"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

lunedì 2 maggio 2011

Ernesto Sabato. Addio.

30 aprile 2011. Lo scrittore Ernesto Sabato è morto all'età di 99 anni nella sua casa di Santos Lugares, nella provincia di Buenos Aires. L'annuncio è stato dato dalla la moglie Elvira Gonzalez Fraga.

Lo scrittore da una quindicina di giorni aveva una bronchite, che aveva complicato le sue condizioni di salute. Sabato è morto all'una di questa notte (le 6 in Italia) nella sua . L'autore di El Tunel e di altri romanzi avrebbe compiuto 100 anni il 24 giugno. Per domani era in programma alla Fiera internazionale del libro, in corso nella capitale argentina, un omaggio proprio per ricordare il secolo di vita dello scrittore.

Figlio di immigrati italiani provenienti da Paola, nato a Rojas, Sabato è il celeberrimo autore della trilogia romanzesca composta da «Il tunnel» (1948), «Sopra eroi e tombe» (1961), considerato il suo capolavoro, e «L'angelo dell'abisso» (1974), tutti tradotti in italiano da Einaudi. Laureato in fisica e seguiti i corsi di filosofia all'Università de La Plata, Sabato lavorò come fisico sulle radiazioni atomiche presso il Laboratorio Curie che lasciò nel 1945 per dedicarsi alla letteratura. Negli anni Trenta divenne un dirigente del Partito Comunista argentino, dal quale venne inviato in Europa, prima a Bruxelles poi a Parigi. Nel 1940 ritornò in Argentina come professore di fisica all'Universidad de la Plata di Buenos Aires.

Sabato svolse un ruolo importante nella storia argentina post-golpista, durante il governo di Raul Alfonsìn in quanto fondatore e primo presidente della Conadep, associazione che si occupò delle ricerche e le denunce relative ai desaparecidos della dittatura militare del 1976-1983; ricerche e denunce queste che portarono poi ai vari processi dei capi militari di quegli anni. Nel 1983 il governo di Alfonsìn lo nominò presidente della Commissione nazionale sui desaparecidos.

Ernesto Sabato era cittadino italiano dal 1999. Nato da genitori emigrati dalla Calabria, aveva ricevuto nel novembre di quell'anno il passaporto italiano, concesso durante una cerimonia all'ambasciata italiana a Buenos Aires, occasione nella quale era stato inoltre insignito con la medaglia d'oro alla cultura italiana.

venerdì 8 aprile 2011

La seconda scomparsa di Majorana, di Jordi Bonells. Keller editore

La storia è piuttosto semplice. Un uomo scompare nel nulla. Un altro uomo, molti anni dopo, lo cerca. L'uomo che svanisce dalla faccia della terra da un giorno all'altro, il 27 Marzo del 1938, è Ettore Majorana, vale a dire uno dei fisici più geniale del 900, per alcuni il più geniale di tutti. Il cervello per antonomasia. L'uomo che nel 1998 si mette sulle sue tracce non ha nome, ma è con ogni evidenza l'autore stesso, Jordi Bonells, catalano di Barcellona, trasferitosi in Francia, vincitore del premio Herralde de novela con il libro La Luna, e del premio Planeta con El olvido. Il protagonista si reca in Argentina per conto della propria università, dove è professore di letterature ispaniche, per intervistare una serie di scrittori che hanno scritto quelli che l'autore stesso definisce "romanzi sotto dittatura", con ciò indicando tutti quegli scrittori che si sono trovati a vivere e a scrivere sotto la dittatura militare argentina, o che da essa hanno dovuto fuggire per poter continuare a scrivere. Non per forza patrioti, ribelli, resistenti, comunisti o comunque, sotto qualunque forma, oppositori del regime, bansì tutti quelli che nel loro mestiere di scrittori si sono trovati a fare i conti col significato stesso di vivere in un paese ed in un periodo di follia, dove la libertà non esiste e la logica, di conseguenza, non ha più senso. Un accenno più o meno involontario durante un'intervista e il nostro protagonista si trova di fronte all'ipotesi che Ettore Majorana, una volta fattosi fantasma in Italia, sia ricomparso in Argentina. Un letterato a caccia di un fisico. Perchè proprio in Argentina? Perchè la storia sembra prendere avvio là dove s'interrompe la ricostruzione ipotetica di Sciascia, ne La scomparsa di Majorana, libro del 1975, cioè dall'idea che il fisico italiano si fosse all'epoca rifugiato presso qualche convento. Da uno di questi conventi, grazie all'aiuto dei padri gesuiti, si sarebbe imbarcato alla volta di Buenos Aires. In Argentina avrebbe lavorato come semplice ingegnere alla Entel, si sarebbe sposato in tarda età e avrebbe avuto una figlia, ma questo lo si scopre poco alla volta col procedere del libro. La storia è sospesa tra le vicende del narratore, che si sposta frequentemente tra Europa e Sud America, la ricerca (quasi una detection, però al rallenty) di tracce del passaggio di Majorana in Argentina, e gli incontri e le interviste con scrittori argentini, tutti reali, tutti conosciuti e degni di esserlo. Su tutto, il significato profondo della scelta di far perdere le proprie tracce, sia della scelta del fisico italiano, che, più in generale, della scelta che può solleticare e tentare chiunque, di prendere la popria vita, gettarla al vento e, da un momento all'altro, sparire senza lasciar notizie di sè. La scomparsa è un suicidio al quadrato, o al cubo. Il suicidio, come la scomparsa, porta con sè il mistero, la domanda solita, di sempre, il perchè, ma almeno chi si pone la domanda - perchè - non ha da arrovellarsi a chiedersi anche dove. Chi vuole indagare su un suicidio avrà da scavare nel passato ma solo per scoprire una motivazione: trovata quella, è la fine. La scomparsa ci pone di fronte al mistero più totale, non solo il perchè, ma anche il se (si è suicidato, o è ancora vivo?) e poi, eventualmente, il dove (dove diavolo è finito?), e poi ancora il se, un se nuovo ma del tutto identico al primo (posto che inizialmente non si era suicidato, ora, in questo preciso istante, è ancora vivo, o sarà deceduto nel frattempo?). E poi, se si, se fosse ancora tra i vivi, che vita conduce ora? Che nome usa per far dimenticare quello scelto dai suoi genitori? Ha una donna, ha dei figli? Cosa c'era da rendergli insopportabile la sua vita precedente? Ha ancora un ricordo di chi era prima di scegliere di essere un altro sè stesso? La sua vita attuale è ciò che agognava? Ma poi, siamo sicuri che sia scomparso per volontà propria e, ad esempio, non sia stato rapito? Qual'è la vera essenza di una persona che si è scelta una nuova identità, la prima, quella originaria, o l'ultima, quella volontaria? Noi vediamo rivivere Majorana attraverso i ricordi di chi l'ha conosciuto, o è certo di averlo conosciuto, lo vediamo giocare da solo a scacchi, lo vediamo muoversi taciturno, un po' impacciato, timido, quasi fosse l'ultimo essere ad aver diritto di parola, proprio lui che avrebbe potuto far tacere chiunque solo con la forza del suo genio. Lui che avrebbe potuto lasciare a bocca aperta il mondo intero, che nel tragitto in tram fino a via Panisperna, riempiva pacchetti interi di sigarette di formule scritte fini, per poi gettarle nel cestino appena giunto a destinazione. Lui che forse aveva intuito troppo o magari aveva già visto un futuro che non gli piaceva per niente e col quale non voleva avere nulla a che fare, o forse lui che, semplicemente, non si sentiva adatto per quello che era e che stava diventando. Lo cerchiamo per tutto il libro, lo scorgiamo, quasi arriviamo a distinguerne i passi impressi sul selciato di qualche marcipiede di Buenos Aires, ma poi anche Majorana scivola via. Dicevamo, è la storia di uno che scompare e di un altro tizio che, molti anni più tardi, cerca di trovarlo, o di individuarne le tracce. E' una storia semplice, appunto, ma scritta magistralmente, che lascia il lettore sospeso e sperso in qualche luogo da cui si può temere di non poter più tornare indietro, o da cui forse si potrebbe anche sperare di non dover più tornare indietro. C'è il fascino dell'uomo scomparso, del genio che, esteriormente, del genio pare non avere nulla, e poi c'è la grazia, la leggera profondità dello sguardo di colui che lo cerca, cioè di Jordi Bonells. E c'è la storia di questo inseguimento assurdo, poetico, votato al nulla.    

