarcazione tra la sua opera narrativa e la saggistica che poi, direi, può rientrare tutta, o quasi, sotto il titolo generico di "discorsi", dal momento che buona parte della saggistica pubblicata è la stesura dei suoi discorsi pubblici tenuti in differenti occasioni. Siccome, dicevo, è utile concentrarsi sulla linea che divide un genere dall'altro (i "discorsi" dalle "storie"), qui va sottolineato come questo confine in realtà è un po' come se non esistesse. Nel senso: esiste, ma è mobile, una sorta di muro di gomma nel quale narrativa e saggistica si compenetrano a vicenda (soprattutto i "discorsi" fanno ampio uso e di stile e di brani dei testi tratti dai romanzi), si sostengono a vicenda e finiscono per divenire qualcosa di molto simile gli uni agli altri. Ma non solo. Non è tanto una questione di similitudine quanto piuttosto che, insieme, formano un corpus unico estremamente coeso, dove lo stile sicuramente è il trait d'union, dove gli argomenti che sottendono le "storie" vengono poi sviscerati nei "discorsi" e, nei "discorsi", fanno riferimento più che esplicito alle "storie" (i brani citati di cui sopra). Poi c'è un altro aspetto da prendere in considerazione, oltre l'autoreferenzialità (sia stilistica che tematica) dell'autore: vale a dire l'universo noriano di riferimento: l'Emilia e la Russia, il suo viaggio in Russia, il suo lavoro di traduttore, sua figlia Irma, la mamma di Irma, Francesca, Charms, Chlebnikov, le sue gatte (belle), il suo essere anarchico, suo padre che faceva il muratore ed è morto di tumore, Basilicanova, Parma, Bologna, i modi di dire emiliani (fiondare, ad esempio, al posto di fottere, o trombare, o scopare), la Achmatova e via discorrendo. Spesso, nei suoi "discorsi", che parlino del rapporto tra noi e i governi o di letteratura russa o dell'olocausto, ritroviamo gli stessi esempi, le stesse citazioni, il suo tipico e apparente divagare, svagato e ironico (testardo, come a dire: io sono questo qui, se vi sta bene, sono così, altrimenti potete pure smettere di leggere e fare qualcos'altro di più utile all'umanità), spesso, a ripensarci, una volta letti, a tornarci indietro con la mente si fa fatica a distinguere uno dall'altro. Perchè sono così coesi appunto. I romanzi sono pieni di autobiografismo (anche se rimangono romanzi e non autobiografie, ovviamente), il suo stile è un coacervo di parlato e modi dire e volontarie sgrammaticature (più che altro di-sintassature, se così si può dire), e i suoi discorsi sono colmi dei suoi romanzi che a loro volta rimandano nei concetti e nel "sentito" ai temi dei discorsi. E via discorrendo. Questo per dire che Si sente? è un volumetto pubblicato dalla Marcos y Marcos nel quale si raccolgono tre discorsi di Paolo Nori tenuti a Cracovia durante la manifestazione "Un treno per Auschwitz" (organizzata dalla fondazione Fossoli): Esattamente il contrario, nel 2009, Noi la farem vendetta, nel 2011, Birkenau nel 2013. I tre discorsi sono quanto non ti aspetteresti di sentire in un'occasione come il ricordo della tragedia della Shoah, almeno a prima vista. Lo stile di Nori è quello della divagazione, della ripetizione, del parlato apparentemente distratto e confuso, dei fili che si perdono dentro una parentesi all'interno della quale si apre una seconda parentesi e così via. Data la tragicità dell'argomento può essere un modo criticabile di esrpimersi, ma Nori è così. Se vi va, lo seguite, altrimenti liberi di fare altro. D'altronde, se ci si lascia trasportare dall'affabulazione un po' balbuziente dell'autore, dal suo argomentare come se si fosse tutti attorno ad una tavolata a ragionare in una taverna, se si mollano gli ormeggi e si decide che sì, alla fine dei conti, ci sta bene di seguirlo nei suoi sproloqui, siamo disposti a fidarci, ci rendiamo conto che poi proprio sproloqui non lo sono, affatto, che i suoi discorsi sembrano ripetersi da un libro all'altro ma poi, a tirar le somme, il significato di ognuno è differente dall'altro, ed è un significato profondo che difficilmente si può portare a galla, vien da pensare, in un modo diverso, più lineare e standard rispetto a quello colloquiale, quasi leggero, di Nori. In questo libro i tre discorsi parlano, rispettivamente: di eugenetica, di vendetta, e di bottoni (o di Birkenau, ma secondo la logica noriano è lo stesso, e vedrete che non ha tutti i torti), ma in realtà parlano tutti e tre in egual misura anche se con focus differenti di qualcosa di intangibile, di quegli slittamenti di senso che proviamo nella vita di tutti i giorni e che, a volte, non rendendocene conto, portano a mostruosità quali Auschwitz, o Birkenau. Parlano del perchè le opnioni ripetute da chi ci sta attorno finiscono per diventare nostre, anche se non ce ne rendiamo conto - nostro malgrado potremmo dire -, del perchè dei semplici bottoni possono essere la storia di una famiglia e del perchè vivere in un mondo già bello e costruito sulle opinioni e le battaglie di altri può essere (anzi, è) una disgrazia,  parla di come l'unica vera condanna per il comandante del campo di Auschwitz non potesse essere altro che essere sè stesso. Sè stesso e nient'altro. Essere quella cosa terribile lì, quell'essere osceno che è stato. Ci racconta di come il reiterarsi delle cose inevitabilmente porta con sè lo smarrimento del senso delle cose reiterate: ogni tanto dovremmo ricordarci che siamo vivi. Ogni tanto dovremmo vedere il mondo come dei deficenti, come se lo vedessimo per la prima volta, smontando in un sol colpo tutte quelle strutture (storture, a volte) mentali che distanziano inevitabilmente e definitivamente (tragicamente) il mondo degli adulti da quello dei bambini (che hanno il diritto di piangere, tra l'altro: chi leggerà il libro, capirà). Ogni tanto dovremmo essere fieri del nostro essere deficenti, del nostro pensare per conto nostro, del nostro amare i libri, di quel nostro inconsapevole essere sudditi fieri e felici di quell'impero che è la letteratura, dove sono i nostri autori preferiti a fare le leggi che seguiremo per tutta la vita, o per parte di essa.

