"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

martedì 29 marzo 2011

Il segreto del male, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Questo racconto è molto semplice anche se avrebbe potuto essere molto complicato. Inoltre: è un racconto inconcluso, perchè questo tipo di storie non hanno un finale. Siamo di notte a Parigi e un giornalista nordamericano sta dormendo. All'improvviso suona il telefono e qualcuno, in un inglese privo di accento alcuno, chiede di Joe A. Kelso. Il giornalista risponde che è lui e poi guarda l'orologio. Sono le quattro della mattina e non ha dormito più di tre ore ed è stanco. La voce all'altro capo del telefono gli dice che deve vederlo per trasmettergli un'informazione. Il giornalista chiede di cosa si tratta. Come capita di solito in questo tipo di chiamate, la voce non paga pegno. Il giornalista chiede, almeno, una pista. La voce, in un inglese correttissimo, molto migliore di quello di Kelso, gli dice che preferisce vederlo personalmente. Subito, aggiunge, non c'è tempo da perdere. Dove?, indaga Kelso. La voce accenna ad un ponte di Parigi. E aggiunge: in venti minuti ci può arrivare camminando. Il giornalista, che ha avuto centinaia di appuntamenti del genere, risponde che in mezz'ora sarà là. Mentre si veste pensa che è un modo abbastanza fuori luogo per rovinarsi la notte, ma al tempo stesso si rende conto, con un leggero stupore, che ormai non ha più sonno, che la chiamata, nonostante la sua prevedibilità, lo ha reso insonne. Quando arriva al ponte, cinque minuti più tardi del convenuto, vede solo macchine. Per qualche attimo rimane fermo ad una estremità, aspettando. Poi attraversa il ponte, solitario, e dopo aver atteso qualche minuto alla fine lo riattraversa e decide di dare per conclusa la notte e tornare a casa e dormire. Mentre cammina di ritorno a casa pensa alla voce: non era un nordamericano, di questo è sicuro, non era neppure un inglese, anche se di questo non poteva esserne certo. Forse un sudafricano o un australiano, pensa, o magari un olandese, o qualcuno del Nord Europa che ha studiato inglese a scuola e che poi lo ha perfezionato in qualche paese anglofono. Quando attraversa una strada sente qualcuno che lo chiama. Signor Kelso. Subito si rende conto che chi lo ha chiamato è la persona che gli ha dato appuntamento al ponte. La voce esce da un ingresso oscuro. Kelso fa il gesto di fermarsi, ma la voce gli intima di proseguire camminando. Quando arriva all'angolo successivo il giornalista si volta e vede che nessuno lo segue. E' tentato di tornare sui suoi passi, ma dopo aver esitato un istante decide che la cosa migliore è continuare il suo cammino. All'improvviso un tipo sbuca fuori dall'imbocco di un vicolo e lo saluta. Kelso gli restituisce il saluto. Il tipo gli tende la mano. Sacha Pinsky, dice. Kelso gli stringe la mano e dice, a sua volta, il suo nome. Il tale Pinsky gli dà un paio di colpi sulla spalla. Gli chiede se ha voglia di prendere un whisky. In realtà dice: un whiskino. Gli chiede se ha fame. Assicura di consocere un bar aperto a quell'ora che vende croissant caldi, appena fatti. Kelso lo guarda in faccia. Pinsky indossa un cappello ma anche così si può apprezzare un muso bianco, pallido, come se fosse stato molti anni rinchiuso. Ma dove? pensa Kelso. In un carcere o in un istituto per malati di mente. In ogni modo, ormai è tardi per tirarsi indietro e i croissant caldi seducono Kelso. Il locale si chiama Chez Pain e sebbene si trovi nel suo quartiere, anche se in una via piccola e poco frequentata, è la prima volta in cui vi entra e con ogni probabilità la prima volta che lo vede. I locali che è solito frequentare il giornalista si trovano, nella loro maggioranza, in Montparnasse e sono posti circonfusi da una certa ambigua leggenda: il bar dove qualche volta mangiò Scott Fitzgerald, il bar in cui Joyce e Beckett bevvero whisky irlandese, il bar di Hemingway e il bar di John Dos Passos e il bar di Truman Capote e Tennessee Williams. Al Chez Pain i croissant sono, effettivamente, buoni e sono appena sfornati e il caffè non è niente male. Particolare che porta Kelso a pensare che il tale Pinsky sia, eventualità orrenda, un vicino del quartiere. Mentre soppesa questa possibilità, Kelso trasale. Un insopportabile, un paranoico, un pazzo che osserva senza essere, a sua volta, osservato, qualcuno che gli farà fatica levarsi dai piedi. Bene, dice alla fine, mi dica. Il tipo pallido, che non mangia e beve a sorsi una tazza di caffè, lo guarda e sorride. Il suo sorriso è, in qualche modo, un sorriso estramamente triste, e anche stanco, come se solo attraverso il sorriso si permettesse di esteriorizzare la stanchezza, lo sfinimento e la mancanza di sonno. Quando smette di sorridere, tuttavia, le sue fattezze recuperano istantaneamente la glacialità. 

