Anche se vengo preparato
non so davvero da dove incominiciare
comincerò togliendomi gli occhiali
questa barba non crediate sia posticcia
22 anni che non la taglio
come neppure mi taglio le unghie
vale a dire che ho mantenuto la parola data
oltre la data stabilita
posto che l'incarico era per venti
non ho tagliato nè barba nè unghie
solamente le unghie dei piedi
in onore alla mia adorata mamma
ma ho dovuto passare per
umiliazioni calunnie disprezzo
anche se io non facevo del male a nessuno
solo tenevo fede alla sacra promessa
che feci quando lei morì
non tagliarmi la barba nè le unghie
per un periodo di venti anni
in omaggio alla sua sacra memoria
rinunciare ai vestiti comuni
e rimpiazzarli con un umile sacco
adesso vi rivelerò il mio segreto
la penitenza già l'ho scontata
presto potrete vedermi
nuovamente vestito da civile
"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)
giovedì 11 luglio 2013
I, da Sermones y predicas del Cristo de Elqui, di Nicanor Parra
Etichette:
Nicanor Parra,
poesia,
Sermones y predicas del Cristo de Elqui
venerdì 5 luglio 2013
Il luogo senza confini, di José Donoso, Sur editore
Nel titolo c'è tutto Donoso. Il luogo senza confini è ironia, ma ironia dolente (non feroce, o solo in parte feroce). La scena in cui si svolgono i fatti è un piccolo paesino, El Olivo, un centro abitato, un agglomerato di case che, in un determinato momento, ha rischiato di divenire qualcosa di più, grazie ad un utopico all'acciamento ad un rete elettrica che non arriverà mai (tenetelo a mente, questo allacciamento), quindi è quanto di più lontano da un luogo senza confini, ma al contempo è un palcoscenico che rappresenta perfettamente non solo l'arcaica società latifondista latinoamericana che ancora sopravviveva all'epoca, ma tutta l'umanità e, al contempo, l'Inferno, dalla citazione del Faust di Marlowe. Forse, come viene accennato nella postfazione, questo libro voleva essere un romanzo sociale e, sicuramente, per fortuna, in quel senso è stato un completo fallimento, perchè Donoso non riesce a smettere i panni di Donoso e finisce col parlare dell'uomo, dell'essere umano, della sua pochezza, del suo voler essere altro da ciò che è e della sua frustrazione nel non poter essere nulla di diverso (nè di meglio) da ciò che è. Il centro fisico della narrazione è un bordello, un bordello di paese, di El Olivo appunto, la cui attuale tenutaria è Manuela un travestito che si avvia verso il declino della vita. Manuela è famosa per i suoi balli e per il suo vestito alla spagnola. Manuela ha vissuto la propria esistenza tra un bordello e l'altro, come attrazione danzante e, per certi versi, come freak. Oggetto del desiderio di certi uomini che, schiavi della cultura machista, non possono accettare le loro stesse pulsioni e oggetto di scherno e di violenza di altri uomini che, anch'essi soggiogati dalla cultura machista, la prendono in giro pesantemente quando non la picchiano e la umiliano. La figura che racchiude entrambe le tipologie è Pancho Vega, un tipaccio della zona che si guadagna da vivere come autotrasportatore che, col suo camioncino rosso che ancora deve terminare di pagare, vaga nella notte pigiando forte col clacson per rivendicare al mondo il suo esistere, e che è, suo malgrado, irresistibilmente attratto da Manuela. Sul paese (chiamiamolo così, ma non è un paese è meno di un paese, molto meno di un paese, e molto di più) incombe la figura onnipotente, benevola e spietata, di Don Alejo (don Alejandro Cruz) che presta soldi (a Pancho, ad esempio, per il camion rosso), dispensa consigli, conosce tutti e decide il bello ed il cattivo tempo a El Olivo. E' lui che è stato eletto con la promessa di portare l'elettricità, pensando così di poter così imporre uno sviluppo accelerato al centro abitato e soprattutto ai suoi affari. In questa prospettiva, il bordello avrebbe dovuto divenire un "gran" bordello di classe, con l'orchestra, puttane belle, gentili e profumate e feste e libagioni tutte le notti, come a Talca, nel bordello di Tette di legno, ma la corrente elettrica è destinata a non arrivare mai, affare che viene gestito da persone che non esistono neppure nella concezione degli abitanti di El Olivo, persone anche più potenti di don Alejo. Se il bordello è il centro fisico della narrazione, Manuela ne è la protagonista, immagine potente e tragica che forse rappresenta l'immagine dell'artista e del suo destino ma certamente è in buona parte lo specchio dello stesso autore e del suo mondo interiore, non solo letterario: Donoso lascerà tra i suoi scritti la confessione della sua omosessualità, e saprà prevedere la tragedia che questa confessione porterà nella sua discendenza, tragedia che si compirà con il suicidio della figlia e biografa di Donoso, sconvolta per la confessione (*). Manuela non è un personaggio simpatico e, come sempre in Donoso, non è monodimensionale: è vanitosa, pavida ma sconsiderata, infantile, a tratti crudele con la figlia biologica (la Giapponesina, figlia di Manuela e della Giapponese Grande: lasciamo perdere la spiegazione, altrimenti tocca raccontare troppo) schiava dei propri desideri e della propria identità, così come Pancho non è il "grande" male, è un povero cristo, ignorante quanto basta per essere in completa balia, esattamente come Manuela, delle proprie pulsioni e della propria identità. Ma quel mondo arcaico non accetta lo scarto provocato da Manuela che, pur essendo uomo, ha un'identità femminile, proprio come quello stesso mondo arcaico non verrà illuminato dall'arrivo della corrente elettrica (e qui mi riallaccio all'accenno iniziale) che simboleggia chiaramente una modernità (e, in senso meno sociologico e più "donesiano", un'umanità migliore, illuminata appunto) che non è destinata a El Olivo, segregata oltre quel confine invisibile che pare chiudersi attorno al centro abitato, isolandolo (un confine invisibile che ricorda, per certi versi, la siepe leopardiana). E' come se una cappa oscura racchiudesse paese e narrazione, e destini dei personaggi, sotto una sorte ineluttabile, che è, nella visione dell'autore, il destino dell'umanità: pensare a sè stessa in termini alti rimanendo sempre inevitabilmente costretti entro orizzonti "animali", primitivi. Don Alejo è una finzione, appare onnipotente solo agli occhi degli abitanti del piccolo centro abitato, al di fuori del quale, anche lui diventa un pesce piccolo (medio piccolo, o medio grande, al massimo) possibile preda degli squali. Don Alejo non può portare la corrente elettrica, don Alejo può decidere delle vite della ristretta popolazione locale, ma non può fare altrettanto col suo che, nel finale, indoviniamo essere triste, ed umano, intriso di sentore di morte. Quello che rimane è la poesia (poesia non poetica, verrebbe da dire) tragica e sfacciata di Donoso che non riesce a chiudere gli occhi di fronte a quel male che è (diversamente da Pavese, che lo identifica col vivere) la vita.
José Donoso (1924 - 1996) è uno degli scrittori più importanti della generazione del "boom" latinoamericano. nato a Santiago del Cile, si autoesilierà in Spagna durante la dittatura di Pinochet. L'osceno uccello della notte (pubblicato per Bompiani e presto - spero vivamente - ripubblicato da Sur Edizioni) è considerato il suo capolavoro. In Italiano è anche possibile rintracciare Tre romanzetti borghesi (per la Farenheit 451 edizioni, con testo orinale a fronte!).
José Donoso (1924 - 1996) è uno degli scrittori più importanti della generazione del "boom" latinoamericano. nato a Santiago del Cile, si autoesilierà in Spagna durante la dittatura di Pinochet. L'osceno uccello della notte (pubblicato per Bompiani e presto - spero vivamente - ripubblicato da Sur Edizioni) è considerato il suo capolavoro. In Italiano è anche possibile rintracciare Tre romanzetti borghesi (per la Farenheit 451 edizioni, con testo orinale a fronte!).
Etichette:
Il Luogo senza confini,
José Donoso,
Libros,
Sur editore
sabato 29 giugno 2013
Intervista a Valeria Luiselli, Sarzana 21 Giugno 2013
Venerdì 21 Giugno a Sarzana (La Spezia) c'è da poco stato il terremoto, anche se nessuno sembra darsene troppo peso, non in centro, a quest'ora, e io sono in anticipo "cinque minuti - ciinque" sull'inizio della presentazione dell'ultimo libro della scrittrice messicana Valeria Luiselli (seconda tappa italiana dopo Roma e prima di Firenze) e al contempo in ritardo di un'ora e mezza scarsa rispetto alla medesima presentazione di Carte False, l'ultimo libro pubblicato in Italia della scritttrice messicana Valeria Luiselli, che fa seguito a Volti nella folla, il suo precedente libro nonché caso letterario internazionale, entrambi pubblicati da La Nuova Frontiera Editore. Non sto a spiegare oltre, ma alla fine si rivelerà una fortuna. Comunque, quando arrivo, fuori dalla libreria Il Terzo Luogo in cui è prevista la presentazione del libro incontro un gruppo di signore che parlano tra di loro; l'aria che aleggia tra me e il gruppo di signore e tutt'intorno a noi per il centro storico, e giù fino al mare e, alla rovescia, alle spalle della città, verso le alture, è un tantino troppo fresca considerando che siamo alla fine di Giugno, ma in fondo anche questa è una fortuna. Dò una sbirciata all'interno e mi arrischio a domandare se mi trovo nel posto giusto.
