"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 24 novembre 2013

La piramide, di Juan Villoro, Gran Vìa edizioni



  Finalmente, viene da dire. Nel senso che, finalmente, pare che l'editoria italiana si stia rendendo conto dell'esistenza (e della caratura) di Juan Villoro, ottimo scrittore messicano e premio Herralde nel 2004. Dopo I colpevoli (Cuec, 2009), Il libro selvaggio (Salani, 2010) e il recentissimo quanto breve Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie, 2013), Gran Vìa dà alle stampe questo "thriller tropical distopico", pubblicato lo scorso anno per Anagrama, che è stato finalista al Ròmulo Gallegos di quest'anno. In realtà non so se si possa definire thriller nè tantomeno distopico, ma tropicale sì, e forse, alla fine dei conti, è pure un thriller distopico, anche se in verità non dovrebbe fregare niente a nessuno di come catalogare un bel libro. La costa Messicana è ormai un susseguirsi di hotel vuoti ed in rovina, strutture orbate dalla furia delle tempeste tropicali e abitate da animali - e insettume vario - alquanto sgradevoli, altri continuano a rimanere aperti pur rimanendo vuoti, solo uno, a Kukulcan, fa soldi a palate, La piramide (ovvio riferimento, anche architettonico, alla piramide - o tempio - di Quetzalcóatl, il cui nome maya è, appunto, Kukulcan). Il visionario Mario Muller lo gestisce seguendo le sue intuizioni estreme e postmoderne, offrendo alla propria clientela un soggiorno a base di paura fittizia. Gran parte degli abitanti della cittadina lavora per la Piramide, se non come personale interno, come attori pagati per fingersi di volta in volta terroristi o narcotrafficanti. La paura diviene merce, la banalizzazione della paura, data in pasto a turisti affamati di emozioni (e forse un tantino imbecilli, o svitati: ma in fondo chi non lo è?) diviene mezzo di riscatto dalla povertà per gli indigeni, diretti discendenti dei Maya più visceralmente di quanto loro stessi non siano pronti a sospettare. Poi, l'inevitabile accade, tra tanti pericoli creati ad arte la vita vera s'insinua e con essa la morte, violenta, di un sub, Ginger Oldenville, che lavorava per l'hotel, trafitto alle spalle da una fiocina. Da qui parte la detection. La storia viene raccontata dal punto di vista di Antonio Gòngora, amico intimo di Mario Muller, col quale ha condiviso un passato da quasi rock star nella band heavy metal degli Extraditables, seguendo passo passo la solita storia di chi è arrivato quasi a poter toccare con mano la fama per poi piombare nell'oblio e nel disfacimento a base di droghe, eccessi e scelte sbagliate ed autodistruttive. Antonio Gòngora ha un dito in meno ad una mano, scoppiato via insieme ad un petardo, e si trascina dietro una gamba che è stata lesionata da ragazzino (ci sono diverse menomazioni nei personaggi di questo libro, fisiche e non solo, come se ognuno di loro, vivendo, avesse perso qua e là qualche pezzo) e la memoria che gira a vuoto almeno per un cinquanta per cento del suo passato (la percentuale, calcolata a spanne, è sua). Ora, la detection è sempre, negli autori di un certo livello, una scusa, di solito per affondare il bisturi nella società, o in certe parti di essa, per sezionare il nostro mondo e criticarlo senza dare troppo l'impressione di farlo, per trascinare l'interesse del lettore che, altrimenti, non durerebbe a lungo se gli si proponesse un saggio di critica sulle storture della società moderna. In questo caso, però, non è così, la Piramide è un mondo a sè stante, lontano dalla realtà e autoreferenziale anche se, scopriremo poco alla volta, non impermeabile ad essa, ma fino ad un certo punto è una piramide (l'architettura voluta da Muller è appunto quella di un piramide maya) chiusa in una bolla, che si bea di spaventi controllati ad arte da professionisti del settore. La morte del sub (e poi - anzi prima - di un altro sub suo amico, e forse amante) fa nascere delle incrinature lungo la superficie della bolla: da qui, la realtà prende a filtrare: interessi finanziari, centri decisionali e direttivi europei, narcotraffico, vendette cercate e vendette portate a termine, deliri, buona sorte di cui non ci si riesce a liberare, tumori