  traduzione dvd illevir

  Questo racconto è stato anche pubblicato sul ArchivioBolano, per l'esattezza Qui

lunedì 28 marzo 2011

Le giornate del caos, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Quando Arturo Belano credeva che tutte le sue avventure fossero giunte al termine, sua moglie, quella che era stata sua moglie, quella che ancora era sua moglie e quella che con ogni probabilità sarebbe stata sua moglie fino alla fine dei suoi giorni (almeno legalmente parlando), lo andò a cercare nella sua casa vicino al mare e gli annunciò che il figlio di entrambi, il giovane e focoso Geronimo, si era perduto a Berlino durante le Giornate del Caos.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Quello stesso giorno Arturo fece i bagagli e prese il primo aereo della notte con destinazione Berlino. Arrivò alle tre della mattina. Dai finestrini del taxi potè verificare che la città, almeno in apparenza, era tranquilla, anche se di tanto in tanto si scorgevano focolai e agli imbocchi di alcune strade si vedevano le macchine della celere. Ma in generale tutto sembrava tranquillo e la città dormiva narcotizzata.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Arturo Belano aveva più di cinquant'anni e Geronimo Belano ne aveva quindici e aveva viaggiato con un gruppo di amici. Era il primo viaggio che faceva senza nessuno dei suoi genitori. La mattina in cui sua moglie lo andò a cercare il gruppo era già tornato, però mancavano Geronimo e un'altro, un ragazzo chiamato Felix, che Arturo ricordava come un ragazzo molto alto e magro e pieno di brufoli. Arturo conosceva Felix da quando questo aveva cinque anni. A volte, quando Arturo andava a cercare suo figlio a scuola, Feliz e Geronimo si fermavano a giocare un poco al parco. Di fatto, probabilmente Felix e Geronimo si erano visti per la prima volta all'asilo, quando nessuno dei due aveva tre anni, anche se Arturo era incapace di ricordare il volto di Felix di allora. Non era il miglior amico di suo figlio, ma tra i due esisteva quella che si suole chiamare famigliarità.
  Questo accadde nell'anno 2005.
  Geronimo Belano aveva quindici anni. Arturo Belano ne aveva più di cinquanta e a volte gli sembrava incredibile essere ancora vivo. Quando Arturo aveva quindici anni anche lui fece il suo primo lungo viaggio. I suoi genitori decisero di abbandonare il Cile e iniziare una nuova vita in Messico.

  traduzione dvd illevir

Daniela, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Mi chiamo Daniela de Montecristo e sono cittadina dell'universo, anche se sono nata a Buenos Aires, capitale dell'Argentina, nell'anno 1915, la prediletta di tre sorelle. In seguito mio padre si risposò ed ebbe un maschietto, ma il bimbo morì prima di compiere il primo anno di vita e papà dovette accontentarsi di ciò che già aveva, sarebbe a dire le mie sorelle e me. Ma non è questo che volevo raccontare. Sono storie vecchie e, mi si passi il paradosso, infantili, e non interessano a nessuno. A tredici anni persi la verginità. Questo forse interesserà a qualcuno. Mi sverginò un lavoratore della fattoria. Ormai non ricordo più il suo nome, solo so che era un lavoratore e che doveva avere tra i venticinque e i quarantacinque anni. Non mi violentò, di questo mi ricordo. Almeno io non ebbi in nessun momento questa impressione, voglio dire concluso l'atto, quando mi vestivo dietro un ombù, e il lavoratore, dall'altro lato dell'ombù, si preparava pensoso una sigaretta che dopo si sarebbe fumato e da cui mi avrebbe passato un paio di tiri, i primi tiri che feci nella mia vita. E questo è il primo ricordo che mi torna alla mente. Il gusto aspro del tabacco e il campo che si estendeva interminabile e le gambe che mi tremavano. In realtà quello che mi tremava era il pensiero. Avrei potuto denunciarlo. L'idea mi girò per la testa tutta quella notte e le due notti successive. Ma non lo feci. In parte perchè volevo ripetere l'esperienza sessuale. In parte perchè la fattoria non era di mio padre ma di alcuni amici di mio padre e, dunque, la punizione sarebbe caduta fuori dall'ambito del mio sangue e di ciò che io intendevo essere l'amministrazione della vera giustizia, l'amministrazione della giustizia del sangue. Mio padre non ebbe mai una fattoria. La mia sorella maggiore si sposò con un avvocato, un povero azzeccagarbugli che durante tutta la sua vita manifestò un amore smisurato per la figura di papà. L'altra mia sorella si sposò con il figlio di un proprietario terriero, un ragazzo sventato che nel giro di pochi anni riuscì a dilapidare al gioco una piccola fortuna e di conseguenza ad autoescludersi dall'eredità famigliare. In una parola: la mia famiglia è sempre stata una famiglia della classe media e per quanti sforzi si mettessero in campo, da differenti posizioni, adottando modalità spesso contraddittorie, per accedere ad una classe sociale superiore, cioè solida, marmorea, con gli attributi della giustizia e dell'etica, l'unica cosa certa è che mai abbandonammo la nostra comoda classe sociale, comoda, si,  ma che condannava gli spiriti più scaltri della stirpe (io, per esempio) ad una vivacità che già allora, ai tredici anni, in una fattoria che non era nostra, mi portò ad intravvedere un miraggio vertiginoso, uno spazio nel tempo dove il tempo stesso si annullava, il tempo così come lo conosciamo, ed è per questo che ho cominciato dicendo che sono cittadina dell'universo e non del mondo, come si usa dire di solito, perchè io sono vecchia ma non stupida, questo sia chiaro, il mondo è incapace di contenere un tale vertignoso miraggio, l'universo forse si. Ma stavamo parlando della vivacità. Stavo parlando della notte in cui pensai di denunciare il lavoratore che mi aveva sverginata. E non lo feci, anche se non ho più fatto l'amore con lui. La vivacità, la mia prima percezione cosciente della vivacità, si tradusse in una febbre che fece si che mio padre mi rispedisse a Buenos Aires, dove mi mise tra le mani di un universitario di nome Guarini, un medico.