Dal momento che il posto è quello corretto ma l'orario no, la proprietaria della libreria si muove a compassione e si fa in quattro, contattando qualcuno dello staff che segue la Luiselli nel suo tuor italiano spacciandomi per un giornalista che vorrebbe farle un'intervista. Io, a dir la verità, non sono un giornalista e mi sarei accontentato di un paio di domande, ma tant'è. Tempo un minuto, mi ritrovo in una minuscola piazzetta seduto tra l'Editore e l'Autrice (e una serie di persone a me sconosciute tra cui la signorina gentilissima che si è fiondata a prelevarmi alla libreria e mi ha conodotto in loco, e un ragazzo con una gran barba nera) e, a questo punto, obbligato mio malgrado a sfoderare una serie di domande il più possibile sensate e attinenti argomenti almeno vagamente letterari atte a dimostrare se non proprio il mio status di giornalista, comunque di esperto del settore. Se non esperto, almeno amante dell'argomento.In realtà credo di dare l'impressione di essere un tipo strambo caduto lì per caso, tra loro, da chissà dove. Con estremo esercizio di cortesia i presenti non lasciano trasparire di essersi resi conto del mio imbarazzo nè di null'altro e mi fanno sedere come se fossi una persona normale appartenente ad una delle categorie fittizie poco sopra elencate. Comunque, ad ogni buon conto, per evitare spiacevoli fraintendimenti, preferisco subito specificare di non lavorare per le Pagine Culturali di Repubblica, ma di scrivere per il presente Blog (e rimane difficile trasmettere lo stupore e l'emozione di scoprire che l'Autrice conoscesse - per essere più precisi: aveva l'impressione di averlo già visitato - il già citato presente Blog (anche se mi rimane il dubbio che la sua sia stata una forma estrema di cortesia - o di ironia sottile e devastante - forse tipicamente messicana))
Valeria Luiselli, giusto per rendere l'idea, è una giovane signora estremamente gentile che parla con una voce sottile e pacata e dà l'impressione (impressione insistente ma per nulla inquietante) di essere un personaggio da lei stessa creato per il suo primo libro Volti nella folla (e in un certo senso è così, se l'avete letto sapete cosa intendo): lievemente retrò, come se giungesse nel nostro presente da un qualche passato, non remoto, ma relativamente vicino a noi e sempre sul punto di dissolversi nell'aria singolarmente fresca in questo Giugno assurdo, o di spezzarsi in mille pezzi. Fuma sigarette che si prepara da sola con tabacco e cartine e può dare l'idea a chi la vedesse per la prima volta di essere una giovane intellettuale intellettuale intenta a dissimulare la propria superiorità culturale e cerebrale, ma comunque non una scrittrice di successo internazionale nel mezzo di un tour promozionale (vale a dire che non se la tira, e se lo fa, lascia la sensazione di essere estremamente attenta a non farlo trasparire). La piazzetta in cui ci troviamo raddoppia, triplica o forse decuplica l'intensità in decibel del vociare e dei rumori (e se qualcuno nutrisse dei dubbi al riguardo ho le prove registrato che certi bambini possono strillare ininterrottamente e "ad alta inensità" per almeno 18 minuti e 22 secondi) e dopo qualche attimo sparisce (la piazzetta) e mi lascia solo e sospeso a parlare con l'Autrice.
2666 - Il tuo stile di scrittura ne Volti nella folla è molto pulito, essenziale, e conduce i lettori poco alla volta all'interno di una storia estremamente volatile, che col procedere della narrazione viene ad assumere dei tratti quasi onirici, raccontata in una struttura volatile, sperimentale nella sua forma: ci sono stati scrittori che hanno influenzato questa tua forma di scrittura?
V.L. - Bene, credo che la relazione con gli scrittori che leggiamo sia sempre in divenire... Nel caso di Carte false ci sono una serie di scrittori che sicuramente mi hanno influenzata. Carte false è un libro che è allo stesso tempo una sorta di diario di lettura, una specie di diario di viaggio e di esplorazione di spazi. Gli scrittori che sono presenti sono senza dubbio Robert Walser, poi ad esempio lo scrittore tedesco Sebald, e sicuramente Brodskij, che leggevo costantemente mentre scrivevo. Io mi sono formata come lettrice di filosofia più che come lettrice di letteratura, per questo in realtà sono entrata in dialogo più che altro con diversi filosofi che stavo leggendo in gioventù, in particolar modo Wittgestein, che è un filosofo al quale si avvicinano molti scrittori, che riflette sul linguaggio in modo molto giocoso e libero. Non so se vuoi una lista molto lunga: Robert Walser è uno scrittore che è sempre stato presente nella mia scrittura, anche ora, e che ho continuato a leggere e che rileggo sempre mentre sto scrivendo un libro, e ultimamente i russi, soprattutto ora sto leggendo un russo che si chiama Daniil Charms che mi piace moltissimo, ma che è poco tradotto in spagnolo, in pochi libri. Coincidences è uno dei pochi.
2666 - Wittgestein era uno degli autori a cui era più legato David Foster Wallace...
V.L. - Non ho mai letto Foster Wallace, non tanto come ho intenzione di leggerlo in futuro...
2666 - Mi colpisce il fatto che tra gli scrittori che hai citato non ci sono latinoamericani mentre mi pare di vedere nella tua scrittura, soprattutto nelle strutture che utilizzi, molto della Nuova Letteratura Latinoamericana: la ricerca di forme nuove e diverse che vanno oltre la struttura standard del romanzo classico.
V.L. - Io da parte mia non ho in testa un particolare programma che prevede di scrivere libri necessariamente diversi dalle forme convenzionali, se non che cerco di scriverli mantenendo un'unità (stilistica) coerente. Il modo che ho di comporre la narrazione è sempre dettato dalla storia che sto raccontando, e trovare la forma più appropriata mi richiede molto tempo, perché il modo di narrare emerge poco alla volta che incontro la storia che sto narrando, ma in effetti non ho una forma programmatica di scrivere un libro già pensando di utilizzare una forma che sia per forza diversa da quelle convenzionali. Non mi sento legata a questa necessità. Ma, mi parlavi dell'assenza di scrittore latinoamericani nella mia scrittura?
2666 - Al contrario, mi stupiva la loro assenza nel tuo elenco di scrittori di riferimento.
V.L. - Nel mio elenco eh?... Beh, non so... Per esempio nel mio romanzo Volti nella folla, mentre lo scrivevo lessi, rilessi più che altro, Juan Rulfo, che è uno scrittore messicano che seppe giocare molto bene con la forma in un romanzo che manteneva nello stesso spazio vivi e morti, e che seppe rompere il tempo e lo spazio in un'unica forma, e io l'ho potuto trasformare in una struttura che è diversa dalla sua ma che solo leggendolo mi ha permesso di trovare uno spazio di libertà per modulare Volti nella folla. Però in effetti sono cresciuta leggendo autori di lingua spagnola, come ovviamente Cortàzar e Borges, che furono letture fondamentali, che mi riempirono, ma che non erano scrittori che tenevo presente mentre scrivevo.
2666 - Hai fatto riferimento ora a Borges e Cortàzar che sono tra i grandi padri della letteratura latinoamericana, tu ora invece vieni inserita in quell'ondata di nuovi scrittori che vengono indicati sotto l'etichetta Nuova Letteratura Latinoamericana (nella quale personalmente inserisco anche il Giornalismo Letterario Latinoamericano). Ti senti parte di quest'onda o esterna ad essa?
2666 - Questo libro, Carte False, non l'ho ancora letto, ma mi pare che anche in questo caso non si tratta di un romanzo convenzionale.
V.L. - Esatto, in realtà non è neanche un romanzo, è una sorta di libro ibrido che alcuni hanno letto come romanzo e altri hanno letto come un libro di racconti di finzione e altri ancora come un libro di saggi. Insomma è un libro ibrido.
2666 - Feltrinelli (di Pisa, nel resto dello Stivale lo ignoro) lo espone in Saggistica, anzi, per essere più precisi in Critica Letteraria.
V.L. - Sono scelte editoriali. E' un peccato. In Messico per esempio viene esposto nei ripiani di Narrativa. Ma non è certamente un libro di Critica Letteraria.
2666 - Un romanzo, diciamo così, "classico" non fa parte delle tue corde e quindi lo eslcudi anche in futuro, o è qualcosa che stai tenendo da parte per un altro momento, un'altra storia?
V.L. - Come dicevo prima, non ho un programma razionale al riguardo della forma tradizionale o meno del romanzo, io credo che ogni storia ha bisogno di una struttura particolare e se mi capiterà di raccontarne una che necessita di una struttura classica, la scriverò. Non ho una posizione ideologica al riguardo, o inamovibile, ma abbastanza libera.
2666 - In America Latina è più facile in questo momento riuscire a pubblicare per un giovane scrittore, magari anche permettendosi di esordire con un romanzo chiaramente letterario come il tuo?
V.L. - Credo che non sia mia facile riuscire a pubblicare, per nessuno, però in effetti in tutta l'America Latina, in particolare in paesi come l'Argentina, il Messico, la Colombia e il Cile ora ci sono molte case editrici indipendenti che sono più propense a rischiare a pubblicare libri che le grandi case editrici non pubblicherebbero mai.
2666 - Un'ultima domanda, soprattutto legata al nome del Blog e alla mia personale passione letteraria: cosa pensi dell'opera di Bolano?
V.L. - Cosa penso riguardo l'opera di Roberto Bolano? Bene, per cominciare non sono una lettrice avida di Bolano, non l'ho letto tutto: il fenomeno di lettori che hanno letto tutto ciò che Bolano ha scritto è relativamente recente. Insomma, in effetti non l'ho letto tutto. La prima cosa sua che ho letto è stata i Detective Selvaggi, ed è stato fondamentale, soprattutto la prima e l'ultima parte, non tanto le interviste, là dove credo che sia, dopo La regiòn màs transparente, di Carlo Fuentes (in italiano: L'ombelico della luna, Il saggiatore, 200, Net 2006), sia, i Detective Selvaggi il grande romanzo della letteratura del Messico: è una testimonianza internazionale fondamentale della letteratura contemporanea latinoamericana. 2666 anche, l'ho letto in introduzione inglese perché dovevo scrivere delle cose riguardo certe letture particolari, e poi ho letto alcuni saggi, che mi sono piaciuti. Credo che Bolano sia stato una figura importantissima che ha liberato la letteratura latinoamericana, o l'immagine che si aveva della letteratura latinoamericana nel mondo anglo-ispano. E' stata la figura grazie alla quale finalmente abbiamo posto termine al realismo magico e a quelle cartoline che avevano incarcerato la nostra letteratura in uno spazio chiuso, e ha inaugurato un'era nella quale gli scrittori più giovani possono muoversi la di fuori di questa vecchia etichetta. Curiosamente però ha significato anche un altro piccolo carcere per i nuovi scrittori latinoamericani, perchè non c'è modo che non ti paragonino, in quanto scrittore latino, a Bolano, o per mettere in evidenza le differenze o per fare un'equiparazione. Spero che si possa superare in fretta questa fase di "piccoli Bolanini".
A questo punto, una signora seduta al "nostro" tavolino, si alza e saluta, seguono baci, abbracci e ringraziamenti che durano il tempo necessario perché l'Autrice prenda fiato, mi sorrida e mi chieda, per cortesia, di terminare qui l'intervista, che è comunque molto di più di quello che avrei potuto sperare se fossi arrivato in orario rispetto all'orario effettivo e non su quello teorico. Il terremoto è come se non ci fosse mai stato, e lascia dietro di sé solamente una bava fresca di brezza notturna che è come se arrivasse, ppiù che non da un altro luogo, da un altro tempo: Aprile, ad esempio.
