"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

venerdì 21 settembre 2012

Monsieur Pain, di Roberto Bolano, Sellerio editore

  Monsieur Pain è un libro strano. Bolano lo scrisse nel 1981 o 1982, col titolo "La pista degli elefanti" (titolo che ha lasciato per l'epilogo di questo libro, un compendio di voci che mette o non mette un punto fermo alla storia) per uno di quei concorsi letterari con cui riusciva a raccimolare qualche pesos quando la fama letteraria era solo una chimera. Glielo pubblicarono, passò inosservato e presto finì nel dimenticatoio. Immagino che vendette poco o niente. Eppure è un libro notevole - e lo era quindi anche prima che Bolano diventasse Bolano - ma nel suo essere di indubbio valore è a anche un libro misterioso, strano. Tutti i suoi personaggi (o quasi tutti) sono reali, storicamente esistiti, il contesto dei fatti altrettanto, eppure è il ritratto di un incubo dove la realtà sfuma ben presto in paranoia, e da lì, in un balzo lento e progressivo, alla follia. Siamo a Parigi, nell'anno 1938, e Cesar Vallejo, il più grande poeta peruviano, colui che Thomas Merton definì "il più grande poeta universale, dopo Dante" si trova ad agonizzare in ospedale, come lui stesso aveva predetto in un suo poema: " Morirò a Parigi mentre fuori piove / in un giorno di cui ho già il ricordo". Il male è sconosciuto, nessuno riesce a capirne l'origine nè le cause, eppure il poeta è sul limite imperfetto che lo porterà di lì a poco al cimitero di Montparnasse: i medici però non sanno che pesci pigliare, sanno che soffre di signhiozzo, niente di più. La moglie di Vallejo si rivolge ad un amica, Madame Reynaud, che a sua volta si rivolge a Pierre Pain, il Monsieur Pain del titolo, un mesmerista che aveva tentato, invano, di curare suo marito. Pain, che non ha idea di chi sia Vallejo, si interessa del caso, e assicura a Madame Reynaud che farà quanto in suo potere per aiutare il marito della sua amica, ma a quel punto cominciano ad accadere fatti insoliti, poi inquietanti ed infine minacciosi, ma connotati da quella forma di minaccia che aleggia nell'aria senza giungere ad acquisire una qualche forma chiara. Due uomini, forse degli spagnoli, anzi, sicuramente degli spagnoli, lo seguono. Lo vanno a cercare nella pensione dove alloggia. Quando finalmente Pain, Madame Reynaud e Madame Vallejo si incontrano e si recano alla clinica dove giace il poeta peruviano, il medico personale di Vallejo, che incredibilmente non se ne cura, o se ne cura il minimo necessario, prende di mira Pain e lo umilia trattandolo come un ciarlatano, si frammette in maniera anche fisica come una barriera tra Pain e la stanza dove giace Vallejo. Poi giungono altri medici, tra cui un luminare, il dottor Lemiere, che avrà modo di senteziare: " Tutti gli organi sono intatti, non vedo cosa possa nuocere alla salute di quest'uomo ": tra questi medici Pain crede di riconoscere i due spagnoli. Il centro dell'azione, come il Castello dell'agrimensore K. ne Il castello di Kafka, è un luogo irraggiungibile, ed è la stanza d'ospedale dove si trova Vallejo. La porta che la separa dal corridoio, i medici che gli impediscono di entrare, la donna all'entrata dell'ospedale, l'energumeno che lo scorta fuori, i due spagnoli che cercheranno con lui un accordo che rappresenterà anche una forma di velata minaccia, la scomparsa improvvisa di Madame Reynaud, ogni cosa sembra complottare contro di lui, come se qualcuno, qualche forza esterna, misteriosa e forse superiore, esigesse che la morte del poeta (del Poeta con la P maiuscola, simbolo della purezza della poesia e dell'animo umano; Poeta esule, incorruttibile, meticcio, marxista e povero) si compisse ad ogni costo, ed avvenisse in quella data maniera, a Parigi, esattamente come aveva scritto lo stesso Vallejo anni prima, quasi che il complotto fosse finalizzato a far sì che si realizzasse la sua stessa predizione. E' un libro, Monsieur Pain, a tratti ipnotico, inquietante, è un ritratto oscuro di un'epoca in bilico tra modernità, tecnologismo, e sapienze occulte, cenacoli segreti e bohème in fondo già conscia di sè stessa e di ciò che avrebbe rappresentato di lì a poco. La storia, se dovesse mai essere tradotta in pellicola, sarebbe ritagliata su misura per David Lynch, la scrittura stessa di Bolano, qui non ancora affinata all'affabulazione perfetta dei suoi capolavori, sembra voler riportare sulla pagina immagini ed atmosfere dei film di Lynch, e molte scene che Bolano descrive fino all'esasperazione, con una lentezza ed un'attenzione spasmodica ai particolari volutamente portate all'eccesso, sono la trasposizione della medesima tecnica utilizzata dal regista, dove l'angoscia viene portata non fino al limite della sopportazione o della giusta misura, ma poco più in là, oltre, per poi esplodere in una sorta di vuoto pieno di sottintesi che, immancabilmente, rimanda ad altro, normalmente altrettanto inquietante ed indefinito. Per assurdo, quella che parte come un'opera terribilmente letteraria, quasi conformista nell'ambientazione e, almeno inizialmente, nel linguaggio, è forse l'opera di Bolano più esplicitamente filmica.


Roberto Bolano è nato a Santiago del Cile 28 Aprile 1953, ed è morto a Barcellona il 14 Luglio 2003. Semplicemente è Bolano, L'ultimo classico, un Borges elettrico, il cantore del caos e dell'esilio, degli intrecci sospesi, del destino in mano al caso. Se avesse un senso questo aggettivo in letteratura, direi semplicemente: il migliore.
Chi volesse approfondire e documentarsi su tutti gli aspetti legati a quest'autore può andare ArchivioBolano. E' il sito più completo (e complesso) che si possa trovare.
  Di Bolano in questo blog sono stati finora recensiti: I dispiaceri del vero poliziottoIl Terzo reich, La pista di ghiaccio.