all'ultimo stadio, boss sgozzati, cravatte colombiane, dipendenti messi a tacere e, dietro o, per meglio dire, "sopra" tutto questo, ad aleggiare come una nebbia malsana, le leggende e la storia maya che colorano ogni pagina di soffici deliri di morte e di sangue che pare scorrere in abbondanza più attorno alla Piramide che all'interno di essa. Ho impiegato un po' di tempo a capire quale fosse l'elemento di questo romanzo che lo rende diverso da ogni altro libro del genere (comunità chiusa, delitto, realtà che tracima e squassa la comunità all'inizio apparentemente perfetta: esempio cinematografico, il primo che mi viene in mente, uno tra i tanti: The village), perchè in realtà molti aspetti della narrazione sono piuttosto classici (la storia della band, le droghe e tutta la peridizione che si portano dietro - che ricorda molto da vicino Un bravo ragazzo, di Javier Gutierrez -, l'hotel, il tropico bollente, pieno di zanzare e seducente, una certa tensione sessuale lasciata ad aleggiare quasi fosse una minaccia, i gringos, il Messico come luogo per ricominciare, come un'eutanasia per occidentali, ecc.). Dando per scontato lo stile, sicuramente alto, non tipicamente latinoamericano, ma neppure un'imitazione sgraziata dello stile da hardboiled nordamericano, c'è un altro aspetto che in qualche misura sovverte lo scenario per certi versi quasi stereotipato: qui il Messico è il rifugio non tanto di yankees in fuga da sè stessi (lo è, anche, ma non solo), ma di messicani in rotta col proprio passato e, soprattutto, il punto di vista è quello di Antonio Gòngora, un messicano, non già un gringo come nei romanzi di Kent Harrington (uno tra i tanti, giusto per fare un esempio), qui il passato del luogo non tanto aleggia sulle teste di protagonisti che lo subiscono, venendo da una cultura altra, ma scorre a livello del terreno, sotto la pelle della gente, che sono cuochi, elettricisti, camerieri, ma paiono sovrani maya. Il punto di vista narrativo insomma, viene totalmente sovvertito (ma con grazia, ce ne si rende conto a fatica, e dopo un po' di tempo: ad esempio bisogna far attenzione, tendere l'orecchio, per comprendere quanto suoni strana la parabola di una statunitense senza permesso di soggiorno che vive nel terrore di essere ricacciata nel proprio paese), ma non solo. Gli investigatori sono elementi di contorno, un po' corrotti, non tanto ma giusto un poco, come tutti, un po' stampalati, senza mai diventare caricature vere e proprie. Le indagini in qualche maniera sembra vadano avanti da sè, come se facessero parte di un meccanismo che, una volta innestato, diviene ieneludibile nelle sue conseguenze e, poco alla volta, travolge tutto e tutti. E i protagonisti. Sembrano portatori ognuno di un tassello diverso di un unico incomprensibile ed assurdo passato che, ricomposto, non prefigura nulla di buono - la Piramide, il presente, è appunto solo una bolla che finirà per scoppiare lanciando il suo contenuto in mille direzioni diverse -, e l'unico personaggio che suo malgrado si scoprirà con un futuro di fronte sarà proprio il narratore, Gòngora, che se lo ritroverà come ultimo cervellotico, e per certi versi disperato, regalo del proprio amico Mario Muller. Un mondo di finzione che, quando va in pezzi (e va in pezzi nell'assurdo tentativo di presevare sè stesso, tentativo che, paradossalmente, ne decreterà la fine), si scopre ad avere tutti i propri abitanti che vanno in pezzi a loro volta, forse essendolo stati da sempre. Tutto questo equilibrio precario viene tenuto insieme da uno stile asciutto, ironico, distaccato, per certi versi molto poco sudamericano, ma che mai scimmiotta i maestri statunitensi del genere: l'ironia per quanto amara è sempre lieve, i pensieri di Gòngora che fanno da contrappunto non sbilanciano mai i toni della narrazione, e il fraseggiare paradossale quello sì è un marchio di fabbrica tipicamente latino. Il risultato è davvero notevole, un gioco di equilibri sempre a rischio di cadere in qualche luogo comune o in caratterizzazioni banali, ma che mai scade in un risultato meno che apprezzabile. Forse non è un thriller distopico, ci sta, non chiedetemi cosa sia se non un ottimo libro.