L'autore del blog e dell'intervista ci tiene a ringraziare: la proprietaria della libreria Il Terzo Luogo (non appena riuscirò a scoprire i suoi dati anagrafici li riporterò prontamente), il signor Lorenzo Ribaldi, nonché Editore, che in questo caso si è messo a disposizione anche come "correttore di bozze" e "procacciatore di foto", e ovviamente la signora Valeria Luiselli, per la pazienza, la cortesia innata e il buon grado coi quali si è sottoposta alle mie domande come se in realtà a fargliele fosse stato davvero un inviato delle Pagine Culturali di Repubblica.
Etichette:
Entrevista,
La Nuova Frontiera edizioni,
Valeria Luiselli
sabato 22 giugno 2013
Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi, vita di David Foster Wallace, di D.T.Max, Einaudi stile libero
Scrivere una biografia è niente più niente meno che un puro e semplice esercizio di follia. Questo per gli ovvi motivi che sono connessi con l'atto stesso di voler ridurre una vita all'interno di un certo numero più o meno alto di pagine. Per quanto si riesca ad infilarci dentro, nell'ordine giusto dato dall'importanza degli avvenimenti per la persona che li ha vissuti (e già questo è un atto tutt'altro che scontato), ciò che rimane tagliato fuori sarà comunque una mole enorme di fatti, momenti, sensazioni, minuti, vissuti interni che, comunemente, chiamiamo appunto vita. Ciò che poi rimane incluso, dev'essere ovviamente interpretato (dalla sensibilità dell'autore, dalle testimonianze di chi fu vicino al soggetto biografato, ecc.) e la psicologia c'insegna che neppure il soggetto stesso può essere un buon interprete di sè stesso, ovvero della sua vita interiore (e delle conseguenze che questa riverbera sull'esistenza pratica, sociale, interrelazionale, professionale, ecc.), in questo senso si potrebbe dire che ogni biografia è una storia di fantasmi, perchè è una forma di detection in cui l'oggetto della ricerca sono le ombre che l'essere umano (quel certo essere umano biografato) ha lasciato sul suo cammino, fantasmi appunto, ectoplasmi di quello che fu, segni ed indizi di qualcosa che, comunque, resta inafferrabbile per definizione. In questo caso particolare, l'impresa è una follia all'ennesima potenza, dal momento che la vita da scandagliare è quella di un genio. Peggio, o meglio, quella di un genio sul limite, forse non tanto della follia quanto del disturbo mentale, come David Foster Wallace. Se vi dico che alla fine muore, non svelo niente. Questo è uno dei vantaggi delle biografie, non bisogna porsi troppi problemi a non svelare dettagli e particolari; per tutto il resto è un casino. Perchè una biografia dovrebbe essere degna di lettura e un'altra no? Dipende solo dal tipo di vita che viene narrata? Ovviamente no, non solo., anche se tendo a pensare che la biografia di un lattaio morto di crepacuore a cinquantacinque anni a giù di lì, con moglie e due figli adolescenti sia quasi automaticamente meno interessante di quella di un terrorista internazionale come Carlos, ad esempio, ma il succo sta da un'altra parte, e in questo la vita di D.F.W. certamente ha aiutato l'autore di questo libro. Sta nella scelta degli episodi riportati e nel valore da assegnare ad ognuno di essi. In questo senso, D.F.W. è stato prodigo. Figlio della piccola borghesia, di due genitori all'incirca nella norma, come possono esserlo molti altri, con una sorella più piccola, Amy, D.F.W. si rivela fin da piccolo, se non proprio un bambino prodigio o un piccolo genio, comunque un bambino dotato di un'intelligenza fuori dal comune. Come spesso accade, da qui i problemi. Mente acutissima e affetto da un mania di perfezionismo assoluta, soprattutto nell'analisi dei processi mentali suoi ed altrui, viene presto colpito da attacchi di panico violentissimi che causano i suoi primi ricoveri in strutture apposite. Pur brillando per i risultati, si vede costretto a dover interrompere gli studi al college per curarsi e finirà per dipendere a vita da farmaci specifici che saranno, in un certo senso, causa della sua morte prematura, proprio quando, in un eccesso di ottimismo, crede di potervi farne a meno. In mezzo sobbollono le dipendenze dalle droghe e i relativi (e successivi) processi di disintossicazione, i libri, il postmodernismo, Pynchon e DeLillo, il sesso promiscuo vissuto anch'esso come una dipendenza, la scrittura (una dipendenza anch'essa, anche se in certi casi dolorosissima da mettere in pratica, sempre per via del suo perfezionismo maniacale, in special modo da mettere in pratica con metodo e dedizione assoluta), le lettere agli amici scrittori (Franzen e DeLillo su tutti), le amicizie nate nei programmi di disintossicazione, di meditazione o di preghiera, il disconoscimento del postmodernismo come soluzione a cosa e come e, soprattutto, perchè narrare e il riconoscimento dell'ironia postmoderna come il male dei nostri giorni, le collaborazioni con le riviste, il tennis, Infinite jest, il successo ed il senso di colpa che questo porta con sè, la fine dei problemi economici, il distacco ed il silenzio dalla famiglia, la crocifissione della madre identificata come l'origine dei suoi mali, i suoi cani, l'insegnamento cercato, agognato, poi vissuto come limitativo e castrante, e infine nuovamente visto come benefico e rigenerante, l'insegnamento come atto morale e, soprattutto, la parabola di un uomo con un intelletto fuori dal comune che avrebbe avuto tutti i motivi per fuggire da sè stesso e che, al contrario, ha preferito martoriarsi pur di non venire mai meno alla propria autocoscienza, e (poi, in più), all'analisi di questa autocoscienza e delle sue conseguenze. E' un uomo che guarda sè stesso (e già questo fa tremare i polsi alla maggior parte degli esseri umani, quando non li porta direttamente alla follia), che poi si allontana e si guarda guardare sè stesso, che riflette su ogni implicazione possibile di ciò che vede e del suo guardarsi guardare e, non contento, studia a fondo il contesto che circonda il suo primo Io, e poi il secondo, e poi il terzo. Si domanda il perchè l'americano medio si rincitrullisca per almeno sei ore al giorno davanti ad un elettrodomestico come la televisione, e perchè, soprattutto, l'americano medio (verrebbe da dire: l'essere umano medio) predilige i programmi spazzatura, e si chiede come queste sei ore giornaliere influiscano sul modo di pensare e di percepire la realtà, e quale tipo di realtà l'abbia condotto a sentire la necessità di tutte quelle ore di fronte ad uno schermo che mostra (quando più, quando meno) il peggio della natura umana. Si pone domande su un sacco di cose, da quelle apparentemente più banali, come le grandi fiere agricole regionali o il mondo della pornografia, a quelle più insondabili e terribili.
Sempre che esistano risposte univoche e definitive, quelle che ha trovato D.F.W. non dovevano essere delle più incoraggianti.
D.T.Max, ci conduce in un viaggio affascinanate e terribile, del quale è bene rimanere spettatori per non correre il rischio di lasciarci travolgere dal quel vortice che, assieme ad una serie di capolavori che ci ha lasciato a testimonianza di quanto sia complesso e terribile vivere, ha trascinato D.F.W. in un gorgo affascinante e doloroso per lasciarlo infine appeso ad una trave di casa sua, il 12 Settembre 2008. E' una biografia ben scritta, non solo per gli appassionati di D.F.W.
Chi la leggerà, sono quasi certo che comunque lo diventerà (appassionato).
D.T.Max è nato e cresciuto a New York. Dopo essersi laureato a Harvard, ha cominciato la sua attività lavorando per il New York Observer, il New Yorker e in New York Times Magazines.
Il suo libro precedente era un saggio dal titolo The Family that Couldn't Sleep. A Medical Mistery (2007). Attualmente vive in New Jersey.
Qui potete trovare una sua intervista per il sito Archivio David Foster Wallace Italia.
Sempre che esistano risposte univoche e definitive, quelle che ha trovato D.F.W. non dovevano essere delle più incoraggianti.
D.T.Max, ci conduce in un viaggio affascinanate e terribile, del quale è bene rimanere spettatori per non correre il rischio di lasciarci travolgere dal quel vortice che, assieme ad una serie di capolavori che ci ha lasciato a testimonianza di quanto sia complesso e terribile vivere, ha trascinato D.F.W. in un gorgo affascinante e doloroso per lasciarlo infine appeso ad una trave di casa sua, il 12 Settembre 2008. E' una biografia ben scritta, non solo per gli appassionati di D.F.W.
Chi la leggerà, sono quasi certo che comunque lo diventerà (appassionato).
D.T.Max è nato e cresciuto a New York. Dopo essersi laureato a Harvard, ha cominciato la sua attività lavorando per il New York Observer, il New Yorker e in New York Times Magazines.
Il suo libro precedente era un saggio dal titolo The Family that Couldn't Sleep. A Medical Mistery (2007). Attualmente vive in New Jersey.