mercoledì 12 settembre 2012

Corpo a corpo, di Gabriela Wiener, La Nuova Frontiera edizioni

  Pare che il termine "gonzo" sia nato all'interno della comunità irlandese di Boston Sud per indicare l'ultima persona a rimanere in piedi dopo una notte di bevute e bagordi, una sorta di Higlander da pub. In seguito, nel 1970, il signor Bill Cardoso, professione giornalista del Boston Globe, ha utilizzato questo termine per indicare il tipo di giornalismo praticato da Hunter S. Thompson, vale a dire un modo totalmente personale di riportare le notizie, sconclusionato e fuori di senno, ma non per questo meno veritiero del giornalismo che possiamo chiamare normale. In realtà, per chi non conoscesse Hunter Thompson (che comunque va conosciuto, almeno il suo Paura e disgusto a Las Vegas), normalmente i suoi articoli vedono lui stesso come protagonista che si occupa di un fatto di cronaca, va sul posto, comincia a guardarsi intorno, a fare qualche domanda e nel giro di un niente si trova in qualche bar a ubriacarsi assieme ad un presunto quanto improbabile testimone e, qualche pagina dopo, da "qualche parte" non meglio specificata in preda a deliri allucinatori causati da abuso di sostanze stupefacenti e superalcolici. A quel punto, del fatto di cronaca non si ha (ovviamente) più traccia alcuna. Altrimenti, nei suoi articoli più sobri, vale a dire quando riusciva a terminare un articolo senza rischiare l'overdose, di solito parla a lungo e con approfondita cognizione di causa delle scommesse sportive, su chi puntare, cavalli, macchine, cani, squadre di footbal, di baseball, di basket, quanto puntare e via discorrendo. Non per questo (anzi, forse proprio grazie a questo suo aspetto) non è stato un ottimo scrittore, sicuramente unico: critico quasi inconsapevole del grande sogno americano e delle sue bugie, delle ombre e delle luci artificiali che lo fanno sembrare ciò che in realtà non è. E poi è divertente. Ora, se si vuole applicare l'etichetta di giornalista "gonzo" a Gabriela Wiener, bisogna pensare a lei come ad una nipotina responsabile di Thompson. Talentuosa, certo, ma seria e responsabile, ma solo perchè effettivamente il suo modello era realmente un pazzo scatenato oltre ogni immaginazione. Al contrartio, se la si paragona ad una persona normale, è una simpatica svitata ed eccentrica. Mi spiego. Quando iniziate a leggere una delle sue cronicas potete stare tranquilli che parlerà di quello che è l'argomento di partenza (cosa che difficilmente accade nei libri di Thompson); faccio un esempio: se parla di donazione di ovuli, potete stare tranquilli che di quello tratteranno le pagine che seguono il titolo "Addio piccolo Ovocito, addio". Però, rispetto ad una persona normale, o ad un giornalista normale (spesso le due categorie sembrano non coincidere), la Wiener va oltre, e qui sta il suo lato gonzo. Lei bussa ad una clinica, si dice interessata a donare un ovulo, segue la procedura, compila questionari, si fa visitare da dottori, si sottopone ad una serie infinita di visite specialistiche, lascia che i medici controllino giornalmente la crescita dei suoi ovuli fino a quando, finalmente, non giunge il grande giorno in cui dà l'addio ai suoi ovociti. Tutto rigorosamente in prima persona. Così come le esperienze in un club di scambisti a Barcellona, o in un allevamento ultramoderno di maiali fuori Lima (in cui si impara che i maiali possono avere orgasmi anche di mezz'ora consecutiva), o sul palco di uno spettacolo di dominazione ad una fiera dell'eros. Quando va ad intervistare un uomo con sei mogli, tale Badani, lo fa andando a passare due notti a casa sua, dormendo con le sue mogli, parlando e vivendo con loro e con lui, ed immergendosi in quella realtà al confine (se non oltre) di quanto normalmente accettato dalla società. Quando vuole conoscere la vita di una trans sudamericana emigrata in Europa - nel caso indagato dalla Wiener, a Parigi - va a casa sua, dorme sul letto dove questa (la trans) fa sesso coi clienti, condivide la casa col suo fidanzato francese, e l'accompagna al Bois de Boulogne dove si prostituisce, aspettando che termini la sua nottata di lavoro. Poi la troverete in giro da sola per la più pericolosa prigione maschile di Lima, facendosi passare per moglie o sorella o fidanzata di qualche galeotto, per studiare il linguaggio ed i significati dei tatuaggi carcerari. Una cronicas a mio avviso interessantissima è quella che riguarda l'assunzione di ayahuasca ("In viaggio con l'ayahuasca"), una pianta sacra agli sciamani peruviani - pianta "visionaria o enteogena" più che non allucinogena-, prima provata in un alloggio nel centro di Lima, con risultati deludenti, poi nella foresta ma con lo sciamano sbagliato (si, ci sono sciamani giusti e sciamani sbagliati; dalle mie parti si direbbe: ci sono sciamani e ci sono sciamacci), e solo alla fine, dopo aver trovato lo sciamano che sarebbe stato quello giusto per lei, riesce ad immergersi in un mondo che forse non c'è e, al contrario, forse è più reale di quello che noi riteniamo essere reale, e a verificare le effettive qualità della pianta. Comunque, di qualsiasi cosa parli, Gabriela Wiener c'è sempre, lei e la sua vita, lei e suo marito Jaime Rodriguez Z. (poeta e giornalista peruviano), lei e il suo pancione che si gonfia, prima, e poi lei e sua figlia. Non è una Hunter Thompson in gonnella, è Gabriela Wiener, sa scrivere, sa essere licenziosa, sa essere ironica e, fuor di dubbio, sa provocare ed interessare il lettore.
 Degna rappresentante della nuova ondata di giovani scrittori e giornalisti sudamericani.

  Onestamente, non sono riuscito a capire se questo Corpo a corpo, sia la traduzione del suo primo libro, Sexografìas (nel caso, la scelta della traduzione del titolo sarebbe come minimo demenziale), o una raccolta di brani tratti dai suoi libri e dai suoi articoli pubblicati su quotidiani e riviste. Immagino la seconda che ho detto.

Gabriela Wiener nasce a Lima (Perù) nel 1975. Scrive per quotidiani e riviste spagnole e sudamericane. I suoi primi reportage li ha scritti per Etiqueta Negra, di cui è corrispondente a Barcellona. E' stata redattrice della Sezione culturale e del Supplemento domenicale del quotidiano El comercio del Perù. Ha studiato Linguistica e Letteratura all'Università Cattolica di Lima e nel 2003 è volata a Barcellona per seguire un master in Cultura storica e Comunicazione. Da questa città ha scritto per media quali, tra gli altri, Etiqueta Negras, Caretas e Travesìas. In Spagna ha lavorato come redattrice della rivista Lateral e ha pubblicato suoi articoli con La Vanguardia, El periodico de Cataluna, Letras Libres, Primera linea e Quimera. Le sue cronicas sono apparse sul numero speciale di Latinoamerica dell'edizione congiunta di Virginia quartely Review - Etiqueta Negra, Mejor que ficciòn, Cronicas ejemplares e Antologia de la crònica latinoamericana actual.
Attualmente vive a Madrid dove lavora come caporedattrice di Marie Claire.
 Ha pubblicato Sexografias nel 2008, Nueve Lunas nel 2009, e Kit de supervivencia para el fin del mundo nel 2012, oltre ad una raccolta di poesie, Cosas que la gente deja cuando se va.