lunedì 4 aprile 2011

Pedro Paramo, di Juan Rulfo, Einaudi

  Il Pedro Paramo di Juan Rulfo è un testo fondamentale della letteratura latinoamericana del 900, pubblicato nel 1955 in Messico, ed è un libro straordinario. Il perchè è presto detto. E' un libro che parla della morte, forse è addirittura un libro sulla morte, un racconto che la descrive, che ascolta la sua voce (le sue voci), che dialoga con essa, ma nonostante tutto finisce con l'essere una storia viva, che si trasforma, che pur essendo ridotta all'osso, tocca diversi generi, senza peraltro sovrapporsi a nessuno. Li sfiora, e quando si pensa di aver capito dove incasellarlo, scivola via e diventa qualcosa di differente. E' un libro del mistero, soprattutto all'inizio, dove ci rendiamo conto che è la suspence a farla da padrona e la scarnezza della lingua funziona come mezzo per rendere al meglio l'atmosfera di sospensione. Nel giro di poco pare trasformarsi in una storia di fantasmi. Poi in una sorta di Spoon River messicana. Poi in un racconto dal taglio quasi western, con la rivoluzione messicana sullo sfondo (e Pancho Villa a far da comparsa, pur se sempre e solo citato). Eppure non è nulla di tutto questo, ma non è neppure altro. Direi, se mi si passa l'immagine, un materiale (o un paesaggio, o una bestia) in continua evoluzione. Juan Preciado si mette in viaggio verso Comala, il villaggio natale della madre recentemente morta (ma è davvero morta? o non lo è forse lui?), in cerca del padre, Pedro Paramo. Risuonano le parole della madre, << Non chiedergli nulla. Pretendi solo ciò che è nostro. Ciò che era obbligato a darmi e che non mi diede mai... Figlio mio, fagli pagare caro l'oblio in cui ci ha lasciati. >>, che più che una supplica sono un testamento. E' lei che gli chiede, come ultima volontà, di anadare in cerca del padre. Juan Preciado giunge a Comala, e scopre che Pedro Paramo, suo padre, è morto. Non pare essere molto toccato dalla notizia, e subito viene deglutito dalla cittadina e dai suoi strambi abitanti. Comala è un paese fantasma, pare disabitata, ma in realtà gli abitanti ci sono, interagiscono con lui, anche se lo percepiscono in maniera singolare, come se a volte non riuscissero a metterlo bene a fuoco, e soprattutto hanno un rapporto bislacco col flusso temporale. Passato, presente, futuro. Da qui in poi i piani temporali cominciano a confondersi, sovrapponendosi e, spesso, giustapponendosi. Gli abitanti parlano di altri abitanti come se fossero vivi, poi credono di ricordare che non lo sono più, ma non si scompongono più di tanto, come se fosse normale non possedere la facoltà di distinguere gli uni dagli altri. Raccontano del passato remoto come se fosse presente, poi sono colti dal dubbio, e non sanno più in che punto del tempo si trovino, ma continuano a raccontare. Scuotono le spalle, e vanno avanti a raccontare. Juan Preciado, come logico, è frastornato da quanto gli capita attorno e dalle storie che gli vengono somministrate dagli abitanti. Storie come farmaci, per farlo tornare in sè, per spegnergli la febbre. Non capisce, prova a mettere insieme un racconto con l'altro, ma quello che ne viene fuori è un quadro d'insieme di un'epoca, ma sfilacciato, un quadro polifonico e sfocato. Ricorda le parole della madre, riporta a galla i suoi ricordi di Comala e degli anni da lei vissuti in quel villaggio, anni trasfigurati dal ricordo. Poi, poco alla volta, la voce della madre si fa più rada, e la storia sfugge a Juan Preciado che, da narratore esterno, diventa una delle tante voci che compongono il rumore di fondo. E' a questo punto che ci rendiamo conto che anche lui è morto. Non sappiamo dove, nè quando, nè come, ma in qualche maniera Juan è morto. Forse allora sua madre è viva e le parole che lei gli ha lasciato come testamento non le ha sussurrate una madre morente al figlio, bensì una madre al figlio morente. I morti, le molte voci che si susseguono, rincorrendosi, narrano brani delle loro vite e il momento del trapasso, che è un momento della vita come un altro. Spesso non ci si rende conto di morire. Lo si scopre, o magari lo si sospetta, solo in seguito, quando ormai ci si ritrova sotto terra, a rigirarsi in bare terrose corrose dall'umidità. E poi c'è Pedro Paramo, il centro oscuro di tutta la storia più o meno recente di Comala, che è la rappresentazione stessa del potere assoluto detenuto dai proprietari terrieri messicani prima della rivoluzione. Semina il paese (e villaggi circonvicini) di figli illegittimi, di offese, di morti, di soprusi, si appropria delle terre con l'inganno, mette a tacere gli ingannati con l'omocidio. Se non lui, suo padre, o suo figlio. Tre generazioni che sono tutta la storia del Messico. E all'orizzonte, ancora una volta voci indistinte, confuse, spesso riportate da gente di passagio, e che quando parlano sono caotiche, ancora incapaci di comprendere dove le porterà il corso della storia, inconsapevoli di essere esse stesse a fare la storia nel momento stesso in cui parlano. Finirà tutto, perchè in fondo è già finito, e il tempo non è altro che un serpente avvoltolato su sè stesso in spire ipnotiche, e del futuro non sapremo nulla. Sappiamo che c'è Pancho Villa in giro per il Messico, sappiamo che ha intenzioni più o meno rivoluzionarie, come altri gruppi e gruppuscoli pseudo o para rivoluzionari, ma non conosceremo le sue gesta, perchè siamo rimasti intrappolati in una bolla di tempo che le anime di Comala si sono create per costringerci ad ascoltare le loro storie, ora tristi, ora assurde, ora passionali, ora banali, così come banale è, in fondo, l'amore di Pedro Paramo per Susana San Juan, l'unico essere umano che sia mai stato capace di amare veramente e che, invece, rimane intrappolata nel suo guscio di ricordi (o di follia) fino alla fine, insensibile anche solo alla sua prensenza.

  Un capolavoro, macchiato da certe sviste di traduzione poco comprensibili, e dalla mancanza assoluta di una nota introduttiva, di un una postfazione, di un inquadramento del romanzo nella storia della letteratura sud americana, o almeno di una nota biografica dell'autore.


  << Ed è questo il motivo per cui questo luogo è pieno di anime; un puro vagabondare di gente che è morta senza perdono e che non l'otterrà in nessun modo, e ancor meno avvalendosi del nostro aiuto. Sta arrivando. Lo sente? >>
                           pg.59

martedì 29 marzo 2011

Il segreto del male, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Questo racconto è molto semplice anche se avrebbe potuto essere molto complicato. Inoltre: è un racconto inconcluso, perchè questo tipo di storie non hanno un finale. Siamo di notte a Parigi e un giornalista nordamericano sta dormendo. All'improvviso suona il telefono e qualcuno, in un inglese privo di accento alcuno, chiede di Joe A. Kelso. Il giornalista risponde che è lui e poi guarda l'orologio. Sono le quattro della mattina e non ha dormito più di tre ore ed è stanco. La voce all'altro capo del telefono gli dice che deve vederlo per trasmettergli un'informazione. Il giornalista chiede di cosa si tratta. Come capita di solito in questo tipo di chiamate, la voce non paga pegno. Il giornalista chiede, almeno, una pista. La voce, in un inglese correttissimo, molto migliore di quello di Kelso, gli dice che preferisce vederlo personalmente. Subito, aggiunge, non c'è tempo da perdere. Dove?, indaga Kelso. La voce accenna ad un ponte di Parigi. E aggiunge: in venti minuti ci può arrivare camminando. Il giornalista, che ha avuto centinaia di appuntamenti del genere, risponde che in mezz'ora sarà là. Mentre si veste pensa che è un modo abbastanza fuori luogo per rovinarsi la notte, ma al tempo stesso si rende conto, con un leggero stupore, che ormai non ha più sonno, che la chiamata, nonostante la sua prevedibilità, lo ha reso insonne. Quando arriva al ponte, cinque minuti più tardi del convenuto, vede solo macchine. Per qualche attimo rimane fermo ad una estremità, aspettando. Poi attraversa il ponte, solitario, e dopo aver atteso qualche minuto alla fine lo riattraversa e decide di dare per conclusa la notte e tornare a casa e dormire. Mentre cammina di ritorno a casa pensa alla voce: non era un nordamericano, di questo è sicuro, non era neppure un inglese, anche se di questo non poteva esserne certo. Forse un sudafricano o un australiano, pensa, o magari un olandese, o qualcuno del Nord Europa che ha studiato inglese a scuola e che poi lo ha perfezionato in qualche paese anglofono. Quando attraversa una strada sente qualcuno che lo chiama. Signor Kelso. Subito si rende conto che chi lo ha chiamato è la persona che gli ha dato appuntamento al ponte. La voce esce da un ingresso oscuro. Kelso fa il gesto di fermarsi, ma la voce gli intima di proseguire camminando. Quando arriva all'angolo successivo il giornalista si volta e vede che nessuno lo segue. E' tentato di tornare sui suoi passi, ma dopo aver esitato un istante decide che la cosa migliore è continuare il suo cammino. All'improvviso un tipo sbuca fuori dall'imbocco di un vicolo e lo saluta. Kelso gli restituisce il saluto. Il tipo gli tende la mano. Sacha Pinsky, dice. Kelso gli stringe la mano e dice, a sua volta, il suo nome. Il tale Pinsky gli dà un paio di colpi sulla spalla. Gli chiede se ha voglia di prendere un whisky. In realtà dice: un whiskino. Gli chiede se ha fame. Assicura di consocere un bar aperto a quell'ora che vende croissant caldi, appena fatti. Kelso lo guarda in faccia. Pinsky indossa un cappello ma anche così si può apprezzare un muso bianco, pallido, come se fosse stato molti anni rinchiuso. Ma dove? pensa Kelso. In un carcere o in un istituto per malati di mente. In ogni modo, ormai è tardi per tirarsi indietro e i croissant caldi seducono Kelso. Il locale si chiama Chez Pain e sebbene si trovi nel suo quartiere, anche se in una via piccola e poco frequentata, è la prima volta in cui vi entra e con ogni probabilità la prima volta che lo vede. I locali che è solito frequentare il giornalista si trovano, nella loro maggioranza, in Montparnasse e sono posti circonfusi da una certa ambigua leggenda: il bar dove qualche volta mangiò Scott Fitzgerald, il bar in cui Joyce e Beckett bevvero whisky irlandese, il bar di Hemingway e il bar di John Dos Passos e il bar di Truman Capote e Tennessee Williams. Al Chez Pain i croissant sono, effettivamente, buoni e sono appena sfornati e il caffè non è niente male. Particolare che porta Kelso a pensare che il tale Pinsky sia, eventualità orrenda, un vicino del quartiere. Mentre soppesa questa possibilità, Kelso trasale. Un insopportabile, un paranoico, un pazzo che osserva senza essere, a sua volta, osservato, qualcuno che gli farà fatica levarsi dai piedi. Bene, dice alla fine, mi dica. Il tipo pallido, che non mangia e beve a sorsi una tazza di caffè, lo guarda e sorride. Il suo sorriso è, in qualche modo, un sorriso estramamente triste, e anche stanco, come se solo attraverso il sorriso si permettesse di esteriorizzare la stanchezza, lo sfinimento e la mancanza di sonno. Quando smette di sorridere, tuttavia, le sue fattezze recuperano istantaneamente la glacialità. 

