"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 14 aprile 2013

Una coppia perfetta - i racconti di hap e Leonard, diJoe R. Lansdale, Einaudi Stile Libero


Chi sono Hap e Leonard? Hap e Leonard sono Hap e Leonard, non ci sarebbe da aggiungere molto. Due amici squattrinati che vivono in Texas, e allora perchè due texani senza un soldo nè un lavoro fisso, sono proprio Hap e Leonard? Non so se c'è una risposta, forse no, di solito è meglio non trovarle le risposte, quindi la cosa migliore sarebbe leggere le loro storie e farsi un'idea propria, ma possiamo comunque provarci. Intendo dire a dare una risposta. In un Texas che o è quello che è realmente (e allora è un posto grottesco) o è la caricatura di quello che è realmente (e quindi è cioè che noi ci aspettiamo che sia, vale a dire un posto grottesco), Hap è la quintessenza del fallimento della classe bianca, un perdigiorno, ex hippie, ex universitario senza aver mai conseguito uno straccio di titolo di studio, non sposato, senza figli e senza un lavoro fisso e Leonard è esattamente ciò che un nero (Leonard è nero, non l'avevo ancora detto) non ci si aspetta che sia, soprattutto in Texas: è omosessuale, dichiarato e fiero di esserlo, ma non è nè effeminato e non rispecchia neppure lontanamente il clichè dell'omosessuale tutto mossette e vocine squillanti. In realtà Leonard fa sembrare l'omosessualità come qualcosa di estremamente virile. Ciò che li unisce, oltre l'amicizia cementata negli anni, è una naturale tendenza all'uso della violenza per risolvere i problemi, e un'ottima capacità a metterla in pratica, oltre ad una innata propensione a cacciarsi nei guai. Lansdale viene spesso paragonato a Mark Twain, non so se a ragione o a torto, ma i suoi romanzi su Hap e Leonard ricordano da vicino i film di Bud Spencer e Terence Hill, con un'attenzione ai dialoghi ed all'ironia nel racconto che richiama molto da vicino gran parte del cinema americano d'intrattenimento. Poi, Lansdale, vi ha aggiunto una nota pulp - chiamiamola così per intenderci -, il culto della violenza e del macabro (sempre ben intinto a fondo nell'ironia: Tarantino insegna) ed ha ambientato il tutto in quel Texas che non sappiamo quanto sia reale e quanto un luogo entrato nell'immaginario comune come una terra selvaggia abitata da personaggi rozzi e razzisti. Ecco servito un divertimento assicurato, ben scritto, ottimamente cadenzato (verrebbe da dire sceneggiato), con dialoghi favolosi, sempre giocati sul filo dell'ironia quando non del "non senso", dove, col passare degli anni, i due protagonisti hanno smesso di barcamenarsi da un impiego precario all'altro, per fare del loro passatempo un lavoro a tempo pieno. Non sono investigatori privati, perchè non ne avrebbero nè le capacità nè la pazienza, e non sono neppure consulenti, sono gente che mette le mani in situazioni spinose per risolverle, con le mani appunto. Persone scomparse, figli persi nel sottobosco della droga, ex mariti violenti, bulli da tenere a bada, bande di spacciatori o di motociclisti che mettono a repentaglio il buon vivere di quartieri e cittadine e via discorrendo: questi sono i casi che vengono loro affidati normalmente. Cose (relativamente) semplici per due che sanno menare le mani dannatamente bene, se non fosse che puntualmente i casi si complicano e i due si ritrovano invischiati in faccende più grandi di loro, in mezzo a personaggi più pericolosi di quanto non lo siano loro stessi e, quasi sempre, con un'unica improbabile (e stretta) via per venirne fuori portando a casa la pelle. Questo volume raccoglie tre racconti lunghi (e come tali godibilissimi), di cui uno scritto a quattro mani con Andrew Vachss. Il primo, Le iene, è quello meno riuscito, non perchè non sia ben scritto, ma l'intreccio è troppo simile a quello di altri romanzi della stessa serie. Il secondo, Veil in visita (scritto con Vachss), è una sorta di mini-legal-novel, ovviamente in stile HapLeonardiano e l'ultimo, Una mira perfetta, è quello che ritengo il più riuscito in assoluto (direi anzi che lavorandoci un po' sopra sarebbe divenuto uno splendido romanzo in aggiunta agli altri della serie). Non vi ho parlato di Brett, l'infermiera separata con figlia problematica che convive con Hap e che ne è la sua coscienza e il suo legame col mondo (diciamo così) "normale" (sempre secondo canoni tutti interni alla realtà del romanzo, quindi se vi siete costruiti un'immagine, cancellatela e rimodellatene una su una rossa pin up quarantenne, abile nell'uso delle armi, della lingua - non fraintendete - e con quel minimo di sale in zucca che, in confronto al suo compagno ed al suo amico - all'amico del suo compagno: ergo: Hap, e Leonard -, la fa sembrare un pozzo di buon senso).
  Se siete già dei fans delle serie (cosa molto probabile), il libro è da considerarsi imperdibile. Se non lo siete, e deciderete di leggere questo Una coppia perfetta, lo diventerete presto (nel caso tutti i libri della serie sono rintracciabili nella Einaudi Stile Libero, e dovrebbero essere facilmente reperibili, anche solo in libreria).

Joe Lansdale è nato il 28 ottobre 1951 a Gladewater, Texas.
Grande lettore, Lansdale è stato influenzato da Mark Twain, Edgar Rice Burroughs e Jack London, ma anche da scrittori di fantascienza come Ray Bradbury e Fredric Brown. E' un grande appassionato di fumetti, di B-movie e letteratura “pulp” (etichetta con la quale è sbarcato in Italia, paese che lo ha adottato e dove ha una nutrita schiera di fans). Ha svolto diversi lavori dal contadino al buttafuori in locali pubblici, dal bidello all'operaio in fabbrica. Nel gennaio del 1997 aprì una sua scuola di arti marziali, e il Lansdale’s Self-Defense Systems è uno stile riconosciuto a livello internazionale. Ha pubblicato:  Una stagione selvaggia (Savage Season, 1990), Einaudi; Mucho Mojo (Mucho Mojo, 1994), Bompiani riedito da Einaudi, Il mambo degli orsi (Two-Bear Mambo, 1995), Einaudi, Bad Chili (Bad Chili, 1997), Einaudi, Rumble Tumble (Rumble Tumble, 1998), Einaudi, Capitani oltraggiosi (Captains Outrageous (2001), Einaudi, Sotto un cielo cremisi (Vanilla ride) (2009), Fanucci, La notte del Drive-In (The Drive-In, 1988), Einaudi; Mondadori Urania n. 1214, Il giorno dei dinosauri (The Drive-In 2, 1989), Einaudi; Mondadori Urania n. 1224, La notte del drive-in 3, La gita per turisti, 2008, Einaudi, Atto d’amore (Act of Love, 1980), La morte ci sfida (Dead in the West, 1983),Il lato oscuro dell'anima (The Nightrunners, 1983), Texas Night Riders (1983), Il carro magico (Magic Wagon, 1986), Freddo a luglio (Cold in July, 1989), L’ultima caccia (The Boar, 1998), Fanucci, Fiamma fredda (Freezer Burn, 1999), I Neri Mondadori n. 1, riedito nel 2007 dalla Fanucci con il titolo “Freddo nell’anima”, Il valzer dell’orrore (Waltz of shadows, 1999, Fanucci), Blood Dance (2000), In fondo alla palude, Fanucci – premio Edgar Award 2001, L’anno dell’uragano (The Big Blow, 2000), Fanucci, Fuoco nella polvere (Zeppelins West, 2001) Fanucci, La sottile linea scura (A Fine Dark Line, 2002), Einaudi, Bubba Ho-Tep (Bubba Ho-Tep, 2003), Addictions-Magenes Editoriale, Tramonto e polvere (Sunset and Sawdust, 2004), Einaudi, Flaming London (2005), Echi perduti (Lost Echoes, 2006), Fanucci, The Shadows Kith and Kin (2007), God of the Razor (2007), La lunga strada della vendetta (Batman: Captured by the Engines), Edizioni BD, La ragazza dal cuore d’acciaio (Leather Maiden, 2007), Fanucci, Laggiù nel profondo (Way Down There, 2007) Edizioni BD, Cielo di Sabbia, Einaudi, eccetera eccetera eccetera.