  Paolo Nori è nato a Parma nel 1963. Ha pubblicato
  Le cose non sono le cose (Fernandel 1999, DeriveApprodi 2009), Bassotuba non c’è (DeriveApprodi 1999, Einaudi 2000, Feltrinelli 2009 e, in ebook, Sugaman 2013), Spinoza (Einaudi 2000), Diavoli (Einaudi 2001), Grandi ustionati (Einaudi 2001, Marcos y Marcos 2012 e, in audiliobro, Marcos y Marcos 2013), Si chiama Francesca, questo romanzo (Einaudi 2002, Marcos y Marcos 2011), Gli scarti (Feltrinelli 2003), Pancetta (Feltrinelli 2004), Learco. In un’ora, nove romanzi in musica con Learco Ferrari, in un’ora (con Fabio Bonvicini, audiolibro, Luca Sossella 2004), Ente nazionale della cinematografia popolare (Feltrinelli 2005) I quattro cani di Pavlov (Bompiani 2006), Noi la farem vendetta (Feltrinelli 2006), La vergogna delle scarpe nuove (Bompiani 2007), Siam poi gente delicata (Laterza 2007), Mi compro una Gilera (Feltrinelli 2008), Pubblici discorsi (Quodlibet 2008), Baltica 9 (Laterza 2008 – con Daniele Benati), I libri devono essere magri (illustrazioni di Giuliano Della Casa, Tre lune 2008),  Esattamente il contrario (illustrazioni di Fausto Gilberti, Drago Edizioni 2009), I malcontenti (Einaudi 2010), A Bologna le bici erano come i cani (Ediciclo 2010), La matematica è scolpita nel granito (Perda Sonadora 2010 e, in ebook, Sugaman 2010), La meravigliosa utilità del filo a piombo (Marcos y Marcos 2011), Presente (Einaudi 2012, insieme a Andrea Bajani, Michela Murgia e Giorgio Vasta), Tredici favole belle e una brutta (Rizzoli 2012, illustrazioni di Yocci), Garibaldi fu ferito. E noi? (Il Sole 24 ore 2012), La banda del formaggio (Marcos y Marcos 2013), La Svizzera (ilSaggiatore 2013), Mo mama. Da chi vogliamo essere governati (Chiarelettere 2013), Si sente? Tre discorsi su Auschwitz (Marcos y Marcos 2014).
Ha tradotto e curato l’antologia degli scritti di Daniil Charms Disastri (Einaudi 2003, Marcos y Marcos 2011), l’edizione dei classici di Feltrinelli di Un eroe dei nostri tempi di Lermontov, delle Umili prose di Puškin, delle Anime morte di Gogol’, di Padri e figli di Turgenev, di Oblomov, di Gončarov e della Morte di Ivan Il’ič, di Tolstoj, l’antologia di Velimir Chlebnikov 47 poesie facili e una difficile (Quodlibet), l’edizione, per Voland, di Chadži-Murat di Tolstoj e delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e è autore, insieme a Marco Raffaini, di una Storia della Russia e dell’Italia (Fernandel 2003).
Ha curato il numero di Panta Emilia fisica (Bompiani 2006), è stato tra i redattori del settemestrale di letteratura comparata al nulla L’accalappiacani (1-5, DeriveApprodi 2008-2010).
Ha scritto e interpretato la commedia Lunga, la strada, per la regia di Gigi Dall’Aglio (2007), nonché diversi spettacoli fondati sulla lettura (uno dei quali Learco, con Fabio Bonvicini, è diventato un cd audio per Luca Sossella editore, 2003), che sono andati in scena in diversi teatri italiani dal Teatro Argentina di Roma (con I Bogoncelli), al teatro Mercadante di Napoli (Lunga, la strada), al teatro Valli di Reggio Emilia (Quel canchero di Majakovskij, con Umberto Petrin), alle Papesse di Siena (Musica adeguata, con Marco Raffaini), al festival GNAM di Parma (I libri devono essere magri, con Giuliano Della Casa), alla Palazzina liberty di Milano (Noi e i governi, con le mondine di Novi).
Dal 2006 ha tenuto, prima a Reggio Emilia poi a Bologna, i corsi della scuola elementare di scrittura emiliana e della scuola media inferiore di scrittura emiliana e, all’Argentiera (SS), a Rimini, a Genova, a Paullo (MI), a Torino, a Milano, i corsi della scuola elementare di scrittura emiliana all’estero. Eccetera...