  traduzione dvd illevir

  Questo racconto è stato anche pubblicato sul ArchivioBolano, per l'esattezza Qui

lunedì 28 marzo 2011

Le giornate del caos, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Quando Arturo Belano credeva che tutte le sue avventure fossero giunte al termine, sua moglie, quella che era stata sua moglie, quella che ancora era sua moglie e quella che con ogni probabilità sarebbe stata sua moglie fino alla fine dei suoi giorni (almeno legalmente parlando), lo andò a cercare nella sua casa vicino al mare e gli annunciò che il figlio di entrambi, il giovane e focoso Geronimo, si era perduto a Berlino durante le Giornate del Caos.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Quello stesso giorno Arturo fece i bagagli e prese il primo aereo della notte con destinazione Berlino. Arrivò alle tre della mattina. Dai finestrini del taxi potè verificare che la città, almeno in apparenza, era tranquilla, anche se di tanto in tanto si scorgevano focolai e agli imbocchi di alcune strade si vedevano le macchine della celere. Ma in generale tutto sembrava tranquillo e la città dormiva narcotizzata.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Arturo Belano aveva più di cinquant'anni e Geronimo Belano ne aveva quindici e aveva viaggiato con un gruppo di amici. Era il primo viaggio che faceva senza nessuno dei suoi genitori. La mattina in cui sua moglie lo andò a cercare il gruppo era già tornato, però mancavano Geronimo e un'altro, un ragazzo chiamato Felix, che Arturo ricordava come un ragazzo molto alto e magro e pieno di brufoli. Arturo conosceva Felix da quando questo aveva cinque anni. A volte, quando Arturo andava a cercare suo figlio a scuola, Feliz e Geronimo si fermavano a giocare un poco al parco. Di fatto, probabilmente Felix e Geronimo si erano visti per la prima volta all'asilo, quando nessuno dei due aveva tre anni, anche se Arturo era incapace di ricordare il volto di Felix di allora. Non era il miglior amico di suo figlio, ma tra i due esisteva quella che si suole chiamare famigliarità.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Geronimo Belano aveva quindici anni. Arturo Belano ne aveva più di cinquanta e a volte gli sembrava incredibile essere ancora vivo. Quando Arturo aveva quindici anni anche lui fece il suo primo lungo viaggio. I suoi genitori decisero di abbandonare il Cile e iniziare una nuova vita in Messico.

  traduzione dvd illevir

Daniela, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Mi chiamo Daniela de Montecristo e sono cittadina dell'universo, anche se sono nata a Buenos Aires, capitale dell'Argentina, nell'anno 1915, la prediletta di tre sorelle. In seguito mio padre si risposò ed ebbe un maschietto, ma il bimbo morì prima di compiere il primo anno di vita e papà dovette accontentarsi di ciò che già aveva, sarebbe a dire le mie sorelle e me. Ma non è questo che volevo raccontare. Sono storie vecchie e, mi si passi il paradosso, infantili, e non interessano a nessuno. A tredici anni persi la verginità. Questo forse interesserà a qualcuno. Mi sverginò un lavoratore della fattoria. Ormai non ricordo più il suo nome, solo so che era un lavoratore e che doveva avere tra i venticinque e i quarantacinque anni. Non mi violentò, di questo mi ricordo. Almeno io non ebbi in nessun momento questa impressione, voglio dire concluso l'atto, quando mi vestivo dietro un ombù, e il lavoratore, dall'altro lato dell'ombù, si preparava pensoso una sigaretta che dopo si sarebbe fumato e da cui mi avrebbe passato un paio di tiri, i primi tiri che feci nella mia vita. E questo è il primo ricordo che mi torna alla mente. Il gusto aspro del tabacco e il campo che si estendeva interminabile e le gambe che mi tremavano. In realtà quello che mi tremava era il pensiero. Avrei potuto denunciarlo. L'idea mi girò per la testa tutta quella notte e le due notti successive. Ma non lo feci. In parte perchè volevo ripetere l'esperienza sessuale. In parte perchè la fattoria non era di mio padre ma di alcuni amici di mio padre e, dunque, la punizione sarebbe caduta fuori dall'ambito del mio sangue e di ciò che io intendevo essere l'amministrazione della vera giustizia, l'amministrazione della giustizia del sangue. Mio padre non ebbe mai una fattoria. La mia sorella maggiore si sposò con un avvocato, un povero azzeccagarbugli che durante tutta la sua vita manifestò un amore smisurato per la figura di papà. L'altra mia sorella si sposò con il figlio di un proprietario terriero, un ragazzo sventato che nel giro di pochi anni riuscì a dilapidare al gioco una piccola fortuna e di conseguenza ad autoescludersi dall'eredità famigliare. In una parola: la mia famiglia è sempre stata una famiglia della classe media e per quanti sforzi si mettessero in campo, da differenti posizioni, adottando modalità spesso contraddittorie, per accedere ad una classe sociale superiore, cioè solida, marmorea, con gli attributi della giustizia e dell'etica, l'unica cosa certa è che mai abbandonammo la nostra comoda classe sociale, comoda, si,  ma che condannava gli spiriti più scaltri della stirpe (io, per esempio) ad una vivacità che già allora, ai tredici anni, in una fattoria che non era nostra, mi portò ad intravvedere un miraggio vertiginoso, uno spazio nel tempo dove il tempo stesso si annullava, il tempo così come lo conosciamo, ed è per questo che ho cominciato dicendo che sono cittadina dell'universo e non del mondo, come si usa dire di solito, perchè io sono vecchia ma non stupida, questo sia chiaro, il mondo è incapace di contenere un tale vertignoso miraggio, l'universo forse si. Ma stavamo parlando della vivacità. Stavo parlando della notte in cui pensai di denunciare il lavoratore che mi aveva sverginata. E non lo feci, anche se non ho più fatto l'amore con lui. La vivacità, la mia prima percezione cosciente della vivacità, si tradusse in una febbre che fece si che mio padre mi rispedisse a Buenos Aires, dove mi mise tra le mani di un universitario di nome Guarini, un medico.

traduzione dvd illevir

domenica 20 marzo 2011

La pista di Ghiaccio, Roberto Bolano, Sellerio

Un crimine senza senso, una donna magnifica, e una pista di ghiaccio. Questi sono i tre centri catalizzatori di tutta l'azione che è il succo stesso del libro. Però sono tre centri in parte collegati ed in parte indipendenti. Nessuno dei tre, da solo, starebbe in piedi o, per meglio dire, potrebbe reggere l'impalcatura narrativa. Poi c'è un centro geografico, Z, cittadina balneare della costa catalana, ma è un paesaggio che vive dei rimbalzi sudamericani di due dei tre narratori, rimbalzi che sono immaginati, sognati, sono fughe nella memoria e nel desiderio, ma che non si avverano mai. Tutti i protagonisti sono fortemente ammorsati in Spagna, in Catalunya, a Z, ma Gaspar Heredia e Remo Moràn sono come meteore transitorie, che vi si trovano di passaggio, anche se si tratta di un passaggio lungo, per certi versi fin troppo lungo ed estenuante, e non riescono a decidersi (o, nel caso di Gaspar, non può) su quale luogo considerare la propria casa. Il passato è in Sudamerica, in Messico, il presente a Z, ma il futuro non riescono, o non vogliono, immaginarlo da nessuna parte in particolare. Di più, non sanno neppure dove augurarselo. Remo (scrittore, o ex scrittore) è arrivato anni prima in Spagna e a modo suo ha fatto successo, ha messo su famiglia, l'ha sfaldata e ora accoglie compatrioti che fa lavorare in nero. Diciamo che li aiuta. Gaspar è senza permesso di soggiorno, si arrangia con lavori e impieghi saltuari, è stato amico di Remo, in gioventù, in Messico. Da Barcellona si sposta a Z per lavorare come guardiano notturno in un camping gestito da Remo. Sia Remo che Gaspar sono i prodromi dei protagonisti de I detective selvaggi, anche se si ha l'impressione che qui siano due individui distinti mentre ne I detective le loro caratteristiche si compattino nel singolo Ulyses Lima (ma anche in Arturo Belano). Poi c'è Enrich Rosquelles, catalano, sovrappreso, socialista, uomo fatto da sè, in carriera nella pubblica amministrazione. Se gli altri due agiscono chi (Gaspar) per sopravvivere chi (Remo) per garantirsi un futuro, Enrich vive per affermarsi nel lavoro. La principale chiave di lettura del mondo e dei suoi accadimenti che Enrich utilizza è quella fornitagli dal lavoro. Valuta la sua esistenza sui progetti andati in porto o meno, sui soldi spesi e soldi risparmiati per mettere in piedi il progetto, sulla ricadute quantificabili e no. Questo finchè non conosce (o, per meglio dire, non vede) Nuria, la pattinatrice sul ghiaccio che funge da miccia per mettere in moto la storia vera e propria. Nuria sembra la protagonista, ma non lo è, si limita ad essere l'oggetto più o meno consapevole del desiderio di Enrich e Remo, e forse di buona parte dei maschi sessualmente attivi di Z. Remo non è il protagonista, è uno dei narratori, ma il suo ruolo è quasi secondario, se non nel finale. Gaspar non è protagonista (è anche lui, solamente, narratore), se ne va in giro come alter ego di Bolano a conoscere personaggi assurdi, vivendo immerso nel suo mondo notturno, sul limitare di un baratro che altro non è che il futuro e ciò che comporta. Si innamora, o forse se ne invaghisce solo, di una squilibrata silenziosa che per un certo periodo alloggia, assieme ad una matura ex cantante d'opera, nel campeggio. Enrich non è protagonista (è il terzo narratore, ossia il terzo punto di vista che ci racconta gli avvenimenti), è l'incarnazione stessa dello spirito catalano, pragmatico, serio, lavoratore ossessivo e perdutamente innamorato di una gloria catalana (della gloria catalana, in questo caso sportiva), Nuria, e per lei disposto a mettere in gioco tutta la sua vita e, soprattutto, tutta la sua carriera. Poi ci sono: Caridad, la squilibrata quasi muta, che arriva al campeggio, va via dal campeggio, e gira spersa per Z con un coltello nascosto sotto la maglia, perdendo poco alla volta la voglia anche solo di mangiare. Carmen, la ex cantante lirica, che si guadagna la sopravvivenza più precaria intonando arie d'opera per i turisti e che si trascina dietro il Recluta, così come lei stessa l'ha ribattezzato, un emarginato di mezz'età senza arte ne parte, di lei perdutamente innamorato, o forse solo incapace di staccarsi dall'unica persona che gli ha dato un minimo di considerazione ed una speranza cui aggrapparsi. Poi c'è il palazzo Benvingut, dal nome dell'esimio cittadino di Z, partito in cerca di fortuna per le Americhe e tornato ricco sfondato, ed è proprio questo edificio, semi abbandonato, riciclato clandistanamente come futuro palazzo del ghiaccio della cittadina costiera, che riveste un ruolo quantomeno da comprimario. Le descrizioni sono accurate al riguardo, sui piani sfalsati che si ammirano dall'esterno, sui corridoi labirintici che entrano in stanze che diversamente non si indovinerebbero neppure, sul vuoto lasciato dove una volta c'era una piscina e ora, in questa storia, spicca la pista di ghiaccio. Ma anche il palazzo Benvingut, che era stato importante e un vanto per Z in passato, ora non è altro che un bivacco per emarginati, e lo sforzo per farlo tornare a rivestire un ruolo per il centro balneare in realtà non porterà da nessuna parte perchè è un doppio gioco. O più che altro una scusa che Enrich si costruisce per giustificare il suo azzardo amoroso. Tutto andrà in rovina. Tutti ne usciranno con le ossa rotte. Gaspar, che al principio del romanzo vediamo sul treno per Z, riprende il suo treno e torna a Barcellona, ma non sappiamo se vi rimarrà o se tornerà in Messico. Con lui Caridad, silenziosa e misteriosa, di cui ancora non sappiamo nulla e riguardo alla quale possiamo immaginare qualsiasi cosa. Nuria cadrà in disgrazia e dirà addio ai propri sogni. Enrich cadrà in disgrazia, anche se forse riuscirà a rimettersi in piedi. Remo rimane sospeso nel suo limbo, coi suoi segreti. E tutti gli altri personaggi, l'altro guardiano del campeggio, le inservienti, i due tedeschi rissosi e ubriachi, Lola l'ex moglie di Remo, e Pilar la sindachessa (infine ex, travolta anche lei, senza colpa, dagli eventi) rimarrano a trascinare le loro vite, forse neppure consapevoli di essere stati spettatori di qualcosa di mostruoso e banale, qualcosa che indoviniamo allontanarsi poco alla volta che Gaspar, in treno, si avvicina a Barcellona, come se il vero protagonista di questa storia fosse un essere mitologico e sconosciuto seppellito all'interno del palazzo Benvingut, a Z, ormai alle nostre spalle, sotto la pavimentazione di ghiaccio, come se il palazzo stesso fosse un essere indifferente e malvagio.