Qui potete trovare una sua intervista per il sito Archivio David Foster Wallace Italia.
domenica 26 maggio 2013
Il sogno della nocilla, di Agustìn Fernàndez Mallo, Neri Pozza editore
Questo è il primo libro di una trilogia, la cosiddetta trilogia della Nocilla che, immagino, in Italia non vedrà mai la luce. Nel 2006 in Spagna divenne rapidamente un fenomeno: venne identificato come un libro spartiacque: il primo della nuova letteratura. La nuova icona della cultura indie, ma venne anche bollato come pedante, vuoto, pretenzioso e, semplicemente, una stupidaggine supponente (tra l'altro tutte queste definizioni, tratte da articoli e titoli di giornali vengono riportate verso la fine del libro). Perfetto, allora che cos'è? Il demonio o l'acqua santa? Nessuno dei due o, forse, entrambi. La Nocilla è, per farla breve, la Nutella spagnola, nel vero senso della parola: si tratta del prodotto studiato dalla Ferrero appositamente per il mercato iberico e pubblicizzato con lo slogan: Nocilla, que merendilla! (qui trovate anche la canzone che il gruppo punk Siniestro total ha dedicato alla Nocilla). Ovviamente, seguendo il gusto propriamente post moderno nella scelta dei titoli, la narrazione non ha nulla a che vedere con questa merendilla. Il libro nasce dalla lettura da parte dell'autore di un articolo di Charlie LeDuff del 10 Giugno 2004 uscito sul The New York Times, "L'albero generoso", dal verso di Yeats "Tutto è cambiato, profondamente cambiato, è nata una terribile bellezza" e dall'ascolto del brano dei Siniestro total e dal traslamento di certi aspetti della postpoesia in ambito narrativo. Tutto ciò, anche in questo caso, lo specifica l'autore. Ci tiene a specificarlo. E sottolineo il fatto che ci tiene perchè in effetti un certo gusto sfacciatamente intelletuale (o intellettualoide) è parte integrante del progetto Nocilla. Il piacere di stupire, di andare a pescare in ambiti scientifici che parrebbero essere lontani mille miglia dalla narrativa pura e semplice; un fraseggio freddo, anche se a volte riporta un parlato scarno, ci porta in una dimensione tra l'onirico e l'allucinato, in un luogo, lungo la strada più solitaria d'America, nel bel mezzo del deserto del Nevada, da Carson City a Ely, con un bordello al suo inizio e uno alla fine e, nel mezzo il nulla. E nel bel mezzo del nulla, un albero dai cui rami pendono scarpe. Un non luogo che diventa il centro (im)perfetto di un maelstrom narrativo verso il quale diverse narrazioni convergono per poi venirne all'improvviso risputate e gettate verso coordinate spaziali e temporali imprecisate o, in certi casi, addirittura imprecisabili. Personaggi improbabili persi in esistenze (in bolle di esistenza) assurde, raccontaballe, sognatori, puttane, coppie appena sposate che perdono i loro soldi al gioco e si abbandonano nel deserto, disegnatori di tombini, appassionati folli di Borges e della sua opera, un Che Guevara in tarda età, truffatori, viaggiatori occasionali: tutti quanti colti nel loro perdersi, nell'atto stesso del perdersi, mentre la vita scorre su piani che li lambiscono soltanto, sia i personaggi che la narrazione stessa. Mi torna in mente il verso di Jim Morrison: Tutto è in frantumi, e danza. Il mondo che troviamo in questo Sogno della Nocilla è così, in frantumi, disperso in pezzi che vagano in un universo privo di senso, privo di logiche e direzioni, e i personaggi non sono altro che, essi stessi, pezzi inconsapevoli scagliati lontano dalla deflagrazione. I piani temporali sono come assi frantumate: s'interrompono, si rompono; a volte - spesso - sono semplici frammenti che ricordano l'osso scheggiato della scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio. I personaggi sono piatti, poetici nella loro insensatezza, nel muoversi involontariamente piegati sotto destini tanto pesanti quanto folli. Ridicoli. In effetti il libro è una sorta di canto poetico in prosa, intervallato da brani di taglio scientifico, a volte riportati con tanto di citazione dell'autore e del testo da cui sono stati estrapolati, altre si tratta, secondo un gusto tutto borgesiano della "finizione verosimile" (leggasi "inganno") di finti testi basati su altri testi reali, ci sono biografie reali e biografie inventate ma oscenamente versomili. L'autore, d'altronde, viene dalla (post)poesia, ed è laureato in Fisica. Quindi, nessuno sa cosa sia in realtà questo Sogno della Nocilla, fatto che per un libro suona incredibilmente simile ad un complimento. E, temo, in Italia non sapremo mai se gli altri due libri che compongono la trilogia possano portare qualche pietra in più a comporre l'edificio della comprensione. Forse questo libro sarà anche (ma non solo) supponente, vacuo, pedante e pretenzioso (d'altronde chi vuole inventarsi una strada nuova non può che essere sostenuto nel suo folle percorso da un qualche grammo almeno di suppponenza), ma in Spagna una pazzia del genere ha trovato un editore abbastanza coraggioso da pubblicarla e, soprattutto, un pubblico (assetato di novità e ansioso di crearsi un qualche nuovo nume letterario) capace di accoglierlo, valorizzarlo e addirittura elevarlo a fenomeno di culto. In Italia è stato tradotto nel 2007 (in Spagna uscì un anno prima) da Neri Pozza, e temo non sia facilmente reperibile. Forse tramite internet o in qualche remainder. E' fortemente consigliato: anche solo per poter parlarne male. Dopo.
Agustìn Fernàndez Mallo nasce nel 1967 a La Coruna (Spagna) e si laurea in Fisica. Pubblica le raccolte poetiche o, per meglio dire postpoetiche Yo siempre regreso a los pezones, Al punto 7 del Tractatus, Creta lateral travelling, Joan Fontaine odìsea (deconstrucciòn) e carne de pìxel. La postpoesia investiga le connessioni tra arte e scienza. In ambito narrativo pubblica Nocilla dream (Candaya 2006), Nocilla experience (Alfaguara 2008) e Nocilla Lab (Alfaguara 2009). Ha riscritto El Hacedor pubblicandolo con Alfaguara nel 2011, con il titolo El Hacedor (de Borges), Remake, suscitando le ire degli eredi del padre della moderna letteratura bonaerense che hanno ottenuto venisse ritirato dagli scaffali delle librerie. La sua letteratura è influenzata tanto da autori strettamente classici (in primis proprio Borges) quanto dai linguaggi mutuati dalla scienza, dal cinema e dalla pubblicità.
Agustìn Fernàndez Mallo nasce nel 1967 a La Coruna (Spagna) e si laurea in Fisica. Pubblica le raccolte poetiche o, per meglio dire postpoetiche Yo siempre regreso a los pezones, Al punto 7 del Tractatus, Creta lateral travelling, Joan Fontaine odìsea (deconstrucciòn) e carne de pìxel. La postpoesia investiga le connessioni tra arte e scienza. In ambito narrativo pubblica Nocilla dream (Candaya 2006), Nocilla experience (Alfaguara 2008) e Nocilla Lab (Alfaguara 2009). Ha riscritto El Hacedor pubblicandolo con Alfaguara nel 2011, con il titolo El Hacedor (de Borges), Remake, suscitando le ire degli eredi del padre della moderna letteratura bonaerense che hanno ottenuto venisse ritirato dagli scaffali delle librerie. La sua letteratura è influenzata tanto da autori strettamente classici (in primis proprio Borges) quanto dai linguaggi mutuati dalla scienza, dal cinema e dalla pubblicità.
Etichette:
Agustìn Fernàndez Mallo,
Libros,
Neri Pozza editore
domenica 14 aprile 2013
Una coppia perfetta - i racconti di hap e Leonard, diJoe R. Lansdale, Einaudi Stile Libero
Chi sono Hap e Leonard? Hap e Leonard sono Hap e Leonard, non ci sarebbe da aggiungere molto. Due amici squattrinati che vivono in Texas, e allora perchè due texani senza un soldo nè un lavoro fisso, sono proprio Hap e Leonard? Non so se c'è una risposta, forse no, di solito è meglio non trovarle le risposte, quindi la cosa migliore sarebbe leggere le loro storie e farsi un'idea propria, ma possiamo comunque provarci. Intendo dire a dare una risposta. In un Texas che o è quello che è realmente (e allora è un posto grottesco) o è la caricatura di quello che è realmente (e quindi è cioè che noi ci aspettiamo che sia, vale a dire un posto grottesco), Hap è la quintessenza del fallimento della classe bianca, un perdigiorno, ex hippie, ex universitario senza aver mai conseguito uno straccio di titolo di studio, non sposato, senza figli e senza un lavoro fisso e Leonard è esattamente ciò che un nero (Leonard è nero, non l'avevo ancora detto) non ci si aspetta che sia, soprattutto in Texas: è omosessuale, dichiarato e fiero di esserlo, ma non è nè effeminato e non rispecchia neppure lontanamente il clichè dell'omosessuale tutto mossette e vocine squillanti. In realtà Leonard fa sembrare l'omosessualità come qualcosa di estremamente virile. Ciò che li unisce, oltre l'amicizia cementata negli anni, è una naturale tendenza all'uso della violenza per risolvere i problemi, e un'ottima capacità a metterla in pratica, oltre ad una innata propensione a cacciarsi nei guai. Lansdale viene spesso paragonato a Mark Twain, non so se a ragione o a torto, ma i suoi romanzi su Hap e Leonard ricordano da vicino i film di Bud Spencer e Terence Hill, con un'attenzione ai dialoghi ed all'ironia nel racconto che richiama molto da vicino gran parte del cinema americano d'intrattenimento. Poi, Lansdale, vi ha aggiunto una nota pulp - chiamiamola così per intenderci -, il culto della violenza e del macabro (sempre ben intinto a fondo nell'ironia: Tarantino insegna) ed ha ambientato il tutto in quel Texas che non sappiamo quanto sia reale e quanto un luogo entrato nell'immaginario comune come una terra selvaggia abitata da personaggi rozzi e razzisti. Ecco servito un divertimento assicurato, ben scritto, ottimamente cadenzato (verrebbe da dire sceneggiato), con dialoghi favolosi, sempre giocati sul filo dell'ironia quando non del "non senso", dove, col passare degli anni, i due protagonisti hanno smesso di barcamenarsi da un impiego precario all'altro, per fare del loro passatempo un lavoro a tempo pieno. Non sono investigatori privati, perchè non ne avrebbero nè le capacità nè la pazienza, e non sono neppure consulenti, sono gente che mette le mani in situazioni spinose per risolverle, con le mani appunto. Persone scomparse, figli persi nel sottobosco della droga, ex mariti violenti, bulli da tenere a bada, bande di spacciatori o di motociclisti che mettono a repentaglio il buon vivere di quartieri e cittadine e via discorrendo: questi sono i casi che vengono loro affidati normalmente. Cose (relativamente) semplici per due che sanno menare le mani dannatamente bene, se non fosse che puntualmente i casi si complicano e i due si ritrovano invischiati in faccende più grandi di loro, in mezzo a personaggi più pericolosi di quanto non lo siano loro stessi e, quasi sempre, con un'unica improbabile (e stretta) via per venirne fuori portando a casa la pelle. Questo volume raccoglie tre racconti lunghi (e come tali godibilissimi), di cui uno scritto a quattro mani con Andrew Vachss. Il primo, Le iene, è quello meno riuscito, non perchè non sia ben scritto, ma l'intreccio è troppo simile a quello di altri romanzi della stessa serie. Il secondo, Veil in visita (scritto con Vachss), è una sorta di mini-legal-novel, ovviamente in stile HapLeonardiano e l'ultimo, Una mira perfetta, è quello che ritengo il più riuscito in assoluto (direi anzi che lavorandoci un po' sopra sarebbe divenuto uno splendido romanzo in aggiunta agli altri della serie). Non vi ho parlato di Brett, l'infermiera separata con figlia problematica che convive con Hap e che ne è la sua coscienza e il suo legame col mondo (diciamo così) "normale" (sempre secondo canoni tutti interni alla realtà del romanzo, quindi se vi siete costruiti un'immagine, cancellatela e rimodellatene una su una rossa pin up quarantenne, abile nell'uso delle armi, della lingua - non fraintendete - e con quel minimo di sale in zucca che, in confronto al suo compagno ed al suo amico - all'amico del suo compagno: ergo: Hap, e Leonard -, la fa sembrare un pozzo di buon senso).