domenica 26 gennaio 2014

Bangkok uccide, di John Burdett, Giano Editore

  E' difficile immaginare un luogo che sia al contempo più noir ed esotico di Bangkok, quantomeno nell'immaginario di noi elementari e  banali farang. John Burdett, avvocato inglese che ha esercitato a lungo la professione ad Hong Kong lo sa benissimo, e ha intessuto una storia (la terza, dopo Bangkok 8 e Bangkok tatoo, a cui sono seguiti The godfather of Kathmandu e Vulture peak: in italiano Il picco dell'avvoltoio, per Bollati Boringhieri - tutti incentrati sulla figura del detective Sonchai Jitpleecheep  ) pensata e scritta ad hoc per il pubblico occidentale (o forse per sè stesso che, in fondo, è la stessa cosa): uno snuff movie ( "Pochi crimini ci fanno temere per l'evoluzione della nostra specie. Ne ho sotto gli occhi uno proprio ora") che ritrae una splendida prostitua thailandese fare sesso e venir uccisa all'acme dell'estasi sessuale da un uomo - presumibilmente un farang - con un capuccio nero. Sonchai Jitpleecheep, detective (ma fondamentalmente monaco mancato) mezzo farang, figlio di una ex prostituta thai attualmente tenutaria di un locale-bordello e di un reduce del Vietnam, chiama in aiuto la sua collega dell'Fbi e amica Kimberley Jones, esperta nel campo degli snuff movie e, contro il parere del suo superiore Vikorn (un uomo che ha fatto della corruzione una forma d'arte, con tanto di codice d'onore e regole ferree), si getta in un'indagine che comincia con un video di spettri che fanno "sesso e cose indicibili tra loro" e finisce con una resa dei conti tra spettri (uno) e umani (tanti). La detection si divide tra gli sforzi del monaco-investigatore nel cercare di individuare l'uomo col cappuccio e, soprattutto, i mandanti dell'atroce delitto e la ricostruzione della vita di Damrong, la prostituta che viene uccisa nel video. Damrong aveva lavorato nel locale della madre di  Sonchai Jitpleecheep, ed era stata per breve tempo sua amante, avvolgendolo in un'ossessionante storia fatta di sesso che Sonchai non ha più saputo cancellare dalla memoria; scopriamo che Damrong era stata sposata con un americano, che era passata dai piccoli bordelli cittadini ai video porno fino al principale e lussuoso club-bordello di Bangkok. Tornando indietro nel tempo veniamo messi a conoscenza della sua infanzia terribile, fatta di povertà, abusi e vendita ai circuiti internazionali di schiavitù sessuale minorile. Accompagneremo il protagonista nei luoghi più sordidi della capitale thailandese e in quelli più turistici (sempre che esista una differenza tra le due tipologie), conosceremo Lek, un poliziotto trans in attesa dell'operazione tanto agognata che lo renderà finalmente donna a tutti gli effetti, ci domanderemo quale sia l'identità e il ruolo nella storia di uno strano monaco hi-tech che entra ed esce da un internet cafè, attraverseremo la frontiera cambogiana scoprendo un paese che è, agli occhi degli stessi asiatici, primitivo, oscuro ed esotico, dove bande di vecchi khmer rossi si vendono al miglior offerente pronti a qualsiasi bassezza e, soprattutto, quasi senza accrogercene, scivoleremo poco alla volta nel modo di pensare di una cultura che è agli antipodi di quella occidentale (ma, teniamone conto, pur sempre con gli occhi di un occidentale: peggio, di un inglese), dove la reincarnazione è una realtà talmente banale che risulta normale intravedere oltre il profilo di una persona una catena ininterrotta di morti e rinascite, dove la prostituzione è diffusa ed accettata come qualcosa di inevitabile (esattamente come la povertà ed il dolore) e, in fondo, non particolarmente esecrabile se permette di sopravvivere e far sopravvivere i propri cari (e magari garntire loro un'istruzione e una vita più dignitosa), e questo perchè in fondo viene considerato più grave vendere la propria anima (peccato tipico dei farang) piuttosto che non il proprio corpo (tra l'altro consideriamo che, nel bene e nel male, qui il senso cristiano del peccato non hanno la benchè minima idea di cosa sia), una cultura che non ha avuto l'illuminismo e considera la magia come un dato di fatto da maneggiare con estrema attenzione (ma anche con una certa imprudente disinvoltura), e in cui la linea di demarcazione tra luce ed ombra, tra razionalità e sovrannaturale, e tra vita e morte, è un confine impalpabile in continuo movimento, che si adatta di volta in volta alla situazione contingente e alle necessità psicologiche delle persone. Questo libro e l'intero ciclo di  Sonchai Jitpleecheep sono chiaramente stati scritti dalla mano di un occidentale, per (come già si è detto) un pubblico occidentale e, credo, siano stati concepiti come divertissement esotico in cui l'autore, grazie alla sua esperienza in Asia, funge da Virgilio e conduce per mano il lettore in un mondo che, ai nostri occhi, non è nè più nè meno un inferno dantesco che esiste secondo logiche che fatichiamo a comprendere (e quindi ad accettare). La scrittura è scorrevole ma non particolarmente innovativa nè interessante, ed è personale nella misura in cui l'autore vi distribuisce una certa ironia che ben si sposa con il senso dell'accetazione del destino tipico thai. Giusto per smentire il commento tratto dal Boston Globe riportato in quarta di copertina: lo stile di Burdett non è particolarmente veloce (dimenticatevi Ellroy o Peace - altro autore inglese trasferitosi in terra asiatica, e lui sì un maestro di stile) e non ha nulla a che vedere con un videogame. Forse, e sottolineo forse, ha dei punti di contatto con Conrad giusto nel senso di avventura e di esotismo che scaturisce dal romanzo, ma sinceramente ho i miei dubbi anche su questo punto.
  Il libro è godibilissimo, scritto in maniera scorrevole e piacevole (a parte gli ammiccamenti in cui il protegonista si rivolge direttamente al lettore, che sono onestamente stucchevoli e tendono ad abbassare la percezione della qualità del libro ad un thriller da bancarella, o supermercato, cosa che in realtà non è affatto), i riferimenti onestamente mi pare siano più che altro cinematografici pur rumanendo lo stile e la struttura strettamente letterari, la detection funziona, sempre sospesa tra razionalità e logica magica orientale, intoltrandoci in un inferno che nonostante tutto esiste, nostro malgrado e, sempre nostro malgrado, non smette di emanare un certo fascino sinistro e, a tratti, poetico (di quella poesia maudit che forse esiste solo negli occhi di noi stupidi farang)