  Curioso l'accenno al noleggiatore di pattini, grosso e sfigurato, che troviamo nel Terzo reich quale uno dei personaggi principali.

giovedì 17 marzo 2011

Crimini, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Lei va a letto con due uomini. Lei prima è andata a letto con altri uomini e ora va a letto con due uomini. Questa è la realtà. Nessuno dei due uomini lo sa. Uno di loro dice che è innamorato di lei. l'altro non dice niente. Ciò che dicono al riguardo a lei non importa un granchè. Dichiarazioni di amore, dichiarazioni di odio. Parole. La realtà è che lei va a letto con due uomini.
  Adesso se ne sta seduta in un bar vicino alla redazione e ha davanti a sè un libro aperto, ma non riesce a leggere. Ci prova, ma non ci riesce. Il suo sguardo si distrae a vedere quello che succede al di là delle vetrate, anche se non sta guardando niente in particolare. Chiude il libro e si alza. L'uomo che sta dietro il bancone la vede avvicinarsi e le sorride. Lei gli chiede quanto gli deve. L'uomo del bancone dice una cifra. Lei apre il portafoglio e gli allunga un biglietto. Come va la vita?, dice l'uomo. Lei lo guarda negli occhi e dice: così, così. L'uomo le chiede se vuole qualcos'altro. Offre la casa. Lei scuote il capo, negativo, non voglio niente, grazie. Per un attimo si blocca come aspettando qualcosa. L'uomo la fissa con interesse. Lei mormora una frase di commiato appena udibile ed esce dal bar.
  Senza affrettarsi torna alla redazione. Mentre aspetta l'ascensore incontra un giovane, sui venticinque anni, vestito con un vecchio completo e una cravatta che attira il suo interesse; sopra uno sfondo verde acquoso una faccia cerulea e rifatta si contrae in un moto di sorpresa. Accanto al giovane, in terra, c'è una valigia di grandi proporzioni. Si salutano. L'ascensore apre le sue porte e salgono entrambi. Il giovane, dopo averla osservata, le dice che vende calze, che se le interessa le può fare un buon prezzo. Lei dice che non le interessa e pensa che è strano incontrare un venditore di calze nell'edificio e per giunta in un'ora in cui la maggior parte degli uffici sono chiusi. Il venditore di calze è il primo a scendere. Lo fa al terzo piano, dove c'è uno studio di architettura e un'ufficio di avvocati. Uscendo dall'ascensore fa mezzo giro su sè stesso e si porta la punta della dita della mano sinistra alla fronte. Un saluto militare, pensa lei, e gli sorride. Mentre le porte dell'ascensore si chiudono il venditore di calze riesce a sorriderle.
   Nella redazione, fumando seduta in una sedia accanto alla finestra, solo c'è una donna. Lei come prima cosa va alla sua scrivania, accende il computer, e poi si avvicina alla finestra; in quel momento la donna che fuma si rende conto della sua presenza e la guarda. Lei si siede sul bordo della finestra e contempla le strade con una vertigine insolita. Per qualche secondo entrambe rimangono in silenzio. La donna che fuma le chiede cosa c'è. Niente, dice lei, sono tornata per finire l'articolo di Calama. La donna che fuma torna a guardare dalla finestra il fiume di auto che escono dal centro. Poi socchiude gli occhi e ride. Ho letto qualcosa al riguardo, dice. Una vera merda, dice lei. Aveva il suo garbo, dice la donna che fuma. Non ti capisco, dice lei. In realtà non aveva nessun garbo, dice la donna che fuma dopo averci riflettuto un momento, e torna a guardare il traffico oltre la finestra. Lei allora si alza e si dirige alla sua scrivania. Ha dei lavori pendenti ed è in ritardo. Da un cassetto tira fuori un walkman e si mette le cuffie. Incomincia a lavorare. Dopo un attimo, tuttavia, si leva le cuffie e si volta. C'è una cosa strana in tutto questo, dice. La donna che fuma la guarda e le chiede di cosa parla. Della donna di Calama, dice lei. In questo momento il silenzio nella redazione è totale. O così pare. Non si sente neppure il ronzio dell'ascensore.
  Aveva ventisette anni, dice, e l'hanno pugnalata ventisette volte. Troppa coincidenza.  Perchè?, dice la donna che fuma, queste cose capitano. Sono molte pugnalate, dice lei, però senza convinzione. Ho visto cose più strane, dice la donna che fuma. Dopo un attimo di silenzio, aggiunge: può essere che si tratti solo di un refuso. Può essere, pensa lei. Ti preoccupa qualcosa?, dice la donna che fuma. Mi preoccupa la vittima, dice lei. Potrebbe essere chiunque di noi. La donna che fuma la guarda sollevando un sopracciglio. Potrei essere io, dice lei. Niente a che spartire. Anch'io vado a letto con due uomini, dice lei. La donna che fuma le sorride e ripete: niente a che spartire. In qualche modo tutti quanti le sono contro. Contro chi? Contro la vittima, ovvio. La donna che fuma solleva le spalle. I giornalisti che coprono questo tipo di notizie non si differenziano in nulla dagli assassini. Non tutti, dice la donna che fuma, ce ne sono alcuni molto bravi. La maggior parte sono degli ubriaconi di merda, mormora lei. Non tutti, dice la donna che fuma. Ventisette anni e ventisette pugnalate, non mi convince. In ogni caso è possibile che abbiano confuso l'età della vittima col numero di pugnalate. Aveva un figlio di nove anni, dice accarezzando le cuffie che regge con la mano sinistra. La donna che fuma spegne la sigaretta nel posacenere che si trova accanto alla finestra e si alza. Andiamocene, dice. No, rimango ancora un po', dice lei, e torna a mettersi le cuffie.
  Ascolta musica di Deladande. Le fa male una spalla anche se per lo più si sente bene, con voglia di lavorare. Con la coda dell'occhio osserva la donna che fuma, chinata sulla sua scrivania, che infila qualcosa nella borsetta. D'un tratto sente la mano della sua collega, che le sfiora appena la spalla e che in questo modo la saluta. Continua a lavorare. Dopo mezz'ora si alza e si dirige all'archivio della redazione (un archivio che ormai quasi nessuno utilizza più) e allora lo vede.
  E' in piedi, senza osare oltrapassare la soglia dell'ufficio, ma con la porta aperta, e la guarda con mezzo sorriso. Lei soffoca un grido e gli chiede cosa voglia. Sono io, dice lui, il venditore di calze. Ai suoi piedi c'è la valigia. L'ho capito, dice lei, ma non voglio comprare niente. Volevo solo curiosare un poco, dice lui. Lei lo studia per qualche secondo: non è più spaventata, ma adirata e la presenza del giovane venditore le sembra un segno di qualcosa di importante che però riesce appena a scorgere. Solo sà che è importante (o relativamente importante) e che ormai non ha più paura. Non sei mai stato in una redazione?, dice lei. In verità no, dice lui. Entra, dice lei. Lui esita, o fa come se esitasse poi prende la valigia ed entra. E' giornalista? Lei fa si col capo. E cosa sta scrivendo? Lei dice che si tratta di un articolo su un omicidio. Il venditore lascia di nuovo la valigia in terra e il suo sguardo si sposta di scrivania in scrivania. Posso dirle una cosa? Lei lo guarda e non pensa a niente. Nell'ascensore, dice, mi è sembrato che stesse soffrendo per qualcosa. Io? dice lei. Si, mi è parso che soffrisse, anche se ovviamente non ne conosco la ragione. Tutta la gente soffre, dice lei un poco incongruentemente. Nessuno dei due si è seduto. Lui è in piedi con la porta aperta alle sue spalle. Lei è in piedi ed è indietreggiata fin quasi alla finestra. Ora i due rimangono immobili, eretti, in attesa. Le loro parole, tuttavia, sono patinate da un falso tono di familiarità.
  Su che omicidio sta lavorando?, dice lui. L'omicidio di una donna, dice lei. Lui sorride. Ha un bel sorriso, pensa lei, anche se quando sorride sempre più vecchio e in realtà non deve avere più di venticinque anni. Uccidono sempre le donne, dice lui, e fa un gesto con la mano destra che risulta incomprensibile. Come se d'un tratto uscisse da un sogno, lei si rende conto che si trova da sola nella redazione con uno sconosciuto, ad un'ora, tra l'altro, in cui l'edificio è quasi vuoto. Un leggero tremore la percorre dall'alto in basso. Lui percepisce il tremore e come se volesse placarlo cerca un posto e si siede. Mi racconti, dice. Per lei la richiesta è insopportabile. Aspetti che esca nella rivista. No, me lo racconti adesso, magari le posso suggerire qualcosa, dice lui. Lei è un esperto di omicidi di donne?, dice lei. Lui la guarda senza rispondere. Lei si rende conto che ha commesso un errore e cerca di tornare sui suoi passi, però prima che possa dire nulla lui si allontana  e dice che non è un esperto di omicidi. E perchè glielo dovrei raccontare?, dice lei. Perchè a volte ha bisogno di parlare con qualcuno, dice lui. Può essere che abbia ragione, dice lei. L'ha uccisa il marito? No. Il marito non ha nulla a che vedere col crimine. E perchè ne è così sicura?, dice lui. Perchè l'assassino lo arrestarono il giorno stesso, dice lei. Ah, capisco, dice lui. Aveva ventisette anni, si separò da suo marito, poi ha avuto un amico, ha vissuto con questo amico, un tipo più giovane, di ventiquattro anni, poi si è separata da questo amico e ha cominciato ad uscire con un'altro. L'amico A e l'amico B, dice lui. Si potrebbe dire così, dice lei, e d'un tratto si sente tranquilla, stanca e tranquilla, come se una parte di una lotta immaginaria  (le cui regole le sono ignote) si fosse conclusa.
  Suppongo, dice il venditore di calze, che si trattasse di una splendida donna. Si, era una bella donna, dice lei, e in più era giovane. Be', mica tanto, dice lui. Le pare che una donna a ventisette anni non sia tanto giovane? E' giovane, però non è più molto giovane, dice lui, siamo ragionevoli. Lei quanti anni ha? Ventinove. Avrei detto che ne avesse ventincinque, dice lei. No, ventinove. Lui non le chiede l'età. Lavorava o si faceva mantenere dalle sue grazie? Era una segretaria. Questa donna non l'ha mantenuta mai nessuno. E aveva un figlio di nove anni. E chi l'ha uccisa, l'amico A o l'amico B? domanda lui. Lei chi direbbe? L'amico A, ovvio. Lei fa segno di sì col capo. E l'ha uccisa per gelosia. Sì, dice lei. Ma lei crede che fu solo per gelosia? No, dice lei. Ah, vede, lei e io pensiamo lo stessa cosa, dice lui. Lei allora preferisce non controbattere e si allontana dalla finestra. Dovrebbe accendere una luce, dice lui. No, lasci così, dice lei mentre sposta un sedia e si siede. Dopo un attimo, lui dice: e lei era triste per questa storia, una storia che, se ho inteso bene, capitò qualche mese fa. Lei lo guarda e non dice niente. Magari si è identificata con la vittima? No, dice lei, però ho pensato spesso alla vittima. Lei è sposata? No. Io neppure, dice lui, però ho vissuto con qualche donna. Lei pensa che a noi uomini non piaccia che le donne facciano l'amore? Lei svia lo sguardo: dall'altro lato della finestra la notte avvolge gli edifici. La sensazione che prova è di claustrofobia. L'hanno uccisa perchè gli andava di farlo, dice lei senza guardarlo. Sente lui che dice: ah, un ah tra l'ironico e l'agonico. Si alzava presto, tutte le mattine alle sei e un quarto. Lavorava in una impresa mineraria di Calama, era segretaria, e la stampa disse che la sua vita amorosa era stata una fonte costante di conflitti. Una fonte costante, ripete lui, che poetico. Gli uomini si innamoravano di lei, anche se non era precisamente una bellezza, dice lei. La bellezza è qualcosa di relativo, dice lui. Tutti abbiamo qualche forma di bellezza a portata di mano. Lei crede? chiede lei, e torna a guardarlo fissamente. Tutti, dice il venditore di calze, i brutti, quelli che non sono tanto brutti, i medi e la gente bella. La bellezza su cui posano gli occhi i brutti, certamente, dice lei, è brutta ma non tanto brutta. Vedo che mi capisce, dice lui. La capisco, si, dice lei ironicamente, ma non sono d'accordo. La bellezza è la stessa per tutti, come la giustizia. La giustizia è la stessa per tutti? Non mi faccia ridere, dice lui. In teoria, almeno. E' che in teoria le cose sono diverse, sospira lui, ma non mettiamoci a discutere, mi racconti qualcosa in più della sua segretaria assassinata. Ha visto il cadavere? Il cadavere? No, non l'ho visto, non ho coperto io la notizia, ho solo scritto un articolo sul crimine. Cioè non è stata alla camera mortuaria di Calama, nè ha visto la vittima, nè ha parlato con l'assassino. Lei lo guarda e sorride enigmaticamente. Con l'assassino sì che ho parlato, dice.
  Questo, almeno, è qualcosa, dice lui. E? Niente, dice lei, abbiamo parlato, mi disse che era pentito e che amava la vittima alla follia. Una dichiarazione molto appropriata, dice lui. Si conobbero al terminal aereo di Calama, lui era una guardia di sicurezza e lei lavorò per qualche tempo lì, come receptionista.  Prima di ottenere il lavoro alla miniera, dice lui. In una impresa mineraria, dice lei. E' lo stesso, dice lui. Be', non esattamente. E come l'ha uccisa?, dice lui. Con un coltello, dice lei. Le ha dato ventisette pugnalate. Non le pare strano? Per qualche secondo lui abbassa lo sguardo e si fissa la punta delle scarpe. Poi torna a guardarla e dice: cos'è che le pare strano, che avesse ventisette anni e che abbia ricevuto ventisette pungalate? Lei allora sente un intenso accesso di rabbia e dice: io sono più o meno come lei, immagino che un giorno o l'altro qualcuno verrà ad ammazzare anche me. Per un momento le piacerebbe dire: tu mi ucciderai, povero infelice, ma alla fine ci ripensa e non dice nulla. Sta tremando. Da dove lui è seduto, tuttavia, è impossibile percepirlo. Riassumendo: lei muore per mano del fidanzato precedente. Quella notte dorme col suo amico del momento. L'altro è venuto a conoscenza della situazione. Glielo ha detto lei e le sono arrivati dei segnali. Si muore di gelosia. La mette sotto pressione, la minaccia. ma lei non gli fa caso, è pronta a continuare la sua vita. Conosce l'altro uomo. Vanno a letto insieme. Lì sta la chiave del crimine, lei non rinuncia a niente e firma la sua condanna a morte. Si, dice il venditore di calze, adesso lo vedo chiaro. No, lei non vede chiaro niente.     