Se siete già dei fans delle serie (cosa molto probabile), il libro è da considerarsi imperdibile. Se non lo siete, e deciderete di leggere questo Una coppia perfetta, lo diventerete presto (nel caso tutti i libri della serie sono rintracciabili nella Einaudi Stile Libero, e dovrebbero essere facilmente reperibili, anche solo in libreria).
Joe Lansdale è nato il 28 ottobre 1951 a Gladewater, Texas.
Grande lettore, Lansdale è stato influenzato da Mark Twain, Edgar Rice Burroughs e Jack London, ma anche da scrittori di fantascienza come Ray Bradbury e Fredric Brown. E' un grande appassionato di fumetti, di B-movie e letteratura “pulp” (etichetta con la quale è sbarcato in Italia, paese che lo ha adottato e dove ha una nutrita schiera di fans). Ha svolto diversi lavori dal contadino al buttafuori in locali pubblici, dal bidello all'operaio in fabbrica. Nel gennaio del 1997 aprì una sua scuola di arti marziali, e il Lansdale’s Self-Defense Systems è uno stile riconosciuto a livello internazionale. Ha pubblicato: Una stagione selvaggia (Savage Season, 1990), Einaudi; Mucho Mojo (Mucho Mojo, 1994), Bompiani riedito da Einaudi, Il mambo degli orsi (Two-Bear Mambo, 1995), Einaudi, Bad Chili (Bad Chili, 1997), Einaudi, Rumble Tumble (Rumble Tumble, 1998), Einaudi, Capitani oltraggiosi (Captains Outrageous (2001), Einaudi, Sotto un cielo cremisi (Vanilla ride) (2009), Fanucci, La notte del Drive-In (The Drive-In, 1988), Einaudi; Mondadori Urania n. 1214, Il giorno dei dinosauri (The Drive-In 2, 1989), Einaudi; Mondadori Urania n. 1224, La notte del drive-in 3, La gita per turisti, 2008, Einaudi, Atto d’amore (Act of Love, 1980), La morte ci sfida (Dead in the West, 1983),Il lato oscuro dell'anima (The Nightrunners, 1983), Texas Night Riders (1983), Il carro magico (Magic Wagon, 1986), Freddo a luglio (Cold in July, 1989), L’ultima caccia (The Boar, 1998), Fanucci, Fiamma fredda (Freezer Burn, 1999), I Neri Mondadori n. 1, riedito nel 2007 dalla Fanucci con il titolo “Freddo nell’anima”, Il valzer dell’orrore (Waltz of shadows, 1999, Fanucci), Blood Dance (2000), In fondo alla palude, Fanucci – premio Edgar Award 2001, L’anno dell’uragano (The Big Blow, 2000), Fanucci, Fuoco nella polvere (Zeppelins West, 2001) Fanucci, La sottile linea scura (A Fine Dark Line, 2002), Einaudi, Bubba Ho-Tep (Bubba Ho-Tep, 2003), Addictions-Magenes Editoriale, Tramonto e polvere (Sunset and Sawdust, 2004), Einaudi, Flaming London (2005), Echi perduti (Lost Echoes, 2006), Fanucci, The Shadows Kith and Kin (2007), God of the Razor (2007), La lunga strada della vendetta (Batman: Captured by the Engines), Edizioni BD, La ragazza dal cuore d’acciaio (Leather Maiden, 2007), Fanucci, Laggiù nel profondo (Way Down There, 2007) Edizioni BD, Cielo di Sabbia, Einaudi, eccetera eccetera eccetera.
Allego il link del sito di Joe R. Lansdale: Qui.
Qui invece il link al precedente romanzo di Lansdale recensito in questo blog
Etichette:
Einaudi,
Joe R. Lansdale,
Libros,
Una coppia perfetta
domenica 17 marzo 2013
Va tutto bene, di Matthew Mcintosh, Mondadori editore
Mi pare che questo libro non abbia avuto una gran fortuna in Italia, quantomeno io l'ho recuperato a 4 euro e 90 in un cestone al Carrefour, in mezzo ad un mare di edizioni strampalate e sconosciute e libri di autori oscuri o caduti in disgrazia o che in disgrazia non ci sono neppure caduti ma ci son nati. Eppure, Va tutto bene è una sorta di Spoon River, solo che Spoon River non si chiama Spoon River ma Federal Way, e le voci non sono quelle dei morti che marciscono nel cimitero bensì quelle dei vivi che si arrabattano a campare come possono, terrorizzati come cervi davanti ai fari di un'auto. La paura, l'immobilità, lo sconcerto di fronte all'esistenza, la droga, i figli che diventano un ordine di misura del proprio fallimento o dell'incomprensibilità della vita, il matrimonio come qualcosa di assurdo e in certi casi di misterioso, la morte e tutto ciò che sta prima della morte, fino ad un secondo prima, il basket e l'amicizia, il lavoro, e la boxe, il Trolley bar attorno al quale tutto gira ( e, a volte, vortica, ma lentamente, in vortici lenti, dolenti ed ipnotici). Tutto questo è Federal Way, ma in realtà non è così. Federal Way - immagino - è ben altro: è la scelta che Mcintosh compie che ci porta a quanto sopra elencato, l'umanità da descrivere Mcintosh la sceglie in base al momento che sta vivendo. Un momento delicato derivato da un destino incattivito, poca azione, quasi nulla, nulla, al contrario molta introspezione raccontata con una maestria che pochi autori si possono permettere: sono i sentimenti genuini, strazianti, a volte imbarazza(n)ti che si scontrano e si combinano nei vari capitoli e rendono il senso di un'azione che non c'è, e che trasmettono un'idea di unità narrativa che in realtà quasi non esiste. Il punto d'unione è Federal Way, nel senso che le storie narrate appartegono a persone che vivono lì: poi: a persone che stanno seguendo una certa partita di basket, che frequentano o frequentavano un certo locale, il Trolley, che ruotano attorno al funerale di un giovane suicida, ma non solo. Poi ci sono voci che emergono per assonanza con altre: il pugile che pensa se andare al funerale di un suo avversario, la madre che s'imbambola in fila al supermercato e, in quel momento, in quel preciso momento, si accorge di un particolare banale che la rimanda a qualcosa di più grande, pensa, forse di superiore o trascendente e si chiude in macchina cercando di capire qualcosa in più finchè la figlia non bussa al finestrino e le chiede perchè diavolo non si dia una mossa, o il tossico che in pratica vive su un battello di linea e quando scende a terra va in cerca di vecchi e nuovi compagni di sballo, cercando in quella maniera sinistra un raggio di luce, un'amicizia, anche solo per la notte, anche solo per avere il tempo per raccontare di sua moglie e di sua figlia che ora stanno con un tipo giù a Federal Way, di sua moglie che lo ha lasciato anni prima, quando lui combinava brutti casini e si comportava male con la gente, non come ora che offre la roba gratis e si raccomanda coi giovani tossici di non mettersi nei guai: il suo modo per redimersi.
Buona parte dei capitoli s'intitolano "Quanto diavolo ci mette ad arrivare", ed è come se fosse la domanda stessa dei protagonisti del romanzo che si domandano quando arrivi la botta, come il cervo paralizzato di fronte ai fari dell'auto: la botta definitiva che li colerà a picco, o la botta di fortuna che li risolleverà, o la botta di droga che li spedirà per qualche tempo in un mondo meno spaventoso, più luminoso e semplice di quello in cui sono intrappolati. Mcintosh aggiorna alla contemporaneità l'umanità descritta nei romanzi di Nelson Algren e la demitizza. I losers di Mcintosh sono losers non tanto (o non solo) in relazione alla loro condizione sociale o economica, bensì lo sono perchè in un dato momento (che può essere un periodo o tutta una vita) si trovano a non capire le regole base dell'esistenza, quelle che tutti danno per scontate, prima ancora di non essere in grado di adattarvisi, non le compredono, si trovano in un universo senza senso, senza logica apparente ai loro occhi, per questo in fondo hanno paura, per questo cercano conforto nelle droghe, e per questo nonostante non siano buoni padri, buoni mariti o buone mogli, non siano nè buoni lavoratori nè tantomeno buoni cittadini, nè siano buoni pugili e non lo siano mai stati e in certi casi non siano in gradi di essere neppure buoni tossici, comunque chiamano il lettore a non giudicarli, se non proprio a capirli (o a cercare di farlo), almeno a non giudicarli. Ma alla fine più che pura e semplice compassione si arriva a provare tenerezza per (alcuni di) loro, perchè in fondo quelle paure che emergono dalle pagine del libro, quel non comprendere l'esistenza o certi suoi aspetti, quel rimanere immobili e spaesati sono sensazioni che fanno parte di ogni essere umano. La bravura, o forse in questo caso ci si può spingere ad affermare: la grandezza di Mcintosh sta nel comporre un puzzle apparentemente disordinato (ma organico) che lascia emergere su tutto non uno o più personaggi, una o più situazioni, bensì la sensazione, quel quid di inespresso (perchè inesprimibile) che non sta nei racconti, nei personaggi e noi dialoghi e solo in parte sta nella scrittura bensì tra le righe, nel non detto, nell'immaginato, quella sensazione che ci portiamo dentro e non sappiamo rendere comprensibile al prossimo di inadeguatezza, di assurdità, di incomprensione e la paura collegata e la successiva necessità di tenerezza, di appoggio, di aiuto. Il bisogno assoluto di famiglia o di amicizia, o di entrambe, se non fosse che anche l'amicizia e la famiglia si rivelano parte del disegno oscuro nel quale ci si è persi.
Matthew Mcintosh esponente dei giovani narratori americani che in anni recenti ha fatto conocere David Foster Wallace, Nathan Englander e Adam Haslett, è uno scrittore che dà voce alla più basse frequenze del cuore. Ha ventisette anni ed è nato vicino a Seattle, laureato all'Iowa University, è autore di racconti pubblicati su riviste e cofondatore della piccola casa editrice indipendente Well Known Press.