  Il suo blog è Sexografias.

sabato 8 settembre 2012

La signora in verde, di Arnaldur Indridason, Tea editore

Chi non ha mai letto Indridason, ha perso qualcosa. Che cosa, esattamente, non lo so, comunque qualcosa di importante. Chiunque ami la letteratura si può rendere conto che questo autore islandese non è il solito fenomeno (più o meno tale, in realtà in giro non ce ne sono molti) del cosiddetto giallo del nord. E' stata un'ondata, forse lo è ancora: i giallisti del nord europa hanno travalicato il filtro della buona qualità (e - avolte - del buon gusto) imposto da Iperborea o dalle scelte editoriali oculate delle grandi case editrici e hanno invaso quel piccolo mondo provinciale che è l'editoria italiana. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Di Stieg Larsson ce n'è uno solo (c'era, purtoppo, ora non più) e la maggior parte dei suoi emuli sono, per così dire, legione, una schiera di demoni più o meno agguerritti che puntano alla fama facile seguendo il maestro e cercando di tanto in tanto qualche strada alternativa che si va presto esaurendo. Sono tanti, troppi, e la maggior parte di loro non vale nè la spesa nè il tempo utilizzato a leggere le loro storie. Le uniche cose che li uniscono sono le ambientazioni, i paesaggi, i sapori e gli odori che fanno da sfondo (e spesso non solo, spesso rivestono la parte di coprotagonisti) dei loro gialli. Città e cittadine avvolte dalla nebbia, centri isolati dal resto del mondo, personaggi cupi e taciturni, neve pressochè perenne, tempeste solari, mugnai impazziti, violenze famigliari, alcolismo, droga e via discorrendo. Se questa è la media, Indridason è molto di più. I suoi libri sono un bisturi che entra poco alla volta nella carne viva della società e della storia islandese, nelle sue genti, e seziona freddamente l'animo oscuro di una terra fredda e, per molti mesi l'anno, coperta da un fitto strato di buio. L'equazione è semplice, quasi banale, buio sulla terra, buio nell'anima. Il suo protagonista è Erlendur Sveinsson, per tutti Erlendur, diciamo, quasi senza ironia, l'uomo più triste d'Islanda. I suoi collaboratori, tanto fidati quanto diversi da lui, sono Sigurdur Oli, una specie di fighetto perfezionista con poco tatto e meno pazienza, ed Elìnborg, una mamma in carriera, più sottile e comprensiva. In questo "La signora in verde", la storia rimbalza tra il presente, in cui viene ritrovato uno scheletro su una collina, e il passato, durante la guerra, dove seguiamo le vicende di una famiglia in balìa di un padre e marito violento e sadico oltre ogni misura. Di chi è lo scheletro sulla collina? E' morto di morte naturale o violenta? E, in questo secondo caso, chi l'ha ucciso? Tutto parte da questa che è una situazione piuttosto banale e già vista nell'ambito del giallo, qualsiasi giallo, nordico o mediterraneo che sia, ma il modo in cui l'autore sviluppa ed approfondisce la storia la fa diventare, come sempre capita nei libri di Indridason, un trattato sociologico (e storico in questo caso) che ci è dato seguire in presa diretta. Cos'era la società svedese durante la guerra, il ruolo della donna, l'accettazione della violenza domestica come un fatto, se non proprio naturale, comunque ineluttabile, la presenza degli inglesi prima e degli americani poi, gli echi di una guerra spaventosa ma nonostante tutto sempre percepita come lontana, la povertà, la fame, le dicerie popolari, i furti presso gli insediamenti militari degli americani, i figli della guerra, vale a dire i figli dei soldati che sono rimasti di stanza in loco qualche mese e poi sono stati spediti sui fronti caldi del Grande Conflitto, spesso a morire. Quasi sempre a morire. Le vedove non riconosciute, perchè ragazze madri, quindi svergognate, impudiche agli occhi della gente, puttane. E poi una signora "storta" e vestita di verde che si aggira per la collina attorno ad un cespuglio di ribes, che qualcuno ha visto, diversi ricordano, ma che sembra essere come l'ombra di un fanstama. Non vado oltre. E' un libro tanto terribile quanto magnifico. La scrittura di Indridason è piatta, calma, ha un suo ritmo ben preciso, scandito dagli avvenimenti e dai dialoghi, e affonda la sua capacità di analisi poco alla volta nella storia, non scade mai nel compiacimento quando descrive fatti violenti o perversi, è come un'occhio che rimane esterno senza però negarsi la possibilità della pietà umana. Erlendur, tra l'altro è un personaggio indimenticabile, complesso, che si sviluppa ed arricchisce un libro dopo l'altro. Ossessionato dalla morte del fratello avvenuta quando entrambi erano piccoli durante una tempesta di neve, morte di cui si sente responsabile e che non è mai riuscito a superare, si è separato dalla moglie dopo aver avuto due figli che, se è ingiusto affermare che abbandona in tenera età, comunque non tenta neppure di essere loro vicino, questo per molti anni, fino a quando non saranno i figli stessi ad andarlo a cercare, ormai adulti: Eva Lind, tossicodipendente che lo accusa di essere la causa primigenia di tutte le sue sventure e Sindri, ragazzo solitario e distante. Questo è il mondo di Arnaldur Indridason, Reykjavìk e dintorni, brughiere, fiordi, pianure infinite ricoperte di lava e ghiaccio, strade di periferia e storie di disgrazie che giungono dal lontano nord della regione. Ogni storia è una scusa per approfondire un tema, ma sia l'intreccio giallo che l'approfondimento - storico o psicologico o antropologico che sia - sono di qualità assolutamente superiore alla norma, e se la scrittura può ad una prima impressione apparire banale o magari un po' sciatta, la realtà è che è un piccolo miracolo di equilibrio tra il ritmo lento che caratterizza la vita dei protagonisti, lo svolgersi della vicenda e un'attenzione particolare a non andare mai sopra le righe, non marcare mai troppo i contorni di una scena, di un fatto o di un personaggio, lasciando che sia la storia a imprimere le impressioni dovute nei lettori.

 N.B: Subito dopo ho letto Un grande Gelo, e prima Un caso archiviato, La voce, Sotto la città e Un corpo nel lago. Li consiglio tutti. Sono inoltre usciti Un doppio sospetto e Cielo nero (tutti e due per Guanda; tutti gli altri sono ora disponibili in edizione economica per Tea)

Arnaldur Indriðason (Reykjavìk 28 Gennaio 1961)è uno scrittore islandese, noto particolarmente per i suoi romanzi polizieschi che hanno come protagonista il personaggio di Erlendur Sveinsson.
La traduttrice delle sue opere in italiano è Silvia Cosimini. Tutti i romanzi tradotti in italiano sono stati pubblicati dalla casa editrice Guanda.
Vive a Reykjavík, è sposato e ha tre figli. Dal 1981 al 1982 ha lavorato come giornalista al Morgunbladid. In seguito ha lavorato come giornalista indipendente e come critico cinematografico. Si è laureato in storia nel 1996 all'università islandese.
Ha iniziato la sua carriera di scrittore nel 1997 pubblicando il primo romanzo della serie dedicata al commissario Sveinsson. Ha vinto numerosi premi, fra i quali Glasnyckeln e Gold Dagger.