John Burdett è nato in Gran Bretagna e vive in Asia. Ex avvocato, ha scritto A Personal History of Thirst, The Last Six Million Seconds, Bangkok 8, un romanzo che ha venduto piú di centomila copie negli Stati Uniti ed è stato tradotto in 19 paesi, e Bangkok Tattoo. Bangkok uccide è apparso nelle classifiche americane dei romanzi piú venduti del 2007

sabato 4 gennaio 2014

Il dio di Gotham, di Lindsay Faye, Einaudi Stile Libero

  Non ho mai letto Michael Connelly e non ho alcuna intenzione di farlo,e pertanto non posso esprimermi sulla sua opera, ma quando scrive di essere entrato nel mondo creato dalla Faye fin dalle prime pagine e di non essere più stato in grado di allontanarsene fino all'ultimo capitolo, non posso che essere d'accordo con lui. Il Dio di Gotham è un vortice perfettamente creato nel quale il lettore viene risucchiato e centrifugato a dovere, per poi esserne sputato fuori solo all'ultima riga dell'ultima pagina (vale a dire a romanzo ormai concluso, quindi dopo l'ultima riga della postfazione storica). In un certo senso, non siete voi che comprate il libro e lo leggete, e ne godete, e certo non siete voi a decidere liberamente quando aprirlo e soprattutto quando chiuderlo. Al contrario, il lettore è un giocattolo (un pupattolo, per restare al mondo de Il dio di Gotham) nelle mani del libro (forse ancor più del libro che dell'autrice), che ne fa quello che vuole, lo strattona, lo porta indietro nel tempo alla metà del 1800 in quella New York filmata da Scorsese in Gangs of New York, dove la povertà più estrema e la conseguente violenza (unico mezzo per aggrapparsi ad una sopravvivenza diaria) erano pressochè l'unica realtà possibile, con una città che cresceva a ritmi insostenibili e un mare di immigrati che, per sfuggire alla carestia di patate in Irlanda, si riversava oltreoceano sulle sponde della terra promessa in cerca di una speranza di vita, o di una morte più dignitosa. Nel 1845 viene creato il corpo delle "stelle di rame", vale a dire il primo corpo di polizia della città di New York, in discreto ritardo sulle altre città di pari grandezza ed importanza, e Timothy Wilde ne entra, suo malgrado, a far parte. T.W. e suo fratello Valentine sono rimasti orfani da piccoli, a causa di un incendio (estremamente frequenti all'epoca) che ha portato via i loro genitori in un'oscena e colpevole vampa: da allora i due sono cresciuti agli antipodi: V.W. è divenuto un forte sostenitore del partito democratico, del quale rappresenta già una sorta di autorità locale - giovane virgulto dalla sicura e billante carriera futura -, lavora per il corpo dei vigili del fuoco, nel quale si distingue per spavalderia e sprezzo del pericolo, e si dedica pervicacemente ed in pari misura all'alcol, alle bravate, alle cattive compagnie, alle droghe ed ai piaceri carnali, mentre Timothy, il fratello minore, è un ragazzo intelligente e oculato, che disprezza il fratello (nella stessa misura in cui lo ama) e che lavora come oste al Nick's Oyster Cellar dove ha imparato ad ascoltare la gente, a capirla e a classificarla con pochi sguardi. Mette da parte giorno dopo giorno i risparmi che, nei suoi sogni, serviranno a porre le basi per la sua futura vita insieme a Mrs Mercy Underhill, la figlia del pastore protestante, giovane, carina, intellettuale e benefattrice di chiunque si trovi in stato di necessità (quindi verso buona parte della città e la quasi totalità della zona dei Five Points) a prescindere dal credo religioso, verso la quale nutre un'adorazione tale da non essere mai stato in grado di confessarle il proprio amore (amore che, ad essere sinceri, sfocia nella devozione vera e propria). Ogni giorno T.W. ascolta i clienti berciare contro i ratti papisti irlandesi che infestano la città, mangiapatate che in quel momento vengono considerati un gradino sotto i cittadini di colore, adepti del retrogrado e demoniaco culto papista, sbarcati a New York per violentare, uccidere, rubare, prostituirsi e, in buona sostanza, corrompere sotto ogni punto di vista la cosidetta buona società protestante nella quale si riconoscono i nativi. Bene. Essendo frequenti gli incendi, come poco fa accennato in parentesi, uno di questi, enorme e dai tratti infernali, rade al suolo un intero quartiere, lasciando in cenere la taverna Nick's, il lavoro di oste, l'alloggio e tutti i soldi pazientemente messi da parte da Timothy in vista del futuro idilliaco che gli vorticava per la corteccia cerebrale. In più, gli cancella una parte della faccia, riducendogliela come carne cotta al barbecue. Poco