  Allego il link del sito di Joe R. Lansdale: Qui.
  Qui invece il link al precedente romanzo di Lansdale recensito in questo blog

domenica 17 marzo 2013

Va tutto bene, di Matthew Mcintosh, Mondadori editore

Mi pare che questo libro non abbia avuto una gran fortuna in Italia, quantomeno io l'ho recuperato a 4 euro e 90 in un cestone al Carrefour, in mezzo ad un mare di edizioni strampalate e sconosciute e libri di autori oscuri o caduti in disgrazia o che in disgrazia non ci sono neppure caduti ma ci son nati. Eppure, Va tutto bene è una sorta di Spoon River, solo che Spoon River non si chiama Spoon River ma Federal Way, e le voci non sono quelle dei morti che marciscono nel cimitero bensì quelle dei vivi che si arrabattano a campare come possono, terrorizzati come cervi davanti ai fari di un'auto. La paura, l'immobilità, lo sconcerto di fronte all'esistenza, la droga, i figli che diventano un ordine di misura del proprio fallimento o dell'incomprensibilità della vita, il matrimonio come qualcosa di assurdo e in certi casi di misterioso, la morte e tutto ciò che sta prima della morte, fino ad un secondo prima, il basket e l'amicizia, il lavoro, e la boxe, il Trolley bar attorno al quale tutto gira ( e, a volte, vortica, ma lentamente, in vortici lenti, dolenti ed ipnotici). Tutto questo è Federal Way, ma in realtà non è così. Federal Way - immagino - è ben altro: è la scelta che Mcintosh compie che ci porta a quanto sopra elencato, l'umanità da descrivere Mcintosh la sceglie in base al momento che sta vivendo. Un momento delicato derivato da un destino incattivito, poca azione, quasi nulla, nulla, al contrario molta introspezione raccontata con una maestria che pochi autori si possono permettere: sono i sentimenti genuini, strazianti, a volte imbarazza(n)ti che si scontrano e si combinano nei vari capitoli e rendono il senso di un'azione che non c'è, e che trasmettono un'idea di unità narrativa che in realtà quasi non esiste. Il punto d'unione è Federal Way, nel senso che le storie narrate appartegono a persone che vivono lì: poi: a persone che stanno seguendo una certa partita di basket, che frequentano o frequentavano un certo locale, il Trolley, che ruotano attorno al funerale di un giovane suicida, ma non solo. Poi ci sono voci che emergono per assonanza con altre: il pugile che pensa se andare al funerale di un suo avversario, la madre che s'imbambola in fila al supermercato e, in quel momento, in quel preciso momento, si accorge di un particolare banale che la rimanda a qualcosa di più grande, pensa, forse di superiore o trascendente e si chiude in macchina cercando di capire qualcosa in più finchè la figlia non bussa al finestrino e le chiede perchè diavolo non si dia una mossa, o il tossico che in pratica vive su un battello di linea e quando scende a terra va in cerca di vecchi e nuovi compagni di sballo, cercando in quella maniera sinistra un raggio di luce, un'amicizia, anche solo per la notte, anche solo per avere il tempo per raccontare di sua moglie e di sua figlia che ora stanno con un tipo giù a Federal Way, di sua  moglie che lo ha lasciato anni prima, quando lui combinava brutti casini e si comportava male con la gente, non come ora che offre la roba gratis e si raccomanda coi giovani tossici di non mettersi nei guai: il suo modo per redimersi.
  Buona parte dei capitoli s'intitolano "Quanto diavolo ci mette ad arrivare", ed è come se fosse la domanda stessa dei protagonisti del romanzo che si domandano quando arrivi la botta, come il cervo paralizzato di fronte ai fari dell'auto: la botta definitiva che li colerà a picco, o la botta di fortuna che li risolleverà, o la botta di droga che li spedirà per qualche tempo in un mondo meno spaventoso, più luminoso e semplice di quello in cui sono intrappolati. Mcintosh aggiorna alla contemporaneità l'umanità descritta nei romanzi di Nelson Algren e la demitizza. I losers di Mcintosh sono losers non tanto (o non solo) in relazione alla loro condizione sociale o economica, bensì lo sono perchè in un dato momento (che può essere un periodo o tutta una vita) si trovano a non capire le regole base dell'esistenza, quelle che tutti danno per scontate, prima ancora di non essere in grado di adattarvisi, non le compredono, si trovano in un universo senza senso, senza logica apparente ai loro occhi, per questo in fondo hanno paura, per questo cercano conforto nelle droghe, e per questo nonostante non siano buoni padri, buoni mariti o buone mogli, non siano nè buoni lavoratori nè tantomeno buoni cittadini, nè siano buoni pugili e non lo siano mai stati e in certi casi non siano in gradi di essere neppure buoni tossici, comunque chiamano il lettore a non giudicarli, se non proprio a capirli (o a cercare di farlo), almeno a non giudicarli. Ma alla fine più che pura e semplice compassione si arriva a provare tenerezza per (alcuni di) loro, perchè in fondo quelle paure che emergono dalle pagine del libro, quel non comprendere l'esistenza o certi suoi aspetti, quel rimanere immobili e spaesati sono sensazioni che fanno parte di ogni essere umano. La bravura, o forse in questo caso ci si può spingere ad affermare: la grandezza di Mcintosh sta nel comporre un puzzle apparentemente disordinato (ma organico) che lascia emergere su tutto non uno o più personaggi, una o più situazioni, bensì la sensazione, quel quid di inespresso (perchè inesprimibile) che non sta nei racconti, nei personaggi e noi dialoghi e solo in parte sta nella scrittura bensì tra le righe, nel non detto, nell'immaginato, quella sensazione che ci portiamo dentro e non sappiamo rendere comprensibile al prossimo di inadeguatezza, di assurdità, di incomprensione e la paura collegata e la successiva necessità di tenerezza, di appoggio, di aiuto. Il bisogno assoluto di famiglia o di amicizia, o di entrambe, se non fosse che anche l'amicizia e la famiglia si rivelano parte del disegno oscuro nel quale ci si è persi.


Matthew Mcintosh esponente dei giovani narratori americani che in anni recenti ha fatto conocere  David Foster Wallace, Nathan Englander e Adam Haslett,  è uno scrittore che dà voce alla più basse frequenze del cuore. Ha ventisette anni ed è nato vicino a Seattle, laureato all'Iowa University, è autore di racconti pubblicati su riviste e cofondatore della piccola casa editrice indipendente  Well Known Press.

lunedì 4 marzo 2013

35 morti, di Sergio Alvarez, La nuova Frontiera editore

"35 morti" è il "Potere dal cane" dal punto di vista del cane. Il capolavoro di Don Winslow narrava con una forza ed un afflato epico la grande guerra alla droga e della droga nel suo imporsi al mondo non solo come forza criminale ed economica ma anche come stile di vita, come codice di comportamento ripreso ed imposto al mondo dai media internazionali, non ultimi il cinema hollywoodiano. Sergio Alvarez, a suo modo, avvicina l'obiettivo ai protagonisti più o meno piccoli di quella guerra al punto da rendere la guerra stessa qualcosa di sfocato ma assolutamente presente in ogni pagina del suo libro. I boss ci sono, ma rimangono sullo sfondo, e non siamo in grado di capire quanto siano importanti in quel mondo al rovescio che è l'universo del narcotraffico e della Colombia fino agli anni '80. Viene citato diverse volte Pablo Escobar, ma è un nome, un'entità che proietta la sua ombra mortifera sul paese in maniera quasi naturale, come se fosse normale essere Pablo Escobar e comandare su un'intera nazione, ma alla fine sappiamo solo che muore, come tutti. In realtà di Escobar non frega niente a nessuno, così come a nessuno importa qualcosa degli altri boss, piccoli o grandi che siano, dei capi guerriglieri, dei politici corrotti o dei paramilitari. A dire il vero i protagonisti di questo magnifico romanzo, se ne fregano di tutto e di tutti o, per meglio dire, vorrebbero fregarsene di tutto e di tutti, ma non possono. Non in un paese come la Colombia, dove sei costretto ad uccidere se non vuoi essere un coglione destinato a soccombere. Cacciarsi nei guai sembra essere la più facile delle conclusioni di qualsiasi giornata, in guai seri. I guai seri di solito prevedono l'eventualità di una morte violenta. Morte violenta che è all'ordine del giorno - quasi quanto i guai -, una presenza costante nella vita di ognuno, una faccenda odiosa ed antipatica quanto si vuole, ma comunque inevitabile. Che tu sia un famoso pluriassassino, Botones (che darà il via ad una genìa di coglioni, sfigati ed assassini che comporranno il romanzo), un ragazzino sperduto in cerca di un qualche punto fermo, un sognatore utopista, un artista, un comunista, un guerrigliero, un trafficante, una puttana, un insegnante, un militare, un imprenditore: la morte continuerà a camminarti accanto e, ogni qual volta sarai scivolato nell'illusione di aver raggiunto una tua pace personale, una famiglia, un posto sicuro nel mondo o qualsiasi altra cosa ti sia prefisso di raggiungere, arriveranno i guai a spazzare via tutto, e con essi la morte. Moriranno tutti, o quasi tutti, tutti gli amici, tutte le donne, tutti i compagni, e chi non risulterà effettivamente deceduto sarà come se lo fosse, perchè se ne sarà andato dal paese, sarà sceso a patti con la vita, si sarà arreso, avrà tradito, sarà passato tra le fila del nemico, e non una, ma più volte. E' l'apoteosi del disastro. Il protagonista (anche se in realtà trattasi di romanzo corale) è una sorta di Forrest Gump privo di morale - non immorale bensì amorale - non particolarmente sveglio ma enppure un idiota fatto e finito e comunque dai mille talenti, ma il dubbio che coglie il lettore è che in realtà non sia tanto il protagonista a possedere quelle caratteristiche, bensì un'intero popolo. Forse un'intera cultura o tutto un continente. Quello che ne risulta, alla fine, non è tanto il ritratto di un'epoca o di un paese, bensì qualcosa di più, qualcosa che dallo sguardo "basso" dei suoi protagonisti s'innalza fino a divenire un sentire, un modo di percepire l'esistenza, di giocarsi il futuro a dadi, ballando salsa, scopando contro ogni logica e contro ogni buon senso, mettendo in gioco tutto quanto e mettendosi in gioco in tutto e per tutto, fino a gettarsi via, bevendo, ubriacandosi, drogandosi, scivolando via dalle proprie responsabilità fino alle estreme conseguenze. E' la fotografia vorticosa, anche nel ritmo narrativo, di una corsa irresponsabile verso l'abisso, irresponsabile ma in qualche modo cosciente, come se il Fato intessesse destini a proprio piacimento e si limitasse poi a svolgere il ruolo delle sirene per i naviganti: incanta, chiama a sè, instrada gli uomini nei percorsi che già ha deciso per loro, percorsi contorti, assurdi, tragici e dolorosi, a volte poetici, a tratti straripanti di felicità intense e brucianti, percorsi insensati che si perdono su sè stessi e non portano da nessuna parte. E qui stà, a mio parere, la reale grandezza del romanzo: il senso dell'esistenza, i personaggi lo trovano (o forse non lo trovano, ma certamente lo "sentono") esattamente in quel loro vagabondare senza speranza, nell'assurdità di un viaggio terribile e senza significato. Bisogna guardare il destino in faccia, a testa alta, a petto in fuori, ma anche no, anche piangendo e bevendo, o cercando conforto tra le carni calde di qualche donna, ma sempre ed in ogni caso trovare la forza o la disperazione per lasciarsi tutto alle spalle, per dimenticare, o fingere di dimenticare, perchè quella è la vita, passare da una disfatta all'altra, da una vittoria fatua ad una caduta disastrosa, per nessun altro motivo se non che, per assurda che sia, quella appunto è la vita. La vita in Colombia, dove se non ti adatti ad uccidere, e all'occasione a dimenticare di averlo fatto, allora sei un coglione. Siamo tutti figli di Botones, assassini nostro malgrado, sperduti ed innocenti tanto quanto spietati e sadici, vittime che si trasformano in carnefici da un momento all'altro (e viceversa) per un capriccio del destino, per un concatenarsi di casi che non ha senso analizzare e cercare di comprendere. Siamo nati da una stirpe di assassini, e moriremo assassini (o drogati o spacciatori o truffatori), ammazzati da qualche altro assassino. 35 morti diventerà un classico. E' il brulicare insensato della vita che scorre al di sotto (o tra le righe) di quel capolavoro che è Il potere del cane: sono due facce della stessa medaglia, un capolavoro che completa l'altro (e in esso, a sua volta, si completa).