lunedì 27 agosto 2012

Funes el memorioso, de Jorge Luis Borges, en Ficciones

  El cuento forma parte del libro Ficciones, publicado en 1944, de la segunda parte, “Artificios”. La historia es bastante simple y lineal. Jorge Luis Borges en el prólogo de esta segunda parte del libro sostiene que el cuento Funes el memorioso ”es una larga metáfora del insomnia". No solo eso. Tal vez, prescindiendo da la intención de su autor, la historia va más allá de su significado original y se convierte en algo más profundo.
La historia es simple y lìneal. Ireneo Funes, vinculados al narrador con una conociencia ocacional y casi de todo superficial, a una edad temprana queda paralizado tras un accidente de equitación. A partir de ese momento, su memoria se convierte prodigiosa (y por lo tanto monstruosa) y su vida se biforca: de un lado la psiquica, obsesionada y condenada a las funciones esproporcionadas de su memoria, y de otro lado la inmovilidad física que lo costringe a vivir todos sus días en su habitación y, como máximo, por la noche, a mirar una pequeña parte del mundo desde la ventana. Pero la vista la que Ireneo Funes disfruta desde la ventana no es la potencialmente infinita de Giacomo Leopardi sino una visión de la realidad verdadermente sin fin, porque cada objeto, cada color, cada matiz, cada soplo de viento està percibida por el protagonista de manera lancinante y perfecta, total y, peor aun , todos los detalles registrados por Ireneo remiton su mente a otros recuerdos almacenados, que a su vez atraen a otros recuerdos, y así en forma exponencial.

Cabe señalar que, al inicio, durante el primer encuentro fugaz del narrador con Ireneo Funes, este era  conocido en su pueblo por su don particular, otra vez de modo monstruoso, la capacidad de saber siempre la hora exacta, dondequiera que fuera, sin dudarlo. Su propria condición se puede adivinar como la de un personaje singular en la pequeña comunidad. El período histórico considerado, finales de 1800, nos da un mundo que sigue siendo rural, pero listo para lanzarse en el nuevo siglo, que será el siglo de la industria y de las invenciones, de los mecanismos, de las grandes ferias comerciales y científicas, un mundo suspendido entre dos visiones de la vida, una (al atardecer) todavia simple y de alguna manera mágica y la segunda (a los albores) lista para emborracharse de tecnologìa hasta el punto de hacerla su propia religiòn y la propia forma aceptable de magia. La primera parte del cuento sirve, de forma clasica, para dar un quadro al mismo cuento. El narrador garantiza sobre la verdad de lo que irà referiendo, define el período temporàl (1884-1887), la zona geográfica (Fray Bentos), el tipo de relación que lo ha vinculado al protagonista, el número de veces que se encontrò con èl (tres) y también especifica que su testimonio será imparcial y, se intuye, formarà parte de cierto compendio junto a otros testimonios sobre la figura de Ireneo Funes el memorioso, que por lo tanto - imaginamos – tiene que haber logrado una reputación que ha trascendido el borde de la pequena ciudad donde los acontecimientos tienen lugar, aunque si no sabemos la naturaleza de esta fama, si se considera una especie de fenómeno de circo, un freak, o  un caso médico o un personaje popular y folclòrico.
Este primer punto de vista, ademàs de proveer al lector con los primeros datos para limitarse a una hora, un lugar y por lo tanto a una atmósfera, sirve para estipular con el lectòr el pacto asì llamdo de credulidad. Es el mismo narrador que ha vivido lo que él nos va contando, y por lo tanto tenemos que creerlo. La parte central nos propone las circunstancias del primer encuentro, casual y fugaz (en el día siete febrero del años ochenta y cuatro), en el que echamos un vistazo a Ireneo, poco más (o poco menos) de niño, que corre y, sin pararse de correr, contesta a la pregunta del primo del narrador, quien le pregunta qué hora es. La respuesta, << Las ocho menos cuatro minutos >>, dicha casi como un reflejo, sin la mediación del pensamiento racional, nos ofrece los primeros indicios de un tipo de diversidad que de alguna manera afecta al niño, aunque no sabemos si es virtud o enfermedad. La tercera parte nos pone a parte sobre el incidente ocurrido al protagonista, sobre su discapacidad y sobre el don (o condena) consecuente que el incidente tuvo como su consecuencia. No es importante investigar la causa médica, y si este potencionamiento abnormal de la memoria sea verosìmil más allá de la página escrita, lo que importa son sus consecuencias. El narrador, y por lo tanto testigo ocular del incidente, se encuentra en Fray Bentos, estamos en 1887, tiene consigo una serie de textos en latín, y un diccionario, con el que se ayuda. Viniendolo a saber Ireneo pide de poder disfrutar por algunos dias de los textos de Latin y del diccionario. La solicitud es inusual, y tal parece al narrador, aun asi decide de hacerle haber el Gradus ad Parnassum de Quicherat e la Naturalis Historia de Plinio. Unos días más tarde, el narrador recibe un telegrama refiriendole las condiciones de salud del padre y, antes de emprender el viaje de vuelta a casa, decide de ir a casa de Ireneo para recuperar sus libros. A partir de aquí Borges pone el verdadera nucleo de su narración. El narrador entra en la habitación de Ireneo, pero la habitación es oscura y sólo puede oir una voz que habla correctamente en latín. A lo largo de toda la duraciòn de la  conversación con el protagonista no habrà modo de distinguir sus rasgos, sólo con la llegada de la primera luz de la mañana verà el rostro de su interlocutor. Una vez más el tema de la ceguera, aunque sea temporal y no causado por enfermedad, sino por causas externas, es importante para Borges. Es absolutamente esencial (imprcindible) porque  encarna el modo (el medium) con el que Borges percibe el mundo. El mundo de Borges de hecho es claroscural, no necesariamente tenebroso, pero eternamente inmerso en sombras. Pero con las sombras y con la dificultad del narrador para poner de relieve contrasta con claridad demencial de Ireneo que, descubrimos, es, literalmente condenado a recordar todo. Nada escapa a su capacidad mnemonica, hasta el más mínimo detalle, ni él tiene la capacidad selectiva que le permita de aislar los elementos esenciales de los aspectos importantes, de los secundarios, de aquellos menos relevantes. Lo que hace de su potencial una condena es precisamente este aspecto: de un lado la obligaciòn a recordar todo, y del otro la imposibilidad de colocar el sinfín de detalles registrados en una escala de prioridades. De hecho, Ireneo dice y explica sus planes absurdos (y en gran parte demenciales) como la redenominaciòn de los números segùn un criterio que sólo puede ser válido para él, basado sobre ningùn tipo de lògica, pero sólo en un juego mnemotécnico. Incluso sus planes para el almacenamiento de sus recuerdos son insensatos y irealizables porque lo obligarian a vivir toda su vida en ese esfuerzo a sabiendas que no podrìa llevar a termine la sistemaciòn ni de sus recuerdos de infancia. Son dos projectos que el mismo narrador bautiza como locuras, pero en los que puede adivinar “ una cierta balbuceante magnitud “. En este punto el cuento se acaba. Volvemos a ser puestos a parte sobre otros – pocos – aspectos de la vida de Ireneo Funes, como su edad al momento de los echos, 19 años, y la causa de su muerte en 1889, una congestión pulmonar.