Juan Villoro nasce a Città del Messico nel 1956. Scrittore, giornalista, drammaturgo, traduttore, Villoro è per la sua traiettoria letteraria uno dei più conosciuti e apprezzati esponenti della cultura ispanica. Tra i testi pubblicati in Italia si ricordano: I colpevoli (Cuec 2009), Il libro selvaggio (Salani 2010), Chiamate da Amsterdam (Ponte alle Grazie 2013), mentre presso gran vía nel 2008 è apparso un suo racconto nella raccolta En la frontera. Con La Piramide, Juan Villoro è stato finalista al prestigioso Premio Rómulo Gallegos 2013.

mercoledì 20 novembre 2013

L'eroe discreto, di Mario Vargas Llosa, Einaudi editore

  Se siete tra coloro che ritengono indispensabile che un libro porti in sè una morale, non è difficile in questo caso individuarne una. Una anche rassicurante ed esplicita seppur un po' banale: siate onesti, retti, prestate fede alla parola data e sarete ricompensati (già in vita, tra l'altro, e non solo e non tanto moralmente, quanto piuttosto materialmente) . Un po' pochino, si dirà, per un premio Nobel (2010). Rigoberto, esponente della Lima bene, dirigente di un'agenzia assicurativa vicino alla pensione, padre di famiglia amorevole ed assennato, marito fedele e passionale, dagli interessi culturali elevati, decide - consapevole delle possibili conseguenze - di accettare di far da testimone al matrimonio tra il suo anziano superiore (nonchè amico e proprietario dell'agenzia assicurativa in cui lavora) e la di lui (ben più giovane) domestica Armida, matrimonio che estrometterà i due figli (scavezzacollo, semideficienti e praticamente delinquenti) dello sposo dalla linea ereditaria. Felìcito, piccolo imprenditore di Piura che ha fatto fortuna mettendo in piedi un'impresa di trasporti partendo dal nulla, con la sola eredità dell'esempio paterno e di una sua frase ("non farti mai mettere i piedi in testa da nessuno"), si trova ad affrontare le richieste di pizzo di una presunta mafia locale e, suo malgrado, a divenire un eroe, popolare per il suo coraggio, celebrato dai giornali e riconosciuto per strada. Senza scendere negli snodi della trama per non sottrarre nulla al piacere della lettura, le due vicende si sciolgono in un finale che è il più classico dei lieto fine, dopo essersi inaspettatamente intrecciate l'una all'altra. Però, ancora nulla che giustifichi un premio Nobel. Tra le altre facezie nelle quali si incappa leggendo il libro, troviamo: visioni religiose (o pseudo tali), incesto, prostituzione minorile gestita dalla madre della giovane prostituta, inganno, figli illegittimi fatti passare per figli naturali, ricatti, mantenute, molestie sessuali di stampo pedofilo, cocaina e droghe varie, eredità da sogno, minacce, povertà e ricchezza, riscatto, arti orientali, sensitive, persone che muoiono (di morte presumibilmente naturale, c'è da dirlo) e persone che scompaiono, e chi più ne ha più ne metta. Messa così, vi aspettereste un romanzo pulp, da cui Tarantino potrebbe tirar fuori uno dei suoi film, oppure, appunto, una telenovela infinita: niente di più distante dalla realtà. Il perchè questo è un libro a suo modo importante (e scritto con la solita ferma maestria di Vargas Llosa) lo si comprende leggendo un passaggio a pag. 278, in cui l'autore esplicita al lettore quello che è il suo gioco:
  " Dio mio, che razza di storie riservava la vita quotidiana; non erano capolavori, più vicine alle telenovele brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes e a Tolstoj, senza dubbio. Ma non così lontane da Alexandre Dumas, Emile Zola, Dickens o Benito Pérez Galdòs. "