  Un sincero apprezzamento all'editore che, utilizzando i proventi derivanti da fenomeni editoriali effimeri e di scarso valore letterario come Yuri Herrera per portare in Italia (e in ottime traduzioni) autori del livello di Alvarez (o Valeria Luiselli, Julio Ramòn Ribeyro, o Juan Josè Saer solo per citarne alcuni), compie un'operazione non solo valida e coraggiosa, ma soprattutto meritoria.
  Aspettiamo altri libri di Alvarez, e altri Alvarez.




Sergio Alvarez è nato nel 1965 a Bogotà. Figlio di un sognatore e di una maestra di scuola, ha sempre coniugato la passione per i libri con quella per l'avventura. Il suo primo romanzo La Lectora ha ottenuto il premio Silverio Canada della Semana Negra di Gijòn nel 2002. Sergio Alvarez ha dedicato dieci anni alla scrittura di 35 morti, un romanzo che è frutto di approfondite ricerche sulla storia e sul mondo del narcotraffico in Colombia, nonchè di numerosi viaggi in tutto il paese.

mercoledì 13 febbraio 2013

Wiera Gran, L'accusata, di Agata Tuszynska, Einaudi editore


Come passare da un inferno all'altro e ritrovarsi all'improvviso in un terzo incubo (o inferno, trattasi del medesimo soggetto), la vecchiaia in solitudine e la fine della vita, il suo esaurirsi patetico, sporco, triste e privo di poesia. Wiera Gran non sapevo chi fosse, ne ne avevo mai sentito parlare e se mi sono soffermato su questo libro è per via della sua bellezza, grazie alla foto che il libro riporta in copertina, una bellezza in bianco e nero, fredda e calda al medesimo tempo, distaccata, come se giungesse da un altrove in cui il colore e la parola ancora non hanno fatto la loro comparsa, quindi non tanto da un passato quanto, appunto, da un altrove. Un altrove che possiamo chiamare passato. Non l'ho comprato subito e pochi giorno dopo, quando sono andato a ricercarlo, non era più esposto e in libreria non solo era introvabile ma in pratica fu come se non ci fosse mai stato, nessuno lo ricordava, nessuno riusciva a capire di cosa stessi parlando e, nonostante internet e le ricerche correlate, mi fu impossibile rintracciarlo. L'ho ritrovato tempo dopo - per caso - a metà prezzo in un remainder, e leggendolo mi sono chiesto (e me lo domando ancora) come sia possibile che un'editore come Einaudi si prenda la briga di tradurre e pubblicare un libro su una cantante sconosciuta in Italia per poi strafottersene altamente di pubblicizzarlo a dovere. Di solito funziona così: qualcuno in casa editrice si innamora del libro, si batte, smuove mari e monti per comprarne i diritti contro le opinioni di tutti, e quando finalmente deve essere inviato agli scaffali delle librerie, là dove ogni libro dovrebbe stare, almeno per un certo tempo, i colleghi che si erano lasciati piegare dalla sua foga, si tirano indietro, non forniscono l'appoggio promesso e, in buona sostanza, lo boicottano. Nel senso che boicottano la collega (o il collega) e (peggio) la pubblicazione stessa. Immagino sia andata più o meno così, o forse mi sbaglio, ma se non è così che si sono svolti i fatti allora torno a non capire. Perchè è un libro magnifico, e terribile, di una potenza sommessa e straordinaria, che non tace nulla e che scava nelle zone oscure della storia - con e senza maiuscola -, della vita e della mente della protagonista. Non solo della protagonista. Parla di diversi inferni, reali e tangibili e invisibili, fatti di parole o al contrario di silenzi, di giudizi sommari espressi o taciuti, e alla fine parla della morte, la morte celiniana, che puzza di escrementi e di altri sgradevoli odori corporei, di artriti, di piaghe da decubito e di demenza senile. Ma la morte non è il peggio che può capitare, non è - per citare un altro libro - il peggiore dei destini, anzi, forse è la giusta liberazione da una catena di follie e disgrazie che a stento di può definire vita. Wiera Gran era una cantante, Wiera Gran era ebrea, Wiera Gran si appresta a diventare una diva nel periodo in cui questo termine risplendeva di un significato che era chiaro a tutti, ammantato di un'aura al limite del religioso (o del patologico), ma Wiera Gran è anche polacca e si trova a vivere nel periodo della guerra. Non è il massimo essere donna, ebrea, polacca e con tutti quei nazisti intorno. L'essere ebreo improvvisamente (o forse poco alla volta, ma un poco alla volta comunque relativamente veloce) diventa un difetto di cui vergognarsi, poi si trasforma in un vizio ed infine in una colpa. Se si è ebrei si finge di non esserlo, ci si mimetizza, certo non lo si grida ai quattro venti. Si accettano le prime limitazioni, si pensa che in fondo si può vivere lo stesso, magari adattandosi, giusto un po', poi le limitazioni aumentano, poi diventano divieti, infine c'è il ghetto, nel caso specifico il ghetto di Varsavia, poi le persecuzioni, le torture, gli omicidi e tutto il repertorio della crudele follia umana. Wiera Gran diventa una stella (o una diva, o una quasi diva) nel ghetto, dove nonostante tutto, nonostante i bambini morti di fame in strada si cerca comunque e contro ogni logica apparente di vivere una vita, una vita qualsiasi, certo non normale, ma comunque qualcosa che possa sembrare o magari essere ricordata un domani come una vita (quel po' di vita possibile), e dove oltre la fame vera e propria esiste anche una fame vorace di arte, di cultura, di divertimento, di cafè-chantant se non proprio di vaudeville. Lei è la regina. Si esibisce in un locale, nel locale entra chi se lo può permettere e dunque gli avventori più assidui sono ovviamente gli ebrei che collaborano con i nazisti, la polizia ebrea, e gente poco raccomandabile di ogni risma. Chi prospera nel fango, di solito ha da essere un maiale. Finita la guerra, finisce il primo incubo o inferno. Teoricamente ci si aspetta il paradiso o qualcosa di simile, anche solo una normalità che a paragone di ciò si è vissuto odori di paradiso, ma non è così, perchè esattamente qui inizia il secondo inferno, più sottile del primo, meno cruento ma non meno implacabile. Perchè gli ebrei che si sono salvati si sono salvati? Se sei morto, allora sei innocente, sei stato puro e giusto e per quello sei morto, ma se ti sei salvato, perchè ti hanno risparmiato? Come hai fatto? A quali compromessi sei sceso? Cos'hai barattato in cambio della tua vita? Come ti hanno comprato, perchè, che tu ti sia venduto è evidente, altrimenti non saresti vivo. Wiera Gran viene accusata dalla sua stessa gente, con la quale ha patito le sofferenze della guerra e del ghetto, di aver collaborato con quanti quelle sofferenze hanno inferto a lei ed alla sua gente. E' come se la crudeltà dei nazisti si fosse spostata di corpo, come quei virus alieni che giungono da altri pianeti attraverso qualche meteroite del cazzo, o come se i nazisti avessero scagliato una maledizione su quegli ebrei che non erano riusciti a far fuori. Una pazzia su una pazzia su un abisso di follia ed orrore. La carriera che a quel punto avrebbe dovuto esplodere per Wiera Gran diventa un via crucis che dura tutta una vita perchè la notorietà che avrebbe dovuto essere il suo dono nella vita le si rivolta contro e la rende un bersaglio pubblico, facile al giudizio ed al pregiudizio, alle invidie e gelosie dei colleghi e delle colleghe, vittima degli strali dei nevrotici ed inflessibili tribunali ebraici e soprattutto dei tribunali non ufficiali, delle voci incontrollate, delle comunità ebreaiche in giro per il mondo, dei "si dice" che si trasformano in "è certo che", dei "dicono" che diventano "l'hanno vista" e finiscono con l'eternizzarsi in "l'ho vista". Il resto, i tuor in giro per il mondo che si trasformano in rifiuti, in cacciate e poi in fughe ed infine in una sorta di fuga perenne da un cantone all'altro dove cercare comprensione e dai quali ogni volta fuggire ricoperta di ignominia, il resto dicevo è l'immagine di una falena che sbatte e risbatte contro le pareti di vetro di un bicchiere, sempre più forte, sempre più disperatamente, per poi culminare nella paranoia, una paranoia combattiva ed orgogliosa, ma pur sempre paranoia. La vecchiaia, Parigi, l'alloggio in un condominio che assomiglia sinistramente a quello de L'inquilino del terzo piano di Roland Topor (portato sullo schermo da uno dei grandi nemici - forse immaginari - della Gran, Polansky), dove le portinaie sono diaboliche e di notte Loro entrano e fanno il bello e cattivo tempo rendendole la vita impossibile. E' un libro eccezionale e tragico, un libro che merita di essere letto e, penso, pure riletto, un libro tanto più terribile in quanto la storia non è uscita dalla penna di Kafka ma dagli intrecci del destino ed è divenuta vita, dolorosa e assurda, ma vita.
  Chiudo citando una delle ultime frasi del libro, una frase di Wiera Gran ormai vicina alla morte:

  Guardare il mondo da qui, in orizzontale, dalle piaghe da decubito, è come osservarlo dalla bara. Bruciatemi, spargetemi ai piedi di un albero. Che i cani mi piscino sopra. Mi scalderanno l'anima. Tutto qui.

  Il libro, aggiungo, è ben scritto, ma mettere i punti al posto delle virgole non è che gli giovi particolarmente e comunque il non inserire il virgolettato e il lasciare un certo margine di indeterminatezza non mi pare nè un colpo di genio nè segno di particolare avanguardia artistica, ma tutto questo conta abbastanza poco, perchè il libro è potente e sommesso al contempo e mi sento di dire che và letto, non tanto per sapere o capire di più della Storia del novecento, quanto per comprendere di più di noi stessi in quanto esseri umani e dei meccanismi spaventosi ed implacabili che in talune circostanze ci posseggono. 
  Aggiungo: non troverete nessuna certezza, ma solo indizi. Probabilmente non vi identificherete con la protagonista (me lo auguro per voi), perchè il ritratto che ne esce non è limpido e non avrebbe potuto esserlo, per fortuna, ma è una sorta di fotografia tridimensionale che riporta pregi e difetti, zone d'ombra, capricci, pose da diva o da quasi diva, disperazione assoluta ed errori infantili, pregiudizi, maldicenze, speranze assurdamente mal riposte, ma pur non simpatizzando con Wiera Gran (comunque certo non sempre, non lungo tutto il corso della narrazione) non potrete fare a meno di sentirne la carne viva, non potrete evitare certe domande che non vorrete porvi perchè intuirete che non hanno risposta. E' un viaggio in tre inferni, ma alla fine voi ne uscirete vivi e forse non vi augurerete che dei cani piscino sulla vostra tomba.

Agata Tuszynska, narratrice, poetessa, biografa, è nata a Varsavia nel 1957 ed è una delle personalità di spicco della letteratura polacca contemporanea. Insegna Giornalismo letterario all'Università di Cracovia. Per Einaudi ha pubblicato Wiera Gran. L'accusata (Frontiere, 2012).

martedì 29 gennaio 2013

Lire 26.900, di Frederic Beigbeder, Feltrinelli editore

Per dirottare un aereo, pare sostenesse nientemeno che Gramsci, bisogna - ovviamente - salirci a bordo. Questo libro, edito per la prima volta in Francia nel 2000 da Editions Grasset & Fasquelle (quindi si colloca prima di quella linea spartiacque che è stato l'11 Settembre 2001), è la storia di un copy (abbreviazione di copywriter, vale a dire un creativo che lavora in ambito pubblicitario) che sogna di dirottare un aereo, e di dirottarlo scrivendo un libro, il libro che in effetti poi ha scritto e che qui sto recensendo. Mentre appunta gli avvenimenti che follemente si susseguono nell'agenzia pubblicitaria per cui lavora e le riflessioni dettate dallo sdegno che lo anima e che formeranno parte del libro finale, i fili e gli inneschi della bomba che sta mettendo insieme per far saltare un mondo che non riconosce se non come ingiusto e demente oltre che patologico e demenziale, il protagonista, Octave, si domanda se il suo persistere all'interno della cabina di comando sia davvero un "salire a bordo", per dirla con Gramsci, o se piuttosto non sia un atto di vigliaccheria ipocrita puro e semplice. Fa parte del sistema perchè è l'unico modo per sovvertirlo, o si illude di voler sovvertire un sistema nel quale nonostante tutto sguazza e oscenamente ci si arrichisce? Le riunioni che si susseguono nevroticamente per decidere il claim (leggi slogan) e il packaging, il video, il payoff e non so quant'altro per una campagna pubblicitaria il cui cliente è un'importante produttore di formaggio magro, le idee che vengono partorite e poi bruciate in un nanosecondo, le frasi fatte, i tic e le nevrosi del mondo della comunicazione ci vengono mostrate dall'interno, in soggettiva, in una situazione in cui autore e protagonista si confondono (e piacevolmente ci confondono). Gli esempi che Octave adduce (seducendoci) per far capire la mostruosità di quel mondo in cui vive sono la parte migliore del libro: i fondi pensione dei ricconi di Miami pagati dai lavoratori dell'Europa intera, l'uso delle tecniche pubblicitarie a fini propagandistici fatto da Goebbels, la registrazione di marchi assurdi come la felicità o il colore blu da parte di grandi multinazionali, e via discorrendo (non vado oltre perchè, essendo l'aspetto più interessante del libro, non ha senso spiattellarli qui in bella mostra, rovinando così il piacere della lettura). I fatti, i dati ed i meccanismi che sottendono la realtà della pubblicità sono snocciolati come meglio non si potrebbe e bastano poche pagine per far comprendere al lettore di come la pubblicità sia una macchina da guerra che si muove in un territorio di guerra durante tempi di guerra, per vincere le nostre resistenze e convincerci di come quell'arma così seducente abbia modificato le vite di ognuno di noi e ne abbia distorto la percezione che ne abbiamo (sia della vita che della realtà). Riassunto: non siamo più schiavi costretti con la forza dal sistema a rimanere tali, siamo schiavi inconsapevoli di esserlo che chiedono al sistema di tenerli soggiogati. Amiamo le nostre catene, perchè le nostre catene sono lucide, brillano, paiono d'oro, sono trendy e siamo noi a spaccarci la schiena ogni giorno per potercele permettere, per esibirle al mondo o anche solo ad uno specchio o in un supermercato: questo è l'insegnamento che il sistema ha tratto dal fallimento della grandi ideologie e conseguenti dittature del novecento. Uno schiavo che sa di esserlo e patisce la propria condizione, prima o poi troverà il modo di liberarsi, l'ideale è uno schiavo inconsapevole, apparentemente beato della propria condizione, ebete. E questo risultato il sistema ha capito come ottenerlo: con la pubblicità, quella cosa che studia l'uomo per fotterlo, per vendergli "tutta quella merda", per citare l'incipit del romanzo. Fin qui, dicevo, tutto bene. Cioè tutto male, ma il romanzo si rivela notevole e di piacevole lettura, la realtà scende a patti con la finzione e vi si adatta alla perfezione. Poi però cambia qualcosa. E' come se ad un certo punto l'autore avesse sentito la necessità di tornare coi piedi per terra lasciando che la struttura narrativa prendesse il sopravvento su quanto di reale era stato fino a quel momento ben amalgamato alla fantasia, e qui cominciano i problemi. Perchè il libro scade nel banale, nelle frasi ad effetto usate da Beigbeder con sapienza, ma anche con la furbizia tipica del copy, come se la seconda parte del libro mettesse in pratica quanto esposto nella prima al solo scopo di rendere più appetibile il libro indirizzandolo verso un target ben preciso (uso certi temini non a caso).
Octave, che già è stato lasciato (si è "lasciato lasciare") dalla findanzata incinta, Octave che prima abusa e poi si disintossica dalla cocaina, Octave che frequenta, pagandola cifre astronomiche, una prostituta per poi ammirarle gomiti e palpebre, viene coinvolto in vortice abilmente costruito (ma neppure poi tanto abilmente) in cui sesso, dandismo di maniera, amoralità e immoralità si susseguono fino a giungere alle estreme conseguenze che si concretizzeranno in un suicidio ed in un omicidio. Maledettismo di facciata, cinismo trendy e colpi di scena improbabili e stridenti, niente più.  Poi, da un certo punto in avanti, la storia si fa confusa e sfuma nell'onirico (con un tentativo poco riuscito di sfociare nel poetico) e non si capisce più se il dirottatore alla fine lo ha dirottato, l'aereo, o se al contrario c'ha preso gusto ed ora lo sta pilotando.
  Poco importa, perchè non è quella la questione, nè il punto di forza del libro. La storia in questo caso va considerata, come e più che in altri libri, come un semplice pretesto per descrivere e criticare (condannare) un certo mondo, per metterci in allarme e lanciare un razzo di segnalazione nel bel cielo blu: per urlarci: scendete fin che siete in tempo! Tutto il resto, la storia diciamo, il plot o come diavolo vogliamo chiamarlo, è un insieme di controluoghi comuni utili semplicemente ad arrivare alla fine del libro.