Buona parte dei capitoli s'intitolano "Quanto diavolo ci mette ad arrivare", ed è come se fosse la domanda stessa dei protagonisti del romanzo che si domandano quando arrivi la botta, come il cervo paralizzato di fronte ai fari dell'auto: la botta definitiva che li colerà a picco, o la botta di fortuna che li risolleverà, o la botta di droga che li spedirà per qualche tempo in un mondo meno spaventoso, più luminoso e semplice di quello in cui sono intrappolati. Mcintosh aggiorna alla contemporaneità l'umanità descritta nei romanzi di Nelson Algren e la demitizza. I losers di Mcintosh sono losers non tanto (o non solo) in relazione alla loro condizione sociale o economica, bensì lo sono perchè in un dato momento (che può essere un periodo o tutta una vita) si trovano a non capire le regole base dell'esistenza, quelle che tutti danno per scontate, prima ancora di non essere in grado di adattarvisi, non le compredono, si trovano in un universo senza senso, senza logica apparente ai loro occhi, per questo in fondo hanno paura, per questo cercano conforto nelle droghe, e per questo nonostante non siano buoni padri, buoni mariti o buone mogli, non siano nè buoni lavoratori nè tantomeno buoni cittadini, nè siano buoni pugili e non lo siano mai stati e in certi casi non siano in gradi di essere neppure buoni tossici, comunque chiamano il lettore a non giudicarli, se non proprio a capirli (o a cercare di farlo), almeno a non giudicarli. Ma alla fine più che pura e semplice compassione si arriva a provare tenerezza per (alcuni di) loro, perchè in fondo quelle paure che emergono dalle pagine del libro, quel non comprendere l'esistenza o certi suoi aspetti, quel rimanere immobili e spaesati sono sensazioni che fanno parte di ogni essere umano. La bravura, o forse in questo caso ci si può spingere ad affermare: la grandezza di Mcintosh sta nel comporre un puzzle apparentemente disordinato (ma organico) che lascia emergere su tutto non uno o più personaggi, una o più situazioni, bensì la sensazione, quel quid di inespresso (perchè inesprimibile) che non sta nei racconti, nei personaggi e noi dialoghi e solo in parte sta nella scrittura bensì tra le righe, nel non detto, nell'immaginato, quella sensazione che ci portiamo dentro e non sappiamo rendere comprensibile al prossimo di inadeguatezza, di assurdità, di incomprensione e la paura collegata e la successiva necessità di tenerezza, di appoggio, di aiuto. Il bisogno assoluto di famiglia o di amicizia, o di entrambe, se non fosse che anche l'amicizia e la famiglia si rivelano parte del disegno oscuro nel quale ci si è persi.
Matthew Mcintosh esponente dei giovani narratori americani che in anni recenti ha fatto conocere David Foster Wallace, Nathan Englander e Adam Haslett, è uno scrittore che dà voce alla più basse frequenze del cuore. Ha ventisette anni ed è nato vicino a Seattle, laureato all'Iowa University, è autore di racconti pubblicati su riviste e cofondatore della piccola casa editrice indipendente Well Known Press.
Etichette:
Libros,
Matthew Mcintosh,
Mondadori,
Va tutto bene
lunedì 4 marzo 2013
35 morti, di Sergio Alvarez, La nuova Frontiera editore
"35 morti" è il "Potere dal cane" dal punto di vista del cane. Il capolavoro di Don Winslow narrava con una forza ed un afflato epico la grande guerra alla droga e della droga nel suo imporsi al mondo non solo come forza criminale ed economica ma anche come stile di vita, come codice di comportamento ripreso ed imposto al mondo dai media internazionali, non ultimi il cinema hollywoodiano. Sergio Alvarez, a suo modo, avvicina l'obiettivo ai protagonisti più o meno piccoli di quella guerra al punto da rendere la guerra stessa qualcosa di sfocato ma assolutamente presente in ogni pagina del suo libro. I boss ci sono, ma rimangono sullo sfondo, e non siamo in grado di capire quanto siano importanti in quel mondo al rovescio che è l'universo del narcotraffico e della Colombia fino agli anni '80. Viene citato diverse volte Pablo Escobar, ma è un nome, un'entità che proietta la sua ombra mortifera sul paese in maniera quasi naturale, come se fosse normale essere Pablo Escobar e comandare su un'intera nazione, ma alla fine sappiamo solo che muore, come tutti. In realtà di Escobar non frega niente a nessuno, così come a nessuno importa qualcosa degli altri boss, piccoli o grandi che siano, dei capi guerriglieri, dei politici corrotti o dei paramilitari. A dire il vero i protagonisti di questo magnifico romanzo, se ne fregano di tutto e di tutti o, per meglio dire, vorrebbero fregarsene di tutto e di tutti, ma non possono. Non in un paese come la Colombia, dove sei costretto ad uccidere se non vuoi essere un coglione destinato a soccombere. Cacciarsi nei guai sembra essere la più facile delle conclusioni di qualsiasi giornata, in guai seri. I guai seri di solito prevedono l'eventualità di una morte violenta. Morte violenta che è all'ordine del giorno - quasi quanto i guai -, una presenza costante nella vita di ognuno, una faccenda odiosa ed antipatica quanto si vuole, ma comunque inevitabile. Che tu sia un famoso pluriassassino, Botones (che darà il via ad una genìa di coglioni, sfigati ed assassini che comporranno il romanzo), un ragazzino sperduto in cerca di un qualche punto fermo, un sognatore utopista, un artista, un comunista, un guerrigliero, un trafficante, una puttana, un insegnante, un militare, un imprenditore: la morte continuerà a camminarti accanto e, ogni qual volta sarai scivolato nell'illusione di aver raggiunto una tua pace personale, una famiglia, un posto sicuro nel mondo o qualsiasi altra cosa ti sia prefisso di raggiungere, arriveranno i guai a spazzare via tutto, e con essi la morte. Moriranno tutti, o quasi tutti, tutti gli amici, tutte le donne, tutti i compagni, e chi non risulterà effettivamente deceduto sarà come se lo fosse, perchè se ne sarà andato dal paese, sarà sceso a patti con la vita, si sarà arreso, avrà tradito, sarà passato tra le fila del nemico, e non una, ma più volte. E' l'apoteosi del disastro. Il protagonista (anche se in realtà trattasi di romanzo corale) è una sorta di Forrest Gump privo di morale - non immorale bensì amorale - non particolarmente sveglio ma enppure un idiota fatto e finito e comunque dai mille talenti, ma il dubbio che coglie il lettore è che in realtà non sia tanto il protagonista a possedere quelle caratteristiche, bensì un'intero popolo. Forse un'intera cultura o tutto un continente. Quello che ne risulta, alla fine, non è tanto il ritratto di un'epoca o di un paese, bensì qualcosa di più, qualcosa che dallo sguardo "basso" dei suoi protagonisti s'innalza fino a divenire un sentire, un modo di percepire l'esistenza, di giocarsi il futuro a dadi, ballando salsa, scopando contro ogni logica e contro ogni buon senso, mettendo in gioco tutto quanto e mettendosi in gioco in tutto e per tutto, fino a gettarsi via, bevendo, ubriacandosi, drogandosi, scivolando via dalle proprie responsabilità fino alle estreme conseguenze. E' la fotografia vorticosa, anche nel ritmo narrativo, di una corsa irresponsabile verso l'abisso, irresponsabile ma in qualche modo cosciente, come se il Fato intessesse destini a proprio piacimento e si limitasse poi a svolgere il ruolo delle sirene per i naviganti: incanta, chiama a sè, instrada gli uomini nei percorsi che già ha deciso per loro, percorsi contorti, assurdi, tragici e dolorosi, a volte poetici, a tratti straripanti di felicità intense e brucianti, percorsi insensati che si perdono su sè stessi e non portano da nessuna parte. E qui stà, a mio parere, la reale grandezza del romanzo: il senso dell'esistenza, i personaggi lo trovano (o forse non lo trovano, ma certamente lo "sentono") esattamente in quel loro vagabondare senza speranza, nell'assurdità di un viaggio terribile e senza significato. Bisogna guardare il destino in faccia, a testa alta, a petto in fuori, ma anche no, anche piangendo e bevendo, o cercando conforto tra le carni calde di qualche donna, ma sempre ed in ogni caso trovare la forza o la disperazione per lasciarsi tutto alle spalle, per dimenticare, o fingere di dimenticare, perchè quella è la vita, passare da una disfatta all'altra, da una vittoria fatua ad una caduta disastrosa, per nessun altro motivo se non che, per assurda che sia, quella appunto è la vita. La vita in Colombia, dove se non ti adatti ad uccidere, e all'occasione a dimenticare di averlo fatto, allora sei un coglione. Siamo tutti figli di Botones, assassini nostro malgrado, sperduti ed innocenti tanto quanto spietati e sadici, vittime che si trasformano in carnefici da un momento all'altro (e viceversa) per un capriccio del destino, per un concatenarsi di casi che non ha senso analizzare e cercare di comprendere. Siamo nati da una stirpe di assassini, e moriremo assassini (o drogati o spacciatori o truffatori), ammazzati da qualche altro assassino. 35 morti diventerà un classico. E' il brulicare insensato della vita che scorre al di sotto (o tra le righe) di quel capolavoro che è Il potere del cane: sono due facce della stessa medaglia, un capolavoro che completa l'altro (e in esso, a sua volta, si completa).
Un sincero apprezzamento all'editore che, utilizzando i proventi derivanti da fenomeni editoriali effimeri e di scarso valore letterario come Yuri Herrera per portare in Italia (e in ottime traduzioni) autori del livello di Alvarez (o Valeria Luiselli, Julio Ramòn Ribeyro, o Juan Josè Saer solo per citarne alcuni), compie un'operazione non solo valida e coraggiosa, ma soprattutto meritoria.
Aspettiamo altri libri di Alvarez, e altri Alvarez.
Un sincero apprezzamento all'editore che, utilizzando i proventi derivanti da fenomeni editoriali effimeri e di scarso valore letterario come Yuri Herrera per portare in Italia (e in ottime traduzioni) autori del livello di Alvarez (o Valeria Luiselli, Julio Ramòn Ribeyro, o Juan Josè Saer solo per citarne alcuni), compie un'operazione non solo valida e coraggiosa, ma soprattutto meritoria.
Aspettiamo altri libri di Alvarez, e altri Alvarez.