  Borges una vez más vuelve a hablarnos al interno de una estructura narrativa sencilla y tradicional, casi trivial, sobre temas eternos, como el infinito. La memoria de Ireneo, de hecho, no es otra cosa que una de las encarnaciones posibles del infinito y de la incapacidad del hombre no sólo para su gestión, sino también para entenderlo. Funes, de hecho, parece estar completamente a merced de su discapacidad y, en su mayor parte, ni siquiera capaz de comprenderla plenamente. Él ne intuye los límites sólo cuando la mide con la exiguidad de su existencia. Él sabe que morirá antes de que termine de recordar todos los aspectos de su infancia. Sin embargo, esto no lo lleva a razonar sobre la natura de la muerte, y por lo tanto sobre el sentido de la vida, sino a la manera de almacenar recuerdos y cómo sistemarlos. El problema no es, para él, el significado más bien si la cantidad. Pero la cantidad pone los mismos límites del significado, porque no se deja coger, se moltiplica en continuaciòn como en un juego de espejos que reflejano cada particular al infinito exactamente asi como cada recuerdo crea una cadena de recuerdos que a su ves crea a otra, y asì hacia el infinito. Màs alla de la tragedia de no ser capaz de recordar nos encontramos frente a frente con el drama de la inutilidad del recuerdo porque él mismo translimita el significado y lo anula en la repeticiòn infinita de imagenes y sensaciones inutilizables.

Nota del autòr: El texto original lo escribì en italian, y lo podeis encontrar acà.
Espero que la traduciòn en espanol no sea tan mala.

  Dvd Illevir

venerdì 17 agosto 2012

La figlia del boia, di Oliver Potzsch, Neri Pozza editore

Siamo nel 1659, a Schongau, in Baviera e in riva al fiume viene trovato agonizzante Peter Grimmer, il figlio undicenne del barconiere. Morirà poco dopo, a causa di un taglio che gli ha squarciato la gola. Sulla spalla, però, chi lo soccorre nota un segno. Nel giro di nulla la popolazione si lascia prendere dall'isteria collettiva perchè il segno sulla scapola del piccolo Peter è senza dubbio un segno tracciato da una strega. Se ci sono le streghe in azione, come nella stessa città era capitato anni prima, vuol dire che c'è lo zampino del diavolo e, forse, il diavolo stesso che se ne va in giro per la città a sgozzare bambini. Viene incolpata ed incarcerata Martha Stechlin, la levatrice, e conoscitrice di erbe e medicina naturale. Tanto basta. La gente ha già deciso, è lei la strega e come tale deve bruciare, ma non prima di essere torturata. La tortura è prevista dalla legge in quanto mezzo per far confessare l'incriminato. E la tortura è il mestiere di Jakob Kuisl, il boia di Schongau. Jakob Kuisl, tra le altre è cose, è il tristristrisnonno (o qualcosa del genere) di Oliver Potzsch, l'autore di questo libro. E' un uomo alto, alto quasi due metri, barba nera e dita come artigli, e dotato di forza prodigiosa. Ma non solo. Anch'egli, come la Stechlin, che ha messo al mondo i suoi tre figli, s'intende di erbe e, oltre che temuto dalla popolazione locale, è anche ricercato per le sue qualità di guaritore. Jakob Kuisl non crede alla colpevolezza della Stechlin, ma se non riuscirà a dimostrare la sua innocenza dovrà essere lui stesso a torturarla prima e a darle la morte dopo. Di lì a poco muore un altro bambino Anton Kratz, di fronte alla porta di casa, anche lui assassinato, e anche lui con sulla pelle il simbolo magico. L'isteria a questo punto è fuori controllo. Aggiungiamo a tutto questo, una classe di commercianti cittadini corrotta ed in lotta al suo interno e con la controparte della città vicina, la costruzione di un lazzaretto inviso a buona parte della cittadinanza, un magazzino dato alle fiamme, e la figura del diavolo che si aggira effettivamente per la città in cerca di altre piccole vittime. Si sta parlando del diavolo in carne ed ossa, con la sua proverbiale zoppìa ed una mano fatta di ossa, coperto da una mantella nera e da un cappello piumato. Il boia, aiutato dal giovane medico Simon Fronweiser e dalla figlia Magdalena, si getta a capofitto in un'indagine impossibile, contro il tempo, contro le credenze dell'epoca, contro i maneggi dei commercianti e contro sè stesso, oltrechè, ovviamente, contro il diavolo. Il romanzo, solido, caso editoriale in Germania, non è certo il nuovo Il nome della rosa, ma è una lettura di quelle che - scusate il luogo comune - quando le cominci non riesci a smetterle. Ed è la verità. D'altronde, il medioevo, una cittadina coi suoi intrighi ed i suoi veleni, una storia d'amore, un gruppo di orfanelli minacciati dal diavolo in persona, un'epoca in cui bastava un sospetto per passare da stimato cittadino ad adepto del maligno e in cui la tortura era considerata il mezzo più idoneo per verificare la veridicità degli argomenti degli accusati, tutto questo mescolato assieme nelle giuste proporzioni non può che dare come risultato un romanzo intrigante. Come va a finire è facile da immaginare, ma anche altrettanto inutile, perchè non è quello il centro dell'interesse (come in realtà non lo è mai, o come non dovrebbe esserlo mai), il bello è il viaggio nel tempo che il libro ci concede, anche se si tratta di un tempo buio e folle all'inverosimile ma poi, a ben vedere, ce ne si rende conto mentre si legge, un tempo non così diverso dal nostro, purtroppo.