L'autore pesca a piene mani dal serbatoio di "cultura" popolare tipico della cronaca nera e rosa, del racconto orale, del pettegolezzo e, come sottolinea nel brano qui sopra riportato, delle telenovelas (che a loro volta pescano dalla cronaca, dal racconto orale e dal pettegolezzo) e, con uno stile leggero, misurato e sopraffino, mette in piedi una struttura narrativa perfetta che innalza il materiale utilizzato (grezzo, basso, a tratti volgare) a vera e popria letteratura. Alta letteratura. La storia, ambientata ai giorni nostri lascia emergere un Perù ancora affascinante per la sua arretratezza, per le sue caratteristiche che permangono invariate col trascorrere degli anni e dei decenni, per le sue vertiginose differenze sociali, e per le sue dinamiche che, per molti versi, paiono uscire da una sorta di infinito ed ininterrotto medioevo latinoamericano. In questo senso i richiami ai cibi, ai balli, alla musica, ai modi di dire (ora piurani ora limeni), alle storie popolari (molte delle quali già soggetti di altri libri di Vargas Llosa) sono, per il lettore europeo, un richiamo irresistibile e terribilmente affascinante (inutile spiegare perchè lo sono in maniera assolutamente diversa quando non totalmente opposta dalle tematiche di Marquez: qui, nonostante tutto si parla di realtà, non si trasfigura nulla, o quasi). Il libro fa parte di quello che chiamo "il ciclo piuriano" di Vargas Llosa ("Chi ha ucciso Palomino Molero?", "La casa verde", "Il caporale Lituma sulle Ande", "La Chunga") da cui eredita il personaggio del sergente Lituma (e i richiami alla Chunga) e lo mescola con un'altro filone narrativo da cui prende a prestito uno dei due protagonisti, Rigoberto ("Elogio della matrigna"). Lo stile, e le tecniche narrative (il marchio di fabbrica del passaggio improvviso tra situazioni, luoghi, tempi e personaggi diversi che si intercalano a vicenda, straniando il lettore, ma ottenendo un effetto di contemporaneità che può essere paragonato alle sequenze filmiche proiettate contemporaneamente sullo schermo del cinema) sono quelle proprie del premio Nobel peruviano, maneggiate con una sicurezza che pochi autori al mondo hanno e che garantiscono alla narrazione una scorrevolezza invidiabile e una scioltezza che permettono alla trama di scorrere quasi come se l'autore non ci avesse posto mano. In realtà è l'esatto opposto: Vargas Llosa prende topoi della cultura bassa (per certi versi così bassa che più bassa non si può) latinoamericana, li immerge in un presente che tocca solo marginalmente un tempo tutto peruviano che pare non scorrere mai realmente ma rimanere impantanato in un perenne passato, e costruisce un'architettura narrativa tanto solida quanto lieve per portarli alla dignità letteraria, il tutto senza apparente sforzo, facendo sì che il lettore quasi non si accorga di quanto l'autore sia impegnato in un gioco di prestigio di altissimo livello. E qui torniamo all'autosvelamento di pagina 278: certo, partendo dalla materia prima delle telenovelas (e quindi della cultura, del sentito popolare) non si giunge ai livelli di Cervantes o Tolstoj, Llosa non lo pretende, si pone un gradino più in basso ma, sottolinea, neppure ci si deve fermare per forza alle telenovelas: fino a Dumas, Hugo, Dickens o Pérez Galdòs ci arriva anche lui.