Sergio Alvarez è nato nel 1965 a Bogotà. Figlio di un sognatore e di una maestra di scuola, ha sempre coniugato la passione per i libri con quella per l'avventura. Il suo primo romanzo La Lectora ha ottenuto il premio Silverio Canada della Semana Negra di Gijòn nel 2002. Sergio Alvarez ha dedicato dieci anni alla scrittura di 35 morti, un romanzo che è frutto di approfondite ricerche sulla storia e sul mondo del narcotraffico in Colombia, nonchè di numerosi viaggi in tutto il paese.
Etichette:
35 morti,
La Nuova Frontiera edizioni,
Libros,
Sergio Alvarez
mercoledì 13 febbraio 2013
Wiera Gran, L'accusata, di Agata Tuszynska, Einaudi editore
Come passare da un inferno all'altro e ritrovarsi all'improvviso in un terzo incubo (o inferno, trattasi del medesimo soggetto), la vecchiaia in solitudine e la fine della vita, il suo esaurirsi patetico, sporco, triste e privo di poesia. Wiera Gran non sapevo chi fosse, ne ne avevo mai sentito parlare e se mi sono soffermato su questo libro è per via della sua bellezza, grazie alla foto che il libro riporta in copertina, una bellezza in bianco e nero, fredda e calda al medesimo tempo, distaccata, come se giungesse da un altrove in cui il colore e la parola ancora non hanno fatto la loro comparsa, quindi non tanto da un passato quanto, appunto, da un altrove. Un altrove che possiamo chiamare passato. Non l'ho comprato subito e pochi giorno dopo, quando sono andato a ricercarlo, non era più esposto e in libreria non solo era introvabile ma in pratica fu come se non ci fosse mai stato, nessuno lo ricordava, nessuno riusciva a capire di cosa stessi parlando e, nonostante internet e le ricerche correlate, mi fu impossibile rintracciarlo. L'ho ritrovato tempo dopo - per caso - a metà prezzo in un remainder, e leggendolo mi sono chiesto (e me lo domando ancora) come sia possibile che un'editore come Einaudi si prenda la briga di tradurre e pubblicare un libro su una cantante sconosciuta in Italia per poi strafottersene altamente di pubblicizzarlo a dovere. Di solito funziona così: qualcuno in casa editrice si innamora del libro, si batte, smuove mari e monti per comprarne i diritti contro le opinioni di tutti, e quando finalmente deve essere inviato agli scaffali delle librerie, là dove ogni libro dovrebbe stare, almeno per un certo tempo, i colleghi che si erano lasciati piegare dalla sua foga, si tirano indietro, non forniscono l'appoggio promesso e, in buona sostanza, lo boicottano. Nel senso che boicottano la collega (o il collega) e (peggio) la pubblicazione stessa. Immagino sia andata più o meno così, o forse mi sbaglio, ma se non è così che si sono svolti i fatti allora torno a non capire. Perchè è un libro magnifico, e terribile, di una potenza sommessa e straordinaria, che non tace nulla e che scava nelle zone oscure della storia - con e senza maiuscola -, della vita e della mente della protagonista. Non solo della protagonista. Parla di diversi inferni, reali e tangibili e invisibili, fatti di parole o al contrario di silenzi, di giudizi sommari espressi o taciuti, e alla fine parla della morte, la morte celiniana, che puzza di escrementi e di altri sgradevoli odori corporei, di artriti, di piaghe da decubito e di demenza senile. Ma la morte non è il peggio che può capitare, non è - per citare un altro libro - il peggiore dei destini, anzi, forse è la giusta liberazione da una catena di follie e disgrazie che a stento di può definire vita. Wiera Gran era una cantante, Wiera Gran era ebrea, Wiera Gran si appresta a diventare una diva nel periodo in cui questo termine risplendeva di un significato che era chiaro a tutti, ammantato di un'aura al limite del religioso (o del patologico), ma Wiera Gran è anche polacca e si trova a vivere nel periodo della guerra. Non è il massimo essere donna, ebrea, polacca e con tutti quei nazisti intorno. L'essere ebreo improvvisamente (o forse poco alla volta, ma un poco alla volta comunque relativamente veloce) diventa un difetto di cui vergognarsi, poi si trasforma in un vizio ed infine in una colpa. Se si è ebrei si finge di non esserlo, ci si mimetizza, certo non lo si grida ai quattro venti. Si accettano le prime limitazioni, si pensa che in fondo si può vivere lo stesso, magari adattandosi, giusto un po', poi le limitazioni aumentano, poi diventano divieti, infine c'è il ghetto, nel caso specifico il ghetto di Varsavia, poi le persecuzioni, le torture, gli omicidi e tutto il repertorio della crudele follia umana. Wiera Gran diventa una stella (o una diva, o una quasi diva) nel ghetto, dove nonostante tutto, nonostante i bambini morti di fame in strada si cerca comunque e contro ogni logica apparente di vivere una vita, una vita qualsiasi, certo non normale, ma comunque qualcosa che possa sembrare o magari essere ricordata un domani come una vita (quel po' di vita possibile), e dove oltre la fame vera e propria esiste anche una fame vorace di arte, di cultura, di divertimento, di cafè-chantant se non proprio di vaudeville. Lei è la regina. Si esibisce in un locale, nel locale entra chi se lo può permettere e dunque gli avventori più assidui sono ovviamente gli ebrei che collaborano con i nazisti, la polizia ebrea, e gente poco raccomandabile di ogni risma. Chi prospera nel fango, di solito ha da essere un maiale. Finita la guerra, finisce il primo incubo o inferno. Teoricamente ci si aspetta il paradiso o qualcosa di simile, anche solo una normalità che a paragone di ciò si è vissuto odori di paradiso, ma non è così, perchè esattamente qui inizia il secondo inferno, più sottile del primo, meno cruento ma non meno implacabile. Perchè gli ebrei che si sono salvati si sono salvati? Se sei morto, allora sei innocente, sei stato puro e giusto e per quello sei morto, ma se ti sei salvato, perchè ti hanno risparmiato? Come hai fatto? A quali compromessi sei sceso? Cos'hai barattato in cambio della tua vita? Come ti hanno comprato, perchè, che tu ti sia venduto è evidente, altrimenti non saresti vivo. Wiera Gran viene accusata dalla sua stessa gente, con la quale ha patito le sofferenze della guerra e del ghetto, di aver collaborato con quanti quelle sofferenze hanno inferto a lei ed alla sua gente. E' come se la crudeltà dei nazisti si fosse spostata di corpo, come quei virus alieni che giungono da altri pianeti attraverso qualche meteroite del cazzo, o come se i nazisti avessero scagliato una maledizione su quegli ebrei che non erano riusciti a far fuori. Una pazzia su una pazzia su un abisso di follia ed orrore. La carriera che a quel punto avrebbe dovuto esplodere per Wiera Gran diventa un via crucis che dura tutta una vita perchè la notorietà che avrebbe dovuto essere il suo dono nella vita le si rivolta contro e la rende un bersaglio pubblico, facile al giudizio ed al pregiudizio, alle invidie e gelosie dei colleghi e delle colleghe, vittima degli strali dei nevrotici ed inflessibili tribunali ebraici e soprattutto dei tribunali non ufficiali, delle voci incontrollate, delle comunità ebreaiche in giro per il mondo, dei "si dice" che si trasformano in "è certo che", dei "dicono" che diventano "l'hanno vista" e finiscono con l'eternizzarsi in "l'ho vista". Il resto, i tuor in giro per il mondo che si trasformano in rifiuti, in cacciate e poi in fughe ed infine in una sorta di fuga perenne da un cantone all'altro dove cercare comprensione e dai quali ogni volta fuggire ricoperta di ignominia, il resto dicevo è l'immagine di una falena che sbatte e risbatte contro le pareti di vetro di un bicchiere, sempre più forte, sempre più disperatamente, per poi culminare nella paranoia, una paranoia combattiva ed orgogliosa, ma pur sempre paranoia. La vecchiaia, Parigi, l'alloggio in un condominio che assomiglia sinistramente a quello de L'inquilino del terzo piano di Roland Topor (portato sullo schermo da uno dei grandi nemici - forse immaginari - della Gran, Polansky), dove le portinaie sono diaboliche e di notte Loro entrano e fanno il bello e cattivo tempo rendendole la vita impossibile. E' un libro eccezionale e tragico, un libro che merita di essere letto e, penso, pure riletto, un libro tanto più terribile in quanto la storia non è uscita dalla penna di Kafka ma dagli intrecci del destino ed è divenuta vita, dolorosa e assurda, ma vita.
Chiudo citando una delle ultime frasi del libro, una frase di Wiera Gran ormai vicina alla morte:
Guardare il mondo da qui, in orizzontale, dalle piaghe da decubito, è come osservarlo dalla bara. Bruciatemi, spargetemi ai piedi di un albero. Che i cani mi piscino sopra. Mi scalderanno l'anima. Tutto qui.
Il libro, aggiungo, è ben scritto, ma mettere i punti al posto delle virgole non è che gli giovi particolarmente e comunque il non inserire il virgolettato e il lasciare un certo margine di indeterminatezza non mi pare nè un colpo di genio nè segno di particolare avanguardia artistica, ma tutto questo conta abbastanza poco, perchè il libro è potente e sommesso al contempo e mi sento di dire che và letto, non tanto per sapere o capire di più della Storia del novecento, quanto per comprendere di più di noi stessi in quanto esseri umani e dei meccanismi spaventosi ed implacabili che in talune circostanze ci posseggono.
Aggiungo: non troverete nessuna certezza, ma solo indizi. Probabilmente non vi identificherete con la protagonista (me lo auguro per voi), perchè il ritratto che ne esce non è limpido e non avrebbe potuto esserlo, per fortuna, ma è una sorta di fotografia tridimensionale che riporta pregi e difetti, zone d'ombra, capricci, pose da diva o da quasi diva, disperazione assoluta ed errori infantili, pregiudizi, maldicenze, speranze assurdamente mal riposte, ma pur non simpatizzando con Wiera Gran (comunque certo non sempre, non lungo tutto il corso della narrazione) non potrete fare a meno di sentirne la carne viva, non potrete evitare certe domande che non vorrete porvi perchè intuirete che non hanno risposta. E' un viaggio in tre inferni, ma alla fine voi ne uscirete vivi e forse non vi augurerete che dei cani piscino sulla vostra tomba.