traduzione dvd illevir

domenica 20 marzo 2011

La pista di Ghiaccio, Roberto Bolano, Sellerio

Un crimine senza senso, una donna magnifica, e una pista di ghiaccio. Questi sono i tre centri catalizzatori di tutta l'azione che è il succo stesso del libro. Però sono tre centri in parte collegati ed in parte indipendenti. Nessuno dei tre, da solo, starebbe in piedi o, per meglio dire, potrebbe reggere l'impalcatura narrativa. Poi c'è un centro geografico, Z, cittadina balneare della costa catalana, ma è un paesaggio che vive dei rimbalzi sudamericani di due dei tre narratori, rimbalzi che sono immaginati, sognati, sono fughe nella memoria e nel desiderio, ma che non si avverano mai. Tutti i protagonisti sono fortemente ammorsati in Spagna, in Catalunya, a Z, ma Gaspar Heredia e Remo Moràn sono come meteore transitorie, che vi si trovano di passaggio, anche se si tratta di un passaggio lungo, per certi versi fin troppo lungo ed estenuante, e non riescono a decidersi (o, nel caso di Gaspar, non può) su quale luogo considerare la propria casa. Il passato è in Sudamerica, in Messico, il presente a Z, ma il futuro non riescono, o non vogliono, immaginarlo da nessuna parte in particolare. Di più, non sanno neppure dove augurarselo. Remo (scrittore, o ex scrittore) è arrivato anni prima in Spagna e a modo suo ha fatto successo, ha messo su famiglia, l'ha sfaldata e ora accoglie compatrioti che fa lavorare in nero. Diciamo che li aiuta. Gaspar è senza permesso di soggiorno, si arrangia con lavori e impieghi saltuari, è stato amico di Remo, in gioventù, in Messico. Da Barcellona si sposta a Z per lavorare come guardiano notturno in un camping gestito da Remo. Sia Remo che Gaspar sono i prodromi dei protagonisti de I detective selvaggi, anche se si ha l'impressione che qui siano due individui distinti mentre ne I detective le loro caratteristiche si compattino nel singolo Ulyses Lima (ma anche in Arturo Belano). Poi c'è Enrich Rosquelles, catalano, sovrappreso, socialista, uomo fatto da sè, in carriera nella pubblica amministrazione. Se gli altri due agiscono chi (Gaspar) per sopravvivere chi (Remo) per garantirsi un futuro, Enrich vive per affermarsi nel lavoro. La principale chiave di lettura del mondo e dei suoi accadimenti che Enrich utilizza è quella fornitagli dal lavoro. Valuta la sua esistenza sui progetti andati in porto o meno, sui soldi spesi e soldi risparmiati per mettere in piedi il progetto, sulla ricadute quantificabili e no. Questo finchè non conosce (o, per meglio dire, non vede) Nuria, la pattinatrice sul ghiaccio che funge da miccia per mettere in moto la storia vera e propria. Nuria sembra la protagonista, ma non lo è, si limita ad essere l'oggetto più o meno consapevole del desiderio di Enrich e Remo, e forse di buona parte dei maschi sessualmente attivi di Z. Remo non è il protagonista, è uno dei narratori, ma il suo ruolo è quasi secondario, se non nel finale. Gaspar non è protagonista (è anche lui, solamente, narratore), se ne va in giro come alter ego di Bolano a conoscere personaggi assurdi, vivendo immerso nel suo mondo notturno, sul limitare di un baratro che altro non è che il futuro e ciò che comporta. Si innamora, o forse se ne invaghisce solo, di una squilibrata silenziosa che per un certo periodo alloggia, assieme ad una matura ex cantante d'opera, nel campeggio. Enrich non è protagonista (è il terzo narratore, ossia il terzo punto di vista che ci racconta gli avvenimenti), è l'incarnazione stessa dello spirito catalano, pragmatico, serio, lavoratore ossessivo e perdutamente innamorato di una gloria catalana (della gloria catalana, in questo caso sportiva), Nuria, e per lei disposto a mettere in gioco tutta la sua vita e, soprattutto, tutta la sua carriera. Poi ci sono: Caridad, la squilibrata quasi muta, che arriva al campeggio, va via dal campeggio, e gira spersa per Z con un coltello nascosto sotto la maglia, perdendo poco alla volta la voglia anche solo di mangiare. Carmen, la ex cantante lirica, che si guadagna la sopravvivenza più precaria intonando arie d'opera per i turisti e che si trascina dietro il Recluta, così come lei stessa l'ha ribattezzato, un emarginato di mezz'età senza arte ne parte, di lei perdutamente innamorato, o forse solo incapace di staccarsi dall'unica persona che gli ha dato un minimo di considerazione ed una speranza cui aggrapparsi. Poi c'è il palazzo Benvingut, dal nome dell'esimio cittadino di Z, partito in cerca di fortuna per le Americhe e tornato ricco sfondato, ed è proprio questo edificio, semi abbandonato, riciclato clandistanamente come futuro palazzo del ghiaccio della cittadina costiera, che riveste un ruolo quantomeno da comprimario. Le descrizioni sono accurate al riguardo, sui piani sfalsati che si ammirano dall'esterno, sui corridoi labirintici che entrano in stanze che diversamente non si indovinerebbero neppure, sul vuoto lasciato dove una volta c'era una piscina e ora, in questa storia, spicca la pista di ghiaccio. Ma anche il palazzo Benvingut, che era stato importante e un vanto per Z in passato, ora non è altro che un bivacco per emarginati, e lo sforzo per farlo tornare a rivestire un ruolo per il centro balneare in realtà non porterà da nessuna parte perchè è un doppio gioco. O più che altro una scusa che Enrich si costruisce per giustificare il suo azzardo amoroso. Tutto andrà in rovina. Tutti ne usciranno con le ossa rotte. Gaspar, che al principio del romanzo vediamo sul treno per Z, riprende il suo treno e torna a Barcellona, ma non sappiamo se vi rimarrà o se tornerà in Messico. Con lui Caridad, silenziosa e misteriosa, di cui ancora non sappiamo nulla e riguardo alla quale possiamo immaginare qualsiasi cosa. Nuria cadrà in disgrazia e dirà addio ai propri sogni. Enrich cadrà in disgrazia, anche se forse riuscirà a rimettersi in piedi. Remo rimane sospeso nel suo limbo, coi suoi segreti. E tutti gli altri personaggi, l'altro guardiano del campeggio, le inservienti, i due tedeschi rissosi e ubriachi, Lola l'ex moglie di Remo, e Pilar la sindachessa (infine ex, travolta anche lei, senza colpa, dagli eventi) rimarrano a trascinare le loro vite, forse neppure consapevoli di essere stati spettatori di qualcosa di mostruoso e banale, qualcosa che indoviniamo allontanarsi poco alla volta che Gaspar, in treno, si avvicina a Barcellona, come se il vero protagonista di questa storia fosse un essere mitologico e sconosciuto seppellito all'interno del palazzo Benvingut, a Z, ormai alle nostre spalle, sotto la pavimentazione di ghiaccio, come se il palazzo stesso fosse un essere indifferente e malvagio.