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venerdì 11 marzo 2011

La stanza accanto, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  In una certa occasione, se non ricordo male, mi trovavo in una riunione di matti. La maggior parte soffriva di allucinazioni uditive. Un tipo mi si avvicinò e mi chiese se poteva scambiare qualche parola in privato con me. Andammo nell'altra stanza. Il tipo disse che le medicine lo stavano facendo uscire di senno, ogni giorno mi sento più nervoso, disse, e a volte mi passano per la testa strane idee. Io gli dissi che poteva capitare. Il tipo disse che che era la prima volta che gli capitava. Poi si sollevò il maglione e si grattò l'ombelico. Dentro i pantaloni aveva una pistola. Cos'è?, gli chiesi. Il mio fottuto ombelico, disse il tipo, mi prude, non posso far altro che grattarmelo tutto il giorno. La carne attorno all'ombelico, in effetti, era arrossata. Gli dissi che non mi riferivo al suo ombelico, ma a quello che aveva poco più in basso. E' una pistola?, dissi. Si, è una pistola, disse il tipo, e la impugnò e la puntò verso l'unica finestra della stanza. Valutai se domandargli se si trattava di un giocattolo, ma non lo feci. A me parve una pistola vera. Gli dissi che me la lasciasse vedere. Le armi non si prestano, disse il tipo. Come le macchine e le donne. Se rubi una macchina, puoi prestarla. Io non lo consiglio, però puoi farlo. Se esci con una puttana, anche. Io non lo farei, non presterei mai nessuna donna, però per potere, si può. Le armi no, in nessuna circostanza. E se sono rubate o sono giocattoli?, gli dissi. Neppure, disse il tipo. Dal momento in cui l'arma reca impresse le tue impronte digitali, ormai non la puoi prestare. Lo capisci? Più o meno, dissi io. Stringi un patto con lei, disse il tipo. Cioè devi portarla con te tutta la vita, dissi io. Esattamente, disse il tipo, te la sei sposata e non c'è altro da aggiungere. L'hai messa incinta con le tue fottute impronte e non c'è altro da aggiungere. Responsabilità, disse il tipo. Poi alzò il braccio e me la puntò direttamente alla testa. Pensai, non so se allora o dopo, o forse ricordai di averlo già pensato prima, in modo febbrile e inutile, d'altronde, alla belle inertie di Moreau, la bella inerzia, il processo di composizione secondo il quale Moreau era capace di congelare, di trattenere, di fissare qualsiasi scena, per tumultuosa che fosse, sulle sue tele. Poi chiusi gli occhi. Sentì che mi chiedeva perchè chiudessi gli occhi. La calma di Moreau, la chiamano alcuni critici. La paura di Moreau, la chiamano altri critici meno inclini alla sua opera. Il terrore ornato di gioielli. Ricordai i suoi quadri trasparenti, i suoi quadri "interminabili", i suoi uomini giganteschi e loschi e le sue donne, piccole a confronto con le figure maschili, indicibilmente belle. J. K. Huysmans scrisse riguardo i suoi quadri: << Le scene più diverse suscitano sempre la stessa impressione: di un onanismo spirituale che frequentemente si riproduce in un corpo pudico. >> Onanismo spirituale? Soltanto onanismo. Tutti i giganti di Moreau, tutte le sue donne, tutti i gioielli e tutto l'equilibrio geometrico (o il bagliore geometrico) cadono, in piedi e armati, nel territorio del corpo pudico o della responsabilità. Una notte, quando avevo venti anni ed ero un giovane sensibile, in una pensione in Guatemala ascoltai una conversazione che sostenavano due uomini nella stanza accanto. Uno aveva la voce profonda, e l'altro diciamo che l'aveva come di acquavite. All'inizio, ovviamente, non prestai attenzione alle loro parole. Entrambi erano centroamericani, anche se dall'inflessione e dal tono delle loro voci non dovevano essere dello stesso paese. Il tipo con la voce come di acquavite cominciò parlando di una donna. Lodò la sua bellezza, il suo modo di vestire, il suo sapersi muovere, la sua abilità in cucina. Il tipo dalla voce roca assentiva a tutto. Lo immaginai steso sul letto, fumando, mentre l'altro rimaneva seduto sul suo, al fondo, o magari a metà, già senza scarpe, ma senza ancora essersi tolto la camicia e i pantaloni. Non davano l'impressione di essere amici, forse dividevano quella stanza perchè non potevano fare altrimenti o perchè così facendo gli risultava più economica. Probabilmente avevano cenato assieme e avevano bevuto assieme e in quello consisteva tutta la loro amicizia. Cosa che in quegli anni in Centroamerica risultava più che sufficiente. In più di un'occasione mi addormentai ascoltandoli. Perchè non dormii in una sola tirata fino alla mattina? Non lo so. Forse perchè ero troppo nervoso. Forse le voci dell'altra stanza, in certi momenti, si alzavano di tono, e questo era sufficiente perchè tornassi allo stato di veglia. Il tipo dalla voce rauca, in certi momenti, rise. Il tipo dalla voce come di acquavite disse, o ripetè, che aveva ucciso sua moglie. Supposi che fosse la stessa donna che aveva elogiato prima che mi addormentassi. L'ho uccisa, disse, e poi rimase in attesa della risposta di quell'altro. Mi sono tolto un peso di dosso. Ho fatto giustizia. Di me non ride nessuno. Il tipo dalla voce rauca si girò nel letto e non disse nulla. Lo immaginai di pelle scura, una via di mezzo tra un indio e un negro, più negro che indio, forse un panamense che viaggiava a Panama o fino al nord, fino in Messico e alla frontiera con gli Stati Uniti. Dopo un lungo silenzio durante il quale solo udii rumori strani, chiese all'altro se parlava seriamente, se l'aveva ammazzata davvero. Quello con la voce come di acquavite non disse niente o forse si limitò ad affermare con la testa. Poi il negro gli chiese se voleva fumare. Non è una cattiva idea, disse quello dalla voce come di acquavite, un ultimo tiro e poi dormiamo. Non lo udii più. E' possibile che quello dalla voce come di acquavite si fosse alzato e avesse spento la luce, mentre il negro lo osservava dal letto. Immaginai un tavolino da notte con un posacenere.Una stanza oscura, come la mia, con una finestra piccola che dava su una strada non asfaltata. Quello dalla voce come di acquavite sicuramente era magro e bianco. Un tipo nervoso. L'altro, nero e grande, pesante, di quelli che perdono la calma solo in rare occasioni. Per diverso tempo rimasi sveglio. Quando credetti che si fossero addormentati mi alzai, cercando di non fare rumore, e accesi la luce. Mi misi a fumare e poi a leggere. L'alba non arrivava mai. Quando alla fine mi vinse un'altra volta il sonno e spensi la luce e mi stesi sul letto, ricominciai a sentire rumore nella stanza accanto. Una voce di donna, come se parlasse con le labbra incollate alla parete, disse buona notte. In quel momento contemplai la mia stanza, che aveva tre letti, come la stanza accanto, e fui invaso dalla paura e dalla voglia di lanciare un grido, ma lo ricacciai indietro perchè sapevo che dovevo farlo.