dopo nasce il corpo delle "stelle di latta", il primo embrionale e abborracciato corpo di polizia della città di New York, e i fratelli Wilde ne entrano a far parte da subito, grazie agli agganci politici di Valentine. La nuova vita, il nuovo lavoro, la nuova miseria nella quale Timothy precipita vengono presto scossi da una bambina coperta da una camicia da notte inzuppata di sangue che, sul finire del turno, gli va a sbattere contro. A questo punto siamo già immersi nel bel mezzo di un puro romanzo d'appendice di fine ottocento - inizio novecento: potrebbe uscire a puntate su qualche giornale e ci scopriremmo stupiti di come sia stato idiota abbandonare questa forma di narrazione in favore di qualche stereotipato serial televisivo (non tutti lo ammetto, ma molti si). Trascorsa qualche decina di pagine dedicate all'introduzione dei personaggi, delle loro vicende essenziali e, soprattutto, a dipingere il quadro storico e sociale della New York del 1845, la macchina infernale che è Il dio di Gotham prende il via e non vi lascia più. Letteralmente vi maciulla. La bambina, Bird Daly, è una pupattola irlandese - per pupattola s'intende una minorenne che si prostituisce in una casa d'appuntamenti - e il sangue sulla vestaglia non è suo, è un'abile bugiarda e sostiene di essere scappata dal lupanare (leggi: bordello) in cui lavorava quando un uomo col cappuccio è entrato per fare a pezzi un suo amico, pupattolo a sua volta. Si dice certa che l'uomo col cappuccio, che si sposta su una carrozza nera, abbia fatto a pezzi molti altri bambini come lei (pupattoli, irlandesi), e dice anche di sapere dove li ha seppelliti. Bird è un'adorabile bugiarda, ma le sue parole vengono corroborate da una fossa scavata su sua indicazione ai margini estremi della città in espansione e nella quale vengono rinvenuti resti umani. Resti umani di bambini, in numero di diciannove corpi. Da qui, l'ottovolante (o il tagadà, o il tunnel degli orrori, o qualche altra diavoleria da Luna Park) parte e non vi resta che aggrapparvi forte, perchè scendere a metà della corsa non è un'opzione prevista. Sullo sfondo di una società ai suoi primordi, ancora per buona parte incapace di darsi un'organizzazione civile (al di là di forme semistrutturate e discretamente corrotte di partitismo che sono ancora molto vicine al banditismo) e quindi basata sulla legge del più forte e in balìa degli istirismi e delle paure di una popolazione ignorante e affamata, divisa da xenofobia e da odi religiosi (da notare: qui la minaccia non è l'islamismo odierno ma il cattolicesimo, visto e descritto con gli stessi toni scientifico-antropologico-demenziali con cui ora viene dipinto l'islam), la trama si muove con l'elegante agilità di una ragazzina sveglia e spigliata, sfrontata e allegramente cupa, a metà tra il feuilleton e il blokbuster hollywoddiano. Preti, pastori, puttane, tenutarie di bordelli, lampioni a gas, politicanti, corruzione, infanzia negata, miseria, deliri religiosi, prostituzione minorile, resti umani, corpi sventrati, best seller anonimi scollacciati ma realisti (Luce e ombra nelle strade di New York), odi e riconciliazioni famigliari, papisti e protestanti, donne angelicate e donne in carne ed ossa (spesso più in ossa che in carne), Londra come punto di fuga agognato e tranci di volti arrostiti dalle fiamme, madri assassine (Eliza Rafferty è una figura storica) e panettiere teutoniche dal cuore grande e caldo come un'enorme pagnotta, morti di fame e, infine, la nascita leggendaria di quello che sarebbe divenuto l'altrettanto leggendario NYPD (cioè il soggetto di tanti di quei serial televisivi poco sopra vituperati, e non tutti - ammetto - a ragione).
  La scrittura è rotonda e compiaciuta, forse un filo troppo leziosa, e i personaggi sembrano appena usciti da (o in procinto di entrare in) un filmone hollywoddiano e i loro lineamenti, mentre leggiamo il libro, cominciano già ad assumere le sembianze di qualche star del firmamento cinematografico e poi, volendo, ci saranno indubbiamente una montagna di altri appunti che si possono fare al libro, primo fra tutti che non è un capolavoro, macchissenefrega, non è che sia poi molto importante dal momento che, quando finalmente il dio di Gotham avrà mollato la sua presa su di voi, risputandovi attoniti e storditi su questa terra, vi ritroverete a sentire la mancanza di tutta quella sporcizia, quella violenza e quell'immondizia, e non vedrete l'ora di rituffarvi nel secondo libro della seri di Timothy Wilde (sempre sperando che in Italia venga tradotto).