  Forse si tratta solo di un gioco di prestigio, di un saggio di bravura dello scrittore peruviano, ma certamente è riuscito alla perfezione, senza neppure lasciar sospettare di voler essere pretenzioso, e questo sì, è da premio Nobel.

 

Mario Vargas Llosa è nato nel 1936 ad Arequipa, in Perú, e attualmente vive a Londra. Nel 2010 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Einaudi ha in corso di pubblicazione l'intera opera. Tra i titoli già pubblicati: La Casa Verde, La zia Julia e lo scribacchino, La guerra della fine del mondo, I quaderni di don Rigoberto, La città e i cani, Lettera a un aspirante romanziere, Conversazione nella «Catedral», Elogio della matrigna, La festa del Caprone, Pantaleón e le visitatrici, Storia di Mayta, Il Paradiso è altrove, I cuccioli. I capi, Chi ha ucciso Palomino Molero?, Avventure della ragazza cattiva, Appuntamento a Londra, Il caporale Lituma sulle Ande, Il narratore ambulante, Elogio della lettura e della finzione, La Chunga e Il sogno del celta. Nel 2012, sempre per Einaudi, è uscito Alfonsino e la Luna (ET Pop); nel 2013, nella nuova collana digitale dei Quanti, Mondo, romanzo (con Claudio Magris), La civiltà dello spettacolo (Passaggi) e L'eroe discreto (Supercoralli).

lunedì 11 novembre 2013

Hay algo que no es como me dicen (el caso de Nevenka Fernandez contra la realidad), di Juan Josè Millas, editorial Seix Barral

  Questo libro è la dimostrazione pratica del perchè non andrebbero mai comprati (e prima ancora pubblicati, e ancor prima scritti) i cosiddetti instant book: lasciando trascorrere una decina d'anni dallo svolgersi degli accadimenti e affindando il materiale a uno scrittore di enorme talento quale è Juan Josè Millas, si rischia di ritrovarsi per le mani un ottimo libro. Ed è ciò che ha messo insieme l'autore partendo da un fatto di cronaca avvenuto a Ponferrada, un comune di quasi settantamila abitanti della provincia di Leòn, Spagna (ovviamente). Una giovane assessore del comune, Nevenka Fernandez, dopo essersi eclissata per diverso tempo dal suo lavoro in giunta, e aver così lasciato il campo libero a voci di qualsiasi genere ("è drogata"; "si sta dissintossicando in una clinica a Madrid"; "è entrata in una setta religiosa"; "è uscita di testa"), indìce una conferenza stampa nella quale annuncia le sue dimissioni e ne denuncia ai media la causa: le molestie sessuali subite da parte del sindaco, Ismael Alvarez, esponente locale di spicco del PP (Partido Popular). Il caso esplode a livello nazionale, viene trattato in televisione e sui giornali, tutti ne parlano e Millas, leggendo le cronache giornalistiche, comincia a porsi alcune domande: che razza di nome è Nevenka, per una spagnola purosangue? Da dove arriva, qual'è la storia di quel nome? E perché la Fernadez non rilascia mai un'intervista, non appare mai in televisione, rifiutando ricche offerte in denaro (proprio in un momento in cui di denaro aveva bisogno, e lavoro, causa il risalto del suo caso giudiziario, non le veniva offerto)? Cosa si nasconde dietro i pochi dati che emergono dalle cronache dei giornali? In quel momento la Spagna si divide tra chi sostiene che il sindaco sia colpevole e chi non può far a meno di malignare che se certe cose sono avvenute allora lei (giovane, carina) qualcosa deve pur aver fatto. C'è chi addirittura si autoconvince di aver visto immagini della Fernadez in minigonna alla conferenza stampa (come se fosse un sigillo di colpevolezza!), particolare che si rivela falso ma che, come sottolinea più volte Millas, altro non è che la manifestazione di