Agata Tuszynska, narratrice, poetessa, biografa, è nata a Varsavia nel 1957 ed è una delle personalità di spicco della letteratura polacca contemporanea. Insegna Giornalismo letterario all'Università di Cracovia. Per Einaudi ha pubblicato Wiera Gran. L'accusata (Frontiere, 2012).
Etichette:
Agata Tszynska,
Einaudi,
L'accusata,
Libros,
Wiera Gran
martedì 29 gennaio 2013
Lire 26.900, di Frederic Beigbeder, Feltrinelli editore
Per dirottare un aereo, pare sostenesse nientemeno che Gramsci, bisogna - ovviamente - salirci a bordo. Questo libro, edito per la prima volta in Francia nel 2000 da Editions Grasset & Fasquelle (quindi si colloca prima di quella linea spartiacque che è stato l'11 Settembre 2001), è la storia di un copy (abbreviazione di copywriter, vale a dire un creativo che lavora in ambito pubblicitario) che sogna di dirottare un aereo, e di dirottarlo scrivendo un libro, il libro che in effetti poi ha scritto e che qui sto recensendo. Mentre appunta gli avvenimenti che follemente si susseguono nell'agenzia pubblicitaria per cui lavora e le riflessioni dettate dallo sdegno che lo anima e che formeranno parte del libro finale, i fili e gli inneschi della bomba che sta mettendo insieme per far saltare un mondo che non riconosce se non come ingiusto e demente oltre che patologico e demenziale, il protagonista, Octave, si domanda se il suo persistere all'interno della cabina di comando sia davvero un "salire a bordo", per dirla con Gramsci, o se piuttosto non sia un atto di vigliaccheria ipocrita puro e semplice. Fa parte del sistema perchè è l'unico modo per sovvertirlo, o si illude di voler sovvertire un sistema nel quale nonostante tutto sguazza e oscenamente ci si arrichisce? Le riunioni che si susseguono nevroticamente per decidere il claim (leggi slogan) e il packaging, il video, il payoff e non so quant'altro per una campagna pubblicitaria il cui cliente è un'importante produttore di formaggio magro, le idee che vengono partorite e poi bruciate in un nanosecondo, le frasi fatte, i tic e le nevrosi del mondo della comunicazione ci vengono mostrate dall'interno, in soggettiva, in una situazione in cui autore e protagonista si confondono (e piacevolmente ci confondono). Gli esempi che Octave adduce (seducendoci) per far capire la mostruosità di quel mondo in cui vive sono la parte migliore del libro: i fondi pensione dei ricconi di Miami pagati dai lavoratori dell'Europa intera, l'uso delle tecniche pubblicitarie a fini propagandistici fatto da Goebbels, la registrazione di marchi assurdi come la felicità o il colore blu da parte di grandi multinazionali, e via discorrendo (non vado oltre perchè, essendo l'aspetto più interessante del libro, non ha senso spiattellarli qui in bella mostra, rovinando così il piacere della lettura). I fatti, i dati ed i meccanismi che sottendono la realtà della pubblicità sono snocciolati come meglio non si potrebbe e bastano poche pagine per far comprendere al lettore di come la pubblicità sia una macchina da guerra che si muove in un territorio di guerra durante tempi di guerra, per vincere le nostre resistenze e convincerci di come quell'arma così seducente abbia modificato le vite di ognuno di noi e ne abbia distorto la percezione che ne abbiamo (sia della vita che della realtà). Riassunto: non siamo più schiavi costretti con la forza dal sistema a rimanere tali, siamo schiavi inconsapevoli di esserlo che chiedono al sistema di tenerli soggiogati. Amiamo le nostre catene, perchè le nostre catene sono lucide, brillano, paiono d'oro, sono trendy e siamo noi a spaccarci la schiena ogni giorno per potercele permettere, per esibirle al mondo o anche solo ad uno specchio o in un supermercato: questo è l'insegnamento che il sistema ha tratto dal fallimento della grandi ideologie e conseguenti dittature del novecento. Uno schiavo che sa di esserlo e patisce la propria condizione, prima o poi troverà il modo di liberarsi, l'ideale è uno schiavo inconsapevole, apparentemente beato della propria condizione, ebete. E questo risultato il sistema ha capito come ottenerlo: con la pubblicità, quella cosa che studia l'uomo per fotterlo, per vendergli "tutta quella merda", per citare l'incipit del romanzo. Fin qui, dicevo, tutto bene. Cioè tutto male, ma il romanzo si rivela notevole e di piacevole lettura, la realtà scende a patti con la finzione e vi si adatta alla perfezione. Poi però cambia qualcosa. E' come se ad un certo punto l'autore avesse sentito la necessità di tornare coi piedi per terra lasciando che la struttura narrativa prendesse il sopravvento su quanto di reale era stato fino a quel momento ben amalgamato alla fantasia, e qui cominciano i problemi. Perchè il libro scade nel banale, nelle frasi ad effetto usate da Beigbeder con sapienza, ma anche con la furbizia tipica del copy, come se la seconda parte del libro mettesse in pratica quanto esposto nella prima al solo scopo di rendere più appetibile il libro indirizzandolo verso un target ben preciso (uso certi temini non a caso).
Octave, che già è stato lasciato (si è "lasciato lasciare") dalla findanzata incinta, Octave che prima abusa e poi si disintossica dalla cocaina, Octave che frequenta, pagandola cifre astronomiche, una prostituta per poi ammirarle gomiti e palpebre, viene coinvolto in vortice abilmente costruito (ma neppure poi tanto abilmente) in cui sesso, dandismo di maniera, amoralità e immoralità si susseguono fino a giungere alle estreme conseguenze che si concretizzeranno in un suicidio ed in un omicidio. Maledettismo di facciata, cinismo trendy e colpi di scena improbabili e stridenti, niente più. Poi, da un certo punto in avanti, la storia si fa confusa e sfuma nell'onirico (con un tentativo poco riuscito di sfociare nel poetico) e non si capisce più se il dirottatore alla fine lo ha dirottato, l'aereo, o se al contrario c'ha preso gusto ed ora lo sta pilotando.
Poco importa, perchè non è quella la questione, nè il punto di forza del libro. La storia in questo caso va considerata, come e più che in altri libri, come un semplice pretesto per descrivere e criticare (condannare) un certo mondo, per metterci in allarme e lanciare un razzo di segnalazione nel bel cielo blu: per urlarci: scendete fin che siete in tempo! Tutto il resto, la storia diciamo, il plot o come diavolo vogliamo chiamarlo, è un insieme di controluoghi comuni utili semplicemente ad arrivare alla fine del libro.
Frederic Beigbeder nasce da una famiglia piuttosto agiata: sua madre Christine de Chasteigner è traduttrice di romanzi rosa, mentre suo padre Jean-Michel Beigbeder è reclutatore di talenti. Diventato redattore in una grande agenzia pubblicitaria, Beigbeder collabora anche come critico letterario in alcune riviste come Elle e Paris Match.
Nel 2000, conscio che la pubblicazione gli avrebbe causato il licenziamento, dà alle stampe il romanzo che gli è valsa la celebrità, Lire 26.900 (titolo originale francese: 99 francs), impietosa denuncia del mondo della pubblicità divenuta un caso editoriale con 380.000 esemplari venduti.
Nel gennaio 2003, la casa editrice Flammarion propone allo scrittore di cambiare fronte e di diventare editore. Da quel momento ha pubblicato circa 25 libri.
Il suo romanzo Windows on the world, che si ambienta nelle Torri Gemelle di New York durante gli attentati dell'11 settembre, gli è valso il premio Interallié 2003. Il romanzo stesso è in corso di adattamento cinematografico da parte del regista anglo-francese Max Pugh.
Beigbeder è divorziato ed ha una figlia, Chloë. Dal 2004 al 2007 è stato unito sentimentalmente all'attrice francese Laura Smet.
Octave, che già è stato lasciato (si è "lasciato lasciare") dalla findanzata incinta, Octave che prima abusa e poi si disintossica dalla cocaina, Octave che frequenta, pagandola cifre astronomiche, una prostituta per poi ammirarle gomiti e palpebre, viene coinvolto in vortice abilmente costruito (ma neppure poi tanto abilmente) in cui sesso, dandismo di maniera, amoralità e immoralità si susseguono fino a giungere alle estreme conseguenze che si concretizzeranno in un suicidio ed in un omicidio. Maledettismo di facciata, cinismo trendy e colpi di scena improbabili e stridenti, niente più. Poi, da un certo punto in avanti, la storia si fa confusa e sfuma nell'onirico (con un tentativo poco riuscito di sfociare nel poetico) e non si capisce più se il dirottatore alla fine lo ha dirottato, l'aereo, o se al contrario c'ha preso gusto ed ora lo sta pilotando.
Poco importa, perchè non è quella la questione, nè il punto di forza del libro. La storia in questo caso va considerata, come e più che in altri libri, come un semplice pretesto per descrivere e criticare (condannare) un certo mondo, per metterci in allarme e lanciare un razzo di segnalazione nel bel cielo blu: per urlarci: scendete fin che siete in tempo! Tutto il resto, la storia diciamo, il plot o come diavolo vogliamo chiamarlo, è un insieme di controluoghi comuni utili semplicemente ad arrivare alla fine del libro.
Frederic Beigbeder nasce da una famiglia piuttosto agiata: sua madre Christine de Chasteigner è traduttrice di romanzi rosa, mentre suo padre Jean-Michel Beigbeder è reclutatore di talenti. Diventato redattore in una grande agenzia pubblicitaria, Beigbeder collabora anche come critico letterario in alcune riviste come Elle e Paris Match.
Nel 2000, conscio che la pubblicazione gli avrebbe causato il licenziamento, dà alle stampe il romanzo che gli è valsa la celebrità, Lire 26.900 (titolo originale francese: 99 francs), impietosa denuncia del mondo della pubblicità divenuta un caso editoriale con 380.000 esemplari venduti.
Nel gennaio 2003, la casa editrice Flammarion propone allo scrittore di cambiare fronte e di diventare editore. Da quel momento ha pubblicato circa 25 libri.
Il suo romanzo Windows on the world, che si ambienta nelle Torri Gemelle di New York durante gli attentati dell'11 settembre, gli è valso il premio Interallié 2003. Il romanzo stesso è in corso di adattamento cinematografico da parte del regista anglo-francese Max Pugh.
Beigbeder è divorziato ed ha una figlia, Chloë. Dal 2004 al 2007 è stato unito sentimentalmente all'attrice francese Laura Smet.
Etichette:
Feltrinelli editore,
Frederic Beigbeder,
Libros,
Lire 26.900
Iscriviti a:
Post (Atom)