  Curioso l'accenno al noleggiatore di pattini, grosso e sfigurato, che troviamo nel Terzo reich quale uno dei personaggi principali.

giovedì 17 marzo 2011

Crimini, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Lei va a letto con due uomini. Lei prima è andata a letto con altri uomini e ora va a letto con due uomini. Questa è la realtà. Nessuno dei due uomini lo sa. Uno di loro dice che è innamorato di lei. l'altro non dice niente. Ciò che dicono al riguardo a lei non importa un granchè. Dichiarazioni di amore, dichiarazioni di odio. Parole. La realtà è che lei va a letto con due uomini.
  Adesso se ne sta seduta in un bar vicino alla redazione e ha davanti a sè un libro aperto, ma non riesce a leggere. Ci prova, ma non ci riesce. Il suo sguardo si distrae a vedere quello che succede al di là delle vetrate, anche se non sta guardando niente in particolare. Chiude il libro e si alza. L'uomo che sta dietro il bancone la vede avvicinarsi e le sorride. Lei gli chiede quanto gli deve. L'uomo del bancone dice una cifra. Lei apre il portafoglio e gli allunga un biglietto. Come va la vita?, dice l'uomo. Lei lo guarda negli occhi e dice: così, così. L'uomo le chiede se vuole qualcos'altro. Offre la casa. Lei scuote il capo, negativo, non voglio niente, grazie. Per un attimo si blocca come aspettando qualcosa. L'uomo la fissa con interesse. Lei mormora una frase di commiato appena udibile ed esce dal bar.
  Senza affrettarsi torna alla redazione. Mentre aspetta l'ascensore incontra un giovane, sui venticinque anni, vestito con un vecchio completo e una cravatta che attira il suo interesse; sopra uno sfondo verde acquoso una faccia cerulea e rifatta si contrae in un moto di sorpresa. Accanto al giovane, in terra, c'è una valigia di grandi proporzioni. Si salutano. L'ascensore apre le sue porte e salgono entrambi. Il giovane, dopo averla osservata, le dice che vende calze, che se le interessa le può fare un buon prezzo. Lei dice che non le interessa e pensa che è strano incontrare un venditore di calze nell'edificio e per giunta in un'ora in cui la maggior parte degli uffici sono chiusi. Il venditore di calze è il primo a scendere. Lo fa al terzo piano, dove c'è uno studio di architettura e un'ufficio di avvocati. Uscendo dall'ascensore fa mezzo giro su sè stesso e si porta la punta della dita della mano sinistra alla fronte. Un saluto militare, pensa lei, e gli sorride. Mentre le porte dell'ascensore si chiudono il venditore di calze riesce a sorriderle.
   Nella redazione, fumando seduta in una sedia accanto alla finestra, solo c'è una donna. Lei come prima cosa va alla sua scrivania, accende il computer, e poi si avvicina alla finestra; in quel momento la donna che fuma si rende conto della sua presenza e la guarda. Lei si siede sul bordo della finestra e contempla le strade con una vertigine insolita. Per qualche secondo entrambe rimangono in silenzio. La donna che fuma le chiede cosa c'è. Niente, dice lei, sono tornata per finire l'articolo di Calama. La donna che fuma torna a guardare dalla finestra il fiume di auto che escono dal centro. Poi socchiude gli occhi e ride. Ho letto qualcosa al riguardo, dice. Una vera merda, dice lei. Aveva il suo garbo, dice la donna che fuma. Non ti capisco, dice lei. In realtà non aveva nessun garbo, dice la donna che fuma dopo averci riflettuto un momento, e torna a guardare il traffico oltre la finestra. Lei allora si alza e si dirige alla sua scrivania. Ha dei lavori pendenti ed è in ritardo. Da un cassetto tira fuori un walkman e si mette le cuffie. Incomincia a lavorare. Dopo un attimo, tuttavia, si leva le cuffie e si volta. C'è una cosa strana in tutto questo, dice. La donna che fuma la guarda e le chiede di cosa parla. Della donna di Calama, dice lei. In questo momento il silenzio nella redazione è totale. O così pare. Non si sente neppure il ronzio dell'ascensore.
  Aveva ventisette anni, dice, e l'hanno pugnalata ventisette volte. Troppa coincidenza.  