N.B.: una curiosità: per quel che sono riuscito a capire, Gotham è un nome che viene affibbiato alle zone malfamate di NewYork a partire da Batman (a parte un villaggio del Notthinghamshire, in Inghilterra), quindi non ha nulla di storico e nel 1845, casomai qualcuno l'avesse pronuciato, sarebbe stato preso per tocco o, come minimo, come persona che si esprimeva con parole di oscuro significato, con ogni probabilità uno straniero. Questo particolare dà l'idea di cosa sia Il dio di Gotham, un romanzo feuilleton ottocentesco-postmoderno, un po' sullo stampo dell'ultimo Sherlock Holmes cinematografico.


Lyndsay Faye ha esordito nella narrativa con Dust and Shadow, un romanzo che vede Sherlock Holmes indagare sui delitti di Jack lo Squartatore. Il dio di Gotham è il suo secondo libro e il primo titolo di una nuova serie che ha per protagonista il detective Timothy Wilde. Ha alle spalle una carriera di attrice teatrale.

martedì 31 dicembre 2013

Le abitudini delle volpi, di Arnaldur Indridason, Guanda editore

 Erlendur vive a Reykjavík, fa il poliziotto nella capitale, ha un matrimonio fallito alle spalle e due figli coi quali cerca di riconciliarsi dopo essere sparito dalle loro vite per diversi anni, dopo la separazione. La figlia è uscita da un lungo periodo in cui è stata una tossica di strada e il figlio è chiuso in sè stesso e rimane un mistero insondabile agli occhi del padre. Ha una compagna, Valgerdur, che forse lo ama e lo capisce o forse lo ama malgrado lo capisca.
  Erlendur è un uomo solitario, di poche parole e questa volta è lontano da Reykjavík, da solo, nei luoghi dove è stato bambino, dove la sua vita, in un certo senso, molto tempo fa, si è fermata. Quelli sono i luoghi in cui, durante una tormenta di neve, hanno rischiato di morire assiderati lui e suo padre, nella stessa tormenta che ha inghiottito il suo fratellino, Bergur, scomparso senza lasciar traccia di sè se non un'eredità di dolore muto, carico di silenzi e di sensi di colpa, che ha eroso la sua famiglia, portandola a cercare sollievo (e distanza, distanza dal dolore) a Sud, nella capitale, Reykjavík, la grande città che in quegli anni fungeva da calamita per tutti coloro che cercavano un lavoro o fuggivano da qualcosa.
Ha preso l'abitudine di tornarci, di tanto in tanto, e di trascorrere le gelide notti del nord dell'Islanda, da solo, nei ruderi della casa della sua infanzia. Seguendo un abitante del luogo, tale Boas, alla caccia alla volpe, s'imbatte in una delle sue ossessioni, un caso di scomparsa. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve. Un caso di scomparsa durante una tormenta di neve negli stessi luoghi dove è sparito il suo fratellino Beggi, in una di quelle tormente nelle quali l'esitenza di Elrendur si è smarrita, o è rimasta congelata in qualche crepaccio, sepolta sotto metri di neve e di sensi di colpa. Nel 1942, in Gennaio, nel medesimo giorno e nel medesimo luogo in cui una colonna di militari inglesi si era fatta sorprendere dal mal tempo, scompare una donna che, a piedi, senza apparente motivo, voleva oltrepassare il passo nella brughiera e scollinare dall'altro versante per raggiungere la madre. I militari inglesi, soccorsi dagli abitanti del luogo, erano stati ritrovati tutti, i vivi e i morti, ma della donna, Matthildur, non si era trovata traccia, neppure negli anni successivi. La sua storia era divenuta una sorta di leggenda locale che la voleva tornata sotto sembianze di spettro a tormentare l'esistenza di Jakob, il marito, che avrebbe trovato la morte qualche anno dopo, durante una tempesta in mare. Erlendur, spinto dalla curiosità e dal parallelismo con la vicenda del fratellino, si incaponirà per giungere alla verità celata dietro gli anni trascorsi, i silenzi e dietro i pudori che hanno fino a quel momento coperto i reali termini della vicenda. Scoperchierà bare ed esistenze, risveglierà dolori e fantasmi, ma non arriverà a far pace con sè stesso nè a placare quel muto demone che lo divora giorno dopo a giorno, brandello dopo brandello. Anche se ogni libro della serie fa storia a sè, il ciclo di Elrendur va letto tutto, perchè solo l'insieme compone i reali parametri esistenziali entro cui si muove la vita del protagonista e la poetica (si, poetica, anche se parliamo di gialli) dell'autore. Solo avendo già letto gli altri si può aprezzare appieno quest'ultimo episodio che, pur nel presente, torna alle radici della vita del protagonista e lo mette faccia a faccia con la tragedia che lo ha segnato nell'infanzia, modifcandone il carattere e il suo approccio alla vita, e così facendo, come in una reazione a catena, siamo portati a credere che il fallimento del suo matrimonio, i suoi silenzi, il difficile rapporto coi figli, e quindi la vita stessa dei figli, il suo approccio al dolore e agli altri esseri umani, dipendano tutti, almeno in parte - in larga parte - da quell'episodio perso nella tormenta, nel passato, assieme a Beggi. Leggendo Indridason, si ha l'impressione confortevole di non essere soli davanti (o dentro) un libro, un libro giallo, ma di trovarci di fronte agli avvenimenti di un essere umano in carne ed ossa che non ha a che vedere con complotti millenari o con serial killer mefistofelici, che non ingolla alcool dalla mattina alla sera per lenire un dolore un po' troppo stereotipato per essere vero (spesso neppure verosimile), ma che affronta come può, spesso sbagliando (forse), il dolore di tutti i giorni, la difficoltà dei rapporti umani e dei sentimenti, l'assurdo e caparbio trascorrere del tempo che tutto travolge, lentamente, e ad ogni cosa rende una prospettiva infima, insignificante. Erlendur vive in un mondo dolente, grigio, dal quale si lascia trasportare perchè è egli stesso parte di quel dolore silenzioso e invisibile: oppone la resistenza che gli è consentita dal proprio codice morale e dal proprio ruolo di poliziotto, ma è una lotta persa in partenza dove bene e male si confondono spesso, dove chi commette il reato, a volte, è dalla parte della ragione ma non della legge, dove a volte i sentimenti che eruttano in un attimo nell'esistenza di una persona cambiano i destini di una e più vite. Questo episodio, in particolar modo, pur essendo un giallo nel più puro stile Indridason, quindi un giallo solido, scritto bene, è al contempo un romanzo sul tempo, sul suo incedere cieco, sul suo togliere significato e speranza, e sulla pochezza della vita umana, che si conta a consuntivo sulle date incise su una lapide, dove d'un tratto balza agli occhi come una vita lunga, novanta e più anni, sia alla fine una parentesi che si chiude in un cimitero, sotto qualche metro di terra, a marcire, come il ricordo si sbiadisce nella testa della gente. Ho parlato di poetica perchè i romanzi di Indridason, pur senza essere pretenziosi nello stile e nelle strutture (ma comunque lineari, chiari, accessibili e, nella loro semplicità, eleganti) sono indubbiamenti poetici: sono struggenti come solo sanno esserlo le esistenze comuni se solo ci si prende la briga di fermarsi ad osservarle, come fa Indridason, con distacco e partecipazione allo stesso momento.


Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.
Su questo blog è già stato recensito il suo romanzo La signora in verde

domenica 24 novembre 2013

La piramide, di Juan Villoro, Gran Vìa edizioni



  Finalmente, viene da dire. Nel senso che, finalmente, pare che l'editoria italiana si stia rendendo conto dell'esistenza (e della caratura) di Juan Villoro, ottimo scrittore messicano e premio Herralde nel 2004. Dopo I colpevoli (Cuec, 2009), Il libro selvaggio (Salani, 2010) e il recentissimo quanto breve Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie, 2013), Gran Vìa dà alle stampe questo "thriller tropical distopico", pubblicato lo scorso anno per Anagrama, che è stato finalista al Ròmulo Gallegos di quest'anno. In realtà non so se si possa definire thriller nè tantomeno distopico, ma tropicale sì, e forse, alla fine dei conti, è pure un thriller distopico, anche se in verità non dovrebbe fregare niente a nessuno di come catalogare un bel libro. La costa Messicana è ormai un susseguirsi di hotel vuoti ed in rovina, strutture orbate dalla furia delle tempeste tropicali e abitate da animali - e insettume vario - alquanto sgradevoli, altri continuano a rimanere aperti pur rimanendo vuoti, solo uno, a Kukulcan, fa soldi a palate, La piramide (ovvio riferimento, anche architettonico, alla piramide - o tempio - di Quetzalcóatl, il cui nome maya è, appunto, Kukulcan). Il visionario Mario Muller lo gestisce seguendo le sue intuizioni estreme e postmoderne, offrendo alla propria clientela un soggiorno a base di paura fittizia. Gran parte degli abitanti della cittadina lavora per la Piramide, se non come personale interno, come attori pagati per fingersi di volta in volta terroristi o narcotrafficanti. La paura diviene merce, la banalizzazione della paura, data in pasto a turisti affamati di emozioni (e forse un tantino imbecilli, o svitati: ma in fondo chi non lo è?) diviene mezzo di riscatto dalla povertà per gli indigeni, diretti discendenti dei Maya più visceralmente di quanto loro stessi non siano pronti a sospettare. Poi, l'inevitabile accade, tra tanti pericoli creati ad arte la vita vera s'insinua e con essa la morte, violenta, di un sub, Ginger Oldenville, che lavorava per l'hotel, trafitto alle spalle da una fiocina. Da qui parte la detection. La storia viene raccontata dal punto di vista di Antonio Gòngora, amico intimo di Mario Muller, col quale ha condiviso un passato da quasi rock star nella band heavy metal degli Extraditables, seguendo passo passo la solita storia di chi è arrivato quasi a poter toccare con mano la fama per poi piombare nell'oblio e nel disfacimento a base di droghe, eccessi e scelte sbagliate ed autodistruttive. Antonio Gòngora ha un dito in meno ad una mano, scoppiato via insieme ad un petardo, e si trascina dietro una gamba che è stata lesionata da ragazzino (ci sono diverse menomazioni nei personaggi di questo libro, fisiche e non solo, come se ognuno di loro, vivendo, avesse perso qua e là qualche pezzo) e la memoria che gira a vuoto almeno per un cinquanta per cento del suo passato (la percentuale, calcolata a spanne, è sua). Ora, la detection è sempre, negli autori di un certo livello, una scusa, di solito per affondare il bisturi nella società, o in certe parti di essa, per sezionare il nostro mondo e criticarlo senza dare troppo l'impressione di farlo, per trascinare l'interesse del lettore che, altrimenti, non durerebbe a lungo se gli si proponesse un saggio di critica sulle storture della società moderna. In questo caso, però, non è così, la Piramide è un mondo a sè stante, lontano dalla realtà e autoreferenziale anche se, scopriremo poco alla volta, non impermeabile ad essa, ma fino ad un certo punto è una piramide (l'architettura voluta da Muller è appunto quella di un piramide maya) chiusa in una bolla, che si bea di spaventi controllati ad arte da professionisti del settore. La morte del sub (e poi - anzi prima - di un altro sub suo amico, e forse amante) fa nascere delle incrinature lungo la superficie della bolla: da qui, la realtà prende a filtrare: interessi finanziari, centri decisionali e direttivi europei, narcotraffico, vendette cercate e vendette portate a termine, deliri, buona sorte di cui non ci si riesce a liberare, tumori all'ultimo stadio, boss sgozzati, cravatte colombiane, dipendenti messi a tacere e, dietro o, per meglio dire, "sopra" tutto questo, ad aleggiare come una nebbia malsana, le leggende e la storia maya che colorano ogni pagina di soffici deliri