Frederic Beigbeder nasce da una famiglia piuttosto agiata: sua madre Christine de Chasteigner è traduttrice di romanzi rosa, mentre suo padre Jean-Michel Beigbeder è reclutatore di talenti. Diventato redattore in una grande agenzia pubblicitaria, Beigbeder collabora anche come critico letterario in alcune riviste come Elle e Paris Match.
Nel 2000, conscio che la pubblicazione gli avrebbe causato il licenziamento, dà alle stampe il romanzo che gli è valsa la celebrità, Lire 26.900 (titolo originale francese: 99 francs), impietosa denuncia del mondo della pubblicità divenuta un caso editoriale con 380.000 esemplari venduti.
Nel gennaio 2003, la casa editrice Flammarion propone allo scrittore di cambiare fronte e di diventare editore. Da quel momento ha pubblicato circa 25 libri.
Il suo romanzo Windows on the world, che si ambienta nelle Torri Gemelle di New York durante gli attentati dell'11 settembre, gli è valso il premio Interallié 2003. Il romanzo stesso è in corso di adattamento cinematografico da parte del regista anglo-francese Max Pugh.
Beigbeder è divorziato ed ha una figlia, Chloë. Dal 2004 al 2007 è stato unito sentimentalmente all'attrice francese Laura Smet.

mercoledì 23 gennaio 2013

Gli onori di casa, di Alicia Giménez Bartlett, Sellerio editore

  A volte i misteri si nascondono nelle cose apparentemente più banali. E in questo caso c'è da domandarsi come sia possibile che dei gialli per lo più classici, affrontati da una coppia di poliziotti come è doveroso che accada in un qualsiasi giallo (un giallo classico appunto) seguendo la classica dicotomia uomo-donna, com'è possibile che dei libri che ad una prima occhiata sono quanto di più normale ci si può aspettare, poi alla lettura diventino tutt'altro? Lo stile, ad esempio, in questo caso, nel caso specifico della Bartlett, non è nulla di strordinario, all'apparenza, certo non sembra uscito da una qualche scuola di scrittura creativa, usa una abbastanza classica prima persona singolare, non si perde in barocchismi o neobarocchismi o sperimentalismi vari, non usa strutture particolari, niente flash back, l'autrice se ne sta ben nascosta dietro i suoi personaggi e non si rivolge mai direttamente all'autore, quando i personaggi parlano tra loro lo fanno con un banale virgolettato. Non c'è niente, all'apparenza, che possa spiegare come sia possibile che i libri della Bartlett ci strattonino già dalle prime righe e poi ci portino via con loro fino all'ultima pagina, senza darci modo di decidere i ritmi e le pause, gli stacchi, niente, neppure di riprendere fiato. Si apre il libro, e quello prende il sopravvento. Quando poi si chiude l'ultima pagina, allora si scende dall'ottovolante e ci si ritrova a dispiacersi al pensiero che il prossimo libro, ora, chissà tra quanto esce. Finora non ho fatto riferimento a questo libro in particolare, Gli onori di casa, perchè i libri della Bartlett della serie dedicati a Petra Delicado li ho letti tutti e posso assicurare che mi hanno fatto tutti la stessa impressione o, per meglio dire, la stessa malìa. Pedra Delicado era un avvocato che poi decide di entrare nella Policia Nacional per amore delle costruzioni teoriche e deduttive perfette che sono necessarie per risolvere i casi, pensava lei, diciamo quindi per una sorta di passione per i giochi intellettuali. Ma si rende presto conto di essersi sbagliata di grosso. I casi si risolvono consumandosi le scarpe a furia di camminare da un lato all'altro della città, Barcellona, e interrogando i sospettati, più e più volte e poi, alla fine, spesso quando si riesce a giungere alla conclusione corretta, ci si arriva o per caso, o per un errore del colpevole o per una semplice e banale intuizione. Il suo vice si chiama Fermìn, un popolano come ama definirsi lui, che si fionda in ogni bar a portata di mano in preda ad attacchi omerici di fame e di sete. C'è da dire una cosa ad onore dell'autrice: i suoi protagonisti non sono travagliati da passati tragici ed ingombranti o misteriosi e osceni, non hanno una doppipa vita oscura e peccaminosa, sono persone normali. Hanno una vita famigliare (Petra Delicado è al suo terzo marito e Fermìn alla seconda moglie), hanno figli propri o acquisiti, già adulti o ancora bambini, cadono in tentazione e a volte vi cedono, hanno dei caratteri ben precisi e assolutamente non immuni da difetti, al contrario, ma non sono, nè l'uno nè l'altra, portatori di particolari filosofie di vita (che non siano il mangiare tanto e bene di Fermìn), di visioni della realtà, credo politici o religiosi: sono persone normali, con i loro dubbi (molti, specie Pedra, anche se il suo carattere forte tende a mascherarli) e le loro poche ma granitiche certezze. Dopo qualche pagina hai l'impressione di averli già conosciuti da qualche parte e quando arrivi alla fine del libro avresti voluto conoscerli davvero. Poi c'è l'ambientazione, Barcellona, nulla di più commerciale, editorialmente parlando, eppure è una Barcellona che non ha nulla a che vedere con quella di Montalbàn o di Gonzalez Ledesma: è contemporanea, moderna, pare assistere allo svolgersi dei fatti mentre è indaffarata in mille altre faccende. La Barcellona di Ledesma è soprattutto una Barcellona prima idealizzata e poi riportata alla luce attraverso gli occhi di Mendez, siamo nel presente, ma la vediamo com'era (o come Mendez la ricorda) nel passato: una città oscura e romantica, piena di battone dal cuore d'oro, pensionati ammuffiti e nostaligici franchisti o, al contrario anarchici, orfani traviati, pervertiti non privi di una loro poesia e cani di strada che si spulciano al ritmo del riflusso delle onde in lontananza. La Barcellona della Bartlett è quella che può conoscere chiunque salga su un aereo domani - destinazione El Pratt o Girona - e vi trascorra una settimana. In questa indagine, però, lo scenario cambia e i due si troveranno a lavorare anche in Italia, a Roma, seguendo le piste che portano ad un sicario pazzo che cinque anni prima ha fatto fuori un imprenditore del tessile catalano. Parte tutto da un cold case, l'apparente omicidio dell'imprenditore di cui sopra da parte del pappone-fidanzato di una giovane prostituta con la quale il vecchio industriale stava consumando un rapporto. Ma, ovviamente le cose non sono mai quelle che sembrano, e alla fine, passando per oscuri intrecci con la malavita organizzata italiana, si giunge ad un finale di tutt'altro tipo (o livello o lignaggio). Non potendo dire molto di più circa la storia per ovvi motivi, mi limito a consigliarlo spassionatamente, questo libro, e mi spingo fino a consigliare di leggere anche gli altri libri della serie, sempre pubblicati da Sellerio. Il perchè non lo so, ma sono veramente appassionanti.