Perchè?, dice la donna che fuma, queste cose capitano. Sono molte pugnalate, dice lei, però senza convinzione. Ho visto cose più strane, dice la donna che fuma. Dopo un attimo di silenzio, aggiunge: può essere che si tratti solo di un refuso. Può essere, pensa lei. Ti preoccupa qualcosa?, dice la donna che fuma. Mi preoccupa la vittima, dice lei. Potrebbe essere chiunque di noi. La donna che fuma la guarda sollevando un sopracciglio. Potrei essere io, dice lei. Niente a che spartire. Anch'io vado a letto con due uomini, dice lei. La donna che fuma le sorride e ripete: niente a che spartire. In qualche modo tutti quanti le sono contro. Contro chi? Contro la vittima, ovvio. La donna che fuma solleva le spalle. I giornalisti che coprono questo tipo di notizie non si differenziano in nulla dagli assassini. Non tutti, dice la donna che fuma, ce ne sono alcuni molto bravi. La maggior parte sono degli ubriaconi di merda, mormora lei. Non tutti, dice la donna che fuma. Ventisette anni e ventisette pugnalate, non mi convince. In ogni caso è possibile che abbiano confuso l'età della vittima col numero di pugnalate. Aveva un figlio di nove anni, dice accarezzando le cuffie che regge con la mano sinistra. La donna che fuma spegne la sigaretta nel posacenere che si trova accanto alla finestra e si alza. Andiamocene, dice. No, rimango ancora un po', dice lei, e torna a mettersi le cuffie.
  Ascolta musica di Deladande. Le fa male una spalla anche se per lo più si sente bene, con voglia di lavorare. Con la coda dell'occhio osserva la donna che fuma, chinata sulla sua scrivania, che infila qualcosa nella borsetta. D'un tratto sente la mano della sua collega, che le sfiora appena la spalla e che in questo modo la saluta. Continua a lavorare. Dopo mezz'ora si alza e si dirige all'archivio della redazione (un archivio che ormai quasi nessuno utilizza più) e allora lo vede.
  E' in piedi, senza osare oltrapassare la soglia dell'ufficio, ma con la porta aperta, e la guarda con mezzo sorriso. Lei soffoca un grido e gli chiede cosa voglia. Sono io, dice lui, il venditore di calze. Ai suoi piedi c'è la valigia. L'ho capito, dice lei, ma non voglio comprare niente. Volevo solo curiosare un poco, dice lui. Lei lo studia per qualche secondo: non è più spaventata, ma adirata e la presenza del giovane venditore le sembra un segno di qualcosa di importante che però riesce appena a scorgere. Solo sà che è importante (o relativamente importante) e che ormai non ha più paura. Non sei mai stato in una redazione?, dice lei. In verità no, dice lui. Entra, dice lei. Lui esita, o fa come se esitasse poi prende la valigia ed entra. E' giornalista? Lei fa si col capo. E cosa sta scrivendo? Lei dice che si tratta di un articolo su un omicidio. Il venditore lascia di nuovo la valigia in terra e il suo sguardo si sposta di scrivania in scrivania. Posso dirle una cosa? Lei lo guarda e non pensa a niente. Nell'ascensore, dice, mi è sembrato che stesse soffrendo per qualcosa. Io? dice lei. Si, mi è parso che soffrisse, anche se ovviamente non ne conosco la ragione. Tutta la gente soffre, dice lei un poco incongruentemente. Nessuno dei due si è seduto. Lui è in piedi con la porta aperta alle sue spalle. Lei è in piedi ed è indietreggiata fin quasi alla finestra. Ora i due rimangono immobili, eretti, in attesa. Le loro parole, tuttavia, sono patinate da un falso tono di familiarità.
  Su che omicidio sta lavorando?, dice lui. L'omicidio di una donna, dice lei. Lui sorride. Ha un bel sorriso, pensa lei, anche se quando sorride sempre più vecchio e in realtà non deve avere più di venticinque anni. Uccidono sempre le donne, dice lui, e fa un gesto con la mano destra che risulta incomprensibile. Come se d'un tratto uscisse da un sogno, lei si rende conto che si trova da sola nella redazione con uno sconosciuto, ad un'ora, tra l'altro, in cui l'edificio è quasi vuoto. Un leggero tremore la percorre dall'alto in basso. Lui percepisce il tremore e come se volesse placarlo cerca un posto e si siede. Mi racconti, dice. Per lei la richiesta è insopportabile. Aspetti che esca nella rivista. No, me lo racconti adesso, magari le posso suggerire qualcosa, dice lui. Lei è un esperto di omicidi di donne?, dice lei. Lui la guarda senza rispondere. Lei si rende conto che ha commesso un errore e cerca di tornare sui suoi passi, però prima che possa dire nulla lui si allontana  e dice che non è un esperto di omicidi. E perchè glielo dovrei raccontare?, dice lei. Perchè a volte ha bisogno di parlare con qualcuno, dice lui. Può essere che abbia ragione, dice lei. L'ha uccisa il marito? No. Il marito non ha nulla a che vedere col crimine. E perchè ne è così sicura?, dice lui. Perchè l'assassino lo arrestarono il giorno stesso, dice lei. Ah, capisco, dice lui. Aveva ventisette anni, si separò da suo marito, poi ha avuto un amico, ha vissuto con questo amico, un tipo più giovane, di ventiquattro anni, poi si è separata da questo amico e ha cominciato ad uscire con un'altro. L'amico A e l'amico B, dice lui. Si potrebbe dire così, dice lei, e d'un tratto si sente tranquilla, stanca e tranquilla, come se una parte di una lotta immaginaria  (le cui regole le sono ignote) si fosse conclusa.