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lunedì 7 marzo 2011

Las pelucas de Barcelona, poesia, Roberto Bolano (da La Universidad desconocida)

Sòlo deseo escribir sobre las mujeres
de las pensiones de Distrito 5.°
de una manera real y amable y honesta
para que cuando mi madre me lea
diga asì es en realidad
y yo entonces pueda por fin reìrme
y abrir las ventanas
y dejar entrar las pelucas
los colores.





Solo desidero scrivere sulle donne
delle pensioni della 5° Circoscrizione
in un modo realistico e cortese e onesto
di modo che quando mia madre mi legga
dica così è in realtà
e io poi possa alla fine riderne
e aprire le finestre
e lasciar entrare le parrucche
i colori. 

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Poesia di Roberto Bolano, senza titolo (da La universidad desconocida)

Escribe sobre las viudas las abandonadas,
las viejas, las invalidas, las locas.
Detràs de las Grandes Guerras y los Grandes Negocios
que commueven al mundo estàn ellas.
viviendo al dìa, pidiendo dinero prestado,
estudiando las pequenas manchas rojas
de nuestras ciudades
     de nuestros deportes
         de nuestras canciones.




Scrive circa le vedove le abbandonate,
le vecchie, le invalide, le pazze.
Dietro le Grandi Guerre e i Grandi Affari
che commuovono il mondo stanno loro.
Vivendo alla giornata, chiedendo denaro in prestito,
studiando le piccole macchie rosse
delle nostre città
        dei nostri sport
              delle nostre canzoni.

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venerdì 4 marzo 2011

Poesia di Roberto Bolano, senza titolo (da La universidad desconocida)

Dentro de mil anos no quedarà nada
de cuanto se ha escrito en este siglo.
Leéran frases sueltas, huellas
de mujeres perdidas,
fragmentos de ninos inmoviles,
tus ojos lentos y verdes
simplemente no existiràn.
Serà como la Antologìa Griega,
aùn mas distante,
como una playa en invierno
para otro asombro y otra diferencia




Entro mille anni non rimarrà niente
di quanto si è scritto in questo secolo.
Leggeranno frasi slegate, orme 
di donne perdute, 
frammenti di bambini immobili, 
i tuoi occhi lenti e verdi
semplicemente non esisteranno.
Sarà come la Antologia Greca, 
ancora più distante,
come una spiaggia in inverno
per altro stupore e altra differenza.

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Mi carrera literaria, Roberto Bolano, poesia (da La universidad desconocida)

Rechazos de Anagrama, Grijalbo, Planeta, con toda seguridad
también de Alfaguara, Mondadori. Un no de Muchnik,
Seix Barral, Destino... Todas las editoriales... Todos los
lectores...
Todos los gerentes de ventas...
Bajo el puente, mientras llueve, una oportunidad de oro
para verme mi mismo:
como una culebra en el Polo Norte, pero escribiendo.
Escribiendo poesìa en el paìs de los imbéciles.
Escribiendo con mi hijo en las rodillas.
Escribiendo hasta que cae la noche
con un estruendo de los mil demonios.
Los demonios que han de llevarme al infierno,
pero escribiendo.


LA MIA CARRIERA LETTERARIA

Rifiuti di Anagrama, Grijalbo, Planeta, sicuramente
anche di Alfaguara, Mondadori. Un no da Muchnik,
Seix Barral, Destino... Tutti gli editori... Tutti i
lettori...
Tutti i direttori delle vendite...
Sotto il ponte, mentre piove, una magnifica opportunità
per vedere me stesso:
come una serpe al Polo Nord, però scrivendo.
Scrivendo poesia nel paese degli imbecilli.
Scrivendo poesia con mio figlio sulle ginocchia.
Scrivendo fino a che non scende la notte
con un fragore di mille demoni.
I demoni che mi porteranno all'inferno,
però scrivendo.


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lunedì 28 febbraio 2011

Muro nordest (estratto), di Cesar Vallejo

La justicia! Vuelve esta idea a mi mente.

Yo sé que este hombre acaba de victimar a un ser anònimo, pero existente, real. Es el caso del otro, que, sin darse cuenta, puso al inocente camarada del preso de filo homicida. No merecen, pues, ambos ser juzgados por estos echos? O no es del humano espìritu semejante resorte de justicia? Cuando es entonces el hombre juez del hombre?

  El hombre que ignora a qué temperatura, con qué suficiencia acaba un algo y empieza otro algo; que ignora desde qué matiz el blanco ya es blanco y hasta dònde; que no sabe ni sabrà jamàs qué hora empezamos a vivir, qué hora empezamos a morir, cuàndo lloramos, cuàndo reìmos, dònde el sonido limita con la forma en los labios que dicen: yo... no alcanzarà, no puede alcanzar a saber hasta qué grado de verdad un hecho calificado de criminal ES criminal. El hombre que ignora a qué hora el 1 acaba de ser 1 y empieza a ser 2, que hasta dentro de la exactitud matemàtica carece de la inconquistable plenitud de la sabidurìa como podrà nunca alcanzar a fijar el sustantivo momento delincuente de un hecho, a travès de una urdimbre de motivos de destino, dentro del gran engranaje de fuerzas que mueven a seres y cosas enfrente de cosas y seres?

La jusiticia no es funciòn humana. No puede serlo. La justicia opera tàcitamente, màs adentro de todos los adentros, de los tribunales y de las prisiones. La justicia, oìdlo bien, hombres de todas las latìtudes! se ejerce en subterrànea armonìa, al otro lado de los sentidos, de los columpios cerebrales y de los mercados. Aguzad mejor el corazòn! La justicia pasa por debajo de toda superficie y detràs de todas las espaldas. Prestad màs sutiles oìdos a su fatal redoble, y percibiréis un platillo vigoroso y ùnico que, a poderìo de amor, se plasma en dos; su platillo vago e incierto, como es incierto y vago el paso del delito mismo de lo que se llama delito por los hombres.

   La justicia sòlo asì es infalible: cuando no ve a través de los tintòreos espejulos del jueces; cuando no està escrita en los còdigos; cuando no ha menester de càrceles ni guardias.

  La justicia, pues, no se ejerce, no puede ejercerse por los hombres, ni a los ojos de los hombres.

  Nadie es delincuente nunca. O todos somos delincuentes siempre.

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La giustizia! Mi torna questa idea in mente.

- Io so che quest'uomo ha appena reso vittima un essere anonimo, ma esistente, reale. E' il caso di quell'altro tale che, senza rendersene conto, fece passare per omicida il compagno innocente. Non meritano allora entrambi di venir giudicati per questi fatti? O non fa parte dello spirito umano un tale espediente di giustizia? Quando è allora l'uomo giudice dell'uomo?

  L'uomo che ignora a che temperatura, con quale capacità finisce qualcosa e comincia qualcos'altro; che ignora da quale sfumatura in poi il bianco è bianco e fino a dove; che non sa, nè saprà mai in che ora cominciamo a vivere, in che ora cominciamo a morire, quando piangiamo, quando ridiamo, dove il suono confina col disegno delle labbra che dicono: io... non basterà, non può giungere a sapere fino a che grado di verità un fatto qualificato come criminale E' criminale. L'uomo che ignora in che momento l'1 smette di essere 1 e comincia a essere 2, che addirittura all'interno della precisione matematica difetta della pienezza della conoscenza? Come potrà mai arrivare a fissare il preciso momento delincuenziale di un fatto, attraverso una trama di cause del destino, all'interno di un gran ingranaggio di forze che muovono esseri e cose di fronte a cose ed esseri?

  La giustizia non è funzione umana. Non può esserlo. La giustizia opera silenziosamente, più a fondo di tutte le coscienze, dei tribunali e delle prigioni. La giustizia, ascoltatelo bene, uomini di tutte le latitudini! si esercita in sotterranea armonia, in senso opposto ai sensi, alle altalene cerebrali e ai mercati. Aguzzate meglio il cuore! La giustizia scorre sotto ogni supericie e dietro ogni schiena. Prestate l'udito più fine al suo fatale rullìo, e sentirete un piatto vigoroso e unico che, sotto il dominio dell'amore, prende una doppia forma; il suo piatto vago e incerto, come è incerto e vago il passo dello stesso delitto o di ciò che è chiamato delitto dagli uomini.