 Alicia Gimenez-Bartlett è nata ad Almansa nel 1951 e vive dal 1975 a Barcellona. Laureata in Letteratura e Filologia Moderna, ha insegnato per tredici anni letteratura spagnola e, dopo il successo dei suoi romanzi, ha deciso di dedicarsi completamente alla scrittura. Prima di ottenere infatti un enorme successo in patria con i romanzi Ritos de muerte e Dias de Perros la Bartlett ha pubblicato diversi libri: con Una abitacion ajena, che racconta il difficile rapporto tra Virginia Woolf e la sua cameriera, ha vinto nel 1997 il premio Feminino Lumen per la miglior scrittrice spagnola. Si è poi dedicata alla serie con protagonista l’ispettrice Petra Delicado, che l’ha consacrata in Spagna come una delle più seguite e amate gialliste. In Italia è considerata una Camilleri spagnola per la vivacità della scrittura e l’originalità delle storie.

domenica 20 gennaio 2013

L'angelo dell'abisso, di Ernesto Sabato, Sur edizioni

  L'angelo dell'abisso (titolo originale Abaddon el exterminador) è il terzo capolavoro di Ernesto Sabato, seguito e conclusione de Il tunnel (1948) e Sopra eroi e tombe (1961). Immagino ci siano un sacco di cose da dire al riguardo, ma è piuttosto complicato metterle insieme perchè L'angelo dell'abisso non è un libro convenzionale (sempre che i capolavori lo siano, ma in questo caso è anticonvenzionale anche rispetto alla "categoria" dei capolavori): si sussueguono un sacco di scene, di nomi, di andirivieni nel tempo, di conversazioni, elucubrazioni, articoli di giornali, narrazioni pure e spurie, di personaggi che risalgono ai suoi precedenti romanzi, ma alla fine sembra che non sia accaduto niente. Quantomeno niente che non sia sogno o, per essere più precisi, incubo. Non è un libro facile, ma è un libro imprescindibile, quantomeno per chi voglia sondare a fondo il mistero del male nel mondo e nella storia. Lo stesso Ernesto Sabato compare come personaggio, sia indicato come Sabato che semplicemente come S., e funge in qualche maniera come tratto d'unione tra i vari personaggi che abitano questo romanzo-non-romanzo: è lui che ci accompagna tenendoci (o tenendosi) per mano in questo lungo tunnel scuro che è in una qualche misura la sua anima e la sua visione del mondo: un incubo con i tratti della veridicità o, all'opposto, una realtà ritratta con le stigmate dell'oscurità onirica. Difficile dirlo, perchè a volte, sopratutto se si fa riferimento ai suoi altri libri, anche a Prima della fine (la sua autobiografia), si ha l'impressione che Sabato ci parli di qualcosa di terribilmente reale e mostruoso, a tal punto terribile da vedersi costretto a dargli forma di narrazione fantastica, ma la narrazione fantastica è così ben congegnata e a tal punto credibile da farci sospettare che stia descrivendo non la realtà mascherata ma un incubo narrativo. Se poi si pensa che questo libro è stato scritto nel 1974 e nella sua parte finale riporta le descrizioni vivide e precise fino all'assurdo di torture di regime che l'Argentina avrebbe vissuto solo due anni dopo, si viene percorsi da brividi. E' come se Sabato, che presiedette la commissione d'indagini Nunca Màs sui crimini perpetrati dalla dittatura, avesse fatto un salto nel futuro - nel suo futuro e in quello del suo paese - e avesse registrato le testimonianze dei sopravissuti ai campi di tortura e poi fosse tornato indietro a scriverne. O come se già all'epoca lui sapesse cosa sarebbe successo, e intendo dire che lo sapesse non come proiezione di un'analisi del presente, ma lo sapesse perfettamente, per filo e per segno, come se qualcuno che preparava il colpo di stato e il susseguente regime (qualcuno all'interno della P2, o del vaticano, o dell'esercito, o del corpo industriale, o degli U.S.A.) gli avesse anticipato i piani di ciò che sarebbe successo. Ma da questo punto di vista Sabato è molto reticente, addossa le colpe delle brutture del mondo, come già in Sopra eroi e tombe, ad una misteriosa setta di ciechi (come già in Sopra eroi e tombe, nel famoso Rapporto sui ciechi), che però, proprio per la sua natura segreta ed esoterica, sembra rimandare ad altro di molto simile, qualcosa come ad una loggia, o all'incarnazione antelitteram delle attuali teorie del complotto del nuovo ordine mondiale, degli illuminati (luce che i chiechi non possono vedere o luce che rende ciechi?) e chi più ne ha più ne metta. Paranoia, il male incarnato nella storia, Sabato che si muove in una Buenos Aires cupa che sembra presagire ed attendere inquieta ciò che di lì a poco le toccherà vivere sulla popria pelle, i personaggi dei suoi romanzi che vi si aggirano come formiche su un cadavere. E' un romanzo oscuro, per molti versi e ancora maggiori sensi: è difficile da seguire, e quando ci si riesce (o si crede di esserci riusciti) ci si domanda se l'ipotesi che ci è balzata in testa sia frutto della nostra follia o se fosse in fondo il reale messaggio che l'autore ha voluto inviarci, come a metterci in guardia da una bestia orribile e famelica che ci ostiniamo a fingere di non vedere, a dimenticare a causa del terrore che ci incute, ma che non possiamo cancellare, che è con noi, vive nei recessi delle nostre ombre dall'inizio dei tempi e, pare dirci Sabato, non ci lascerà mai. Non ci resta che aprire gli occhi - non essere ciechi, non rimanerne accecati - e combatterla, giorno dopo giorno, con le armi che abbiamo, nella speranza di evitare l'inevitabile, cioè il ripetersi delle tragedie (sempre le stesse, sempre uguali, sempre banali), ben sapendo che sarà impossibile. Questo è il nostro destino e, se non ci sono altri significati, questo è la spiegazione del perchè del nostro transito terreno. Una spiegazione che, forse, è assurda tanto se non di più del vivere senza conoscerne il perchè.

Ernesto Sabato ha vinto il premio Cervantes nel 1984, e nel 2007 è stato candidato al Nobel. Ha scritto nella sua vita solo tre romanzi: Il tunnel (1948), Sopra eroi e tombe (1961) e L'angelo dell'abisso (1974). In italiano è possibile trovare, oltre Il tunnel (Feltrinelli), Sopra eroi e tombe (Einaudi) e L'angelo dell'abisso (Sur), anche Prima della fine (Sur) e Lo scrittore e i suoi fantasmi (Meltemi)

martedì 15 gennaio 2013

Banksy L'uomo oltre il muro, di Will Ellswoth-Jones / Wall and piece, di Banksy, L'ippocampo editore


Cosa c'è dall'altra parte del muro o, per meglio dire, chi è l'uomo al di là del muro? Il meccanismo è lo stesso che porta Leopardi a fantasticare sull'infinito oltre la siepe: la siepe ti dà il senso del finito e tutto ciò che c'è oltre diventa giocoforza infinito. L'identità di un individuo lo connota e dunque, in un certo senso, lo limita: Banksy è ciò che campeggia oltre la siepe, è la mancanza di indentità, cioè l'infinito, vale dire che si trasforma in quello spazio informe entro il quale la fantasia può reclamare libero sfogo e scatenarsi. Banksy è un artista o è l'arte? E' un graffiti artist (o stencil artist o street artist) o è la stessa graffiti art (o stencil art o street art)? Il tema dell'identità priva di confini misurabili si intreccia in questa biografia (ovviamente non autorizzata) con il tema dell'arte, dell'arte per tutti, dell'arte di strada e del mercato dell'arte, del denaro e della fama che il successo porta inevitabilmente con sè e dei dilemmi morali che ne conseguono. La scrittura di Ellsworth-Jones è indubbiamente elegante, e ha il pregio di non essere altezzosa, scivola via al servizio del contenuto, ma non è certo una scrittura letteraria, e Banksy L'uomo oltre il muro non ha nulla del romanzo (e infatti non lo è), ma al contempo è assolutamente narrativa. Fascinosamente narrativa. Ci racconta la storia di un uomo di cui non conosciamo praticamente nulla, se non le sue opere (per questo rimando a Wall and piece, e lo consiglio vivamente), e di cui quel che poco che sappiamo sono testimonianze e a volte addirittura semplici congetture di chi l'ha conosciuto, o dice di averlo conosciuto, e di chi ha lavorato con lui in tempi in cui Banksy non era nessuno. Ora, è una star planetaria, un nome che ha creato un mercato dove mercato non esisteva, che ha dato lustro ad una forma d'arte - la street art - che forse avrebbe preferito rimanere nell'anonimato ribelle e romantico di un certo vandalismo da strada. Banksy è l'uomo che, nato in una filosofia che prevede che le opere siano di tutti, alla portata di tutti e abbiano una durata limitata, si trova d'un tratto, forse suo malgrado, obbligato a gestire e controllare ogni aspetto della propria attività, dal mercato delle opere da lui certificate, a quello delle opere a lui semplicemente attribuite, alla comunicazione coi media fino all'organizzazione di eventi e di mostre. Vive nella contraddizione di dovere (e volere) controllare ogni aspetto della sua produzione quando il credo della street art è l'esatto opposto. Deve convivere con il peso della ricchezza quando la street art considera sè stessa come una forma d'arte totalmente gratuita. Deve gestire una fama mondiale e al contempo garantirsi l'anonimato. E', questo libro, la fotografia di un insieme di contraddizioni che si scontrano tra loro nel miracolo incredibile di riuscire alla fine a convivere tra loro, e queste contraddizioni tutte insieme formano poco alla volta un'immagine, che è l'immagine di Banksy appunto, ma che per quanto affascinante possa risultare rimane una foto fuori fuoco, l'ombra scura proiettata da un cappuccio sul volto di un uomo che non possiamo vedere e che - speriamo - non vedremo mai (non vi dice niente il nome di Benno Von Arcimboldi o quello di B. Traven?). E qui troviamo uno dei risvolti più interessanti del libro e che non riguarda direttamente Banksy quanto piuttosto i suoi fans (quindi ciò che possiamo definire "altro da Banksy"): quando un giornale ha pubblicato delle foto che pretendevano di ritrarre il vero volto di Banksy, la gente ha sommerso il sito del giornale accusandoli di aver rovinato tutto. Il fascino di un mistero che, per assurdo, non funziona in quanto in attesa di essere svelato ma, esattamente all'opposto: un mistero che emana fascino perchè deve rimanere tale. Un gran bel libro che, letto dopo aver avuto modo di vedere l'opera (o, per meglio dire, le opere: vedi Wall and piece) di Banksy, ci catapulta direttamente in un mondo che credevamo lontano, quello di un'arte di strada che spesso è confuso (e a volte invece lo è veramente) con l'imbrattamento, col vandalismo, e ci accompagna in un viaggio nel genio di un artista che con immagini semplici e provocatorie riesce a parlare direttamente alla gente (e non solo al cuore ma, cosa non disprezzabile, anche al cervello), a tutta la gente, all'esperto d'arte, al laureato, al notaio, così come al ragazzino che non sa neppure chi sia Van Gogh, al muratore come alla casalinga.
  Un genio senza lineamenti.