  Suppongo, dice il venditore di calze, che si trattasse di una splendida donna. Si, era una bella donna, dice lei, e in più era giovane. Be', mica tanto, dice lui. Le pare che una donna a ventisette anni non sia tanto giovane? E' giovane, però non è più molto giovane, dice lui, siamo ragionevoli. Lei quanti anni ha? Ventinove. Avrei detto che ne avesse ventincinque, dice lei. No, ventinove. Lui non le chiede l'età. Lavorava o si faceva mantenere dalle sue grazie? Era una segretaria. Questa donna non l'ha mantenuta mai nessuno. E aveva un figlio di nove anni. E chi l'ha uccisa, l'amico A o l'amico B? domanda lui. Lei chi direbbe? L'amico A, ovvio. Lei fa segno di sì col capo. E l'ha uccisa per gelosia. Sì, dice lei. Ma lei crede che fu solo per gelosia? No, dice lei. Ah, vede, lei e io pensiamo lo stessa cosa, dice lui. Lei allora preferisce non controbattere e si allontana dalla finestra. Dovrebbe accendere una luce, dice lui. No, lasci così, dice lei mentre sposta un sedia e si siede. Dopo un attimo, lui dice: e lei era triste per questa storia, una storia che, se ho inteso bene, capitò qualche mese fa. Lei lo guarda e non dice niente. Magari si è identificata con la vittima? No, dice lei, però ho pensato spesso alla vittima. Lei è sposata? No. Io neppure, dice lui, però ho vissuto con qualche donna. Lei pensa che a noi uomini non piaccia che le donne facciano l'amore? Lei svia lo sguardo: dall'altro lato della finestra la notte avvolge gli edifici. La sensazione che prova è di claustrofobia. L'hanno uccisa perchè gli andava di farlo, dice lei senza guardarlo. Sente lui che dice: ah, un ah tra l'ironico e l'agonico. Si alzava presto, tutte le mattine alle sei e un quarto. Lavorava in una impresa mineraria di Calama, era segretaria, e la stampa disse che la sua vita amorosa era stata una fonte costante di conflitti. Una fonte costante, ripete lui, che poetico. Gli uomini si innamoravano di lei, anche se non era precisamente una bellezza, dice lei. La bellezza è qualcosa di relativo, dice lui. Tutti abbiamo qualche forma di bellezza a portata di mano. Lei crede? chiede lei, e torna a guardarlo fissamente. Tutti, dice il venditore di calze, i brutti, quelli che non sono tanto brutti, i medi e la gente bella. La bellezza su cui posano gli occhi i brutti, certamente, dice lei, è brutta ma non tanto brutta. Vedo che mi capisce, dice lui. La capisco, si, dice lei ironicamente, ma non sono d'accordo. La bellezza è la stessa per tutti, come la giustizia. La giustizia è la stessa per tutti? Non mi faccia ridere, dice lui. In teoria, almeno. E' che in teoria le cose sono diverse, sospira lui, ma non mettiamoci a discutere, mi racconti qualcosa in più della sua segretaria assassinata. Ha visto il cadavere? Il cadavere? No, non l'ho visto, non ho coperto io la notizia, ho solo scritto un articolo sul crimine. Cioè non è stata alla camera mortuaria di Calama, nè ha visto la vittima, nè ha parlato con l'assassino. Lei lo guarda e sorride enigmaticamente. Con l'assassino sì che ho parlato, dice.
  Questo, almeno, è qualcosa, dice lui. E? Niente, dice lei, abbiamo parlato, mi disse che era pentito e che amava la vittima alla follia. Una dichiarazione molto appropriata, dice lui. Si conobbero al terminal aereo di Calama, lui era una guardia di sicurezza e lei lavorò per qualche tempo lì, come receptionista.  Prima di ottenere il lavoro alla miniera, dice lui. In una impresa mineraria, dice lei. E' lo stesso, dice lui. Be', non esattamente. E come l'ha uccisa?, dice lui. Con un coltello, dice lei. Le ha dato ventisette pugnalate. Non le pare strano? Per qualche secondo lui abbassa lo sguardo e si fissa la punta delle scarpe. Poi torna a guardarla e dice: cos'è che le pare strano, che avesse ventisette anni e che abbia ricevuto ventisette pungalate? Lei allora sente un intenso accesso di rabbia e dice: io sono più o meno come lei, immagino che un giorno o l'altro qualcuno verrà ad ammazzare anche me. Per un momento le piacerebbe dire: tu mi ucciderai, povero infelice, ma alla fine ci ripensa e non dice nulla. Sta tremando. Da dove lui è seduto, tuttavia, è impossibile percepirlo. Riassumendo: lei muore per mano del fidanzato precedente. Quella notte dorme col suo amico del momento. L'altro è venuto a conoscenza della situazione. Glielo ha detto lei e le sono arrivati dei segnali. Si muore di gelosia. La mette sotto pressione, la minaccia. ma lei non gli fa caso, è pronta a continuare la sua vita. Conosce l'altro uomo. Vanno a letto insieme. Lì sta la chiave del crimine, lei non rinuncia a niente e firma la sua condanna a morte. Si, dice il venditore di calze, adesso lo vedo chiaro. No, lei non vede chiaro niente.     