 Oliver Pötzsch è nato nel 1970 e vive a Monaco di Baviera con la sua famiglia. Ha lavorato a lungo come sceneggiatore per la televisione tedesca ed è un discendente dei Kuisl, la dinastia di boia a cui appartiene anche il protagonista del suo romanzo, realmente esistita e che ha svolto il mestiere per 300 anni.

sabato 11 agosto 2012

Il potere del cane, di Don Winslow, Einaudi editore

Scampami dalla spada, dal potere del cane. Ve lo anticipo, sono le ultime parole del romanzo, ma vi posso assicurare che neppure se vi raccontassi tutta la storia narrata in questo libro per filo e per segno, dall'inizio alla fine, vi leverei nulla dell'esperienza straordinaria che è leggerlo. Un'esperienza straordinaria, lo sottolineo, non piacevole. Di piacevole, in queste 714 pagine, c'è ben poco. Nulla, forse. Ma la letteratura non ha il compito di essere piacevole, la lettura forse (e non è detto, non sempre comunque), ma non certo la letteratura che, al contrario, ha il dovere di guardare il mostro dritto negli occhi, secondo la definizione di Bolano, e questo libro fissa lo sguardo in quello del drago e non lo distoglie più, neppure per un secondo. Vediamo tutto, sentiamo tutto, tutto ciò che sta dietro le notizie dei telegiornali, i comunicati dei politici, le strategie dei governi e della Chiesa, i piani commerciali delle imprese, vediamo tutto quello che non dovremmo vedere, e sentiamo ciò che non dovremmo sentire. Winslow ha individuato nella guerra ai (e dei) narcotrafficanti messicani il centro del maelstrom (in 2666, l'inferno personale di Bolano era Santa Teresa, nella realtà Ciudad Juarez, sempre in Messico), il punto primigenio da cui scaturisce il male, quello assoluto, una delle porte da cui fa breccia e irrompe nel nostro mondo ma, al contrario di altri scrittori (e di molti registi), non usa l'ironia per dipingere - smorzandola - la violenza, non la iconizza, rimane esterno all'azione, si limita a registrare i fatti ed a riportarli, lasciando che siano questi, i fatti, le azioni, gli intrecci di interessi, le vite dei protagonisti a raccontare sè stessi. In questo senso, per presentarci e caratterizzare i suoi protagonisti (non ce n'è uno solo, è un romanzo corale, anche se al giorno d'oggi non usa più) non si perde in psicologismi, eppure riesce a renderli ugualmente tridimensionali, veri più che realistici, così come i fatti che, pur essendo fittizi, portano in sè la grana grossa della realtà. C'è un'avvertenza da tenere presente: questo libro è una sorta di frontiera, o di linea di demarcazione: quando la si supera, qualcosa dentro di noi cambia, irrimediabilmente. Art Keller, il signore della frontiera, agente della Dea ed ex militare di stanza in Vietnam, sacrifica ogni cosa, sè stesso e la sua famiglia, in nome di una guerra che, dirà in un momento di sconforto (uno dei tanti), non ha logica combattere. Il suo incubo, la famiglia Barrera - Tio, Adàn e Raul -, narcotrafficanti messicani che traghettano il businness della droga nella modernità, impastandolo con l'economia legale fino a renderli indistinguibili l'uno dall'altra. Nora Hayden, una bambina molestata, poi ragazzina facile e bellissima, ed infine prostituta d'alta classe, ma soprattutto una donna calata in un mondo che più perverso non si può immaginare, rispetto al quale il suo mestiere rischia di elevarla agli altari della santità. Sarà l'unica, assieme a Juan Parada, il sacerdote seguace della teologia della liberazione, a dimostrare di avere un'anima. Se ci si volta indietro, una volta terminato il libro, sono gli unici due personaggi che, pur navigando in mezzo a tragedie ed a mucchi di cadaveri, non si macchiano di nessuna morte, ma che, al contrario, tentano, ognuno dalla sua posizione ed ognuno per come può, di alleviare il carico di dolore assoluto e nero che la guerra tra la famiglia Barrera e Art Keller fa piombare su tutto e tutti, innocenti compresi. Bambini compresi. Questi personaggi, ed altri ancora, come Sean Callan, killer irlandese suo malgrado, quasi per caso, quasi controvoglia, intrecciano le loro vicende personali e si scontrano ed incontrano come su un palco: e questa è la finzione, ma il ring sul quale danno vita a alle loro traiettorie terrene, è un'altra cosa, è la storia, ma, ci tengo a precisare, non la Storia, quella con la S maiuscola che si studia sui libri, a scuola, o la cronaca che viene riportata dai giornali o alla televisione, è la storia che sta dietro alla Storia ed alla cronaca. Si parte dal Vietnam, dall'operazione Fenice, si passa per l'operazione Condor, per Cerbero, su su fino a Nebbia rossa, ed è la narrazione di come gli Stati Uniti e la Chiesa hanno combattuto la minaccia comunista nel mondo, vale a dire alleandosi con assassini, trafficanti di armi, mafiosi e dittatori. L'intero centro e sud america è stato violentato dalla politica sotto traccia degli Stati Uniti che, con la scusa della guerra al pericolo rosso (e non era solo una scusa, era uno dei motivi, il principale o, quantomeno, quello da vendere alla pubblica opinione; poi, in parallelo, c'erano le rivalse economiche, gli equilibri politici, i favori agli amici, ed agli amici degli amici che, tra l'altro, di solito erano mafiosi e/o dittatori) hanno torturato, devastato interi territori, mandato in rovina economie nazionali ed ucciso migliaia di persone, spesso innocenti, con operazioni al di fuori del diritto internazionale.
Il potere del cane è la tragedia greca del nuovo millennio, dove ogni individuo è portatore di una parte oscura del tutto e dove il destino pare essere qualcosa di ingovernabile e di invariabilmente crudele. Qualcuno si oppone, ma ciò non cambia di una virgola il risultato finale, il male è sempre e comunque il male assoluto perchè, in un modo o nell'altro il male è sempre assoluto e i singoli protagonisti non sono altro che marionette che di volta in volta lo incarnano. Chi si ribella a questo destino (il potere del cane appunto) e lo combatte in nome di ideali più alti subisce, come massima punizione, la conseguenza di diventare come coloro che combatte, nè più nè meno. E' un grande affresco, uno squarcio sull'inferno, sulla storia che lo ha incarnato, una riflessione che viene lasciata al lettore su dove stia la linea di demarcazione tra bene e male, e se, davvero, ci sia.

Se qualcuno avesse fatto come me, inziando a leggere Winslow da Le belve, non si lasci scoraggiare e si butti senza remore in questo Il potere del cane. Diversamente, vi perdereste un grande libro.

Don Winslow (New York, 1953) è uno scrittore statunitense.
Viene considerato come uno degli autori più rappresentativi del poliziesco americano contemporaneo. È l'autore, tra gli altri, dei libri L'inverno di Frankie Machine e Il potere del cane, entrambi editi in Italia da Einaudi (collana Stile libero), rispettivamente nel 2008 e nel 2009.
Scrittore e regista teatrale e televisivo, nonché diverse volte attore e guida di safari, Winslow è stato anche un investigatore privato e consulente di studi legali ed assicurazioni. Vive in California, a San Diego, località in cui sono ambientati diversi suoi romanzi.
Ha esordito con il romanzo A Cool Breeze on the Underground, ancora inedito in Italia. Da The Death and Life of Bobby Z è stato tratto nel 2007 il film omonimo (uscito in Italia come Bobby Z, il signore della droga).
I diritti de L'inverno di Frankie Machine sono stati acquistati da Robert de Niro che ne trarrà un film, impersonandone il protagonista. Le belve è il suo ultimo libro, e ne è stato tratto un film da Oliver Stone, che probabilmente uscirà in autunno nelle sale italiane.