 Will Ellsworth-Jones è uno dei più grandi giornalisti inglesi. Caporedattore, poi corrispondente da New York per il Sunday Times ha ricoperto in precedenza posizioni di primo piano nello staff per il Telegraph, The Indipendent e Saga. E' autore di We will no fight, un saggio sugli obiettori di coscienza della prima guerra mondiale. Vive a Londra.





Qui di seguito il film documentario (ma ovviamente, parlando di Banksy si tratta di qualcosa di più di un semplice documentario e di difficile catalogazione) Exit Trought The Gift Shop, di Banksy, finalista ai premi oscar 2011.


venerdì 14 dicembre 2012

punkZone, di Matteo Galiazzo, racconto apparso sul n°31 del Maltesenarrazioni, nel 2002



Guarda, qualcuno dei suoi clienti si ecciterebbe a vederla lottare con il cacciavite in mano contro questo tappo spugnoso di merda che si è formato dentro la tazza del suo water, si respirerebbe la puzza annaspando, gli scorrerebbe la saliva.
E' il terzo giorno che manca l'acqua. All'inizio non se n'è accorta e ha fatto la cacca, lo sciacquone vuoto, e tutto è rimasto lì. Allora butta un sacco di carta igienica per coprire la cacca. Ha due bottiglie di plastica da due litri piene d'acqua naturale, si fa gli spaghetti e li tira su con la forchetta anziché usare lo scolapasta, e butta l'acqua nella pentola nel cesso, ma il pastone di merda e carta rimane lì come un posto di blocco durante un'emergenza a filtrare lentamente l'acqua, la tazza si riempie quasi. Ecco, ma pensa sia solo una questione di minuti, di ore perché l'acqua torni.
Il problema è che lei qui ci lavora e questo appartamento ha solo tre stanze, il bagno non ha nessuna finestra, prende aria da una ventola che non ci si è mai creduto che funzioni, l'hanno messa più che altro per l'idea di aria che dà il rumore della ventola in sé, mi sa che non c'è nemmeno il buco da cui l'aria puzzona dovrebbe uscire, il bagno prende aria dalla camera da letto. Il letto è senza lenzuola di sopra.
Il suo è un bagno da puttana perché c'è una cosa che si chiama bidet, che serve alle puttane a lavarsi i due buchi, qua a Londra i bidet ci sono solo in alcuni di questi appartamenti di tre stanze a Soho, perché li hanno fatti apposta per le puttane.
Il primo giorno in fondo ci si può ancora stare. Basta tenere la porta del bagno chiusa, nessuno dei clienti dice niente, sparge un sacco di profumo e accende un sacco di incensi. Poi la sera fa di nuovo la cacca, e butta dell'altra carta. Si compra una cassa di acqua minerale frizzante. L'idea è che l'acqua frizzante apre la strada più facilmente nella merda, lei non sopporta l'acqua minerale se si tratta di berla, perché le bolle che esplodono le distruggono la lingua, ma ora pensare alle bolle di anidride carbonica che esplodono contro il tappo di merda e si aprono una via come tarli minatori le piace.
 Buttarla così nel cesso direttamente dalla bottiglia non fa niente, perché così non ha nessuna forza, nessuna rincorsa, si aggiunge all'altra acqua senza spostare niente, allora pensa di riempire il serbatoio dello sciacquone e poi di tirare la catena. Ma con quello che rimane nelle bottiglie lo sciacquone si riempie solo a metà, e poi l'acqua si sgasa un po' già nel travaso, poi tira la catena, ma è un getto di quelli deboli, come quando tiri l'acqua di nuovo mentre il serbatoio si sta ancora riempiendo, guarda per vedere l'effetto delle bollicine, quando l'acqua si calma si vedono infatti delle bollicine che si formano sulle pareti, ma sembrano lì per bellezza più che per distruggere il tappo di merda.
Quelli dell'acquedotto vengono, per loro è tutto a posto, il problema sta nella colonna del palazzo, il problema comincia dentro il palazzo, la pressione per loro fino a poco prima di entrare nel palazzo è a posto, ci deve pensare l'amministratore che ci deve essere una perdita da qualche parte, anche se acqua non se ne vede per niente.
Il secondo giorno la puzza di cacca si sente per forza.
Lei non può stare senza acqua, neanche poche ore, perché è nata sulla sponda destra del grande Niger.
Lei non usa lo spazzolino da denti, ma queste foglie di felce lunga.
La vicina di sopra, che anche lei fa la puttana e anche a lei manca l'acqua, perché manca in tutta la colonna, dice che agli uomini piace la puzza di cacca, e che non ci sono problemi a continuare a lavorare, anzi.
  Allora giù in strada infatti gli uomini le passano davanti e lei dice 'Vuoi sentire la puzza della mia merda?' e parecchi vogliono, si vede che la cosa li interessa. Poi però quando sentono veramente la puzza dopo un po' non gli interessa più in maniera così importante. Più che la puzza di merda a loro piace l'idea di lei che dice Vuoi sentire la puzza della mia merda, ma poi nessuno ha ad esempio il coraggio di aprire la porta del bagno, perché già da chiusa e con la ventola per sempre accesa traspira un sacco di puzza, che poi non è una puzza esotica, ma è la stessa dei cessi degli autogrill, ma molto più forte.
Le donne inglesi hanno bisogno del rossetto perché sono pallide, lei si morde le labbra e così basta. Intorno agli occhi occorre bruciare petali di sambuca in un coccio di  ferro, e mescolarlo all'olio di palma. Occorre mangiare soprattutto pesce d'acqua dolce, che rende la pelle luminosa e solida, non piena di scarabei marroni come quella delle gambe delle inglesi.
Il terzo giorno l'acqua non torna, e lei pensa, butto tantissima carta, poi spingo con le mani finché la cacca e la carta non se ne vanno lontano, poi butto altra carta e spingo, così la carta spinge via la cacca e rimane solo la carta, e a poco a poco la carta che si accumula di qua deve diventare sempre più pulita e non puzzolente. Ma le cose poi a farle non vanno così, perché la carta si scioglie all'istante appena tocca l'acqua e forma un pastone che si mescola alla cacca, quando vede che occorre spingere via la merda a pugni e quella ritorna da tutti i lati si scoraggia. E vai, per lavarsi la mano dalla merda via mezzo litro di acqua minerale e decilitri di profumo.
E' contenta di abitare a Soho e di fare la puttana, ha questo appartamento di trenta metri quadrati. Sul retro del vicolo c'è un altro vicolo, dove i retri degli appartamenti delle puttane si guardano, e tutte le puttane la sera dopo aver fatto la lavatrice stendono i loro vestiti colorati ad asciugare e si raccontano le cose, e si chiamano puttana e dicono che i pappa sono come i poliziotti che quando c'è bisogno di loro stanno sempre da un'altra parte, poi arrivano quando c'è da prendere i soldi.
Poi vengono delle donne inglesi, sposate, e chiedono prima dei consigli sul rossetto, o che crede per la pelle usiamo, o sulle cose per i capelli, poi ci chiedono cos'è che piace di più agli uomini e com'è che si fa a farlo.
E poi chiedono come si fa a fare finta, e cosa bisogna dire mentre lo stanno facendo, lei dice che bisogna fare dei versi che non hanno senso ma che sono intonati come una domanda, poi mentre si vede che i maschi stanno finendo bisogna fare dei versi che non hanno senso ma che sono intonati come una risposta.
Alla televisione c'è un'intervista a un chitarrista famoso inglese, dice che gli sembra strano di essere pagato per una cosa così, che lui la farebbe comunque. Ecco, pensa, ecco.
A volte si accorge che si sta toccando le tette, senza motivo, non capisce, credo perché c'è gente che paga per farlo e lei può farlo gratis, perché le da fastidio sprecare le cose.
Uno pensa che solo gli uomini brutti vanno con le battone, invece vengono da lei anche uomini belli, dev'essere una cosa come come il taxi, che uno a volte lo prende anche se ha la patente e la macchina. E' bello vederli arrivare con i soldi, è bello essere pagate, è bello che ti dicano senza dirtelo che vali più di quei soldi che ti stanno dando, è bello quando scelgono te tra tutte le altre, è bello che succeda più o meno ogni ora tutti i giorni.
I cattolici non le piacciono perché di solito vengono un po' di volte poi ti vogliono sposare. Lei non si vuole mica sposare.
C'è un uomo che la paga per vederla andare in giro nuda per casa a cercare zanzare e a schiacciarle contro le pareti. A certi uomini piace guardare mentre mangia dei dolci che portano loro, li ha fatti la moglie. Certi uomini vogliono sentirla canticchiare, come se fosse sovrapensiero sotto la doccia. Alcuni la pagano per guardarla mentre lava i piatti scalza. Alcuni la pagano perché lei faccia finta di non sapere fare l'amore, e deve sembrare imbranata.
Alcuni la pagano per fare finta di riparare la guarnizione del lavandino. Si deve mettere una tuta sporca, e maneggiare delle chiavi inglesi sotto il lavello della cucina. Alcuni la pagano per guardarla mentre si schiaccia dei brufoli.
Alcuni si eccitano mentre si fa il nodo alla cravatta, mentre guarda dei film porno, loro stanno dietro il televisore e guardano lei, mentre rutta dopo aver bevuto la birra, mentre guida una carriola con la sabbia dentro,  mentre col cappello da vigile scrive su un taccuino, mentre fa le bolle col chewingum, mentre legge le istruzioni sulla confezione di un cibo da fare al microonde e poi lo prepara, mentre dice delle bestemmie complicate, mentre olia un fucile da caccia, mentre fuma un sigaro, mentre gioca a golf, mentre legge delle poesie che loro hanno scritto, mentre segue le trasmissioni di calcio alla tv.
Uno di loro la paga per guardarla mentre scrive sul suo computer portatile. Lei le prime volte schiaccia dei tasti a caso, ma lui dice che così non funziona, che si vede che fa finta, che anche dal suono dei tasti si capisce che è distratta. Allora le porta delle cose da copiare. Poi porta dei libri e dei cd-rom e le dice che deve installare Linux sul portatile. Cercando di installarlo si vede che è concentrata, perché è una cosa complicata, e lui è contento, anche se poi lei gli distrugge la tabella delle partizioni e si deve riformattare l'hard disk perdendo tutti i dati. Questo tizio è un cattolico, e infatti lei si aspetta che da un momento all'altro le chieda di sposarlo e di smetterla di fare la puttana, lo sa che tra qualche giorno glielo chiede, perché i cattolici è più forte di loro.
Queste case sono fatte così, che dai tubi dell'acqua e del gas si sente tutto da un appartamento all'altro, specialmente da un piano all'altro, perché i tubi viaggiano per o più in verticale. Allora se appoggi l'orecchio sul tubo senti tutto quello che succede sotto, e siccome qua sono tutte puttane, di solito si sente gente che sta scopando, e donne che gridano per finta a voce molto alta, e ogni tanto qualche cliente che grida per davvero. E il punto dove si sentono meglio i tubi è la tazza del cesso, forse perché ha proprio quella forma ad anfiteatro che amplifica il suono. C'è un suo cliente che si mette sempre lì ad ascoltare, passa delle mezzore con tutta la faccia quasi dentro la tazza per sentire meglio, non gli interessa che lei possa gridare in quello stesso modo che lui sta sentendo, a lui piace sentire attraverso i tubi, poi quando lo fanno lei non deve fare nessun rumore, forse perché lui sta ancora cercando di ascoltare i tubi.
Adesso lei ha paura che arrivi proprio questo qui perché non saprebbe cosa dirgli che il suo cesso è impraticabile. Chiede lo stato di emergenza. Ce n'è uno che la paga se lui resta di là in cucina e lei va nell'altra camera e muove il letto con le mani in modo che cigoli.
Quando alla fine riesce a installare Linux il ragazzo cattolico le lascia il suo portatile, e le da dei compiti da fare mentre lui non c'è, pagandola per il tempo che ci mette, praticamente deve fare degli script con il linguaggio della shell. Lui dice che si diverte a pensare a lei che fa gli scriptini mentre lui non c'è.