traduzione dvd illevir

venerdì 11 marzo 2011

La stanza accanto, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  In una certa occasione, se non ricordo male, mi trovavo in una riunione di matti. La maggior parte soffriva di allucinazioni uditive. Un tipo mi si avvicinò e mi chiese se poteva scambiare qualche parola in privato con me. Andammo nell'altra stanza. Il tipo disse che le medicine lo stavano facendo uscire di senno, ogni giorno mi sento più nervoso, disse, e a volte mi passano per la testa strane idee. Io gli dissi che poteva capitare. Il tipo disse che che era la prima volta che gli capitava. Poi si sollevò il maglione e si grattò l'ombelico. Dentro i pantaloni aveva una pistola. Cos'è?, gli chiesi. Il mio fottuto ombelico, disse il tipo, mi prude, non posso far altro che grattarmelo tutto il giorno. La carne attorno all'ombelico, in effetti, era arrossata. Gli dissi che non mi riferivo al suo ombelico, ma a quello che aveva poco più in basso. E' una pistola?, dissi. Si, è una pistola, disse il tipo, e la impugnò e la puntò verso l'unica finestra della stanza. Valutai se domandargli se si trattava di un giocattolo, ma non lo feci. A me parve una pistola vera. Gli dissi che me la lasciasse vedere. Le armi non si prestano, disse il tipo. Come le macchine e le donne. Se rubi una macchina, puoi prestarla. Io non lo consiglio, però puoi farlo. Se esci con una puttana, anche. Io non lo farei, non presterei mai nessuna donna, però per potere, si può. Le armi no, in nessuna circostanza. E se sono rubate o sono giocattoli?, gli dissi. Neppure, disse il tipo. Dal momento in cui l'arma reca impresse le tue impronte digitali, ormai non la puoi prestare. Lo capisci? Più o meno, dissi io. Stringi un patto con lei, disse il tipo. Cioè devi portarla con te tutta la vita, dissi io. Esattamente, disse il tipo, te la sei sposata e non c'è altro da aggiungere. L'hai messa incinta con le tue fottute impronte e non c'è altro da aggiungere. Responsabilità, disse il tipo. Poi alzò il braccio e me la puntò direttamente alla testa. Pensai, non so se allora o dopo, o forse ricordai di averlo già pensato prima, in modo febbrile e inutile, d'altronde, alla belle inertie di Moreau, la bella inerzia, il processo di composizione secondo il quale Moreau era capace di congelare, di trattenere, di fissare qualsiasi scena, per tumultuosa che fosse, sulle sue tele. Poi chiusi gli occhi. Sentì che mi chiedeva perchè chiudessi gli occhi. La calma di Moreau, la chiamano alcuni critici. La paura di Moreau, la chiamano altri critici meno inclini alla sua opera. Il terrore ornato di gioielli. Ricordai i suoi quadri trasparenti, i suoi quadri "interminabili", i suoi uomini giganteschi e loschi e le sue donne, piccole a confronto con le figure maschili, indicibilmente belle. J. K. Huysmans scrisse riguardo i suoi quadri: << Le scene più diverse suscitano sempre la stessa impressione: di un onanismo spirituale che frequentemente si riproduce in un corpo pudico. >> Onanismo spirituale? Soltanto onanismo. Tutti i giganti di Moreau, tutte le sue donne, tutti i gioielli e tutto l'equilibrio geometrico (o il bagliore geometrico) cadono, in piedi e armati, nel territorio del corpo pudico o della responsabilità. Una notte, quando avevo venti anni ed ero un giovane sensibile, in una pensione in Guatemala ascoltai una conversazione che sostenavano due uomini nella stanza accanto. Uno aveva la voce profonda, e l'altro diciamo che l'aveva come di acquavite. All'inizio, ovviamente, non prestai attenzione alle loro parole. Entrambi erano centroamericani, anche se dall'inflessione e dal tono delle loro voci non dovevano essere dello stesso paese. Il tipo con la voce come di acquavite cominciò parlando di una donna. Lodò la sua bellezza, il suo modo di vestire, il suo sapersi muovere, la sua abilità in cucina. Il tipo dalla voce roca assentiva a tutto. Lo immaginai steso sul letto, fumando, mentre l'altro rimaneva seduto sul suo, al fondo, o magari a metà, già senza scarpe, ma senza ancora essersi tolto la camicia e i pantaloni. Non davano l'impressione di essere amici, forse dividevano quella stanza perchè non potevano fare altrimenti o perchè così facendo gli risultava più economica. Probabilmente avevano cenato assieme e avevano bevuto assieme e in quello consisteva tutta la loro amicizia. Cosa che in quegli anni in Centroamerica risultava più che sufficiente. In più di un'occasione mi addormentai ascoltandoli. Perchè non dormii in una sola tirata fino alla mattina? Non lo so. Forse perchè ero troppo nervoso. Forse le voci dell'altra stanza, in certi momenti, si alzavano di tono, e questo era sufficiente perchè tornassi allo stato di veglia. Il tipo dalla voce rauca, in certi momenti, rise. Il tipo dalla voce come di acquavite disse, o ripetè, che aveva ucciso sua moglie. Supposi che fosse la stessa donna che aveva elogiato prima che mi addormentassi. L'ho uccisa, disse, e poi rimase in attesa della risposta di quell'altro. Mi sono tolto un peso di dosso. Ho fatto giustizia. Di me non ride nessuno. Il tipo dalla voce rauca si girò nel letto e non disse nulla. Lo immaginai di pelle scura, una via di mezzo tra un indio e un negro, più negro che indio, forse un panamense che viaggiava a Panama o fino al nord, fino in Messico e alla frontiera con gli Stati Uniti. Dopo un lungo silenzio durante il quale solo udii rumori strani, chiese all'altro se parlava seriamente, se l'aveva ammazzata davvero. Quello con la voce come di acquavite non disse niente o forse si limitò ad affermare con la testa. Poi il negro gli chiese se voleva fumare. Non è una cattiva idea, disse quello dalla voce come di acquavite, un ultimo tiro e poi dormiamo. Non lo udii più. E' possibile che quello dalla voce come di acquavite si fosse alzato e avesse spento la luce, mentre il negro lo osservava dal letto. Immaginai un tavolino da notte con un posacenere.Una stanza oscura, come la mia, con una finestra piccola che dava su una strada non asfaltata. Quello dalla voce come di acquavite sicuramente era magro e bianco. Un tipo nervoso. L'altro, nero e grande, pesante, di quelli che perdono la calma solo in rare occasioni. Per diverso tempo rimasi sveglio. Quando credetti che si fossero addormentati mi alzai, cercando di non fare rumore, e accesi la luce. Mi misi a fumare e poi a leggere. L'alba non arrivava mai. Quando alla fine mi vinse un'altra volta il sonno e spensi la luce e mi stesi sul letto, ricominciai a sentire rumore nella stanza accanto. Una voce di donna, come se parlasse con le labbra incollate alla parete, disse buona notte. In quel momento contemplai la mia stanza, che aveva tre letti, come la stanza accanto, e fui invaso dalla paura e dalla voglia di lanciare un grido, ma lo ricacciai indietro perchè sapevo che dovevo farlo.