  La giustizia solo così è infallibile: quando non vede attraverso gli specchi colorati dei giudici; quando non si trova scritta nei codici; quando non ha bisogno di carceri nè guardie.

  La giustizia, insomma, non si esercita, non può essere esercitata dagli uomini, nè agli occhi degli uomini.

  Nessuno è mai delinquente. O tutti siamo delinquenti sempre.


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domenica 27 febbraio 2011

El secreto del mal, Los sinsabores del verdadero policia, La universidad desconoscida; di Roberto Bolano

   Dell'opera di Roberto Bolano, come risaputo, ancora non ci è giunto tutto quanto disponibile in lingua originale. Dell'opera di traduzione e edizione si sono prese carico le Edizioni Adelphi qui in Italia che, speriamo al più presto, colmi le attuali mancanze. Tre titoli sono attualmente editi in spagnolo da Anagrama che ancora non sono stati tradotti in italiano: Il segreto del male, I dispiaceri del vero poliziotto, L'università sconosciuta
Qui di seguito ho riportato, tradotte, le presentazioni di queste opere presenti sul sito delle stesse edizioni Angrama.
  I titoli (quasi tutti, più un libro intervista: "Roberto Bolano, l'ultima intervista") sono anche reperibili su amazon, presso le edizioni Random House Espanol. Bolano su Amazon

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                                      El secreto del mal / Il segreto del male
 

Questo volume rappresenta l'armatura inevitabilmente incompleta di quello che sarebbe stato il quarto libro di racconti di Roberto Bolano. I testi e gli abbozzi narrativi qui riuniti hanno come punto di partenza un archivio di testi piuttosto vecchi, sui quali Bolano lavorò fino a poco prima della sua morte. Il titolo che riunisce la raccolta è lo stesso di un racconto che comincia così: << Questo racconto e molto semplice anche se avrebbe potuto essere molto complicato. Inoltre: é un racconto inconcluso, perchè questo tipo di storie non hanno un finale.>>. Parole che illustrano il carattere che condividono tutti questi testi, riguardo ai quali scrive Ignacio Echevarria, responsabile dell'edizione, << E' tutta la sua narrativa, e non solo Il segreto del Male, che pare redatta secondo una poetica del non concluso. >>. Come già in Puttane assassine e ne Il gaucho insostenibile, di nuovo si mescolano qui, assieme a racconti propriamente detti, testi di natura non narrativa, conformi alla sempre più pronunciata tendenza di Bolano a confondere le frontiere di genere col proposito di fecondarle.

ISBN 978-84-339-7143-2
PVP sin IVA 15.38 €
PVP con IVA 16 €
Nº de páginas 
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Los sinsabores del verdadero policia / I dispiaceri del vero poliziotto
L'autore cominciò a scrivere questo romanzo negli anni ottanta e continuò a lavorarci fino alla sua morte. Le sue storie e i suoi personaggi transitano attraverso Stella distante, Chiamate telefoniche e 2666. Amalfitano, esiliato cileno, professore universitario, vedovo con una figlia adolescente, ci svela attraverso la narrazione il disincanto politico, il suo amore per la poesia, che lo obbliga ad abbandonare Barcellona in seguito ad uno scandalo. Otterrà di essere accolto nuovamente in università, però questa volta nella lontana città di Santa Teresa, dove vivono oscure storie di donne assassinate o il mago Arcimboldi, che è lui stesso uno scrittore, francese, la cui opera narrativa mostra la complessità della sua oscura letteratura. Un romanzo appassionante e caleidoscopico, lirico e intenso, ma anche comico. Prologo di J.A. Masoliver Ròdenas.

 <<Il poliziotto è il lettore, che cerca invano di mettere ordine in questo romanzo indemoniato.>> ( Roberto Bolano)


<< Quasi tutti gli scrittori credono di essere, o cercano di essere, come Roberto Bolano: innovatori e audaci in esilio, seduttori nella narrazione e capaci di venir letti e riletti; in altre parole, eccezionali.>> (Scott Bryan Wilson, The Quarterly Conversation)

ISBN 978-84-339-7221-7
PVP sin IVA 18.75 €
PVP con IVA 19.50 €
Nº de páginas 328
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La universidad desconocida / L'università sconosciuta
<< Credo che nella formazione di ogni scrittore - affermò Bolano - ci sia una università sconosciuta che guida i suoi passi, la quale, evidentemente, non ha una sede fissa, è piuttosto una unersità mobile, ma comune a tutti. >>. Così progettò di riunire, fino alla metà degli anni ottanta, buona parte della poesia scritta fin dal suo arrivo in Spagna, nel 1977. Il tempo passò, il progetto andò crescendo e, nel 1993, preoccupato circa il suo stato di salute, Bolano riordinò e fissò il materiale accumulato, mettendo insieme un grosso volume scritto a macchina - materiale che si trova tutto riunito in questa edizione, con alcuni testi aggiunti - che da allora rimase in attesa di essere pubblicato. Bolano, senza dubbio, lo tenne con sè fino alla sua morte, facendovi riferimento in più di una occasione come ad una sorta di testamento letterario, autentica summa della sua poesia durante gli anni decisivi della sua formazione letteraria, cosa che senza dubbio è, per quanto nei prossimi anni potremo conoscerne altre sue parti. In questa summa si forgia la sua voce tanto di narratore come di poeta, tenendo presente che Bolano sempre pensò a sè stesso come ad un poeta, che -come è evidente in questa raccolta - passa indifferentemente dal verso alla prosa poetica, fino al poema narrativo.

ISBN 978-84-339-7144-9
PVP sin IVA 19.23 €
PVP con IVA 20 €
Nº de páginas 424


venerdì 25 febbraio 2011

Come la madonna arrivò sulla Luna, di Rolf Bauerdick, Feltrinelli

Il primo paragone che può passare per la testa è quello coi film (uno a caso) di Emir Kusturica, ma può essere un paragone che solo in parte sta in piedi. Per un motivo particolare, e per diversi altri più in generale. Quella narrata dall'autore, l'esordiente Rolf Bauerdick, non è un'epopea rom, e neppure una storia rom, o gitana o tzigana, è una storia dove agiscono anche dei rom, uno in particolare, l'indimenticabile Dimitru, un'altra quasi sopra tutti, la bella Buba, ma si tratta di una storia a tutto tondo, narrata dagli occhi dei suoi personaggi e, precisamente, dalla voce di Pavel, ormai vecchio, che si rivelerà essere stato solo uno dei protagonisti della vicenda. In effetti, pur essendo raccontata da una sola voce, ci troviamo di fronte ad un romanzo corale nel senso più pieno ed intimo del termine. Gli accadimenti vengono vissuti, visti e riletti a posteriori secondo gli occhi di chi li ha vissuti, secondo la sua cultura e secondo lo spirito del tempo in cui i fatti si sono svolti. E in effetti uno dei pregi del romanzo è che si tratta di una storia inserita magistralmente nella "Storia" che non si limita a farne da sfondo, ma che ne assurge a coprotagonista. Tutto ha inizio con la notiza che i russi hanno spedito in orbita una cagnetta, la famosa Laika, e con l'impatto che questa novità ha nel villaggio di Baja Luna, Transmontania (Romania) e sui suoi bislacchi abitanti. In particolare su due di loro, Ilja e il nero (zingaro) Dimitru. Da qui in avanti la storia si apre in due filoni, quello folle dei due amici e dei loro filosofeggiamenti sulla Luna e su Maria madre di Gesù (assunta in cielo con il suo corpo, secondo il papa), e quella dei sinistri avvenimenti che prendono a susseguirsi in paese (la scomparsa della maestra, la morte del parroco e della perpetua, e via discorrendo). Le due linee narrative riescono a rimanere - miracolosamente - saldamente intrecciate e porteranno il lettore in giro per il piccolo centro montano e poi nella città vicina (la Parigi dell'Est) dove, si scoprirà, ha radici il male, non solo quello legato alla nostra storia, ma anche a quella ben più ampia e tragica, la Storia. Il Comunismo, quello sovietico e poi quello nazionalista rumeno, e le sue follie e i suoi orrori, è compagno di viaggio in questa cavalcata che a volte è selvaggia e a volte ha il ritmo tristeggiante dei blues, e i suoi protagonisti storici, il Conducator in primis.
E' un libro divertente, abitato da personaggi assolutamente eccezionali, ognuno a suo modo pervaso da una vena di follia, ora dolce, ora mesta, ora romantica, ora spirituale, ora vitale. I suoi protagonisti non sono perfetti, sono esseri umani che si trovano disarmati (quasi) di fronte al passaggio onnipotente e mostruoso della storia, ognuno di loro ha delle colpe dentro di sè o le accumula strada facendo, si sporca vivendo e, poco alla volta, viene invischiato nella grigia rete appassita che il Regime cala su ogni aspetto della realtà, e solo a tratti riesce a riprendere possesso di sè stesso e del proprio destino e a dare qualche strattone cercando di ribaltare il senso assurdo del reale per cercare la verità. Si parla del male, in questo romanzo, che è il potere stesso e di tutto ciò che il potere usa per rinvigorire prima (sesso), e poi sopravvivere a sè stesso (ricatto). Gli stessi protagonisti negativi paiono essere vittime essi stessi del potere, come involucri vuoti abitati da qualche essere maligno, ma non per questo sono degni commiserazione. Perchè il potere forse logora chi ce l'ha, ma per averlo bisogna essere scesi prima a patti con qualcosa o con qualcuno per otterlo.
 Ci troviamo di fronte ad una sorta di Cent'anni di solitudine compresso nell'arco temporale dell'esperienza comunista in Romania, un Cent'anni di solitudine europeo che ancora non avevamo e che, ora che lo abbiamo sotto i nostri occhi, solo ora, ci accorgiamo che ci mancava che può mancare un rene, o braccio o, più in generale, un pezzo di noi stessi.
E' un romanzo magnifico.


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  Non mi risulta che il romanzo sia già stato tradotto in spangolo, spero lo sia quanto prima. Quando ne avrò notizia, lo posterò.