Ce ne sono certi che la pagano e poi si va semplicemente in giro a fare dei giri a piedi, magari vedono un vestito in una vetrina e vogliono che lei se lo provi, ogni tanto ne comprano uno e glielo regalano, loro vogliono solo guardarla, poi si siedono da qualche parte a bere qualcosa, loro vogliono solo guardarla mentre beve qualcosa, perché è bella, perché non c'è niente di più leggero di guardare.
Vanno a fare un giro e lui le dice che si ecciterebbe molto se lei entrasse in quell'ufficio, lei entra e in effetti la segretaria dice che la stava aspettando. La fanno entrare nella stanza di uno con una grande pancia che la fa sedere e le fa delle domande su linux e sul linguaggio della shell, per vedere quanto ne sa, e lei ormai ne sa abbastanza. Il tizio con la pancia le chiede di fare uno script. Lei lo fa. L'uomo con la pancia le offre un lavoro come assistente amministratore di rete, fuori il ragazzo cattolico la aspetta sorridendo, i cattolici pur di sposarti e farti cambiare lavoro, è più forte di loro.
Da tre giorni ogni volta che torna a casa spera di sentire il rumore di qualcosa che sgocciola, entra, va lentamente verso il rubinetto del lavello della cucina, ma già si vede che non è tornata, perché quello quando c'è l'acqua sgocciola sempre anche se stringi forte il rubinetto.
Ha dimenticato di comprare l'acqua minerale. Tra poco dovrà fare di nuovo la cacca.

Esce per la scale e se ne sale sul tetto con un secchio di quelli da pulire per terra. Spalanca la porta del tetto e i piccioni volano via. Qua sopra ci sono tutti i serbatoi delle colonne. Sono come delle grandi vasche da bagno però con il coperchio sopra, e delle pietre e del fil di ferro che li tengono tappati, perché non voli via tutto quando c'è vento. Quello della sua colonna è vuoto. Ci batte per sentire che suono fanno e rimbombano, uno rimbomba un po' meno, ci guarda dentro da una fessura, ma non si vede niente. Toglie il fil di ferro e le pietre, sposta il coperchio. Acqua. Lei ha bisogno di acqua dolce perché è nata sulle sponde del Niger. Tira via il coperchio. E' sera, non si vede niente. L'acqua è trasparente, se non ci batte le luce sopra non si vede mica. Butta il secchio dentro la vasca e sente pluf. Pesca, lo tira su. Pesa. C'è dentro qualcosa, sembra uno straccio, ma è un piccione morto. Lo ributta dentro, pesca di nuovo, stavolta è solo acqua. Porta giù il secchio per le scale, vuole tirare tante di quelle secchiate nel cesso finché la merda non se ne va del tutto. La prima volta cade per le scale, il secchio si rovescia e tutta l'acqua va giù per i gradini e per la fessura tra le due rampe. Ritorna su col secchio vuoto. Ripesca il piccione morto, svuota il secchio per terra, ne pesca un altro, lo butta fuori, e ne pesca un altro. Riesce a fare tre viaggi dal tetto al suo appartamento, butta i tre secchi pieni dentro la tazza, l'acqua però non va giù, e l'acqua del terzo secchio straripa fuori, l'acqua dentro la tazza è giallastra, galleggiano le solite nuvolette di carta igienica. Usa il secchio per scolare una parte dell'acqua nel bidet. Ci vorrebbe una di quelle ventose sturalavandini per scuotere il tappo, ma lei non ce l'ha, oppure l'acido muriatico, ma lei non ce l'ha. L'unica cosa che ha è un cacciavite a stella, che ha usato per aprire il computer del cattolico e montargli il masterizzatore. L'unica cosa è affondare la mani nel cesso e pungolare il tappo a colpi di cacciavite.
A volte non deve fare niente, ci sono certi che si eccitano semplicemente così, che la pagano semplicemente per poterla pagare.


 Matteo Galiazzo è nato a Padova nel 1970 e vive a Genova. È autore della raccolta di racconti Una particolare forma di anestesia chiamata morte (Einaudi 1997) e dei romanzi Cargo (Einaudi 1999) e Il mondo è posteggiato in discesa (Einaudi 2002). Suoi racconti sono usciti nelle antologie Gioventù cannibale e Anticorpi (Einaudi 1996 e 1997) e nella rivista «Maltese narrazioni», di cui è tra gli animatori. Quest'anno è tornato in libreria con la raccolta Sinapsi, opere postume di un autore ancora in vita, per Indiana editore. 




Il curatore di questo blog ci tiene a ringraziare di tutto cuore Matteo Galiazzo per averci fatto l'onore di concederci la pubblicazione di questo suo racconto che, come specificato nel titolo, non potete trovare nella raccolta Sinapsi (editore Indiana) nè in nessun altro libro, ma solo nel numero 31 della gloriosa rivista il Maltese narrazioni, edita nel 2002.
  Questo blog sarà sempre ben lieto di pubblicare altri racconti e articoli di Matteo e, in generale, tutti i racconti di qualità, anche di altri autori, soprattutto se inediti o comunque irreperibili.
  Grazie Matteo.