mercoledì 25 luglio 2012

Le belve, di Don Winslow, Einaudi editore

Allora, c'è Ben, diciamo che è il cervello, c'è Chon, che è il braccio, c'è Ophelia, che si fa chiamare semplicemente O, che è la bella e svampita e ricca e simpatica e problematica; poi, dall'altra parte c'è il cartello della Baja California. Ben e Chon, uno pacifista e filantropo, cresciuto ed educato in una famiglia di ex hippie sinistrorsi e l'altro, che va e viene dall'Afghanistan come marines, che ha finito per accettare l'idea di essere pagato dallo stato per uccidere altra gente che, d'altronde, altrimenti ucciderebbe lui. Ben, in fondo, crede, nella possibilità dell'uomo di redimersi e nella sua fondamentale bontà, Chon disprezza l'umanità intera e sa perfettamente di farne parte. Insieme hanno avviato e gestiscono un'attività di produzione e spaccio di mariujana, la migliore che c'è sul mercato (non entro nei dettagli, ma viene miscelata a seconda del cliente tra indica e sativa, eccetera eccetera eccetera). Il cartello criminale della Baja California ha deciso di prenderne possesso, dal momento che ha la necessità vitale di espandersi negli Stati Uniti. Com'è facile da immaginare, ad un cartello, che sia Baja California o altro, non si può dire di no. Ben e Chon ci provano. Ophelia, che ha una relazione alla luce del sole con entrambi, suo malgrado, diventerà moneta di scambio ed ago della bilancia della trattativa. Non dico di più, perchè in questo libro, la trama è tutto. Più che la trama, direi (perchè la trama in effetti non è tutta quella gran novità inusitata) in questo libro i colpi di scena sono tutto. In effetti, fino a che le situazioni non si incastrano per dare il via all'azione, il libro, onestamente, non sa di molto. Peggio, stucca per il tentativo continuo di utilizzare una lingua letteraria molto alla Ellroy, ma più paracula, sempre attenta ai giochi di parole (molti dei quali, quantomeno in italiano, sono solo d'intralcio alla lettura) ed a strizzare l'occhio ad un pubblico giovane e cinematografaro. E difatti: Oliver Stone, maestro del genere (vedi U turn, un finto pulp imbellettato, ma comunque piacevole e ben fatto: solo non verace... come dire? paraculo!) ne ha tratto un film che, con ogni probabilità sarà pure un bel film, speriamo, e che, immagino, utilizzerà il libro come pura e semplice sceneggiatura. Perchè in effetti questo Le belve non è molto altro. Alcuni capitoli sono scritti addirittura secondo i dettami tecnici di una sceneggiatura: esempio: esterno giorno, Chon: blablabla. Ben: blablabla, eccetera, come se l'autore stesse ricordando al regista di turno che legge il libro che quello che ha davanti agli occhi è proprio quello che pensa, una sceneggiatura bella e pronta! Il libro è diviso in 290 capitoli, per lo più brevi o brevissimi, che diventano sincopati sul finale, quando l'azione incalza maggiormente e il pathos cresce. Dicevo, dal momento in cui è l'azione a prendere il sopravvento, diventa una lettura filante, che ti costringe ad andare avanti di buona lena, come si sul dire: ti tiene incollato alla pagina. Non è male, ma sa, come dire? di plastica. Un libro preconfezionato e molto furbo che ci si può aspettare da un esordiente che cerca disperatamente una pubblicazione, non da quello che viene considerato un maestro del genere. Poi viene il dubbio che gli sia stata prima commissionata la sceneggiatura e solo in un secondo momento ci abbia tirato fuori, con pochi colpi di pennello qua e là, un romanzo fatto e finito. Pare che Il potere del cane sia il suo capolavoro, e sbirciando un po' in libreria mi sembra che la scrittura sia quello che ci si aspetta da un buon poliziesco e non strizzi l'occhio a niente ed a nessuno. Speriamo, mi riservo di leggerlo, nella speranza che sia qualcosa di diverso da questo Le belve che, diciamo, non è malaccio, ma neanche poi un granchè. E sa di plastica.

Don Winslow (New York, 1953) è uno scrittore statunitense.
Viene considerato come uno degli autori più rappresentativi del poliziesco americano contemporaneo. È l'autore, tra gli altri, dei libri L'inverno di Frankie Machine e Il potere del cane, entrambi editi in Italia da Einaudi (collana Stile libero), rispettivamente nel 2008 e nel 2009.
Scrittore e regista teatrale e televisivo, nonché diverse volte attore e guida di safari, Winslow è stato anche un investigatore privato e consulente di studi legali ed assicurazioni. Vive in California, a San Diego, località in cui sono ambientati diversi suoi romanzi.
Ha esordito con il romanzo A Cool Breeze on the Underground, ancora inedito in Italia. Da The Death and Life of Bobby Z è stato tratto nel 2007 il film omonimo (uscito in Italia come Bobby Z, il signore della droga).
I diritti de L'inverno di Frankie Machine sono stati acquistati da Robert de Niro che ne trarrà un film, impersonandone il protagonista. Le belve è il suo ultimo libro, e ne è stato tratto un film da Oliver Stone, che probabilmente uscirà in autunno nelle sale italiane.