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copertina
Come la Madonna arrivò sulla Luna , I Narratori, € 19,00
Transmontania. 5 novembre 1957. Il mondo sta con il naso all'insù, la cagnetta Laika è il primo essere vivente a sfidare la legge di gravità e i russi celebrano la loro temporanea vittoria nella gara per la conquista dello spazio. Ma a Baia Luna, nel cuore dei Carpazi, altri inquietanti fatti accendono gli animi… Rolf Bauerdick, giornalista, esperto di cultura rom, porta il lettore in un mondo bizzarro e multietnico, fatto di zingari veggenti e zingarelle impertinenti, sassoni baldanzosi e algidi funzionari di partito, miti di paese e tragedie nazionali.

domenica 6 febbraio 2011

Il Terzo Reich, Roberto Bolano, Adelphi



 Bolano terminò questo libro nel 1989, anno in cui si svolgono gli accadimenti che vi sono narrati, e poi lo mise da parte. Anni dopo, parlando con un amico giornalista, spiegò che aveva da parte un romanzo bell'e pronto, ma che, a dirla tutta, si trattava di "una vera merda".
  Solo verso la fine della sua vita, quando già la malattia e la morte lo tallonavano a breve distanza, decise di rimetterci le mani e si accorse, evidentemente, che il suo giudizio non era corretto. Cominciò a trascriverlo al computer, forse pensando ad una eventuale pubblicazione in vita o, più probabilmente, non si convinse mai appieno della sua effettiva bontà, ma decise di porvi mano per lo stesso motivo per cui voleva mettere ordine a tutto il suo archivio di incompiuti: per garantire alla moglie ed ai figli un minimo di ossigeno in previsione della sua morte. Bolano era sicuramente già cosciente di essere divenuto, alla fiine, ciò che aveva sempre desiderato e forse mai sperato, cioè un autore di culto. Quello che sarebbe stato definito un classico. A questo momento, l'ultimo classico.
  Stiamo parlando dunque di un libro composto da un Bolano giovane, o quasi, già arrivato in pianta stabile in Spagna, e che in quei periodi si era trasferito da Barcellona a Blanes. Sappiamo che aveva cominciato a scrivere senza sapere dove sarebbe andato a parare, e che in seguito avrebbe giurato di non accingersi mai più in vita sua, per nessun motivo, ad approcciare un lavoro di scrittura con quelle premesse.
  Tornando al giudizio impietoso del suo autore, Il Terzo Reich non è "una vera merda", nella maniera più assoluta. Al contrario, per buona parte sfiora il capolavoro. Si sfilaccia un po' nell'ultima parte, che possiamo immaginare non fosse stata rielaborata (quantomeno non appieno) dall'autore.
  Udo Berger, giovane campione tedesco di WarGames, in particolare del gioco Il Terzo Reich, torna nella medesima località di mare e nello stesso albergo in cui trascorreva le vacanze da bambino con la famiglia, in Spagna, sulla costa Catalana, in un paese turistico che potrebbe tranquillamente essere Blanes. Sono lui e la sua bella fidanzata Ingeborg. Porta con sè il gioco di Guerra di cui è campione (il Terzo Reich appunto) e cerca di dividersi tra la fidanzata, la spiaggia e le discoteche, e il suo passatempo, che per lui è anche un lavoro, che lo costringe nel chiuso della stanza d'albergo. I due fanno conoscenza con un'altra coppia tedesca, Hanna e Charly. Hanna ha lasciato un figlio in Germania, Charly è fuori di testa, spesso ubriaco, obliquo, autodistruttivo. Tra le due coppie nasce una sorta di amicizia estiva che Udo più che altro subisce. Tramite Charly entrano nell'orbita delle due coppie il Lupo e l'Agnello, due tipi locali che paiono essere poco raccomandabili. Le tre coppie cominciano ad uscire insieme, la notte. Sulla spiaggia invece Udo fa conoscenza con il Bruciato, un muscoloso noleggiatore di pattìni dal passato oscuro, un ragazzo muscoloso e che porta sul viso e su parte del corpo i segni terribili di ustioni che lo sfigurano. Parla poco, rimane isolato, ma non sappiamo se dobbiamo compatirlo o temerlo. Poi, altro personaggio cardine del racconto c'è Frau Else, la proprietaria dell'hotel dove alloggia Udo, tedesca che tutti amano e di cui tutti (o quasi) s'innamorano, e di cui forse s'era invaghito anche Udo quando frequentava l'hotel da bambino, con la famiglia.
  Siamo in un cosiddetto "divertimentificio", come si usa dire ora, sotto il sole impietoso dell'estate catalana, il protagonista è un giovane di successo, con annessa fidanzata bella e dolce, c'è il mare, le discoteche, la spiaggia, il relax, eppure su tutto aleggia un'atmosfera da incubo. Le ombre che il sole estivo ritaglia finiscono con l'inghiottire ogni cosa. Qui, sta il rischio di sfiorare il capolavoro. I tempi si dilatano, le sensazioni, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, rallentano e si acuiscono, i personaggi invece di delinearsi, sfumano. Poco alla volta ci rendiamo conto che non c'è nulla di certo, ogni aspetto della vacanza, che avrebbe dovuto naturalmente rinsaldare il rapporto tra Udo e Ingeborg, emette vibrazioni maligne e dietro la patina vacanziera e godereccia si annida il dubbio. Udo si nasconde nella stanza d'hotel col suo gioco di guerra, l'unico terreno in cui si sente sicuro e imbattibile, e abbandona Ingeborg in balìa di eventi che non può capire, ma solo tentare di indovinare. Lei, da parte sua, pare abbandonarcisi con noncuranza, incapace di intuire a priori  i pericoli che sono in agguato. Quando Udo verrà fuori dalla sua tana e, razionalmente, tenterà di capire cosa stia succedendo, sarà troppo tardi, e non potrà far altro che caricarsi dei sensi di colpa di cui lo caricherà la fidanzata. Udo, è lo scrittore, colui che tiene il diario in cui sono narrati gli eventi e che è in grado di percepire cosa si nasconda dietro la patina di normalità della realtà, ma la teme e non sa come affrontarla, per questo la evita fin che gli è possibile, e quando metterà fuori la testa e cercherà con tutto sè stesso di capire, la tragedia sarà già volta al termine, la tempesta sarà già passata a far danni su altri lidi e a lui non rimarrà che guardarsi attorno e cercare di mettere insieme i pezzi abbandonati qua e là dalla furia del vento.
  Il fulcro della narrazione, almeno quello apparente, è la scomparsa in mare di Charly, fanfarone, ubriacone, forse violento, forse violentatore, che entra in mare con la sua tavola da windsurf e non fa più ritorno. Da lì in avanti Udo piomba definitivamente nel centro stesso dell'incubo di quell'estate assurda, e non se ne andrà più, nel disperato tentativo di fare chiarezza sul senso nascosto di accadimenti che lui ha potuto soltanto sfiorare. L'estate volgerà al termine, Ingeborg tornerà in Germania, Hanna tornerà in Germania, l'hotel si svuoterà e Udo rimarrà là dentro, da solo, ad incaponirsi con le sue ossessioni e, come sempre, alla fine, troverà come unico modo di decifrare la realtà, la tavola col suo gioco del Terzo Reich, il centro metafisico dove si combattono le battaglie eterne tra bene e male. Comincerà con noncuranza una partita col Bruciato, e poco alla volta quella partita diverrà il significante stesso del suo essere in Spagna, del suo tornare o non tornare in Germania e, in definitiva, del suo stare (o non stare) al mondo.
  I war games erano una grande passione di Bolano, così come la storia della seconda guerra mondiale, le biografie dei generali, la sfida di trovare il punto (o il momento) stesso dove nasce il male. Se in 2666 l'origine e il centro pulsante del male Bolano lo situa nella cittadina frontaliera di Santa Teresa (Ciudad Juarez nella realtà), qui un centro vero e proprio non esiste, o perchè è un centro metafisico, e come tale non risiede in nessun luogo, o perchè ce ne sono troppi, di centri. L'hotel, il Terzo Reich, il rapporto tra Udo e Ingeborg e poi tra Udo e Frau Else, il passato del Bruciato, la scomparsa in mare di Charly, i segreti del Lupo e dell'Agnello. E ancora, il marito di Frau Else, la costruzione notturna dei Pattìni, il mare stesso, el Rincòn de los Andaluces.
Il Terzo Reich è un oggetto che difficilmente può avere un sopra e un sotto, perchè è troppo sfaccettato, ci sono minacce che incombono e personaggi che non si capisce chi realmente siano fino in fondo, più scavi e meno trovi, più cerchi e meno sei. Carver, più Borges più Lynch.   


Il Terzo Reich: traduzione di Ilide Carmignani, Fabula, 2010, pp. 325 isbn: 9788845925542. Adelphi.

 

El Tercer Reich:  ISBN 978-84-339-7205-7, Nº de páginas 368, Anagrama.

 
  Questa recensione la potete rintracciare anche a questo link archivio bolano

mercoledì 29 dicembre 2010

Mi novia se cayò en un pozo ciego (Los Fabulosos Cadillacs)




Caminando por la calle con mi novia
Desde hoy ya no escucho mas sus penas

Mirenla en el pozo se ha caido

Ella no quiere nunca mas estar conmigo

Desde aca ya no puedo ni mirarla

Solo escucho que me grita y no se calla

Le pregunto que pasa por alla abajo

Nada, nada no veo un carajo


Hay que sacarla

Hay que sacarla

Del pozo ciego


Hay que ayudarla

Hay que ayudarla

Porque la quiero


Y acà fuera ya no tengo mas amigos

Con Elenita se fue todo lo mio

Quien me hara el te por la manana

O quien se acuesta conmigo en mi cama

Desde aca ya no puedo ni mirarla

Solo escucho que me grita y no se calla

Le pregunto que pasa por alla abajo


Nada, nada no veo un carajo


Hay que sacarla

Hay que sacarla

 
Del pozo ciego
Hay que ayudarla

Hay que ayudarla



                                                      La mia ragazza è caduta in un pozzo cieco
Camminando per la strada con la mia ragazza
Da oggi non sento più i suoi lamenti
Guardala là è caduta nel pozzo
Lei non vuole più stare con me
Da qua non riesco neppure più a vederla
Solo sento che mi grida e non si calma
Le domando cosa succede là sotto
Niente, niente, non vedo un accidente.


Devo tirarla fuori
Devo tirarla fuori
Dal pozzo cieco


Devo aiutarla
Devo aiutarla
Perchè la amo


E qua fuori io non ho più amici
Con Elenita se n'è andato tutto ciò che avevo
Chi mi preparerà il the la mattina?
O chi si stende con me nel mio letto?
Da qua non riesco neppure più a vederla
Solo sento che mi grida e non si calma
Le domando cosa succede là sotto
Niente, niente, non vedo un accidente.


Devo tirarla fuori
Devo tirarla fuori
Dal pozzo cieco


Devo aiutarla
Devo aiutarla
Perchè la amo