una necessità della persona che ricorda quella minigonna: ho bisogno di pensare che sia lei quella sbagliata, quella che ha sbagliato, che si è comportata male, la poco di buono, perchè altrimenti dovrei pensare che tutto il sistema è marcio, e questo equivale a veder crollare d'un solo botto tutto un mondo che da quel sistema è sotteso. Di solito la gente ha bisogno di credere in qualcosa, e poi ha la necessità assoluta di non veder crollare le proprie convinzioni. Piaccia o meno è così che funziona. Il libro ripercorre i fatti, ma si spinge più in là, analizza la famiglia della Fernandez, le sue reazioni (preferiranno crederla pazza, o drogata, piuttosto che ammettere la colpa di un intero sistema di valori che la giunta e il partito di appartenenza della giunta rappresentava), e le origini di quella famiglia così sinistramente (non che si tratti di una famiglia sinistra, tutt'altro, ma è proprio quella normalità priva di sfumature ad essere inquietante, come può esserlo un cubetto di porfido o un blocco di marmo) "normale". Ne esce un ritratto in movimento di una giovane donna che in tenera età scopre (da qui il titolo: hay algo que no es como me dicen: c'è qualcosa che non è come mi raccontano) di essere nata fuori dal matrimonio (fatto gravissimo in quel tipo di società che andava fiera di vedere in un capellone un sicuro drogato sociopatico) che trascorre la sua vita impegnandosi a farsi accettare dai suoi stessi genitori, dal padre in particolar modo, tanto da arrivare ad essere sempre, tra i fratelli, quella con la testa sulle spalle, che primeggia in tutto, responsabile, quella che cerca in ogni modo l'approvazione del padre (dirà: "piacevo a tutti gli uomini, tranne a mio padre") al punto da lasciarsi immergere in una realtà e in un sistema di valori che accetta passivamente, senza mai domandarsi se possa davvero essere il suo, quello in cui si rispecchia a fondo. E quando incappa in un uomo, Ismael Alvarez, il sindaco, della stessa età del padre, che incarna, almeno politicamente, gli ideali del padre, non sa rendersi conto che questi è un predatore sessuale che la involve in una rete di ammiccammenti, di doppi sensi, di ricatti, di premi e di punizioni che la fanno scivolare nel ruolo della vittima perfetta, incapace di reazione alcuna di fronte alle pressanti ed esplicite richieste dell'uomo. Quando l'ansia predatoria si incarna in una situazione di vero e proprio mobbing da manuale oltre che di molestie sessuali, la Fernandez ha ormai i nervi a pezzi, è totalmente nelle mani del suo predatore e non può far altro che fuggire. Fin qui, viene da dire, purtroppo, nulla di nuovo nè di particolarmente stimolante, al più ci ritroviamo disgustati, ma la parte realmente interessante (e che chiaramente ha interessato e affascinato Millas) del libro comincia con la presa di coscienza che il mondo solidarizza con il carnefice e non con la vittima, in primis la famiglia stessa della Fernandez. La risposta al perchè di tale reazione apparentemente illogica sta già nella risposta che Millas fornisce per spiegare come qualcuno abbia potuto vedere una minigonna dove una minigonna non c'era: è più facile (e meno pericoloso, meno doloroso) immaginare una colpa nella vittima che riconoscerla in un intero sistema valoriale, senza contare le ovvie ripercussioni che in casi del genere hanno gli aspetti più marcatamente (e storicamente) machisti di una cultura che perpetua sè stessa continuando a identificare la donna come semplice oggetto sessuale. Da qui parte una terza parte del libro nella quale la protagonista (protagonista suo malgrado, viene da dire) affonda, tocca il fondo e infine rinasce: i vari passaggi che la portano a decidere di denunciare il sindaco e, prima ancora, a comprendere di non essere pazza, di essere lei medesima un caso esposto nei manuali che si occupano di molestie sessuali (tanto che, leggendone uno per la prima volta, le pare che sia stato scritto ispiradosi alla sua storia personale), a capire come le sensazioni, spesso terrificanti, cui non riusciva a dare un nome, un nome in realtà l'avevano, erano già state codificate da qualcuno perchè erano già state innumerevoli volte vissute da qualcun altro, e questa possibilità che le si para di fronte, di ridare un nome alle cose, come se si trovasse all'inizio della creazione, la spinge verso orizzonti che la vita che si era ritagliata per compiacere suo padre neppure prevedevano. Scopre che, nell'ambito politico, l'unica persona che si interessa a lei, che si comporta correttamente e che la aiuta è proprio la leader locale del PSOE, vale a dire il partito d'opposizione in comune e il principale avversario a livello nazionale, che mai proverà a trarre vantaggio (politico appunto) dallo scandalo scoppiato nel partito avverso e che, anzi, come detto, cercherà di aiutarla, verrebbe da dire "da essere umano ad essere umano" prima ancora che " da donna a donna ". Scoprirà che fumarsi un porro, una canna, non è l'anticamera della tossicodipendenza, e anche tra i fumatori di marjuana amici del suo fidanzato Lucas, incontrerà solidarietà e aiuto. Si troverà costretta a lavorare come operaia sfruttata, come non avrebbe mai pensato di dover fare (certo la sua famiglia non aveva previsto che entrasse a far parte delle sue esperienze formative). Rimarrà legata al fidanzato Lucas, che la sosterrà sempre, in un modo tutto suo, silenzioso ma fermo, risoluto e al contempo dolcemente virile. Infine oltrepasserà i confini della Spagna e se ne andrà a vivere in un paese non meglio specificato del Nord Europa, col suo Lucas, a ricrearsi una vita, a dare il nome alle cose un'altra volta, in un'altra lingua. Rimane, alla fine del libro (tra parentesi, il processo vedrà il sindaco condannato), lo sconcerto dell'autore nel dover prendere atto che nella moderna Spagna di oggigiorno la normalità è vedere la vittima dover emigrare mentre il colpevole se ne resta a curare i suoi affari nella città in cui ha compiuto i suoi misfatti circondato dall'affetto e dalla benevolenza dei suoi concittadini.
  Il libro, scritto con lo stile e l'acume di cui è capace Millas, è uno scoperchiare la pentola, guardarci dentro, studiare il contenuto, e poi richiuderla chiedendosi come sia possibile che i commensali avvelenati ne vogliano ancora. Acutezza, perplessità, sconcerto. Non tanto verso la società spagnola quanto verso la natura umana.
  Purtroppo per chi non conosce lo spagnolo, il libro non è tradotto in italiano, ed essendo uscito nel 2004 in Spagna, temo che ormai continuerà a rimanere tale.

Juan José Millás è nato a Valencia nel 1946. Dopo aver studiato lettere e filosofia all'Università Complutense, si è poi interamente dedicato al giornalismo e alla scrittura. Tra i suoi numerosi volumi di romanzi e di racconti, in Italia sono usciti Il disordine del tuo nome (Cronopio), L'ordine alfabetico, Non guardare sotto il letto (Il Saggiatore) Il mondo, Carta straccia (Passigli editore). Einaudi ha pubblicato Racconti di adulteri disorientati («L'Arcipelago Einaudi», 2004), La solitudine di Elena («L'Arcipelago Einaudi», 2006) e Laura e Julio («L'Arcipelago Einaudi», 2007).