  traduzione dvd illevir

lunedì 7 marzo 2011

Las pelucas de Barcelona, poesia, Roberto Bolano (da La Universidad desconocida)

Sòlo deseo escribir sobre las mujeres
de las pensiones de Distrito 5.°
de una manera real y amable y honesta
para que cuando mi madre me lea
diga asì es en realidad
y yo entonces pueda por fin reìrme
y abrir las ventanas
y dejar entrar las pelucas
los colores.





Solo desidero scrivere sulle donne
delle pensioni della 5° Circoscrizione
in un modo realistico e cortese e onesto
di modo che quando mia madre mi legga
dica così è in realtà
e io poi possa alla fine riderne
e aprire le finestre
e lasciar entrare le parrucche
i colori. 

traduzione dvd illevir

Poesia di Roberto Bolano, senza titolo (da La universidad desconocida)

Escribe sobre las viudas las abandonadas,
las viejas, las invalidas, las locas.
Detràs de las Grandes Guerras y los Grandes Negocios
que commueven al mundo estàn ellas.
viviendo al dìa, pidiendo dinero prestado,
estudiando las pequenas manchas rojas
de nuestras ciudades
     de nuestros deportes
         de nuestras canciones.




Scrive circa le vedove le abbandonate,
le vecchie, le invalide, le pazze.
Dietro le Grandi Guerre e i Grandi Affari
che commuovono il mondo stanno loro.
Vivendo alla giornata, chiedendo denaro in prestito,
studiando le piccole macchie rosse
delle nostre città
        dei nostri sport
              delle nostre canzoni.

traduzione dvd illevir

venerdì 4 marzo 2011

Poesia di Roberto Bolano, senza titolo (da La universidad desconocida)

Dentro de mil anos no quedarà nada
de cuanto se ha escrito en este siglo.
Leéran frases sueltas, huellas
de mujeres perdidas,
fragmentos de ninos inmoviles,
tus ojos lentos y verdes
simplemente no existiràn.
Serà como la Antologìa Griega,
aùn mas distante,
como una playa en invierno
para otro asombro y otra diferencia




Entro mille anni non rimarrà niente
di quanto si è scritto in questo secolo.
Leggeranno frasi slegate, orme 
di donne perdute, 
frammenti di bambini immobili, 
i tuoi occhi lenti e verdi
semplicemente non esisteranno.
Sarà come la Antologia Greca, 
ancora più distante,
come una spiaggia in inverno
per altro stupore e altra differenza.

traduzione dvd illevir

Mi carrera literaria, Roberto Bolano, poesia (da La universidad desconocida)

Rechazos de Anagrama, Grijalbo, Planeta, con toda seguridad
también de Alfaguara, Mondadori. Un no de Muchnik,
Seix Barral, Destino... Todas las editoriales... Todos los
lectores...
Todos los gerentes de ventas...
Bajo el puente, mientras llueve, una oportunidad de oro
para verme mi mismo:
como una culebra en el Polo Norte, pero escribiendo.
Escribiendo poesìa en el paìs de los imbéciles.
Escribiendo con mi hijo en las rodillas.
Escribiendo hasta que cae la noche
con un estruendo de los mil demonios.
Los demonios que han de llevarme al infierno,
pero escribiendo.


LA MIA CARRIERA LETTERARIA

Rifiuti di Anagrama, Grijalbo, Planeta, sicuramente
anche di Alfaguara, Mondadori. Un no da Muchnik,
Seix Barral, Destino... Tutti gli editori... Tutti i
lettori...
Tutti i direttori delle vendite...
Sotto il ponte, mentre piove, una magnifica opportunità
per vedere me stesso:
come una serpe al Polo Nord, però scrivendo.
Scrivendo poesia nel paese degli imbecilli.
Scrivendo poesia con mio figlio sulle ginocchia.
Scrivendo fino a che non scende la notte
con un fragore di mille demoni.
I demoni che mi porteranno all'inferno,
però scrivendo.


traduzione dvd illevir