di morte e di sangue che pare scorrere in abbondanza più attorno alla Piramide che all'interno di essa. Ho impiegato un po' di tempo a capire quale fosse l'elemento di questo romanzo che lo rende diverso da ogni altro libro del genere (comunità chiusa, delitto, realtà che tracima e squassa la comunità all'inizio apparentemente perfetta: esempio cinematografico, il primo che mi viene in mente, uno tra i tanti: The village), perchè in realtà molti aspetti della narrazione sono piuttosto classici (la storia della band, le droghe e tutta la peridizione che si portano dietro - che ricorda molto da vicino Un bravo ragazzo, di Javier Gutierrez -, l'hotel, il tropico bollente, pieno di zanzare e seducente, una certa tensione sessuale lasciata ad aleggiare quasi fosse una minaccia, i gringos, il Messico come luogo per ricominciare, come un'eutanasia per occidentali, ecc.). Dando per scontato lo stile, sicuramente alto, non tipicamente latinoamericano, ma neppure un'imitazione sgraziata dello stile da hardboiled nordamericano, c'è un altro aspetto che in qualche misura sovverte lo scenario per certi versi quasi stereotipato: qui il Messico è il rifugio non tanto di yankees in fuga da sè stessi (lo è, anche, ma non solo), ma di messicani in rotta col proprio passato e, soprattutto, il punto di vista è quello di Antonio Gòngora, un messicano, non già un gringo come nei romanzi di Kent Harrington (uno tra i tanti, giusto per fare un esempio), qui il passato del luogo non tanto aleggia sulle teste di protagonisti che lo subiscono, venendo da una cultura altra, ma scorre a livello del terreno, sotto la pelle della gente, che sono cuochi, elettricisti, camerieri, ma paiono sovrani maya. Il punto di vista narrativo insomma, viene totalmente sovvertito (ma con grazia, ce ne si rende conto a fatica, e dopo un po' di tempo: ad esempio bisogna far attenzione, tendere l'orecchio, per comprendere quanto suoni strana la parabola di una statunitense senza permesso di soggiorno che vive nel terrore di essere ricacciata nel proprio paese), ma non solo. Gli investigatori sono elementi di contorno, un po' corrotti, non tanto ma giusto un poco, come tutti, un po' stampalati, senza mai diventare caricature vere e proprie. Le indagini in qualche maniera sembra vadano avanti da sè, come se facessero parte di un meccanismo che, una volta innestato, diviene ieneludibile nelle sue conseguenze e, poco alla volta, travolge tutto e tutti. E i protagonisti. Sembrano portatori ognuno di un tassello diverso di un unico incomprensibile ed assurdo passato che, ricomposto, non prefigura nulla di buono - la Piramide, il presente, è appunto solo una bolla che finirà per scoppiare lanciando il suo contenuto in mille direzioni diverse -, e l'unico personaggio che suo malgrado si scoprirà con un futuro di fronte sarà proprio il narratore, Gòngora, che se lo ritroverà come ultimo cervellotico, e per certi versi disperato, regalo del proprio amico Mario Muller. Un mondo di finzione che, quando va in pezzi (e va in pezzi nell'assurdo tentativo di presevare sè stesso, tentativo che, paradossalmente, ne decreterà la fine), si scopre ad avere tutti i propri abitanti che vanno in pezzi a loro volta, forse essendolo stati da sempre. Tutto questo equilibrio precario viene tenuto insieme da uno stile asciutto, ironico, distaccato, per certi versi molto poco sudamericano, ma che mai scimmiotta i maestri statunitensi del genere: l'ironia per quanto amara è sempre lieve, i pensieri di Gòngora che fanno da contrappunto non sbilanciano mai i toni della narrazione, e il fraseggiare paradossale quello sì è un marchio di fabbrica tipicamente latino. Il risultato è davvero notevole, un gioco di equilibri sempre a rischio di cadere in qualche luogo comune o in caratterizzazioni banali, ma che mai scade in un risultato meno che apprezzabile. Forse non è un thriller distopico, ci sta, non chiedetemi cosa sia se non un ottimo libro.




Juan Villoro nasce a Città del Messico nel 1956. Scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore, Villoro è per la sua traiettoria letteraria uno dei più conosciuti e apprezzati esponenti della cultura ispanica. Tra i testi pubblicati in Italia si ricordano: I colpevoli (Cuec 2009), Il libro selvaggio (Salani 2010), Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie 2013), mentre presso gran vía nel 2008 è apparso un suo racconto nella raccolta En la frontera. Con La Piramide, Juan Villoro è stato finalista al prestigioso Premio Rómulo Gallegos 2013.