domenica 22 luglio 2012

Vedi di non morire / A tuo rischio e pericolo, di Josh Bazell, Einaudi editore

  Josh Bazell è il nuovo enfant prodige del noir d'oltremanica, paragonato dalla critica a Tarantino e a Palahaniuk oltre che a una serie infinita di scrittori e registi che non hanno nulla a che spartire tra di loro; e non solo, i suoi libri vengono accostati a film o serie televisive (la più ovvia delle quali, Dottor House) più o meno di culto. Direi che è più che sufficiente a rendere chiaro come dietro a questo plurilaureato fenomeno (in medicina alla Columbia University, se vi può fregare qualcosa, e in letteratura inglese e scrittura alla Brown University, sempre se vi frega qualcosa dei suoi titoli di studio nel momento in cui dovete scegliere di leggere un noir, o noir pulp, o neo pulp, o neo noir, eccetera eccetera eccetera) si sia mossa la più imponente macchina per far soldi che si possa immaginare. Non per nulla il suo primo libro, Vedi di non morire, diventerà un film interpretato da Leonardo di Caprio. Buon per lui, ma per noi, intendo dire noi lettori, tutto questo bailamme funziona più che altro come un sano avvertimento a tenerci lontani dal supposto fenomeno di cui sopra. E in effetti a tenere lontano il lettore ci pensa il bailamme da merchandising, certo, ma non solo: anche le copertine (tutte e due, la prima peggio della seconda), che sembrano fotocopiate a colori direttamente da una scatola di detersivo per i piatti, danno il loro sacrosanto aiuto. Immagino che il fatto che Bazell non abbia fatto furore qui in Italia, e che non sia neppure lontamente paragonabile al fenomeno che è stato e, in parte, comunque ancora è Palahaniuk, sia dovuto anche questo. Copertine inguardabili, che non azzarderebbe neppure un editore di infima categoria, di quelli che vendono, se vendono, solamente nel paese di residenza dello scrittore di turno e, a volte, si spingono fino a qualche libreria di paesini e frazioni circonvicine sempre, beninteso, con il meccanismo del conto-vendita. Comunque, chiudiamola qui. E' ovvio che Palahaniuk non è Palahaniuk per via delle copertine di Mondadori, è Palahaniuk per via della qualità dei suoi libri, magari non di tutti, ma comunque di buona parte, e lo è perchè il suo primo libro è stato niente di meno che Fight Club (che, scusate, ma è tutt'altra cosa rispetto a Vedi di non morire), che magari pubblicato come suo terzo o quarto, sarebbe sempre stato un libro culto, ma forse non avrebbe portato il suo autore a quelle vette di idolatria a cui è sottoposto ancora oggi il bardo di Portland. Bene, però, effettivamente Josh Bazell è un autore da non sottovalutare. Vedi di non morire, il suo primo libro appunto, è la storia di un ex sicario della mafia che, entrato in un programma di protezione del governo, si rifà una vita come medico. Si potrebbe dire che si tratta di due modi diversi di ammazzare la gente, ma nel libro viene sottolineato chiaramente come il protagonista, Pietro Brnwa, svolga la sua attività di medico come modo per porre rimedio ai danni procurati dalla sua vita precedente. La narrazione rimbalza tra il presente di neo medico e il passato da killer della famiglia Locano. Tutto parte dalla morte, apparentemente immotivata, dei nonni di Brnwa, e della sua ricerca dei colpevoli che lo porta a cominciare la sua attività di assassino a pagamento. La rete amicale che gli tende attorno la famiglia Locano e le prevedibili conseguenze sono il resto. Il concetto di amicizia, si sa, per i mafiosi è un filino distorto rispetto al comune sentire. Il suo presente da medico, invece, comprensivo di nuova identità fittizia, è messo in pericolo da un fatto inaspettato. Un mattino, nel suo giro di controllo dei pazienti, scopre che uno dei nuovi arrivati è una sua vecchia conoscenza stretta nella sua vita precedente. Se non lo salva, la vendetta della famiglia Locano piomberà su di lui senza pietà. E, forse, pure nel caso in cui riuscirà a salvare la pelle al suo ex accolito. Il fatto che ne venga tratto un film, da questo libro, non deve stupire, perchè in realtà il libro stesso è già un film, o più film mescolati insieme. Il divertimento è assicurato e la lettura piacevole. Consigliabile. Passiamo al secondo, A tuo rischio e pericolo. Il solito Brnwa, ora riciclatosi come medico nelle navi da crociera, viene chiamato da un eccentrico miliardario ad occuparsi di un mistero a tutto tondo: un mostro lacustre. Nel White Lake, una sorta di lago minore collegato al Ford Lake, pare si aggiri una creatura acquatica primitiva che, a differenza di Nessie, il più famoso mostro di Loch Ness, ha già ucciso almeno due persone. Il nostro dottore, affiancato dalla paleontologa sexy Violet Hurst (memorabile), si reca sul posto e indaga. Si troverà in mezzo ad un villaggio di psicopatici (chi più, chi meno), tossici, spacciatori, camping da incubo, corpi fatti a pezzi, Sarah Palin e tanto altro. Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il sole. L'impressione è quella di trovarsi in un film, le atmosfere sono le stesse, i colpi di scena anche ma, bisogna ammetterlo, è davvero piacevole come lettura. Scorre, secondo me anche più del primo libro, e l'ambientazione, proprio perchè già introiettata da decine di riduzioni cinematografiche o televisive, ci risulta famigliare o, meglio ancora, inquietante e famigliare. I boschi, il lago, l'acqua scura, il piccolo villaggio isolato dal mondo, il camping isolato dal villaggio, sono tutti elementi nei quali il lettore si muove con una certa padronanza, ripeto, quasi con piacere. Violet Hurst è la giusta eroina che porta una sana dose di stravagante erotismo. E poi c'è il mistero, il più classico dei misteri, che è un elemento che mancava assolutamente in Vedi di non morire. E veniamo alla domanda delle domande: perchè, allora, Josh Bazell, dovrebbe spiccare tra le centinaia di scrittori che cercano di giocare con gli stessi elementi con cui gioca lui, mettendo insieme cultura popolare (vi basta SpongeBob?), prodotti cinematografici e televisivi con la pagina scritta, perchè in lui gli inserti splatter funzionano senza connotarlo come autore horror, perchè dovrebbe essere il nuovo Tarantino delle lettere, perchè mai dovrebbe avere "reinventato di sana pianta un intero genere letterario"? Be', un motivo non c'è. In realtà non ha reinventato un bel niente, più che altro ha dato una buona scusa ai pubblicitari ed alle case editrici per risvegliarsi dal letargo e tornare a darsi da fare (copertine a parte), ma bisogna ammettere che Josh Bazell non è uno dei tanti. Innanzitutto la lettura dei suoi libri è un esperienza gradevole e divertente, a volte spassosa e a tratti quasi adrenalinica, al di là di qualsiasi merito letterario, e questo è già qualcosa. In realtà è ben più di "qualcosa", ma sorvoliamo. In questo senso, i suoi sono libri che consiglio. Poi c'è un altro particolare che, a mio parere, è quello che lo porta ad emergere rispetto alla media, vale a dire la scrittura. E' veloce, immediata, usa con nonchalance espressioni del parlato, anche basso, come se niente fosse, e per di più, mescolandole al gergo tecnico di chi fa della medicina il proprio mestiere. Il risultato è un amalgama che, miracolosamente, non è volgare, ma piuttosto immediato e ironico. L'ironia è infatti l'arma vincente nella ricetta che ha messo insieme Bazell per caratterizzare il suo stile. A pie' di pagina numerose note completano e commentano il testo e, spesso, sono la parte migliore dello stesso. Sono intelligenti, a volte esaustive come vere note a pie' di pagine, e sempre brillanti e ironiche, a volte anche feroci. Non è un autore di culto, non è Palahaniuk nè Tarantino nè altri, ma è un autore a tutto tondo con un marchio di fabbrica di qualità che è la sua scrittura. Se un giorno deciderà di metterla al servizio di testi meno furbi e più letterari, sarà interessante vedere cosa ne uscirà fuori. Con tutta probabilità qualcosa di notevole.


  
Laureato in letteratura inglese e scrittura alla Brown University e in medicina alla Columbia, ha scelto di specializzarsi in psichiatria alla University of California, San Francisco, dove attualmente risiede.
Vedi di non morire
(Einaudi Stile libero, 2009) è il suo primo romanzo, scritto durante la pratica in ospedale. A tuo rischio e pericolo è il suo secondo romanzo (Einaudi 2012).